Recensioni Cofanetti Autunno-Inverno 7. Gli Inizi Di Uno Dei Gruppi Più Originali Degli Ultimi Anni. Fleet Foxes – First Collection 2006 – 2009

fleet foxe first collection 2006-2009

Fleet Foxes – First Collection 2006 – 2009 – Nonesuch/Warner 4CD – 4LP (1×12” + 3×10”)

I Fleet Foxes, band di Seattle capitanata dal vulcanico e geniale Robin Pecknold, sono indubbiamente tra i gruppi più originali e particolari degli ultimi quindici anni: la loro miscela di folk, rock, pop e sonorità californiane tipiche degli anni settanta, un suono elaborato ed accattivante nello stesso tempo, è quanto di più innovativo si possa trovare oggi in circolazione. Il loro secondo album, Helplessness Blues (2011), aveva ottenuto consensi ed ottime vendite ovunque https://discoclub.myblog.it/2011/05/03/una-attesa-conferma-fleet-foxes-helplessness-blues/ , ed il suo seguito uscito lo scorso anno, Crack-Up, pur essendo leggermente inferiore https://discoclub.myblog.it/2017/06/02/fortunatamente-non-si-sono-persi-per-strada-anteprima-fleet-foxes-crack-up/ , era comunque un lavoro più che buono. Ora, per quanti (sottoscritto incluso) hanno conosciuto la band solo con Helplessness Blues, Pecknold e compagni pubblicano questo box quadruplo (consiglio la versione in CD, che ha un prezzo contenuto) intitolato First Collection 2006 – 2009, che raccoglie i due rari EP d’esordio del gruppo, il loro primo album Fleet Foxes del 2008, ed un altro EP esclusivo intitolato B-Sides And Rarities.

fleet foxe first collection 2006-2009 vinile

Il cofanettino, almeno quello in CD, è piccolo e maneggevole, ma in ogni caso è molto curato e dotato di un bel libretto ricco di foto, informazioni e testi di tutte le canzoni, ed il suono è stato rimasterizzato alla grande: vediamo dunque il contenuto musicale disco per disco (il box presenta l’album come CD1 ed i due EP come CD2 e 3, ma io andrò in ordine cronologico, che è anche il modo in cui consiglio di ascoltare i vari dischetti). The Fleet Foxes EP (2006): mini album di sei pezzi venduto dalla band ai concerti, pare ne esistano solo 50 copie “fisiche”, mentre in download è più facile da reperire. Nonostante il gruppo fosse all’epoca già un quintetto, nel disco suona tutto Pecknold, tranne la batteria che è nelle mani di Garret Croxon; il suono è più rock e diretto che in seguito, ma qua e là ci sono già i germogli dello stile che verrà. She Got Dressed è una rock song potente ed elettrica, piuttosto rigorosa anche nella struttura melodica; anche meglio In The Hot Hot Rays, una deliziosa e solare canzone pop, dal ritmo sostenuto e con una chitarra decisamente “californiana”. Anyone Who’s Anyone è contraddistinta da una splendida chitarra twang e da una performance forte e vitale, con un uso delle voci molto creativo, mentre Textbook Love è ancora pop deluxe, con Robin che mostra già di avere una personalità debordante. Il mini album termina con la vigorosa ed elettrica So Long To The Headstrong, tra pop e rock e melodicamente complessa, e con Icicle Tusk, folk, cantautorale e più vicina ai Fleet Foxes di oggi.

Sun Giant (2008): secondo EP del gruppo, uscito appena due mesi prima del loro debut album (ma con il quale non ha pezzi in comune). Ed ecco i Fleet Foxes che conosciamo (a proposito, qua ci sono anche gli altri: Skyler Skjelset, chitarra, Casey Wescott, tastiere, Craig Curran, basso e Nicholas Peterson, batteria), con melodie quasi eteree, di stampo folk, ma con qualche elemento di psichedelia ed un vulcano di idee. La title track apre in modo suggestivo, con un canto corale a cappella, quasi ecclesiastico, seguito a ruota dall’intrigante Drops In The River, brano cadenzato, decisamente folk-rock nella struttura ed un motivo diretto, sempre giocato sull’uso particolare delle voci. Restiamo in territori folk con la saltellante English House, che ricorda un po’ lo stile dei Lumineers, ed anche con la splendida Mykonos, una canzone intensa, fluida e dalla melodia davvero suggestiva, con armonie vocali degne di CSN; chiusura con la lenta Innocent Son, solo per voce e chitarra. Fleet Foxes (2008): ed è la volta del primo album, che ha compiuto una decade esatta proprio quest’anno: inizio con la sognante e folkie Sun It Rises, ancora più vicina al suono odierno, un brano elettroacustico dal crescendo strumentale coinvolgente ed una melodia sospesa alla David Crosby; la corale White Winter Hymnal è davvero bellissima, ha un motivo circolare ed un sottofondo musicale di grande respiro, mentre Ragged Wood è sostenuta da un ritmo acceso e da uno sviluppo disteso e forte al tempo stesso, con decisi cambi di tempo e melodia tipici di Pecknold.

Sentite poi Tiger Mountain Peasant Song, folk ballad splendida, pura e cristallina, o la mossa Quiet Houses, sempre con un uso molto interessante delle voci e soluzioni melodiche mai banali, o ancora He Doesn’t Know Why, altra deliziosa canzone tra folk d’autore e pop adulto. Tra i pezzi rimanenti, non posso non segnalare lo strumentale (ma le voci non mancano) Heard Them Stirring, puro Laurel Canyon Sound, l’acustica ed intensissima Meadowlarks o la conclusiva Oliver James, in cui la voce di Robin è praticamente lo strumento solista. B- Sides And Rarities: EP di otto canzoni che contiene quattro brani usciti solo su singolo e quattro versioni inedite. False Knight On The Road è un folk etereo ancora caratterizzato da un motivo squisito e di facile assimilazione (canzone un po’ sprecata come lato B), mentre la rilettura del noto traditional Silver Dagger è semplicemente stupenda, solo voce e chitarra ma emozioni a profusione (e Pecknold canta in maniera sublime). La gentile White Lace Regretfully è più normale, ma Isles è ancora un delizioso bozzetto acustico di grande presa emotiva. Chiudono il dischetto tre interessanti demo inediti di brani presenti sul primo album e sul secondo EP (Ragged Wood, He Doesn’t Know Why, English House), che sembrano canzoni fatte e finite, ed un frammento strumentale di appena 52 secondi intitolato Hot Air.

Se vi piacciono i Fleet Foxes ma non conoscevate le loro origini (e poi sfido chiunque a possedere i primi due EP), questo cofanetto fa al caso vostro, anche perché una volta tanto non costa una cifra esagerata (in CD).

Marco Verdi

Un Altro “Figlio” Del Laurel Canyon? Israel Nash – Israel Nash’s Silver Season

israel nash silver season

Israel Nash – Israel Nash’s Silver Season – Loose/Thirty Tigers CD

Israel Nash Gripka (il cognome si è perso per strada negli ultimi anni) è uno che, sia fisicamente che musicalmente, potremmo definire un’anima in pena. Nativo del Missouri, si trasferisce nel 2006 a New York (Brooklyn per l’esattezza), dove pubblica tre anni dopo un primo album, New York Town, che non ha molta fortuna. Quindi si sposta sulle Catskill Mountains (sempre nello stato di New York), ufficialmente in cerca di ispirazione, e la mossa funziona, in quanto Israel partorisce quello che ancora oggi per molti è il suo disco-manifesto, Barn Doors & Concrete Floors, un riuscito album di Americana, che segnala il nostro come uno dei nomi su cui puntare per il futuro del movimento roots http://discoclub.myblog.it/2011/04/04/e-questo-perche-l-ho-saltato-israel-nash-gripka-barn-doors-a/ . Ma Gripka non è ancora contento: si sposta quindi in Texas, ed invece di proseguire il discorso introdotto con il suo secondo lavoro, magari corroborandolo con elementi riconducibili al Lone Star State, decide di fare (stavolta solo in maniera figurata) un salto nella California dei primi anni settanta, pubblicando (nel 2013) Rain Plans, nel quale Israel adotta sonorità tipiche di quel momento storico, quando cioè il Laurel Canyon era il luogo più cool d’America e If I Could Only Remember My Name di David Crosby era il disco di riferimento dell’epoca. Un cambio a 360 gradi che però ha suscitato più ammirazione che critiche, tanto che Israel si è sentito in dovere di proseguire il discorso, ampliandolo, con il suo nuovissimo album Silver Season.

Un rock cantautorale con più di un accenno psichedelico, sonorità spesso sospese a mezz’aria, brani lunghi ed articolati ed atmosfere talvolta al limite dell’onirico: molti critici lo hanno giustamente paragonato al Neil Young più intimista e “triste” (quello di dischi come On The Beach e Tonight’s The Night), anche per il timbro vocale molto simile a quello del canadese, ed anche a Jonathan Wilson, con il quale ha obiettivamente più di un punto in comune. Ad un primo ascolto di Silver Season io aggiungerei qualcosa dei Pink Floyd (un gruppo decisamente sdoganato negli ultimi anni, si vedano anche le riproposte dal vivo dei loro brani da parte dei Gov’t Mule) e, in generale, un altro nome che mi viene in mente spesso è quello di Chris Robinson, sia per le sonorità che per lo stile delle copertine dei CD. Accompagnano Gripka i suoi soliti compagni di ventura (Eric Swanson, Joey ed Aaron McClellan, Josh Fleishmann) ed il produttore è Ted Young, da sempre partner di studio di Israel e di recente anche con Kurt Vile.

L’album presenta nove canzoni di lunghezza medio-alta (dai quattro minuti e mezzo a quasi sette), con una musicalità molto simile tra un brano e l’altro, tanto che si potrebbe tranquillamente ascoltare senza pause, come se fosse un brano unico: nonostante questo Silver Season è ricco di spunti interessanti e non ci si annoia mai. Intrecci chitarristici, sonorità eteree, voci spesso lontane ed un uso massiccio del mellotron (strumento ormai da considerare vintage), con soluzioni melodiche sempre intriganti e mai banali. Willow apre il disco in maniera lenta, poi entra la ritmica, la chitarra arpeggia ed una steel langue sullo sfondo, Israel inizia a cantare con la sua voce fragile, che in questo brano appare più come uno strumento aggiunto: infatti il pezzo, lungo e fluido, funzionerebbe alla perfezione anche come strumentale. Parlour Song ha un’atmosfera sognante, la psichedelia inizia ad insinuarsi anche se, dopo poco più di un minuto, il brano cambia registro e diventa una ballata younghiana al 100%, con suoni elettrici e strumenti che sembrano sospesi in aria: il tutto ha un indubbio fascino, e la parte strumentale centrale floydiana aggiunge ancora maggior spessore https://www.youtube.com/watch?v=ZlIcUb2MH04 .

Anche The Fire And The Flood ha diverse frecce al suo arco: voce suadente, solita bella steel e suono più vicino ad un certo country “cosmico” che aveva in Gram Parsons la sua figura centrale; L.A. Lately ha invece un avvio inquietante, ma poi il brano diventa una ballata bucolica di grande limpidezza, ancora con la figura del Bisonte canadese ben presente, ed un suono che potrebbe essere l’anello mancante tra Harvest e On The Beach: splendido poi il crescendo finale corale e chitarristico. Lavendula entra subito nel vivo, una rock ballad giusto a metà tra i Floyd più bucolici (il suono) e Young (la voce); Strangers è più meditata ed interiore, anche se la band fornisce il solito tappeto sonoro ricco e creativo. A Coat Of Many Colors (nonostante il titolo, non è il classico di Dolly Parton) è l’apoteosi del sound di Gripka, come se Young avesse Gilmour e Waters al posto di Sampedro e Talbot nella band, si può dire psych-country https://www.youtube.com/watch?v=RzB9SB1pxdM ? L’album volge al termine, il tempo di gustarsi Mariner’s Ode, in assoluto il pezzo più movimentato e diretto del CD, anche se qualcosa di ovattato nel suono rimane, e The Rag & Bone Man, languida, sognante, quasi crepuscolare, degna conclusione di un disco impegnativo e fruibile nello stesso tempo.

Marco Verdi