Bel Disco, Forse Troppe Ballate, Ma Dal Vivo…Beth Hart – Better Than Home

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Beth Hart – Better Than Home – Provogue/Mascot/Edel

Il nome di Beth Hart solitamente non si accosta al termine singer songwriter, o se preferite, in italiano, cantautrice. Quando pensiamo alla cantante di Los Angeles il suo stile viene avvicinato alle grandi interpreti del rock e del soul, da Etta James ad Aretha Franklin, passando per Janis Joplin e Grace Slick, e naturalmente anche Tina Turner, una che, soprattutto nella prima parte della sua carriera, ha saputo fondere i due generi alla perfezione. Ma Beth Hart ha sempre scritto le sue canzoni, non dimentichiamo che il suo primo successo fu la canzone LA Song (Out Of This Town) che nel lontano 1999 fu utilizzata nell’ultima stagione di Beverly Hills, 90210, anche se erano altri tempi. Poi, con il tempo, la nostra amica si è costruita una grande reputazione come interprete dal vivo, una delle rocker più intemerate in circolazione, in possesso di una voce potente ed espressiva, temprata da migliaia di concerti, ma, nella prima parte della carriera, forse, anche un po’ troppo tamarra e sopra le righe, “esagerata”, come dimostra il peraltro pregevole DVD e CD LivAt Paradiso, registrato nel famoso locale di Amsterdam https://www.youtube.com/watch?v=EbwggC8tdhU , e che ha inziato la sua fortunata storia con il pubblico olandese. Però la fama (sempre limitata, non da stadi o talent vari, anche se… https://www.youtube.com/watch?v=d26gbMol7IA notare la differenza tra le due) e i riconoscimenti della critica sono venuti con gli ultimi album, soprattutto quelli registrati in coppia con Joe Bonamassa, due in studio e uno del dal vivo, fantastico, registrato sempre ad Amsterdam http://discoclub.myblog.it/2014/04/11/potrebbe-il-miglior-live-del-2014-beth-hart-joe-bonamassa-live-amsterdam/.

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Se volete verificare la sua potenza di performer dal vivo non dovete fare altro che recarvi all’Alcatraz di Milano il prossimo martedì 28 aprile per l’unica data italiana del suo tour europeo (biglietti dovrebbero essercene ancora), OK, non è accompagnata da Bonamassa con la sua band, ma avendola già vista dal vivo nel suo primo passaggio in Italia, vi posso assicurare che è un evento da non perdere, Beth Hart è un vero animale da palcoscenico, degna in tutto e per tutto, vocalità, presenza scenica e repertorio, delle grandi cantanti del passato, ed in possesso anche di una genuinità e una simpatia che la rendono unica. Tornando al nuovo disco, forse proprio il repertorio potrebbe essere l’unico punto debole di questo nuovo Better Than Home https://www.youtube.com/watch?v=cWDMsvyHKQo : un disco basato su molte ballate scritte dalla stessa Beth, e pochi pezzi rock, soul & blues, come negli ultimi dischi in coppia con Bonamassa (ma tutti e due, separatamente, hanno già promesso che ci sarà un nuovo capitolo nel 2016, e se lo dicono entrambi c’è da crederci), non dimentichiamo comunque che andiamo a confrontarci con una seria di cover che vengono dal repertorio di gente come Billie Holiday, Etta James, Aretha Franklin, Ike & Tina Turner, ma anche Buddy Miles, Al Kooper, Melody Gardot, tra le nuove leve, e ancora Tom Waits, Ray Charles, Bill Withers, Delaney And Bonnie, quindi è quasi inevitabile che questi pezzi da novanta confrontati con le canzoni scritte dalla Hart possano risultare difficili da raffrontare https://www.youtube.com/watch?v=QgBff_8pJoQ . Ma persistendo nell’ascolto, come ha fatto chi vi scrive, questo nuovo album, alla lunga, ha un suo fascino e un suo perché.

Un brano come l’iniziale Might As Well Smile si pone nel solco di quelle ballate soul Memphis style che deliziavano le orecchie degli ascoltatori nel periodo d’oro di questa musica https://www.youtube.com/watch?v=SRpdpxRg5xs , punteggiata dal lavoro dei fiati e delle coriste la canzone è una piattaforma perfetta per ascoltare la voce della Hart, che in fondo è il suo punto di forza, tenera e vulnerabile, espressiva e potente, con un phrasing perfetto acquisito con il passare del tempo ed ora giunto alla maturità. Non guasta la bravura dei musicisti utilizzati, a partire da Larry Campbell, chitarrista che ha suonato con molti dei grandi, diciamo giusto Levon Helm e Dylan, l’ottimo Charlie Drayton alla batteria (con Madeleine Peyroux, Dar Williams e Bettye Lavette, ma anche con in passato con Keith Richards, Simon & Garfunkel, Neil Young, Johnny Cash e una miriade di altri), anche Zev Katz, il bassista, ha un CV di tutto rispetto. Le mie perplessità (e anche quelle di Beth, in alcune interviste rilasciate, dove esprimeva la sua riluttanza a lasciare un produttore come Kevin Shirley, con cui aveva lavorato benissimo negli ultimi album) risiedevano nel nome del nuovo produttore, arrangiatore e tastierista, tale Rob Mathes, uno che, partito, con Chuck Mangione, nel corso degli anni si era fatto un nome arrangiando eventi come il Pavarotti and Friends, l’insediamento di Obama alla Casa Bianca, i concerti al Lincoln Center, oltre ai dischi di George Michael, Panic At The Disco ed altre amenità del genere. Invece devo dire che l’album, pur non essendo un capolavoro, è decisamente, come dico nel titolo del Post, un “Bel disco”!

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Il formato musicale preponderante è la ballata, ma se i punti di riferimento sono l’Elton John anni ’70 (una delle passioni della Hart), il blue-eyed soul, le canzoni di Laura Nyro e Carole King, fatte le dovute proporzioni, per bilanciare, aggiungiamo una Adele, nei suoi momenti migliori, e con un carico di musica nera e gospel, che la giovane cantante inglese non ha nel suo bagaglio, forse più Rumer (con cui Mathes ha collaborato), un’altra innamorata degli anni ’70 e delle belle canzoni. Prendete due brani come Tell ‘Em To Hold On, una canzone pianistica strepitosa che potrebbe ricordare nella sua costruzione in crescendo l‘Elton John “americano https://www.youtube.com/watch?v=4TgrjTPlCsY , quello di Tumbleweed Connection, con retrotoni gospel ed una interpretazione vocale da sballo con Beth che lascia andare in libertà e a piena potenza la sua voce, o come un’altra ballata melodica e malinconica come Tell Her You Belong To Me, dove l’arrangiamento di archi (e fiati) accentua il tono appassionato della canzone, ricca di pathos, pochi tocchi ben piazzati di chitarra, il dualismo piano-organo e quella voce magica che galleggia sull’ottimo arrangiamento di Mathes (chiedo venia per avere pensato male) https://www.youtube.com/watch?v=CYABiE1-FAQ . Trouble è uno dei rari momenti dove la grinta proverbiale di Beth Hart esce allo scoperto, tra riff chitarristici che mi hanno ricordato i Beatles (perché? Non so, così, un’impressione) e voce sparata alla Tina Turner, quando divideva ancora i palchi con Ike, scariche di fiati all’unisono e quel pizzico di gigioneria che dal vivo verranno, immagino, ulteriormente, amplificati (vedere, e sentire, per credere)  https://www.youtube.com/watch?v=MGUA3eiNYH4. E che dire di Better Than Home, la title-track, una bellissima ballata mid-tempo melodica, quasi pop, ma di quello di altri tempi, con un giro di basso “geniale” che la percorre, e un ritornello che si memorizza con grande piacere.

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Pure St. Teresa rimane in questo spirito à la Elton John, con florilegi pianistici di gran classe e la vocalità trattenuta ma perfetta per questo tipo di brano, e addirittura in We’re Still Living In The City, se possibile, il suono si fa ancora più scarno, solo voce e una chitarra acustica, con gli archi sullo sfondo, e poi in primo piano, a colorare il suono, in un modo che Paul Buckmaster avrebbe approvato,  mentre in The Mood That I’m In va di groove, tra funky e swing, con una chitarrina pungente ed un eccellente lavoro d’assieme di tutti i musicisti impiegati e la voce sempre godibile di Beth, qui un poco più vivace, non ti dà la scossa di molti dei brani con Bonamassa, ma l’insieme è più mosso. Mechanical Heart è un’altra ballata struggente, quella scelta come motivo promozionale per presentare l’album prima dell’uscita https://www.youtube.com/watch?v=nM2N4BeRkFE,  bellissima, ariosa, radiofonica nel senso più nobile del termine, con gli archi che la avvolgono e la nobilitano in modo deciso. As Long As I Have A Song potrebbe, come ricordavo all’inizio, avvicinarsi alle sonorità di grandi cantautrici come Laura Nyro o Carole King, anche se con la voce di Beth Hart che è uno strumento di grande fascino di per sé. Conclude la bonus track (ormai un obbligo per le case discografiche) Mama This One’s For You, dove Beth siede al piano in solitaria per un sentito omaggio alla sua amata genitrice.

Concludendo, questo Better Than Home, più lo senti più ti piace, bisogna ascoltarlo diverse volte, ma poi ti entra dentro e anche se non ha la forza dirompente delle collaborazioni con Bonamassa ( e della sua chitarra) è forse il suo miglior disco da solista, o da cantautrice, se preferite. Comunque dal vivo è imperdibile!

Bruno Conti

Recuperi Di Fine Anno – Parte 1: David Bromberg Band – Only Slightly Mad

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David Bromberg Band – Only Slightly Mad – Appleseed/Ird CD

(NDM: nel pubblicare qualche giorno fa la mia scelta dei migliori del 2013, Bruno mi ha fatto notare che un paio di dischi molto importanti dell’elenco non erano stati recensiti sul blog al momento dell’uscita, e quindi, come si faceva a scuola con le materie insufficienti, abbiamo concordato di recuperare, prima della fine dell’anno, questi arretrati. Oggi mi dedico all’ultimo, bellissimo, album della David Bromberg Band, mentre nei prossimi giorni parlerò di Jonathan Wilson, per me disco dell’anno, ed anche dell’ultimo di Mavis Staples, primo degli “esclusi”, e di una new entry fuori tempo massimo, cioè del CD del duo Norah Jones/Billy Joe Armstrong.

Ma adesso sotto con Bromberg.)

Un po’ come con Ry Cooder, negli anni novanta e nei primi anni duemila avevo ormai perso le speranze che David Bromberg tornasse a fare dischi come negli anni settanta, ma se il musicista californiano ogni tanto la sua chitarra sui lavori di qualcuno la faceva sentire, oltre a legare il suo nome a tutta una serie di progetti collaterali (tipo il mitico Buena Vista Social Club, il disco con Ali Farka Touré o, nel 1992, l’album con John Hiatt, Nick Lowe e Jim Keltner a nome Little Village), di Bromberg pensavo si fossero perse le tracce dal 1989 (anno dell’ottimo Sideman Serenade). Il nostro infatti si era ritirato a Wilmington, nel Delaware, ad esercitare la professione di liutaio, e solo occasionalmente si ritrovava con qualche amico per deliziare pochi fortunati fans con rari concerti http://www.youtube.com/watch?v=bItEpUE9XdE

Poi, quasi in sordina, nel 2007 (quindi due anni dopo il “ritorno” di Cooder con Chavez Ravine), David pubblicò Try Me One More Time, un album completamente acustico di vecchi traditionals folk e blues (ed un brano nuovo), che però sembrava più un esercizio isolato, quasi un regalo ai propri estimatori, piuttosto che un ritorno vero e proprio. Due anni fa, invece, Bromberg fece il botto in grande stile con il sontuoso Use Me, un album stavolta elettrico con una serie di ospiti da fare invidia a chiunque (tra i tanti: John Hiatt, Los Lobos, Linda Ronstadt, Vince Gill, Levon Helm e Dr. John), un lavoro splendido che ci riconsegnava definitivamente uno dei migliori musicisti e musicologi contemporanei, tra l’altro in gran forma.

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Ebbene, Only Slightly Mad, il nuovissimo CD di Bromberg, è persino meglio: intanto avrete notato come il nostro abbia aggiunto la parola Band al proprio nome, un chiaro aggancio al suo miglior periodo (gli anni settanta), ed infatti il disco può a mio parere stare tranquillamente allo stesso livello di capolavori come Demon In Disguise e Midnight On The Water, e solo un gradino sotto a Wanted Dead Or Alive, che per il sottoscritto è in assoluto il suo album migliore (ed uno dei più belli di tutta la decade). David riforma completamente la sua band (lo affiancano in questa fatica Mark Cosgrove, Nate Grower, Butch Amiot, John Kanusky, John Firmin e Peter Ecklund) e, con l’aiuto anche di qualche amico (tra cui John Sebastian, l’ex Nitty Gritty John McEuen, Amy Helm e la moglie Nancy Josephson), ci regala un disco proprio come negli anni settanta, una miscela di cover di brani altrui e vecchi traditionals, completati da tre brani nuovi.

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La produzione è nelle sapienti mani di Larry Campbell (che aveva prodotto anche due brani su Use Me), ormai un esperto in questo tipo di sonorità, e l’album è una gioiosa miscela di blues, folk, country, rock e persino gospel (cosa non scontata per un ebreo), un mix perfetto che nelle mani di David e dei suoi compari fa di Only Slightly Mad uno dei più bei lavori dell’anno (con l’unico pollice verso per la ridicola copertina, abbastanza fuori contesto).

E poi suonano, cacchio se suonano!

Si inizia all’insegna del blues con la nota Nobody’s Fault But Mine http://www.youtube.com/watch?v=og49MxQbaRA di Blind Willie Johnson (ma resa celebre dai Led Zeppelin), che David personalizza con la sua particolare voce all’apparenza fragile ma capace di sfumature impreviste: una versione tosta, elettrica, chitarristica, con la slide di Bromberg e l’organo di Brian Mitchell a tirare le fila. E poi il suono, mai così pieno e rotondo in un disco del nostro: grande inizio. Ancora blues con Keep On Drinkin’ (Big Bill Broonzy), ma l’arrangiamento è più acustico http://www.youtube.com/watch?v=-dtRrrweeGQ , anche se la sezione ritmica pesta che è un piacere: grande duetto tra la slide acustica di David e l’armonica di Sebastian.

Drivin’ Wheel, il brano più famoso di David Wiffen, è il masterpiece del disco, una rilettura da urlo di una canzone già bellissima di suo, arrangiata in maniera classica, da rock ballad anni settanta, ma con gli strumenti che scorrono fluidi ed un suono spettacolare (Campbell ha fatto un lavoro egregio), oltre ad un feeling enorme, da brividi lungo la schiena. E poi David canta bene come non mai: forse la cover dell’anno!

I’ll Take You Back (un oscuro pezzo di Little Charlie & The Nightcats) è di nuovo blues, un blues elettrico afterhours, quasi jazzato, con splendidi interventi di organo e David che giganteggia per gli otto minuti di durata: che classe http://www.youtube.com/watch?v=dBc3ahM1cyM ! Con The Strongest Man Alive/Maydelle’s Reel/Jenny’s Chickens si cambia totalmente registro: è infatti un medley di tre diverse melodie tradizionali irlandesi, con David (e coro) che canta la prima parte a cappella, per poi lanciarsi insieme al gruppo in una jam irresistibile per chitarra, mandolino, violino e sezione ritmica, quasi fossero un combo di irlandesi purosangue: puro godimento. Last Date è una meravigliosa country ballad di Floyd Cramer e Conway Twitty (ricordo anche una bella versione di Emmylou Harris su un live dallo stesso titolo), e David risulta pienamente credibile anche nei panni del cowboy. Se facesse un intero disco country sarebbe sicuramente un capolavoro.

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Nobody Knows The Way I Feel This Mornin’ (un brano inciso negli anni venti da Alberta Hunter, ma in seguito anche da Louis Armstrong, Dinah Washington ed Aretha Franklin) è l’ultimo tributo al blues del disco, acustica, cadenzata, piacevole e suonata in punta di dita, con i fiati sullo sfondo a dare al pezzo un sapore quasi dixieland. The Fields Have Turned Brown è un classico degli Stanley Brothers, un altro splendido country d’altri tempi, suonato alla grande e cantata anche meglio (ribadisco, non ho mai sentito Bromberg cantare bene come in questo disco). Cattle In The Cane/Forked Deer/Monroe’s Hornpipe è ancora un medley strumentale (due traditionals ed il terzo di Bill Monroe), dove il violino di Grower domina incontrastato, seguito a ruota da David e Cosgrove al mandolino: intrattenimento e cultura allo stesso tempo.

Chiudono l’album tre brani scritti da Bromberg, I’ll Rise Again, World Of Fools e You’ve Got To Mean It Too: se la seconda e la terza sono rispettivamente una rock song di buon livello (ma leggermente inferiore alla media del disco) ed un ottimo slow country romantico dedicato alla moglie Nancy, la prima è uno strepitoso gospel-rock che sembra quasi un brano tradizionale, proposto con una sicurezza ed un feeling tale che sembra che David non abbia mai fatto altro in carriera.

In definitiva, un album semplicemente imperdibile: dischi così fanno bene alla salute.

Marco Verdi

Dal New Jersey (Via Italia), “On The Road Again”! Greg Trooper – Incident On Willow Street

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Greg Trooper – Incident On Willow Street – Appaloosa Records/Ird 2013

Devo ammettere che ho sempre avuto un debole per Greg Trooper, un musicista che è in attività dal 1986 (il suo primo album introvabile è stato We Won’t Dance), che ha scritto tra gli altri per Steve Earle, Robert Earl Keen, Vince Gill, Billy Bragg , Rosanne Cash e la grande Maura O’Connell (di cui purtroppo ho perso le tracce), e da allora è stato tutto un crescendo qualitativo per questo folk singer, precursore del suono che viene etichettato come “americana”. Ottimi infatti i suoi successivi lavori, a partire da Everywhere (92), Noises In The Hallway (96) forse il migliore del primo periodo, Popular Demons (98), Straight Down Rain (2001) il debutto per la Sugar Hill con Floating (2003); in mezzo c’è stato anche uno  live acustico Between A House and A Hard Place: Live At Pine Hill Farm  (venduto purtroppo solo via internet). Il sodalizio con la meritoria indie della North Carolina, prosegue con l’ottimo Make It Through This World (2005), un altro live di difficile reperibilità The Backshop Live (2006), The Williamsburg Affair (2009), Upside-Down Town (2010), fino a questo Incident On Willow Street, distribuito (meritoriamente) dalla nuova Appaloosa Records (indimenticabile creatura del compianto Franco Ratti).

Affiancato da musicisti stellari, a partire dal bravissimo polistrumentista Larry Campbell che suona di tutto, chitarre, pedal steel, mandolino, violino, banjo e bouzuki, Jack Saunders al basso, Oli Rockberger alle tastiere, Kenneth Blevins (dalla band di Hiatt) alla batteria e la brava Lucy Wainwright Roche alle armonie vocali, Greg presenta tredici tracce che spaziano tra folk anglosassone, country, rock e un pizzico di soul, per un suono più variegato rispetto agli ultimi album di studio.

Il viaggio inizia con una delicata All The Way To Amsterdam, mentre il mandolino di Campbell (colonna portante di tutto il disco), spadroneggia in Good Luck Heart, a cui fa seguito la ballata intimista Steel Deck Bridge. Sonorità irlandesi fanno capolino in Mary Of  The Scots In Queens, un folk cadenzato dalla  melodia avvolgente, per poi passare al soul di Everything’s A Miracle  e alle ballate acustiche The Land of No Forgiveness (che si avvale della voce angelica della Roche) e Amelia (dove troviamo alla batteria il figlio Jack). One Honest Man è un bel brano rock valorizzato dalla chitarra di Larry, seguito dalla grintosa Living With You, mentre This Shitty Deal è una ballatona country (alla Los Lobos). Il viaggio si avvia alla fine con la danza campestre di The Girl In The Blue e il country evocativo di Diamond Heart, che sa di vecchio west, con la bella voce di Trooper, che ricorda sapori di altri tempi. La bonus track (solo per il mercato italiano) è una torrida versione dal vivo di Ireland (era sull’album Everywhere), con la fisa a dettare il ritmo alla band (la versione Appaloosa è un bel digipack che contiene una taschina dove c’è il libretto con i testi e traduzione italiana, molto meritorio!).

Greg Trooper è uno di quei rari cantautori che solo l’America sa produrre, ha un talento fuori dalla norma, che lo affianca facilmente a solisti della fama di Steve Earle, Joe Ely e John Hiatt, perché sa scrivere canzoni di grande forza, fa della grande musica che gli sgorga dal profondo dell’anima, non vende illusioni, ma parla d’amore e di speranza.

***NDT: Domenica 27 Ottobre 2013 alle 18,00 suona dalle mie parti, alla Pizzeria Trapani in quel di Pavia, per chi fosse interessato l’ingresso è gratuito, io ci sarò sicuramente. Alla prossima!

Tino Montanari

70 Anni E Non Sentirli: Un Grande! Garland Jeffreys – Truth Serum

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Garland Jeffreys – Truth Serum – Luna Park Records

Questa estate, all’incirca alla metà di luglio, ho avuto il grande piacere di assistere ad un concerto di Garland Jeffreys, in quel di Pavia, nella piazza principale della città (lo so, non ve ne ho parlato, ma lo faccio ora, incidentalmente, in coincidenza con l’uscita del nuovo album, Truth Serum). Un ottimo concerto: Garland si era esibito anche pochi giorni prima al Buscadero Day, ma nella data di Pavia il tempo a suo disposizione era decisamente superiore e quindi anche la possibilità di sviscerare il suo “magico” repertorio. Garland Jeffreys, come dico nel titolo, ha da poco superato i 70 anni, ma non lo sa, non se ne rende conto, non lo hanno avvisato, un insieme di tutti questi fattori e quindi un suo concerto è un piccolo evento: non ha perso l’abitudine di saltare giù dal palco (diciamo scendere), aggirarsi tra il pubblico con fare birichino, incitarli a cantare, creare alcune gags, anche involontarie.

In quella serata, ad un certo punto, si vede del movimento sul palco, e una signora comincia ad inveire (gentilmente) verso i musicisti della band di Jeffreys, in italiano naturalmente, e questi, non capendo cosa dice questa signora, e pensando ad una pazza, sembrano anche spaventati (in effetti, probabilmente, era un abitante della piazza che si lamentava per il volume della musica, ma erano passate da poco le dieci di sera!), Garland, memore dei suoi trascorsi italiani a Firenze, ai tempi dell’Università, prende in mano la situazione e accompagna, con tatto ma con fermezza, la distinta signora giù del palco, rivolgendosi poi al pubblico e dicendo che in tanti anni di carriera non gli era mai successo nulla del genere e che l’invaditrice ( termine non comune, ma al femminile fa così, non comune anche l’accaduto, peraltro) avrebbe potuto essere sua madre, forse dimenticando, e molti del pubblico non lo sapevano, che anche lui la sua bella settantina di anni ormai l’aveva raggiunta e quindi la “tipa” avrebbe dovuto averne più di 90, di anni, e francamente non mi sembrava. Poi ha ripreso il suo spettacolo, sciorinando con gran classe Wild In The Streets, Matador, R.o.c.k., Mistery Kids, Spanish Town, pezzi del penultimo album King Of In Between, bellissimo (vecchie-glorie-7-garland-jeffreys-the-king-on-in-between.html), cover di Dylan e del suo grande amico Lou Reed e tanti altri brani stupendi.

Nel corso del concerto annuncia ed esegue anche qualche anteprima del nuovo album Truth Serum, in uscita per l’autunno. Ottobre è arrivato e anche l’album, prodotto da Larry Campbell, con lo stesso Campbell e Duke Levine alle chitarre, Steve Jordan alla batteria, Brian Mitchell alle tastiere e Zev Katz al basso. E sapete una cosa, è un gran bel disco, ancora una volta Garland Jeffreys si conferma uno dei migliori autori e cantanti, quindi cantautore, della scena musicale americana, dai tempi dell’esordio nel lontano 1973 con un album omonimo, fiancheggiato dall’ottimo singolo Wild In The Streets e poi nelle decadi successive, la sua discografia, uscita con parsimonia, soprattutto negli ultimi anni passati a crescere la figlia Savannah, raramente ha avuto scadimenti di qualità, anche se le prove migliori, insieme all’eponimo album citato, potrebbero essere Ghost Writer, Escape Artist e l’eccellente live Rock’n’Roll Adult, ma come si fa a dimenticare American Boy & Girl e Guts For Love, quindi tutti in pratica, comunque al link della recensione di The King Of In Between trovate altre informazioni. Bruce Springsteen e David Letterman lo vogliono sui loro palcoscenici e lui non si fa certo pregare, ha detto che ha intenzione di calcare le scene almeno fino ad 80 anni e quindi gli servono nuove canzoni e quelle di Truth Serum sono ottime. Prima di parlarne, per inciso, vi ricordo anche che, a Garland Jeffreys insieme a Robyn Hitchock e al cantante cinese Cui Jian è stato assegnato il Premio Tenco 2013: secondo voi l’ineffabile “Vince Breadcrump” detto anche il Mollicone nazionale di chi avrà parlato nella sua rubrica sul TG1? Si, è proprio quello che state pensando, la Cina è vicina.

Ma veniamo alle canzoni del nuovo album del cantautore di Brooklyn: si apre con la bluesata, à la Jeffreys, title-track Truth Serum, con la slide di Levine a duettare con la solista di Campbell e Brian Mitchell all’armonica, grande partenza. Any Rain è un medium tempo rocker, nella migliore tradizione del suo repertorio, scritta per l’album precedente e conclusa nelle sessions del nuovo disco, grande lavoro ancora di Brian Mitchell, questa volta all’organo, ottimo come sempre Steve Jordan alla batteria e i due solisti pennellano con le loro chitarre, tutta la band nell’insieme è perfetta e la voce di Garland è pimpante come sempre. It’s What I Am è una bellissima ballatona acustica che ricorda il Van Morrison più ispirato o anche il Dylan di Blonde on Blonde, tra folk e soul, una vera delizia aggiunta il lavoro del pianoforte. Dragons To Slay è un “reggae-one” di quelli esagerati, chi legge queste pagine sa che non amo il genere, ma come mi pare di avere detto altre volte faccio una eccezione per Jeffreys, la Armatrading e Joe Jackson, ma non si sappia in giro (Bob Marley aveva detto ai tempi che Garland Jeffreys era il miglior cantante americano di reggae)! Is This The Real World, se non sapessimo chi l’ha scritta, potrebbe essere una canzone, e pure di quelle belle, del songbook del nostro amico Bruce, e non aggiungo altro, anzi…ma no, va bene così! Se fosse un vecchio LP, fine della prima facciata.

La seconda parte inizia con Ship Of Fools, un bel brano di impianto elettroacustico, chitarre elettriche ed acustiche si intrecciano con una fisarmonica suonata da Mitchell, il jolly dei strumentisti presenti nel CD, altra canzone che delizia i nostri padiglioni auricolari. Collide The Generations, scritto con la 17enne figlia Savannah in mente, destinata anche lei ad una carriera artistica, è il pezzo più rock di questa raccolta, con una chitarra tra lo psichedelico e l’hendrixiano nell’abbrivio del brano ed uno svolgimento nello stile del suo amico Lou Reed, gran ritmo e grinta come ai vecchi tempi. Far far away è uno di quei tipici brani in crescendo del repertorio di Jeffreys, parte lenta, con gli strumenti che entrano uno ad uno e poi diventa inarrestabile nelle ondate di melodia che si riversano sull’attonito e felice ascoltatore, ma allora si ancora buona musica in questo mondo? Ebbene sì! Colorblind Love è un funky blues dai ritmi spezzati e in levare, con il drumming agile ed inventivo di Jordan che fa da sfondo alle evoluzioni dei grandi musicisti che suonano in questo disco, con Garland Jeffreys che si lancia brevemente anche nel suo celebre falsetto. E per il finale, un po’ in tono minore, ma è l’unica, di questo Truth Serum, devo dire, ci si sposta ancora su tempi vagamente reggae, ma il ritmo lo detta il banjo(?!?) dell’ospite James Maddock, e Revolution Of The Mind, nonostante il titolo, non resterà negli annali delle migliori canzoni di Garland Jeffreys. Molte altre presenti nel disco però si’, e quindi a buon intenditore poche parole, anzi una: acquistare! Così, brutalmente.

Bruno Conti

Piccoli (Ri)Passi Della Storia Del Rock! Garland Jeffreys In Concerto A Pavia 17 Luglio 2013

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Ultima data del tour italiano di Garland Jeffreys, questa sera, 17 luglio 2013, in Piazza Vittoria a Pavia, concerto gratuito che chiude il breve tour italiano, 4 date, di questo autentico newyorkese, nato a Brooklyn il 3 luglio del 1943, quindi ha appena compiuto 70 anni. Grande amico di Lou Reed, conosciuto all’università di Syracuse nel 1964 e da allora i due sono rimasti grandi amici. In attesa della pubblicazione del nuovo album, finanziato dai fans, che stando al sito di Jeffreys  http://garlandjeffreys.com/ è in dirittura di arrivo, vi ripropongo quanto avevo scritto sul Blog in occasione dell’uscita dell’album The King Of In Between. Nel frattempo, come ha scritto anche sul suo sito “Viva Italia”. Il nostro amico, tra l’altro ha studiato proprio anche nel nostro paese all’Università di Firenze, sempre nei lontani anni ’60, e parla un discreto italiano!

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Garland Jeffreys – The King Of In Between – Luna Park Records

Ma vi sembrava possibile che fosse “scomparso” uno come Garland Jeffreys, anni 67 (le biografie danno come anno di nascita o il 1943 o il 1944, forse perché è nato il 1° gennaio del ’44?), luogo Brooklyn, New York, compagno di scuola (all’università) di Lou Reed, amico personale di Springsteen, nei suoi dischi hanno suonato, tra gli altri: Stan Getz, Dr. John, Sonny Rollins, James Taylor, David Bromberg, Linton Kwesi Johnson, Sly & Robbie, Phoebe Snow e ora, nuovamente, anche il buon Lou! Dicevo, vi sembra possibile che fosse scomparso? E infatti eccolo qua con un nuovo disco dopo quattordici anni di silenzio interrotti solo dalla raccolta I’m Alive pubblicata dalla Universal e qualche best e twofer rilasciato dalla australiana Raven.

E torna in pompa magna con un signor disco (a parte la eventuale reperibilità), uno dei suoi migliori in assoluto, nettamente superiore a quel Wildlife Dictionary del 1997 dove provava a cimentarsi anche con electrodance e trip hop, non con grandi risultati. E questo nonostante Jeffreys sia sempre stato un maestro delle fusioni di più musiche, nei suoi dischi più riusciti (e anche negli altri) hanno sempre convissuto rock, folk, soul e reggae (confesso di non essere un amante del reggae, per usare un eufemismo, ma Garland Jeffreys, con Joan Armatrading e Joe Jackson, è uno dei pochi da cui lo “reggo”). Don’t Call Me Buckwheat del 1991 era il disco dove meglio era riuscito a fondere “modernismo” e rock tradizionale, forse per merito di alcune ottime canzoni e dei testi a sfondo “razziale”, ma i suoi migliori, per il sottoscritto, rimangono quelli del periodo “rock”, l’ottimo Ghost Writer del 1977 e l’uno-due irresistibile di Escape Artist (dove apparivano anche Roy Bittan e Danny Federici) e il grandissimo disco dal vivo Rock’n’Roll Adult con Brinsley Schwarz dei Rumour alla chitarra.

Questo nuovo The King Of In Between (si sarebbe potuto chiamare Streets of New York se non l’avesse già fatto Willie Nile) lo riporta ai fasti del passato: prodotto da Larry Campbell, che ultimamente non sbaglia un colpo, da Tara Nevins agli Hot Tuna, passando per Levon Helm, con Roy Cicala che si occupa della parte tecnica (era l’ingegnere del suono ai Record Plant Studios ai tempi di Lennon e Springsteen), una manciata di ottime canzoni e lo spirito di un ragazzino (dimostra almeno dieci anni meno di quelli che ha), e una figlia di 14 anni (l’età non casualmente coincide con il suo ritiro dalle scene), Savannah, che vuole fare la musicista di professione e duetta proprio ai cori con Lou Reed in The Contortionist.

Coney Island Winter è una partenza fulminante, come ai tempi d’oro, un brano rock in crescendo, con basso funky, la batteria di Steve Jordan, le chitarre di Campbell e Duke Levine, e un tiro musicale che oltre che nel titolo ricorda anche nel suono il miglior Lou Reed e, perché no, anche il miglior Garland Jeffreys, uno dei migliori cantori della città di New York con lo scomparso Willy Deville. I’m Alive era uno dei due brani inediti nella raccolta del 2007, raffinatissimo negli arrangiamenti, tirato nei ritmi rock and soul e con un ritornello facilmente memorabilizzabile, praticamente una canzone perfetta. Streetwise è un funky-rock contaminato da una sezione archi da disco anni ’70 ma non può non piacere nella sua immediatezza e freschezza. La già citata The Contorsionist ha i ritmi cadenzati dei migliori pezzi di Garland con il vocione di Lou Reed che si presta per i coretti simil doo-wop del delizioso ritornello e la chitarra di Larry Campbell che ricama note. All around the world è il primo dei brani in stile reggae ma rivisto nell’ottica newyorkese di Jeffreys, con fiati e cori femminili a impreziosire la struttura sonora.

C’è spazio anche per il Blues con una fantastica ‘til John Lee Hooker Calls Me con la slide di Campbell, una fisarmonica insinuante e un ritmo boogie inesorabile. E di nuovo in Love Is A Not Cliché, quasi atmosferico alla Tom Waits se non fosse per le evidenti differenze tra il vocione di Waits e la voce più malleabile ed acuta di Jeffreys. Rock and Roll Music tiene fede al suo titolo, un brano che oscilla tra rockabilly e blues con grande energia. The Beautiful Truth è un altro brano anomalo, atmosferico, con un sound di chitarra che ricorda le “minisinfonie Stax” di Isaac Hayes mescolate a ritmi reggae e con il falsetto del nostro amico che galleggia sui ritmi spezzati. Roller Coaster Town è proprio reggae, con un filo di ska nei fiati sincopati però con New York sullo sfondo e Junior Marvin dei Wailers a unire passato e presente. In God’s Waiting Room è il pezzo acustico che non ti aspetteresti, solo la voce e una chitarra acustica slide, bellissimo peraltro con la voce che si arrampica improvvisamente verso dei falsetti incredibili.

La “traccia nascosta” sinceramente se la poteva risparmiare, si chiama Rock On, ma di rock non c’è nulla, su un tappeto di batterie elettroniche e synth a go-go cita a casaccio pezzi di vecchi brani e non mi entusiasma per nulla.

Per il resto nulla da eccepire, un signor album. Ora non vi resta altro da fare che trovarlo.

Bruno Conti

Torna Il “Cesellatore”, Alcune Impressioni! Donald Fagen – Sunken Condos

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Donald Fagen – Sunken Condos – Reprise

Devo dire che quando ho cominciato a vedere i primi segni dell’imminente uscita di un nuovo album di Donald Fagen, mi sono detto che non era possibile, “solo” sei anni dopo l’uscita di Morph The Cat. Non va mica bene, ventiquattro anni per una trilogia, quella di The Nightfly, che abbiamo scoperto con certezza essere tale, solo quando è uscito il cofanetto retrospettivo, e adesso è già pronto questo Sunken Condos. Ma stiamo scherzando! E invece no, non era uno scherzo, il disco è qui, lo sto ascoltando, è pure bello, genere “Donald Fagen”, nel senso che quando schiacci il bottone Play e parte il primo brano Slinky Thing, lo stile è inconfondibile, al massimo poteva essere un nuovo disco degli Steely Dan, ma Fagen fa parte di quella categoria a parte che è un genere a sè stante. Ok, c’è jazz, c’è funk, c’è rock, soul e persino pop ma il risultato finale è Fageniano, per coniare un nuovo sinonimo, solo per l’occasione nella sua personalità più groovy.

Dopo un disco più rilassato e meditativo come Morph, il nostro amico questa volta ha voluto essere più funky, ma sempre a modo suo, con quella precisione e quella levità che potremmo anche definire classe: in quanti dischi trovi, in brani diversi, tre assoli di armonica e tre di vibrafono. E trovare un tipo come Michael Leonhart, che è anche più pignolo di lui nella produzione e negli arrangiamenti, non deve essere stata una cosa facile. Oltre a tutto questo signore deve avere delle origini italiane celate, perché va bene tenere famiglia, ma tre parenti nello stesso disco costituiscono “raccomandazione”: il babbo Jay, contrabbassista jazz, la moglie Jamie alle armonie vocali e pure la sorella Carolyn ai Vocal Ad-Libs, va bene il nepotismo, ma senza esagerare. Se poi lui pure si sdoppia, e sotto lo pseudonimo di Earl Cooke Jr. si occupa anche delle parti di batteria, siamo di fronte ad un piccolo genietto, tastiere, vibrafono, tromba, fisarmonica, flicorno, glockenspiel, percussioni e che caspita! E tutto suona alla perfezione fin nel minimo particolare.

A rendere più vivace e meno preciso e tassonomico il tutto ci pensa proprio Donald Fagen, che, rigenerato dai suoi tour con la Dukes Of September Rhythm Revue (con Michael McDonald e Boz Scaggs, altri praticanti dell’arte del blue-eyed soul) e prima ancora con la New York Rock And Soul Revue, dove c’era la meravigliosa Phoebe Snow, ha riscoperto una certa passione per il ritmo, il groove, anche il gusto per le cover, e nel disco ce n’è una, inconsueta e intrigante, di un brano di Isaac Hayes del periodo Polydor, la quasi disco di Out Of The Ghetto, con i consueti coretti tipici dei dischi di Fagen e qualche “stranezza”, come un assolo di violino in un brano così funky e qualche inflessione vocale (e musicale) alla Stevie Wonder, che ritorna anche in altri brani (ed è inteso come un complimento perchè nella prima metà degli anni ’70 pochi facevano dischi belli e consistenti come quelli di Wonder), come anche l’uso dell’armonica mi sembra mutuato da quei dischi, mentre il vibrafono o la marimba hanno un che di Zappiano (Ruth Underwood dove sei?). Se poi il caro Donald si autocita e fa una sorta di cover di sè stesso, per esempio in una canzone come Miss Marlene, che è una specie di I.G.Y parte seconda, fa parte sempre di quell’essere una categoria a parte, quelli che hanno un sound. Un disco di Van Morrison o di Richard Thompson lo riconosci subito e lo stesso vale per Fagen, non tradiscono mai i loro ammiratori!

Un altro dei protagonisti del disco è la chitarra di Jon Herington, spesso in evidenza con assoli mai banali e impegnato con un wah-wah insinuante in un brano come Good Stuff che se non arriva ai limiti inarrivabili degli Steely Dan di Aja prova ad avvicinarli con le sue atmosfere avvolgenti (ma in quel disco suonava gente come Wayne Shorter, Steve Gadd, Larry Carlton, Joe Sample e mille altri, che con tutto il rispetto per l’attuale fantastico gruppo di Fagen, erano un’altra cosa). Comunque Herington “costringe” un musicista come Larry Campbell a fare il chitarrista ritmico di supporto nel disco, ma nella conclusiva Planet d’Rhonda ,secondo me, la solista è quella dell’ottimo chitarrista jazz Kurt Rosenwikel, che dà un’aria più raffinata e meno funky al brano, anche se meno immediata, forse.

Senza stare a fare una disamina di tutti i nove brani, il disco mi pare bello, come dicevo in apertura, e ho voluto mettere in questo Post alcune delle impressioni che mi ha suscitato un ascolto attento, ripetuto e molto gratificante del disco, che ad ogni nuovo giro ti rivela particolari unici e sonorità veramente cesellate! E non ho citato neppure una volta Walter Becker (non ho resistito).

Bruno Conti

Sembrano Quasi I Little Feat! Rooster Rag, Il Nuovo Album

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Little Feat – Rooster Rag – Rounder/Universal

E anche un po’ la Band, in riferimento al titolo. D’altronde Little Feat e Band si possono considerare tra gli inventori di quello che un tempo veniva definito “rock americano” e poi negli anni, via via, roots rock, Americana o come diavolo volete chiamarlo, quello stile che riunisce un po’ tutto gli stili e il meglio della musica rock intesa nel senso più nobile. Se andate a leggere su Wikipedia quale sia il loro genere, trovate: southern rock, blues rock, roots rock, R&B, Funk Rock, jazz funk, jazz rock, boogie rock, jam rock, country rock, Americana. Praticamente cosa manca? Folk e klezmer, mi pare, gli altri generi sono rappresentati tutti e li suonano tutti alla grande. Sembrano “quasi” i Little Feat, perchè dal 1979 Lowell George ci ha lasciati e nel 2010 è scomparso anche il batterista Richie Hayward. Shaun Murphy, l’ottima vocalist che aveva fatto parte del gruppo dal 1993 al 2009 nella terza fase (in sostituzione di Craig Fuller) parzialmente invisa a una fetta dei fans del gruppo, se ne è andata anche lei, mentre Fred Tackett, confermatissimo nella formazione, assume un ruolo più evidente sia a livello compositivo che vocale (e lui ormai fa parte del gruppo dal 1987). Il nuovo batterista è il bravo Gabe Ford, un membro della nuova generazione della grande famiglia Ford (quella di Patrick, il babbo, anche lui batterista e dello zio Robben Ford).

Il risultato finale è questo Rooster Rag, uno dei migliori album in studio della band in assoluto, il loro sedicesimo. Join The Band del 2008 era stato un eccellente disco ma conteneva vecchio materiale, una serie di collaborazioni e duetti con grandi musicisti alle prese con molte rivisitazioni dal loro repertorio. Questo album, a parte due cover, poste in apertura e chiusura del CD, è forse il loro disco più bello dagli anni ’70, sorprendentemente mi viene da aggiungere, per la consistenza e la continuità qualitativa del materiale presente nel disco. Dischi brutti non ne hanno mai fatti, ma non sempre tutti i brani erano all’altezza della loro fama, questa volta invece tutto gira alla perfezione.

Dalla “ripresa” iniziale della celebre Candy Man Blues dal repertorio di Mississippi John Hurt, cantata da Paul Barrere, tutti gli elementi del loro sound classico sono subito al loro posto, le due chitarre che si intersecano sinuosamente, con la slide ora nelle mani esperte di Barrere, il piano e l’organo di Payne che si insinuano nelle pieghe della sezione ritmica, con il basso inamovibile di Kenny Gradney ad ancorare il suono con la batteria di Ford e le percussioni di Sam Clayton ad aggiungere quella patina New Orleans al tutto. Rooster Rag, il primo brano firmato dalla nuova coppia Bill Payne/Robert Hunter è un perfetto connubio tra le sonorità classiche dei Feat e quell’andatura da “rag” della Band, il violino aggiunto di Larry Campbell, il mandolino di Fred Tackett e le tastiere di Payne conferiscono un andatura “paesana” alla canzone che ha tutto il fascino delle cose migliori del gruppo. Church Falling Down è il primo brano scritto e cantato da Tackett, in questo album, una ballata meravigliosa ed esoterica, con le tastiere di Payne che, come dice lui nella presentazione dell’album, hanno qualcosa del “gris-gris” di Dr.John, mandolino, slide acustica e un bel solo del piano acustico di Payne nella parte centrale confermano questa vena ritrovata per il “suono particolare” inserito in un ensemble formidabile.

Salome, un altro brano dell’accoppiata Payne/Hunter (il paroliere dei Grateful Dead), sembra un brano uscito come per magia dai solchi dei vinili storici dei Little Feat degli anni ’70, il violino dì Campbell è ancora una volta valore aggiunto per la riuscita perfetta della canzone, bellissima anche la parte slide, inconfondibile. One Breath At A Time è uno dei loro classici “funkacci”, con slide, solista e organo e la sezione fiati dei Texicali Horns (Darrell Leonard & Joe Sublet) che impazzano sulle voci di Tackett, l’autore, Clayton e Barrere che si “scambiano” i versi del brano con il solito gusto inimitabile, mentre la sezione ritmica inventa musica senza tempo. Just A Fever è uno di quei pezzi R&R, che è altrettanto nel loro DNA, ritmi tirati, riff di chitarra a volontà per un brano scritto da Paul Barrere con il recentemente scomparso Stephen Bruton, altro grande chitarrista.

Rag Top Down, un altro dei brani firmati da Payne con Hunter ha nuovamente punti di aggancio con il suono della Band di Robertson e Helm, quel gumbo di sapori sonori che solo i più grandi gruppi della musica americana hanno saputo creare. Stessa coppia di autori per la successiva Way Down Under, che ci riporta nei territori sonori più riconoscibili dei Little Feat, con quegli interscambi fantastici tra chitarre e tastiere che sono stati sempre il loro marchio di fabbrica, quando i tempi accelerano anche il godimento aumenta. Jamaica Will Break Your Heart, nuovamente di Tackett, come detto molto più presente come autore e cantante in questo disco, ha quei ritmi caraibici indolenti nella parte iniziale, ma subito potenziati dalla sezione fiati nuovamente in pista e dal drive ritmico inarrrestabile del gruppo.

Tattooed, l’ultimo brano di Tackett, è una morbida ballata tra jazz e blue eyed soul, con tromba e chitarra a dividersi le parti soliste con il piano elettrico di Payne, ed è forse l’unico brano che non mi soddisfa a pieno, uno su dodici ci può stare, bello ma un po’ turgido, il lato più edonista della band che non sempre mi ha entusiasmato. Ma nel finale torniamo al suono più ruspante del gruppo, prima una The Blues Keep Comin’, firmata da Payne con il batterista Ford, che è una dichiarazione di intenti fin dal nome del brano, le radici del loro suono poi ribadite in una turbinosa Mellow Down Easy, un brano che Willie Dixon aveva scritto per Little Walter, e che il percussionista Sam Clayton canta alla grande con il suo vocione, con l’aggiunta dell’armonica di Kim Wilson a duettare con le chitarre di Barrere e Tackett e tutta la band che tira come un diretto. E tutto finisce come era cominciato, sia nel disco che nella storia del gruppo, “vera musica americana”!

Bruno Conti

Difficilmente Ne Sbaglia Uno! Dar Williams – In The Time Of Gods

dar williams in the time of gods.jpgmusica. bruno conti. discoclub, dar williams, richard shindell, lucy kaplansky, suzanne vega, kevin killen, shwan colvin, folk, larry campbell

 

 

 

 

 

 

 

Dar Williams – In The Time Of Gods – Razor & Tie/Floating World

Dorothy Snowden Williams, in arte Dar Williams, è una delle migliori (e più avvenenti) cantautrici americane, con una lunga carriera alle spalle, questo è il nono album in studio in una ventina di anni, più un paio di live, l’ottima doppia antologia del 2010 Many Great Companions (in parte le versioni classiche, in parte rivisitate con una serie di ospiti in versione acustica), senza dimenticare la collaborazione con Richard Shindell e Lucy Kaplansky in Cry Cry Cry.

E difficilmente ne ha sbagliato uno! Partita dal folk acustico ad inizio anni ’90, nella sua New York, patria del genere, si è man mano costruita un repertorio più raffinato e composito dove la sua bella voce, calda e suadente si libra su un tappeto sonoro molto variegato che potrebbe ricordare la Suzanne Vega del periodo migliore, quello dei primi album, dove la struttura acustica, si arricchiva di volta in volta del lavoro di produttori come Steve Addabbo e Lenny Kaye, Anton Sanko e Mitchell Froom.

Dar Williams si è affidata per questo In The Time Of Gods a Kevin Killen, che ha lavorato con altri cantautrici affini a lei come Paula Cole, Tori Amos o la più celtic folk Loreena McKennit, ma anche con U2, Costello, Peter Gabriel, Kate Bush, quindi un curriculum di tutto rispetto: anche in questo album la produzione di Killen regala quel suono classico da major alle procedure (anche se come quasi tutta la produzione della Williams è pubblicata dalla etichetta “indie” Razor and Tie, lei è una fedele!) e con la presenza di alcuni musicisti di gran pregio come Larry Campbell alle chitarre, Charlie Drayton che si disimpegna sia al basso che alla batteria, Rob Hyman degli Hooters a tastiere e chitarre, Gerry Leonard anche lui alle chitarre (e in precedenza con Suzanne Vega, casualmente!). Tutti musicisti che nella loro carriera sono stati anche produttori, ma nonostante tanti galli nel pollaio, la “gallinella” (mi è scappato, non ho resistito) Dar ha saputo imporre il suo songwriting arguto e acculturato a queste dieci canzoni che, come da titolo, prendono lo spunto dalla mitologia greca e romana. E di volta in volta Hermes (Mercurio) è un biker spericolato in You Will Ride With Me Tonight, Vesta è la dea della terra in Have Been Around The World, Artemide è la dea della caccia in Crystal Creek e così via.

Ma c’è spazio anche per le rigogliose armonie di I Am The One Who Will remember Everything alla pari con le migliori canzoni della tradizione cantautorale classica femminile o per il pop solare e radiofonico della deliziosa Summer Child, magari andassero in onda brani come questo sulle radio e allo stesso tempo se molti cantanti e autori non si dovessero “vergognare” di scrivere canzoni che hanno dei ritornelli orecchiabili, chissenefrega se poi alcuni tromboni diranno che è diventata commerciale. Bellissima anche The Light And Sea con le armonie vocali di Shawn Colvin che si intrecciano con il cantato evocativo della Williams. O il suono caldo ed avvolgente della dolcissima Crystal Creek sempre benedetto da sgargianti armonie vocali e la “classica” e pianistica I Will Free Myself quasi mitchelliana.

Ma sono tutte belle le dieci canzoni, poco più di 32 minuti di musica, e alla fine, magari senza scossoni o colpi di genio particolari, ma con una qualità costante, ti rendi conto di avere ascoltato un album che ti ha regalato una pausa di gioia e serenità dai crucci della vita. E non è poco.

Bruno Conti

Vecchie Glorie 7. Garland Jeffreys – The King Of In Between

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Garland Jeffreys – The King Of In Between – Luna Park Records

Ma vi sembrava possibile che fosse “scomparso” uno come Garland Jeffreys, anni 67 (le biografie danno come anno di nascita o il 1943 o il 1944, forse perché è nato il 1° gennaio del ’44?), luogo Brooklyn, New York, compagno di scuola di Lou Reed, amico personale di Springsteen, nei suoi dischi hanno suonato, tra gli altri, Stan Getz, Dr. John, Sonny Rollins, James Taylor, David Bromberg, Linton Kwesi Johnson, Sly & Robbie, Phoebe Snow e ora, nuovamente, anche il buon Lou)! Dicevo, vi sembra possibile che fosse scomparso? E infatti eccolo qua con un nuovo disco dopo quattordici anni di silenzio interrotti solo dalla raccolta I’m Alive pubblicata dalla Universal e qualche best e twofer rilasciato dalla australiana Raven.

E torna in pompa magna con un signor disco (a parte la eventuale reperibilità), uno dei suoi migliori in assoluto, nettamente superiore a quel Wildlife Dictionary del 1997 dove provava a cimentarsi anche con electrodance e trip hop, non con grandi risultati. E questo nonostante Jeffreys sia sempre stato un maestro delle fusioni di più musiche, nei suoi dischi più riusciti (e anche negli altri) hanno sempre convissuto rock, folk, soul e reggae (confesso di non essere un amante del reggae, per usare un eufemismo, ma Garland Jeffreys, con Joan Armatrading e Joe Jackson, è uno dei pochi da cui lo “reggo”). Don’t Call Me Buckwheat del 1991 era il disco dove meglio era riuscito a fondere “modernismo” e rock tradizionale, forse per merito di alcune ottime canzoni e dei testi a sfondo “razziale”, ma i suoi migliori, per il sottoscritto, rimangono quelli del periodo “rock”, l’ottimo Ghost Writer del 1977 e l’uno-due irresistibile di Escape Artist (dove apparivano anche Roy Bittan e Danny Federici) e il grandissimo disco dal vivo Rock’n’Roll Adult con Brinsley Schwarz dei Rumour alla chitarra.

Questo nuovo The King Of In Between (si sarebbe potuto chiamare Streets of New York se non l’avesse già fatto Willie Nile) lo riporta ai fasti del passato: prodotto da Larry Campbell, che ultimamente non sbaglia un colpo, da Tara Nevins agli Hot Tuna, passando per Levon Helm, con Roy Cicala che si occupa della parte tecnica (era l’ingegnere del suono ai Record Plant Studios ai tempi di Lennon e Springsteen), una manciata di ottime canzoni e lo spirito di un ragazzino (dimostra almeno dieci anni meno di quelli che ha), e una figlia di 14 anni (l’età non casualmente coincide con il suo ritiro dalle scene), Savannah, che vuole fare la musicista di professione e duetta proprio ai cori con Lou Reed in The Contortionist.

Coney Island Winter è una partenza fulminante, come ai tempi d’oro, un brano rock in crescendo, con basso funky, la batteria di Steve Jordan, le chitarre di Campbell e Duke Levine, e un tiro musicale che oltre che nel titolo ricorda anche nel suono il miglior Lou Reed e, perché no, anche il miglior Garland Jeffreys, uno dei migliori cantori della città di New York con lo scomparso Willy Deville. I’m Alive era uno dei due brani inediti nella raccolta del 2007, raffinatissimo negli arrangiamenti, tirato nei ritmi rock and soul e con un ritornello facilmente memorabilizzabile, praticamente una canzone perfetta. Streetwise è un funky-rock contaminato da una sezione archi da disco anni ’70 ma non può non piacere nella sua immediatezza e freschezza. La già citata The Contorsionist ha i ritmi cadenzati dei migliori pezzi di Garland con il vocione di Lou Reed che si presta per i coretti simil doo-wop del delizioso ritornello e la chitarra di Larry Campbell che ricama note. All around the world è il primo dei brani in stile reggae ma rivisto nell’ottica newyorkese di Jeffreys, con fiati e cori femminili a impreziosire la struttura sonora.

C’è spazio anche per il Blues con una fantastica ‘til John Lee Hooker Calls Me con la slide di Campbell, una fisarmonica insinuante e un ritmo boogie inesorabile. E di nuovo in Love Is A Not Cliché, quasi atmosferico alla Tom Waits se non fosse per le evidenti differenze tra il vocione di Waits e la voce più malleabile ed acuta di Jeffreys. Rock and Roll Music tiene fede al suo titolo, un brano che oscilla tra rockabilly e blues con grande energia. The Beautiful Truth è un altro brano anomalo, atmosferico, con un sound di chitarra che ricorda le “minisinfonie Stax” di Isaac Hayes mescolate a ritmi reggae e con il falsetto del nostro amico che galleggia sui ritmi spezzati. Roller Coaster Town è proprio reggae, con un filo di ska nei fiati sincopati però con New York sullo sfondo e Junior Marvin dei Wailers a unire passato e presente. In God’s Waiting Room è il pezzo acustico che non ti aspetteresti, solo la voce e una chitarra acustica slide, bellissimo peraltro con la voce che si arrampica improvvisamente verso dei falsetti incredibili.

La “traccia nascosta” sinceramente se la poteva risparmiare, si chiama Rock On, ma di rock non c’è nulla, su un tappeto di batterie elettroniche e synth a go-go cita a casaccio pezzi di vecchi brani e non mi entusiasma per nulla.

Per il resto nulla da eccepire, un signor album. Ora non vi resta altro da fare che trovarlo.

Bruno Conti