Quando Il Canada Confina Con Il Texas. Parte 1: Del Barber – Easy Keeper

del barber easy keeper

Del Barber – Easy Keeper – Acronym/Universal Canada CD

Del Barber è un nome quasi sconosciuto dalle nostre parti, ma anche negli Stati Uniti non è famosissimo, mentre in Canada, sua terra d’origine, è decisamente più popolare. Infatti Barber nel corso della sua carriera decennale (ha esordito nel 2009 con Where The City Ends) ha avuto diversi premi e riconoscimenti nell’ambito della musica roots cantautorale; nato a Winnipeg, Barber non si ispira alla pur prestigiosa scuola dei cantautori canadesi, ma affonda le sue radici musicali nel suono Americana, con nomi del calibro di Townes Van Zandt, Steve Earle, John Prine e Merle Haggard nel suo bagaglio di influenze, e nel corso degli anni si è costruito un’ottima reputazione che viene confermata anche in questo nuovo Easy Keeper, album numero sei della sua discografia inciso come gli altri in maniera indipendente ma stavolta distribuito dalla filiale canadese della Universal (anche se questo non ne migliora la reperibilità, Canada a parte). Del è un cantautore roots di stampo classico, ed il suo suono è un mix di folk, country ed un pizzico di rock dato dalla chitarra elettrica di Grant Siemens (che è anche il co-produttore del CD insieme a Barber stesso), mentre il resto del gruppo è formato dalla steel di Bill Western, il piano e l’organo di Geoff Hilhorst, la sezione ritmica di Bernie Thiessen e Ivan Burke, oltre alle voci femminili di Haley Carr e Andrina Turenne.

Nomi che vi diranno poco o niente, ma stiamo parlando di gente che gira con il nostro da diversi anni ed è quindi ormai un tutt’uno con le sue canzoni: Easy Keeper è perciò un bel dischetto di pura roots music a stelle e strisce ma fatta da musicisti canadesi, undici brani dal suono classico, pulito e mai ridondante, tutto costruito intorno alla voce del leader. L’opening track Dancing In The Living Room è una ballata classica e di buon livello, tra country e musica cantautorale, un suono elettroacustico ed un motivo piacevole che ricorda un po’ lo stile di Kevin Welch. Patient Man è più strumentata ma sempre dal mood tenue e pacato, con un bel background sonoro fatto di chitarre, organo ed una sezione ritmica discreta; Everyday Life è una folk song pura e cristallina dalla melodia toccante e suggestivi rintocchi elettrici sullo sfondo, nobilitata ulteriormente dal controcanto femminile: molto bella.

Con Louise siamo invece in territori country, ritmo spedito, refrain vincente ed ottimo uso della steel, brano seguito a ruota da Leads You Home, altra ballatona elettroacustica intensa ed eseguita con strumentazione parca; Lucky Prairie Stars è il pezzo più elettrico finora, un country-rock cadenzato e godibile con entrambi i piedi più in Texas che in Canada, mentre Juanita è uno slow che ha l’andatura del valzer lento, ed anche qui siamo più vicini al confine col Messico che dalle parti di Manitoba (la regione dove sorge Winnipeg). Ronnie And Rose è un folk-grass purissimo ancora dal ritmo sostenuto e con un motivo trascinante, uno dei brani più immediati con in più una fisarmonica a colorare il sound, Blood On The Sand è ancora lenta e decisamente profonda, grazie anche ad un bell’uso del pianoforte; il CD termina con No Easy Way Out, che ci porta inaspettatamente dentro atmosfere country-got-soul tipiche del sud, e con l’acustica e deliziosa title track, una chiusura da perfetto storyteller per un disco piacevole e ben fatto da parte di un cantautore dal sangue canadese ma con il cuore in America.

Marco Verdi

Un Altro Figlio D’Arte, Però Di Quelli Bravi! Dustin Welch – Amateur Theater

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Dustin Welch – Amateur Theater – Super Rooster CD

Terzo album per Dustin Welch, singer-songwriter nato in Texas ma cresciuto a Nashville che non è altro che il figlio di Kevin Welch, musicista dalla lunga ed impeccabile carriera (e qui mi sono reso conto di quanto il tempo passi inesorabile, dato che ricordo come fosse ieri quando all’inizio degli anni novanta rimasi entusiasta dei primi due album di Kevin, Kevin Welch e Western Beat, ed ora mi trovo a recensire suo figlio). Dustin, che è cresciuto letteralmente a pane e musica, ha esordito nel 2009 con Whisky Priest, al quale ha dato seguito nel 2013 con Tijuana Bible: ora torna dopo ben sei anni di silenzio con questo Amateur Theater, e ci consegna quello che a tutti gli effetti è il suo disco migliore. Dustin evidentemente non è uno che ha fretta di incidere, ma preferisce lasciare crescere le canzoni dentro di lui ed andare in studio quando è veramente pronto; in questi sei anni poi è ulteriormente maturato, e Amateur Theater lo dimostra appieno racchiudendo in poco più di tre quarti d’ora tutte le sue influenze. Sì, perché Welch Jr. non è solo un cantautore con il country nelle vene come il padre (cosa che sarebbe peraltro ben accetta), ma il suo suono nasconde anche elementi rock, blues e perfino jazz, con momenti in cui sembra che la sua fonte di ispirazione principale sia addirittura Tom Waits.

Amateur Theater è quindi un lavoro creativo, nel quale vengono utilizzate anche strumentazioni non scontate, ed al quale hanno collaborato diversi artisti di nome: oltre al padre, che compare in più di un pezzo, troviamo infatti Cody Braun dei Reckless Kelly al violino, il bravissimo John Fullbright all’organo, Bukka Allen (figlio di Terry) al piano e Cary Ann Hearst, la metà femminile dei duo Shovels & Rope, alle backing vocals ed alla scrittura in un pezzo. L’inizio del disco, Stick To The Facts, è quasi spiazzante, con un’introduzione per quartetto d’archi che si trasforma in una rock song cadenzata e contraddistinta dalla voce quasi sgraziata (ma solo in questa canzone) di Dustin, davvero alla Waits: i violini non escono dal brano e fanno capolino qua e là, creando un effetto intrigante. Una tromba dal sapore jazzato introduce Forgotten Child, che nella melodia lascia intravedere tracce dello stile del genitore, anche se l’arrangiamento è quello di un brano urbano e notturno, a differenza di The Player che è rock al 100%, con ritmica pulsante ed uno sviluppo diretto e piacevole, nonostante una linea melodica complessa. Paranoid Heart è una tenue ballata, la prima decisamente da cantautore classico, con un bel accompagnamento basato su chitarra, dobro, piano ed organo ed un motivo molto bello (qui l’influenza del padre è abbastanza palese).

Dresden Snow è introdotta da un suggestivo coro e poi prosegue con il discorso da balladeer iniziato con il brano precedente, mentre Man Of Stone è una canzone attendista e con una certa tensione iniziale, alla quale la combinazione di chitarre, piano, violino e cello dona un sapore particolare. After The Music vede papà Kevin partecipare sia in qualità di autore (come nel pezzo precedente) che come chitarrista e voce di supporto, e non vorrei sembrare banale se dico che il brano, uno slow intenso e profondo, è tra i più riusciti del lavoro; Double Single Malt Scotch è diretta e discorsiva, con una bella apertura melodica favorita da un french horn, e precede la divertente Poster Child, pezzo che si avvicina a Waits non solo per la voce ma anche per l’atmosfera da cabaret mitteleuropeo. Finale con la potente Rock Hard Bottom, una sorta di boogie stralunato e sbilenco ma anche coinvolgente al massimo, la limpida Cannonball Girl, dal bellissimo refrain, e Far Horizon, che inizia come un brano folk d’altri tempi grazie all’uso di banjo e mandolino e poi man mano che prosegue si colora di elementi rock, con la ciliegina della voce solista di Kevin che duetta col figlio.

Sarebbe stato tutto sommato facile e poco rischioso per Dustin Welch seguire le orme musicali del padre, ma con Amateur Theater il ragazzo dimostra di avere personalità ed un proprio suono.

Marco Verdi

Lo Avevo Quasi Dato Per Disperso! Kevin Welch – Dust Devil

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Kevin Welch – Dust Devil – Dead Reckoning CD

L’ultima volta che Kevin Welch aveva pubblicato un disco (A Patch Of Blue Sky, 2010), il sottoscritto non collaborava ancora a questo blog. Eppure c’era stato un momento all’inizio degli anni novanta che il musicista californiano sembrava una delle “next big things” del cantautorato americano: l’omonimo esordio Kevin Welch (1990) era già molto bello, anche se ancora decisamente country, ma il seguente Western Beat era stato per chi scrive uno dei dischi più belli del 1992, uno splendido album di puro rockin’ country a stelle e strisce, in cui Joe Ely incontrava idealmente John Prine. Life Down Here On Earth (1995) era ancora un lavoro di grande livello, ma i due seguenti, Beneath My Wheels (1999) e Millionaire (2001), pur validi, erano qualche gradino sotto; la scorsa decade Kevin l’ha poi dedicata alla collaborazione con Kieran Kane (e Fats Kaplin), due album di studio ed uno dal vivo, ed è tornato appunto nel 2010 con il già citato A Patch Of Blue Sky, un passo avanti rispetto a Millionaire.

Otto anni di silenzio assoluto, ed ora finalmente Welch ritorna tra noi con Dust Devil (uscito lo scorso Ottobre, ma piuttosto difficile da trovare), un album di puro cantautorato in cui non solo il nostro dimostra di non aver perso il tocco, ma addirittura ci consegna il suo disco migliore da Life Down Here On Earth in avanti. Persona gentile e modesta (ve lo posso confermare dato che ho avuto la fortuna di viaggiarci a fianco durante un volo Milano-Atlanta proprio nel 2010, io per lavoro e lui tornava a casa da una breve tournée italiana: cortese, disponibilissimo, zero atteggiamenti da star, perfino onorato e stupito del fatto che lo avessi riconosciuto), Kevin è uno che non ha mai voluto fare il salto quando avrebbe anche potuto, ma ha scelto di fare la sua musica con i suoi amici, nel modo più rilassato possibile, senza pressioni. E, come dicevo, in Dust Devil, di ottima musica ce n’è a iosa: otto brani originali e due cover, Welch ispiratissimo ed una backing band davvero da leccarsi i baffi, che comprende il già citato Fats Kaplin al mandolino, steel, violino e banjo, Glenn Worf al basso, Harry Stinson alla batteria, il grande Matt Rollings al piano ed organo ed il chitarrista Kenny Vaughan, leader dei Fabulous Superlatives di Marty Stuart, oltre ai backing vocals di Eliza Gilkyson e dei figli di Kevin, Dustin e Savannah Welch (quest’ultima di professione attrice e ragazza bellissima, cercate le sue foto su Google e ne converrete con me).

La cadenzata Blue Lonesome apre bene il CD, un brano suadente e caratterizzato da un insistente riff di mandolino ed un ritmo crescente, con gli strumenti che a poco a poco si inseriscono fino a dare al pezzo un suono pieno e corposo (c’è anche un sax), il tutto per sei minuti di durata. Just Because It Was A Dream è una bellissima e toccante ballata dal sapore anni sessanta, leggermente country e cantata con grande intensità da Kevin, The Girl In The Seashell è una struggente slow song pianistica dalla melodia deliziosa, suonata in punta di dita e con un languido violino che sa d’Irlanda, mentre High Heeled Shoes è la cover di un vecchissimo brano del Kingston Trio, ripreso con uno squisito arrangiamento dixieland, con tanto di clarinetto e batteria spazzolata: grande classe. Splendida Brother John, una rock song elettrica dal ritmo quasi marziale, un motivo evocativo ed emozionante ed un tappeto strumentale dominato da chitarre (ottimo l’assolo di Vaughan) e fiati; Dandelion Girl è una ballatona che Kevin canta con il consueto approccio pacato, mentre intorno a lui il gruppo cuce un vestito sonoro perfetto, con la batteria in levare e la solita bella chitarra. Anche True Morning è tenue e limpida, una country ballad dal motivo molto diretto, cantato sempre con voce espressiva ed un delizioso sapore d’altri tempi, mentre Sweet Allis Chalmers è la rilettura di un pezzo dei Country Gazette, musicalmente spoglia ma dall’indubbio pathos, con il piano di Rollings che guida la melodia. Siamo quasi alla fine, il tempo per l’avvolgente A Flower, intenso talkin’ di stampo western, e per la folkeggiante title track (con un bell’intervento di corno francese, molto The Band), che chiude positivamente un disco pieno di belle canzoni.

Kevin Welch è finalmente tornato tra noi, e Dust Devil merita ampiamente lo sforzo per accaparrarselo.

Marco Verdi

Dal Profondo Sud, Un Cantautore Sconosciuto Ma Bravissimo! Caleb Caudle – Crushed Coins

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Caleb Caudle – Crushed Coins – Cornelius Chapel CD

Da non confondere con il quasi omonimo Caleb Klauder (ex leader dei Calobo), Caleb Caudle è un musicista del North Carolina che, a differenza di quanto uno potrebbe pensare, ha già ben sei album alle spalle, anche se al di fuori dalla sua regione di origine è ancora poco conosciuto. Paragonato a Jason Isbell e Ryan Adams, per il suo suono Americana tra il cantautorale ed il country, Caudle dimostra con questo nuovissimo Crushed Coins di essere un personaggio degno di nota. Non conosco i suoi album precedenti (che non sono proprio facilissimi da trovare), ma le undici canzoni che formano il suo ultimo lavoro sono davvero di notevole impatto, un cocktail di folk, country, rock (poco) e musica cantautorale che stupisce come abbia potuto rimanere nell’ombra fino ad ora. Caleb non è un artista country (come la copertina del disco potrebbe far presagire), ma è un cantautore che usa anche il country per dare un suono ai suoi brani, con l’aiuto in produzione di Jon Ashley ed in studio di validi quanto sconosciuti sessionmen (con una menzione speciale per Megan McCormick, chitarra elettrica, Brett Resnick, steel, e Greg Herndon, piano ed organo).

Il sound è scintillante e diretto, e gli arrangiamenti molto classici, nel rispetto della lunga tradizione di songwriters americani. Lost Without You inizia con una chitarra arpeggiata, poi la strumentazione si arricchisce, elettrificandosi il giusto, ed entra la voce limpida del nostro ad intonare una melodia delicata, rarefatta, quasi eterea, che ha più di un punto in comune con l’ultimo Sturgill Simpson. NYC In The Rain, costruita intorno a chitarra, piano e steel, è tersa e diretta, e dotata di un refrain delizioso, un brano di stampo classico, neanche troppo country, ma davvero piacevole (per avere un’idea, pensate ai Blue Rodeo); anche Headlights è molto bella, una ballata profondamente melodica, cantata in maniera espressiva e suonata con classe, mentre Empty Arms è elettrica e vibrante, ancora con un ritornello di ottima fattura e di fruibilità immediata, ma per nulla vicina a tentazioni radiofoniche. Una bella steel introduce Love That’s Wild, altro gradevolissimo slow elettroacustico che conferma il gusto del nostro per le melodie di facile ascolto ma nel contempo non banali: canzoni come quest’ultima, giusto a metà tra country e cantautorato, mi ricordano anche un po’ Kevin Welch, un altro illustre esponente del genere Americana.

La tilte track è un bozzetto acustico, Caleb voce, chitarra e poco altro, Way You Oughta Be Seen un altro deliziosa country ballad, fluida ed ottimamente costruita (e come sempre impreziosita da un bel controcanto femminile), mentre Stack Of Tomorrows è semplicemente splendida: limpida, diretta ed orecchiabile, con tracce sia di Tom Petty che di Jackson Browne, una canzone di livello assoluto, ed inoltre arrangiata in modo perfetto. Un violino rende ancora più gradevole la già interessante Madelyn, Six Feet From the Flowers è lenta, meditata, toccante, e con un leggero sapore southern soul donatole dall’organo (e poi Caleb è pur sempre un uomo del Sud), mentre la distesa Until It’s Over chiude l’album in chiave folk cantautorale, e con un bellissimo finale strumentale. Forse non è il caso di scapicollarsi per trovare i precedenti lavori di Caleb Caudle, ma almeno questo Crushed Coins la vostra attenzione la merita di sicuro.

Marco Verdi

Peccato Solo Che (Forse) Non Ci Sarà Un Terzo Volume! Chris Stapleton – From A Room: Volume 2

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Chris Stapleton – From A Room: Volume 2 – Mercury/Universal CD

Come da lui promesso, ecco il secondo (e probabilmente ultimo) CD tratto dalle sessions che Chris Stapleton, uno dei migliori singer-songwriters di ultima generazione, ha tenuto al leggendario RCA Studio A di Nashville: il primo From A Room, uscito ai primi di Maggio, è stato almeno per me uno dei migliori dischi del 2017, e solo per un nonnulla ha mancato l’ingresso nella Top 10, e questo secondo volume non è da meno. Il mood è lo stesso: nove canzoni, addirittura stessa durata (32 minuti), e solita ottima miscela di rock, country, southern e musica cantautorale del nostro, gli stessi ingredienti che, uniti ad una grande voce, nel 2015 hanno fatto la fortuna di Traveller (ma anche questi due From A Room stanno godendo di un notevole successo, essendo arrivati entrambi al numero due di Billboard, e non nella sezione country, ma in quella generalista, dimostrando che per fortuna la musica di qualità ogni tanto vende ancora). Essendo le stesse sessions, sono coinvolte più o meno le medesime persone: alla produzione (e chitarra acustica) abbiamo l’ormai indispensabile Dave Cobb, al basso J.T. Cure, alla batteria Derek Mixon, alla seconda voce la moglie di Chris, Morgane Stapleton, e naturalmente il nostro che suona (bene) tutte le altre chitarre.

Il CD inizia e finisce con le uniche due cover: apre l’album la bella Millionaire, un brano del 2002 di Kevin Welch che intitolava anche un suo album, una canzone originariamente di cantautorato puro che qui si trasforma in una ballata rock elettrica coi fiocchi, cantata all’unisono da Chris e Morgane; il pezzo finale invece è Friendship, un brano di Homer Banks (cantante di colore degli anni sessanta targato Stax), che diventa un classico rock di stampo southern, anche se gli elementi soul dell’originale rimangono. Il resto è farina del sacco di Chris, a partire dalla potente Hard Livin’, un rockin’ country chitarristico in puro outlaw style (se non fosse per la voce sembra quasi di sentire Waylon Jennings redivivo); Scarecrow In The Garden è una squisita e tersa ballata country-rock elettroacustica, davvero splendida, sembrano i migliori Eagles e forse non rendo pienamente l’idea, mentre Nobody’s Lonely Tonight è un lentaccio sudista d’atmosfera, tutto costruito intorno alla voce strepitosa di Chris e ad un arpeggio di chitarra elettrica. Tryin’ To Untangle My Mind è un midtempo rock molto anni settanta (decisamente la decade di riferimento per la musica del nostro), in cui Chris si dimostra anche un eccellente chitarrista.

A Simple Song è un delicato pezzo acustico e cantautorale come da titolo, puro e toccante; restano ancora da citare Midnight Train To Memphis, decisamente la più rock del disco, un concentrato di elettricità e potenza, forse leggermente risaputa per quanto riguarda il songwriting ma dal gran tiro chitarristico, mentre con Drunkard’s Prayer siamo dalle parti della ballata acustica, voce e chitarra, con una marcata influenza melodica da parte di Willie Nelson. Non so se le sessions di From A Room abbiano prodotto altri brani oltre ai diciotto contenuti nei due volumi: certo è che un terzo episodio non sarebbe proprio sgradito.

Marco Verdi

Il Ritorno Di Uno Dei Tanti Outsiders Americani, Di Quelli Veramente Bravi. Jason Eady – Jason Eady

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Jason Eady – Jason Eady – Old Guitar/Thirty Tigers CD

Qualche mese fa stavo riordinando la mia collezione di CD, e quando mi è capitato tra le mani Daylight And Dark, una delle sorprese più piacevoli del 2014, mi sono chiesto che fine avesse fatto il suo autore, il bravo cantautore del Mississippi Jason Eady. La risposta è arrivata di recente, allorquando è uscito il nuovo album di Jason (il precedente non era l’esordio, ce n’erano già quattro usciti prima, ma vi sfido a trovarli nuovi ed a prezzi umani), che il nostro ha deciso di intitolare semplicemente con il suo nome. E la semplicità è proprio la sua caratteristica principale, in quanto le sue canzoni sono costruite con pochi accordi, suonate con un numero limitato di strumenti, e quasi sempre acustici: ma la sua è una musica vera, autentica, un tipo di country che è distante anni luce da quello finto che passa nelle radio di settore, e per questo Jason non sarà mai un million seller, ma di sicuro i suoi album troveranno sempre spazio nelle collezioni di chi ama la musica pura. Jason Eady è forse ancora migliore di Daylight And Dark, e più maturo, e le canzoni sembrano scritte ed eseguite con piglio maggiormente sicuro: la produzione è ancora nelle mani di Kevin Welch, cantautore dell’Oklahoma ben noto su queste pagine, mentre tra i musicisti coinvolti troviamo il grande Lloyd Maines, che suona un gran numero di strumenti a corda, la bravissima violinista Tammy Rogers (membro degli SteelDrivers ma anche presente in molti album di Buddy e Julie Miller) e, come voce di supporto in un brano, nientemeno che Vince Gill (oltre alla moglie di Eady stesso, Courtney Patton, alle armonie vocali).

Jason, che ha anche una bella voce, ci delizia quindi per i 35 minuti scarsi del disco, con una serie di canzoni scritte ed eseguite in modo classico, puro country d’autore per chi vuole suoni veri, personali, non appariscenti ma di grande impatto emotivo: le sue influenze sono nobili (Willie Nelson, Merle Haggard, Joe Ely, Guy Clark), ma in definitiva non somiglia a nessuno di questi. Il CD si apre con Barabbas, una ballata molto intensa e decisamente ispirata, dalla musicalità profonda, con steel e dobro ad accarezzare la melodia e la voce espressiva di Jason a fare il resto. Drive è più ritmata, anche se gli strumenti restano acustici, al punto da farla sembrare un canto folk d’altri tempi, merito anche di un motivo dal sapore tradizionale; splendida Black Jesus, dotata di una melodia diretta e vincente, una country song pura come l’acqua e suonata in maniera deliziosa, mentre No Genie In This Bottle, una drinkin’ song con due strumenti in croce ma dal feeling notevole, è nobilitata dalla seconda voce di Gill e da un’atmosfera degna di John Prine.

Molto bella anche Why I Left Atlanta (ma di brani di livello basso non ce ne sono), altra country balad accattivante che ricorda certe sonorità “americane” dell’Elton John dei primi anni settanta, Rain è ancora un pezzo di stampo tradizionale, con banjo e violino protagonisti, ed un motivo folkeggiante che fa la differenza, Where I’ve Been è uno squisito brano delicato e gentile, decisamente toccante, che non fa che confermare la bravura di Eady nello scrivere canzoni semplici ma intense. Waiting To Shine, vivace, ritmata e godibile, precede Not Too Loud, languida e tersa ballata di grande spessore, e la conclusiva 40 Years, struggente e poetica, accompagnata solo da chitarra e violino ma dal pathos indiscutibile. Pensavo si fosse perso Jason Eady, ed invece eccolo di nuovo tra noi, e più in forma che mai.

Marco Verdi

Un Altro Dei Tanti “Piccoli Segreti” Del Cantautorato Americano. David Olney – Don’t Try To Fight It

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David Olney – Don’t Try To Fight It – Red Parlor Records

Con sorpresa mi sono accorto che di questo signore, David Olney, oltre quarant’anni di carriera, ventisette album registrati (compreso questo ultimo lavoro) di cui sei dal vivo, dalla nascita di questo “blog” non abbiamo mai recensito un disco, e quindi è giunto il momento di colmare questa grave dimenticanza. Il giovane Olney (nativo di Providence nel Rhode Island), si fa notare a soli 19 anni come leader di un gruppo che gravitava nell’area di Nashville, gli X-Rays, e nonostante un look “da ribelle” e una voce e una grinta alla Bob Seger (che spopolava in quei tempi), il buon David non riuscì ad imporsi sulla scena discografica, costringendolo quindi ad intraprendere una carriera da solista (con alle spalle, come detto, numerosi dischi, incisi con regolarità fin dagli anni settanta), con alcuni pregevoli lavori d’impronta acustica come Eye Of The Storm (78) e Deeper Well (88), passando anche attraverso il rock-boogie vicino a New Orleans nei solchi di Top To Bottom (91), prodotto da Fred James (Freddie And The Screamers), e edito dalla meritoria etichetta lombarda Appaloosa Records. Con l’ottimo Live In Holland (94) arriva il primo disco dal vivo, a cui seguiranno negli anni lavori importanti come Real Lies (97), Trough A Glass Darkly (99), The Well (03), Migration (05), senza dimenticare l’intrigante boxset di 3 EP che comprende Film Noir, The Stone e Robbery & Murder (12), fino ad arrivare ai più recenti lavori in studio Predicting The Past (con un bonus cd retrospettivo sulla sua carriera (13), e When The Deal Goes Down (14).

Per questo Don’t Try To Fight It David Olney (chitarra acustica e armonica), affida la produzione al polistrumentista Brock Zeman (pedal-steel e chitarre acustiche), per una strumentazione per lo più acustica, dove si possono ascoltare echi di valzer, il folk e il blues, che vengono suonati da fior di musicisti locali tra i quali Blair Hogan al basso, chitarre e mandolino, Tyler Kealey alla fisarmonica e pianoforte, Dylan Roberts alla batteria e percussioni, Steve Dawson al dobro, Michael Ball al violino, Wayne Mills al sassofono e alle armonie vocali la brava Kelly Prescott, per una decina di brani composti come sempre da Onley con John Hadley, di cui anche due scritti a quattro mani con due cantautori di cui ho perso da tempo le tracce, Kieran Kane e Kevin Welch. Il disco si apre alla grandissima con l’ottima If They Ever Let Me Out, un bellissimo rock-boogie dai sapori sudisti, impreziosito dalla voce di Kelly Prescott, a cui fanno seguito le atmosfere messicane, con fisarmonica d’ordinanza, di una serenata come Innocent Heart, il blues spettrale e spiazzante di Don’t Try To Fight It (dove si sente lo zampino di Kieran Kane), cantato con voce sgraziata à la Tom Waits da David, per poi passare ad una bellissima ballata elettroacustica come Ferris Wheel. con un arrangiamento “irlandese”composto da violino, dobro, fisarmonica e pedal steel. Si prosegue ancora con un blues inciso come “Dio comanda”, Crack In The Wall, voce in evidenza e chitarra elettrica trascinante, mentre la seguente Situation è una divertente country song; viene rispolverato pure il rock-blues d’annata, con una trascinante Sweet Sugaree, dove si evidenzia la bravura di Wayne Mills al sax, per poi tornare alle dolci atmosfere di Evermore, caratterizzate da un inconsueto binomio tra fisarmonica e cello. Ci si avvia alla fine con il country “bucolico” di una Yesterday’s News, e il blues lievemente sgangherato di Big Top Tornado (che vede come coautore Kevin Welch), eseguito in stile quasi alla John Trudell e affini.

Questo più che arzillo quasi settantenne, deve essere stato scaraventato a sua insaputa nella piscina di Cocoon,  ha avuto nel corso degli anni il riconoscimento di colleghi del calibro di Steve Earle, Emmylou Harris, Johnny Cash, Linda Ronstadt, e anche il meno noto Del McCoury, che hanno inciso e cantato alcune delle sue canzoni, facendolo diventare un artista di “culto”, uno che ha sempre inciso per il piacere di fare musica, senza mai cercare il successo o la visibilità commerciale. Come accennato nel titolo del Post, David Olney rimane un altro dei “grandi dimenticati” della canzone d’autore americana, uno “storyteller” (o cantastorie se preferite) straordinario, un grande visionario dalla voce calda e dal gusto melodico, un “camaleonte” capace di mantenere  negli anni un livello qualitativo elevato nelle sue canzoni che, sono sicuro, molti altri cantautori sopravvalutati (che ci sono purtroppo in giro), farebbero carte false per avere nel proprio repertorio. Questo “artigiano” della canzone d’autore Americana, sebbene nella sua carriera abbia raccolto meno di quello che ha seminato, con questo nuovo Don’t Try To Fight It ha dipinto forse un suo piccolo capolavoro, un disco che merita assolutamente di essere ascoltato, sicuramente un lavoro che tocca svariati generi, ma sappiamo che la buona musica, oltre a non avere età ne tantomeno stagioni non è di solito legata a stili specifici , il che certifica senza alcuna ombra di dubbio che David Olney (uno  che non ha mai fatto un disco brutto), è uno dei tanti tesori nascosti del panorama musicale, e quindi, come diceva il famoso maestro Manzi, non è mai troppo tardi per scoprirlo.

Tino Montanari

Anche Come Band Leader Rimane Sempre Una Cantante Di Un Certo “Peso”! Wynonna Judd – Wynonna & The Big Noise

wynonna & the big noise

Wynonna Judd – Wynonna & The Big Noise – Curb CD

Wynonna Judd, o più semplicemente Wynonna (sorella della popolare attrice Ashley, nonché figlia di Naomi, con cui componeva il popolarissimo duo delle Judds, anche se il loro vero cognome è Ciminella), era inattiva da ben sette anni. Considerata un’artista country, ha però sempre avuto sia nella voce potente che nella grinta un’attitudine da rockeuse, qualità che oggi ha modo di mostrare appieno con il suo lavoro nuovo di zecca, intitolato Wynonna & The Big Noise, nel quale, a partire dalla copertina, la nostra si mette alla leadership di una vera e propria band, formata da Justin Weaver alle chitarre, Peter King alle tastiere, Dow Tomlin al basso e Cactus Moser (ex membro degli Highway 101 e anche produttore del disco) alla batteria.

Wynonna & The Big Noise segna un bel ritorno da parte di una artista che non è mai stata tra le mie beniamine, ma ha comunque sempre fatto la sua musica con coerenza e senza rompere le scatole a nessuno, e con questo disco si rivela in gran forma, ben coadiuvata da un gruppo compatto dal suono molto rock e diretto, con chitarre (spesso in modalità slide) ed organo sempre in primo piano, che danno alle canzoni un sapore sudista con accenni blues e swamp in certi momenti; il CD, dodici brani, vede poi la collaborazione di alcuni pezzi da novanta (che vedremo strada facendo), i quali abbelliscono il tutto con interventi misurati ma preziosi. Una bella “rentrée” dunque (e molto poco country), da parte di una cantante che avevo sinceramente dimenticato.

Apre la tostissima Ain’t No Thing, un rock blues dallo spirito sudista che vede la partecipazione della bravissima Susan Tedeschi alla voce e chitarra, un pezzo che Wynonna conduce in porto con piglio sicuro ed autorità (ed il brano è scritto da Chris Stapleton, tanto per capirci). Cool Ya ha una ritmica spezzettata ed una melodia che fa un po’ fatica ad emergere, anche se il suono, dominato dall’organo, non presenta sbavature.Things I Lean On è più cantautorale, un intenso brano di base acustica con accompagnamento leggero e la gradita comparsata di Jason Isbell, mentre You Make My Heart Beat Too Fast è un godibilissimo ed insinuante swamp rock, polveroso, elettrico e cadenzato, con una bella slide paludosa quanto basta.

Staying In Love è un’escursione in territori soul-errebi (pur senza fiati), sempre con base sonora molto sudista ed un ritornello decisamente accattivante; Keeps Me Alive inizia piano, con un’atmosfera tesa da blues desertico, ed una slide in sottofondo suonata nientemeno che da Derek Trucks (per par condicio, dato che abbiamo avuto la moglie…), il quale nobilita la canzone con il suo tocco da maestro. Jesus And A Jukebox è una languida ballata, la più country del disco, con un’ottima scrittura ed una solida performance da parte della band; I Can See Everything vede l’ultimo ospite del disco, ovvero l’Eagle Timothy B. Schmit (che è anche autore del brano): Timothy è senz’altro famoso per la sua voce angelica e per le sue armonie, non certo per il suo songwriting, ma la canzone, una tipica ballata soft-rock californiana, è gradevole.

Something You Can’t Live Without è ancora rock dalla vena southern, anche se i suoni non sono molto spigolosi, meglio You Are So Beautiful, dall’andatura più lenta ma dalla musicalità calda e voce in primo piano; il CD si chiude con la pianistica Every Ending (Is A New Beginning), altra ballata di gran classe, e con Choose To Believe, un pezzo scritto da Kevin Welch, che riporta il disco su territori paludosi, sudati, con la voce di Wynonna a dare un tocco di sensualità. Un buon ritorno per Wynonna Judd: potrebbe anche essere il suo disco migliore di sempre.

Marco Verdi

Una Nuova Grande Band!?! The Departed – Adventus

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The Departed – Adventus – Thirty Tigers CD

The Departed, come forse qualcuno ricorderà, sono la nuova band di Cody Canada. Mandati definitivamente (purtroppo) in pensione i Cross Canadian Ragweed (pare per dissapori tra Cross e Ragsdale), Canada ha fondato lo scorso anno questo nuovo combo, in compagnia di un altro CCR (Jeremy Plato, al basso), di Seth James, co-leader della band, del tastierista Steve Littleton e dal batterista Dave Bowen (sostituito presto con Chris Doege). I cinque hanno esordito un anno fa con This Is Indian Land, un album di sole cover di autori originari dell’Oklahoma (da Bob Childers a Kevin Welch, passando per gente più famosa come J.J. Cale e Leon Russell), il classico disco di rodaggio, ma è con questo Adventus (con una strana copertina di un poliziotto con un proiettile ficcato nell’orecchio, uno scatto, pare, effettuato durante un concerto dei Led Zeppelin negli anni settanta) che il gruppo texano-oklahomano inizia la sua vera e propria carriera.

Il fatto che l’album sia attribuito al gruppo e basta (il precedente era uscito come Cody Canada & The Departed) la dice lunga: i Departed non sono più la backing back di Canada, ma un vero e proprio ensemble affiatato, con due leader al 50% (Canada e James, entrambi validi chitarristi e cantanti) che si dividono il ruolo di frontman senza problemi. Adventus, che in latino significa avvento o venuta, è un vero e proprio punto di partenza, per una band che, novella fenice, è sorta sulle ceneri dei Cross Canadian Ragweed, proseguendone il discorso ma aggiungendo diversi nuovi spunti interessanti. Infatti la musica proposta dal quintetto parte sì dal country-rock venato di radici dei CCR, influenzato dal movimento Red Dirt, ma amplia la gamma sonora, introducendo elementi sudisti, una ancora maggiore vena rock, ed un’attitudine da vera bar band, che sa far parlare le chitarre e scrivere melodie coinvolgenti e piene di pathos. Sembrano un gruppo che suona insieme da anni, tanta e la compattezza e l’affiatamento che si palesa in questo disco: avevo personalmente temuto che Canada, dopo lo scioglimento dei CCR, si potesse perdere un po’ per strada, ma ora sono contento di dire che ha messo su una band che potrebbe addirittura anche fare meglio.

L’avvio è ottimo: Worth The Fight è un rock’n’roll tosto e chitarristico, con la sezione ritmica che pesta in maniera forsennata, con più di un rimando agli Stones (ma quelli cattivi!), un tiro micidiale, un brano che non fa prigionieri. Burden vede James alla voce solista, una voce molto diversa da quella di Canada, meno roots è più soulful, negroide e potente: Burden è una grande ballata sudista molto anni settanta, di quelle che un gruppo come i Lynyrd Skynyrd una volta faceva ed ora non più. Prayer For The Lonely (ancora James, ma che voce) è una splendida rock song guidata da un bel riff di organo e sostenuta da un irresistibile ritornello corale ed una melodia di prim’ordine. Un inizio che mi ha spiazzato, mi aspettavo sì un bel disco, ma non ero preparato a questa intensità. Blackhorse Man vede il ritorno di Canada al microfono, per una ballata (sempre molto elettrica) che ha Neil Young nei suoi cromosomi; Hard To Find è puro southern soul, bello anche qui l’uso dell’organo da parte di Littleton.

L’uptempo Hobo è il brano più legato alle sonorità dei Ragweed, ed è l’unica che vede Plato alla voce, mentre Flagpole ci colpisce ancora in pieno volto con una sventagliata elettrica ed un sound pieno e corposo: questo è rock’n’roll deluxe, gente, grande musica. Per contro Cold Hard Fact è acustica e folkie, ma ascoltate che feeling e che melodia intensa ed emozionante: un brano sontuoso, finora il migliore del disco (per ironia della sorte la meno rock dell’album). Demons, ancora elettrica (grande uso di wah-wah) è solida come la roccia, mentre Set It Free, pur avendo delle belle chitarre in primo piano, è meno immediata delle altre. L’album, quasi un’ora spesa benissimo, si chiude con Better Get Right, cadenzata è con la gran voce di James ancora protagonista, l’acustica e tenue 250.000 Things, lo strumentale Make It Wrong, quasi una jam nella quale i cinque lasciano liberi gli strumenti in maniera molto fluida, e la conclusiva e pianistica Sweet Lord, un commiato in tono minore ma con immutato pathos. Avevamo una grande band (i Cross Canadian Ragweed), ora ne abbiamo trovata una, forse, migliore.

Marco Verdi

“Texan Troubadour”! Walt Wilkins – Plenty

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Walt Wilkins – Plenty – Ride Records 2012

Se dovessi stilare una lista personale di songwriters texani, Walt Wilkins sarebbe il primo nome da inserire. Texano autentico, Walt è cresciuto tra Austin e San Antonio, ha suonato per anni la chitarra solista in bands di altri cantautori, influenzato da personaggi come Lowell George, Kevin Welch, l’idolo locale Pat Green, prima di iniziare una sua solida carriera solista. La mia conoscenza con Walt Wilkins avvenne grazie alla copertina (una foto del ponte del Nashville) del suo terzo disco Rivertown (2002), che completava un bel trittico iniziato con l’album d’esordio Bull Creek Souvenir (1994), seguito da Fire Honey & Angels (2000). Dopo l’interessante Mustang Island (2004), Walt da vita ai Mystiqueros (una specie di supergruppo), una formazione con ottimi musicisti della scena locale di Austin, modificando il suo “sound” tra reminiscenze country anni ’70 e l’anima più rock della West Coast, una simbiosi che si realizza nell’ottimo Diamonds In The Sun (2007).

In questo nuovo lavoro Plenty si presenta con una band tosta che si compone dei chitarristi Brett Danaher, Joe Newcomb, Marcus Eldridge, Ray Rodriguez alle percussioni e batteria, Ron Flynt al piano, Dick Gimble al basso, Lloyd Maines alla pedal-steel, le vocalist Lisa Morales, Kelly Mickwee,  la bella moglie Tina Mitchell Wilkins (con due album solisti al suo attivo Espiritu (2006) e Morning Glory (2011), e aiutato dal talento di validi autori come Monte Warden, Billy Montana, Liz Rose, e la brava cantautrice Lori McKenna.

L’iniziale Just Be è una country-ballad che gode dell’apporto di una pedal-steel, l’unica firmata da Wilkins in solitaria, le altre sono tutte collaborazioni con i nomi citati, ed è seguita da una acustica e romantica Hang On To Your Soul con il violino in evidenza. Ain’t It Just Like Love e Soft September Night sono due brani dalla ritmica intensa, dove brillano dobro, chitarre e nuovamente pedal-steel. Something Like Heaven firmata da Liz Rose ruba il cuore, una ballata notturna con un superba atmosfera, dove uno straordinario Walt Wilkins si cala nella parte, regalandoci la “perla” del CD, cui fa seguito un altro pezzo leggero e delicato come Rain All Night, sostenuto dalle armonie vocali dalle “ladies”. Si torna alle sfumature country con A Farm To Market Romance, mentre Maybe Everybody Quit Cheatin’ e Like Strother Martin sono piccoli gioielli, semplici, lineari, di pura musica texana, che evocano i grandi cantautori country-folk degli anni ’70 (uno su tutti il suo mentore Gram Parsons). Gray Hawk è scritta a quattro mani da Liz e Lori McKenna, un brano lento dalla melodia delicata, con il notevole supporto del controcanto di Lori, per la seconda “gemma” del disco. Chiudono una Under This Cottonwood Tree che parte lenta ma poi si sviluppa con l’aggiunta della ritmica e centrali interventi delle chitarre e della steel, mentre Between Midnight & Day è una delicata composizione per voce e chitarra, cantata da Walt con voce calda, dolce e penetrante.

Con Plenty, Walt Wilkins ci propone country-folk-ballads di buon spessore che canta molto  bene, con personalità e temperamento, storie che esprimono sentimenti semplici e comuni, capaci di emozioni intense che catturano inesorabilmente, ed arrivano al profondo del cuore. Wilkins è stato da molti accostato a gente come Kevin Welch, Chris Knight, Pat Green, Sam Baker (tra la crema dei songwriters texani), ma sarebbe ora che gli venissero riconosciute anche le sue qualità nell’ambito dell’attuale scena musicale americana.

Tino Montanari