Come Walter Trout E Wilko Johnson: Quando La Musica E’ Più Forte Della Malattia! Wade Hayes – Old Country Song

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Wade Hayes – Old Country Song – Conabor CD

Ogni nuovo album di Wade Hayes è in sé un piccolo evento, per la semplice ragione che oggi il countryman dell’Oklahoma avrebbe anche potuto non essere più tra noi. Titolare di un avvio di carriera scoppiettante, con quattro album di ottima fattura ed anche buon successo tra il 1995 ed il 2000, Hayes ha rallentato parecchio nel nuovo millennio, pubblicando soltanto altri due lavori, Place To Turn Around nel 2009 e, due anni fa, Go Live Your Life. In mezzo, nel 2011, la tragedia sfiorata: a Wade viene diagnosticato un cancro al colon in fase avanzata, ma, grazie ad un’operazione tempestiva ed a cure mirate, riesce miracolosamente a guarire e a tornare alla vita di tutti i giorni (ed il titolo scelto per l’album del 2015 è emblematico). Oggi Wade è quindi un uomo che ne ha passate di cotte e di crude, ha visto la morte in faccia e ne è uscito, ed il suo nuovo album, Old Country Song, è da considerarsi il lavoro di un uomo maturo e segnato dalla vita, anche se non c’è pessimismo nelle sue canzoni, anzi, al contrario, c’è la gioia di vivere ed assaporare le piccole gioie quotidiane.

Ma Hayes è anche un musicista serio, fa del vero country e, tra brani scritti da lui e da altri, sceglie sempre le canzoni giuste, ed Old Country Song, prodotto da Wade con il batterista Dave McAfee, è ispirato per sua stessa ammissione ai musicisti che lo hanno influenzato in misura maggiore, principalmente Willie Nelson, Waylon Jennings e Merle Haggard. Un album dal suono classico, tra ballate e pezzi più vivaci, con una backing band di ottimo livello (dove spiccano la steel di Steve Hinson, le chitarre di James Mitchell e Brent Mason e le armonie vocali della brava e bella Megan Mullins) e la voce calda ed espressiva del leader. L’inizio è più che buono con Can’t Get Close Enough To You, una suadente country ballad suonata in maniera classica, con chitarre, organo e steel bene in evidenza, un leggero sapore soul ed un cantato quasi confidenziale, alla Ray Price. Full Moon Summer Night, raffinata e con piano e chitarre a creare l’ossatura, è un brano da songwriter con arrangiamento country, un po’ sul genere del recentemente scomparso Glen Campbell; I Wish I Still Drank è invece un rockin’ country decisamente trascinante e quasi texano: ritmo, chitarre (la slide è suonata da Lee Roy Parnell, una nostra vecchia conoscenza) e feeling, mentre What You Need From Me è una ballatona di gran classe, con la Mullins che si alterna alla voce solista con Wade.

Needed The Rain vede Chris Stapleton tra gli autori, ed è un altro slow, anche se maggiormente sostenuto dal punto di vista strumentale, e Old Country Song prosegue con la serie dei brani lenti, un’intensa ballad dall’accompagnamento delizioso, anche se a questo punto del CD vorrei un po’ più di energia. Quasi come se mi avesse letto nel pensiero, Wade propone I Don’t Understand, veloce e guizzante, un country-rockabilly di ottima fattura e bel tiro, mentre Julia, un brano degli anni ottanta del grande Conway Twitty, è una limpida e solare country song di indubbia classe, tra le migliori del disco; She Knows Me, di nuovo mossa e ritmata, e Going Where The Lonely Go, languida e squisita cover di un pezzo poco noto di Merle Haggard (con una notevole performance chitarristica di Mason), chiudono positivamente il lavoro, anche se c’è spazio per una ghost track, un pezzo acustico di ispirazione gospel (il testo, non la musica) ed intitolato In Christ Alone. E’ora che Wade Hayes riassapori almeno un briciolo di popolarità, sarebbe il minimo dopo tutto quello che ha passato.

Marco Verdi

Lo “Springsteen” Del Texas E’ Tornato! Pat Green – Home

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Pat Green – Home – Green Horse/Thirty Tigers CD

A ben sei anni dall’ultimo disco composto da brani originali, What I’m For (Song We Wish We’d Written II del 2012, seguito del primo volume in coppia con Cory Morrow, era composto esclusivamente da covers), torna con un album nuovo di zecca Pat Green, ovvero uno dei country acts più popolari della scorsa decade, autore di diversi CD di successo, tra i quali Wave On Wave e Cannonball sono senz’altro i più noti. Ora Pat torna con questo Home che, a dispetto del buon successo ottenuto da What I’m For, non esce per una major ma bensì per una etichetta indipendente (affiliata con la benemerita Thirty Tigers): sei anni d’altronde è un periodo molto lungo tra un disco e l’altro, e si sa che le major oggi non hanno pazienza, vogliono tutto e subito; Pat però ha avuto necessità di fermarsi, di riflettere, ha messo a punto un disco solo quando aveva le canzoni giuste, ed il risultato gli ha dato ragione, dato che Home è entrato di botto nella Top 5 Country di Billboard. Green, anche nei momenti di maggiore popolarità, non si è mai venduto, ma ha sempre mantenuto il suo suono degli esordi, un country decisamente imparentato col rock, molto chitarristico e con arrangiamenti ad ampio respiro, che, combinato con testi che narrano la vita quotidiana di persone normali, gli hanno fatto guadagnare il soprannome di “Bruce Springsteen del Texas”.  

Fortunatamente, anche il nuovo album non si discosta dallo standard medio-alto al quale il nostro ci ha abituati: prodotto da un trio formato da Jon Randall Stewart (fino al 2005 collega di Pat e poi dedicatosi soltanto a produzione e songwriting), Justin Pollard (il batterista del disco) e Gary Paczosa (Dolly Parton, Alison Krauss), Home presenta una bella serie di canzoni di sano e corroborante country-rock texano come Pat è solito regalarci, scritte in collaborazione con alcuni dei più bei nomi del settore e non (il nostro beniamino Chris Stapleton, presente anche come vocalist di supporto, Andrew Dorff, Walt Wilkins e Dierks Bentley), oltre ad ospitare ben quattro duetti con colleghi di gran nome, che scopriremo man mano. La title track apre il disco con il piede giusto, un rockin’ country dalla melodia coinvolgente e ritmo sostenuto, nella migliore tradizione (texana) del nostro, voce forte e piena, chitarre spiegate e grande feeling https://www.youtube.com/watch?v=bQiJ3WXtX1k ; Break It Back Down è più country, il violino si sente maggiormente, ma la sezione ritmica picchia lo stesso come un martello, anche se Pat canta in maniera più tranquilla https://www.youtube.com/watch?v=rQBO5WTZpl8 .Girls From Texas, che è anche il primo singolo, ospita la prima collaborazione di prestigio del CD: vediamo infatti a duettare con Pat il grande Lyle Lovett, in una ballata languida e rilassata, che potrebbe benissimo uscire da un disco del texano col ciuffo; le due voci si integrano alla perfezione, anche se è chiaro che quando Lyle si prende il microfono la temperatura sale.

Bet Yo Mama è dura, roccata, quasi sudista, con il blues nelle note ed una grinta non comune, mentre Right Now (il brano scritto con Stapleton) vede la partecipazione di Sheryl Crow, ultimamente reinventatasi come country girl: il pezzo, una ballata semiacustica dal notevole pathos, è decisamente ben eseguito, e Sheryl è più che credibile nelle vesti di partner vocale https://www.youtube.com/watch?v=aokv_q7zfXw .While I Was Away è un altro slow cantato con grande anima, che ha una delle migliori melodie del CD, mentre May The Good Times Never End ospita il grande Delbert McClinton alla voce (e armonica) e Lee Roy Parnell alla slide, ed il brano è esattamente come uno si potrebbe aspettare,  un soul-rock sudista tutto ritmo e divertimento, con le ugole dei due headliners che si integrano alla perfezione e Parnell che li accompagna da par suo https://www.youtube.com/watch?v=vIRfAxJ6Bvs . La bella Life Good As It Can Be è ariosa, limpida, tersa, e sembra quasi un brano di stampo californiano (il ritmo e l’intro di chitarra acustica ricordano vagamente Learning To Fly di Tom Petty) https://www.youtube.com/watch?v=9Ien9KnZ2jg , No One Here But Us è intima e meditata, anche se l’arrangiamento è comunque full band, mentre I’ll Take This House è roccata e solida, con un drumming potente ed un refrain da applausi: puro Texas rock’n’roll. L’album si chiude con la ballad elettrica I Go Back To You, ennesimo brano dallo script maturo e dal suono potente, la tenue e deliziosa Day One e l’irresistibile Good Night In New Orleans, cantata in collaborazione con il Lousiana Kid Marc Broussard, che inizia come un lento bayou-soul per poi tramutarsi in un coinvolgente cajun-rock dal ritmo forsennato https://www.youtube.com/watch?v=hdriYjjw_ow .

Non solo Pat Green non ha perso lo smalto, ma con Home ci regala uno dei suoi dischi più riusciti.

Marco Verdi

“Falsi Sudisti”? Da Dayton, Ohio Dixie Peach – Blues With Friends

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Dixie Peach – Blues With Friends – Big Shew Records

Si chiamano Dixie Peach. ma vengono da Dayton, Ohio: allora sono dei falsi “sudisti” dirà qualcuno! Però, in effetti, ascoltando questo Blues With Friends, il sound risulta southern e bluesato al punto giusto, a dare l’imprinting di autenticità sudista nei friends militano Jack Pearson, slide e chitarra solista ad honorem degli Allman Brothers e Lee Roy Parnell, countryman e chitarrista di origine texana, ma residente a Nashville, come Pearson, da lunga pezza. Il leader a tutti gli effetti di questi Dixie Peach è Ira Stanley, chitarrista, slide man e cantante, un veterano dalla lunga militanza nel sottobosco della buona musica americana, si dice (perché non l’ho mai visto, ne sentito, ma mi fido) che il primo disco, eponimo, della band risalga addirittura al lontano 1974. Mentre ne hanno fatto sicuramente uno in CD, Butta, nel 2002, anche quello piuttosto underground come circolazione.

Il gruppo è un quintetto che nel corso delle decadi ha cambiato varie volte formazione, con Stanley come punto di riferimento, si è sciolto e riformato più volte e la sua fama risiede nelle ottime esibizioni dal vivo dove spesso incrociano il meglio del southern-rock e del blues rock. Leggendo la formazione, un quintetto con doppia tastiera, si potrebbe pensare a un suono d’impronta più jazzata, che so alla Sea Level, ma la presenza di 5 chitarristi che si alternano nei vari brani, oltre ai tre citati anche Lee Swisher e Scotty Bratcher, ci porta ad un blues elettrico con elementi soul e roots e abbondanti razioni di southern rock. Lui, il buon Ira, è in possesso di un vocione con una leggera raucedine che rimanda al primo Leon Russell, in un paio di brani si fa aiutare dalla brava Etta Britt, che aggiunge una patina gospel-soul a brani come Don’t Want To Wait o alla chitarristica Trouble With Love, scritta dal tastierista Tony Paulus, ma ricca di assolo dello stesso Stanley e dell’ospite Scotty Bratcher, fluidi e ricchi di inventiva, sulla scia di quelli di Allman e Marshall Tucker, con meno classe ma con il giusto feeling.

Le altre tracce, dieci in totale, le firma tutte Ira Stanley, zigzagando nei vari stili citati, con qualche detour nella ballata pianistica, come It’s Cryin Time che ricorda il Leon Russell di cui sopra anche nell’arrangiamento, oltre che nell’impronta vocale, con un bel assolo slide nella parte centrale e il nostro amico si cimenta spesso con profitto nelle stile. Ma è nello strumentale Bottle Hymn Of The Republic, dove Stanley, Pearson e Parnell, sono impegnati tutti e tre al bottleneck che si gode di brutto, un southern boogie allmaniano, tirato allo spasimo con i tre impegnati a jammare di gusto, fosse tutto di questo livello il disco grideremmo al piccolo gioiello nascosto, invece “accontentiamoci” di un onesto album di rock di buona qualità. Da gustare anche Pork Chop Blues, un ritmato esemplare con fiati dove i tre chitarristi si divertono a duettare su sonorità del profondo Sud, e i tre non scherzano. Wait a Minute e l’altro strumentale Rick’s Shuffle sono più orientati verso il Blues che dà il titolo all’album, sempre con grande presenza della slide. Ma in definitiva è tutto l’album che si fa apprezzare per questo virtuosismo mai troppo fine a sé stesso, quanto al divertimento dell’ascoltatore. Diciamo che il disco non è di facilissima reperibilità, ma se amate il genere, vale una piccola ricerca.

Bruno Conti