Il Testamento “Postumo” Di Leonard. Thanks For The Dance – Leonard Cohen

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Leonard Cohen – Thanks For The Dance – Columbia/Legacy– LP – CD

Sono passati poco più di tre anni dalla scomparsa di Leonard Cohen, e anche da un mio “post” sul Blog, dove ripercorrevo la sua straordinaria discografia (disco per disco). Questo Thanks For The Dance (in uscita in questi giorni), è il primo disco di inediti (postumo) del cantautore canadese, e questo lo si deve solo grazie al figlio Adam Cohen, che sette mesi dopo la morte  del padre (su sua esplicita richiesta), ha recuperato degli appunti sparsi, bozzetti, e tracce musicali, finalizzando tutto il lavoro che era rimasto incompiuto del precedente e ultimo You Want It Darker.

Per fare le cose al meglio il buon Adam si è attaccato al telefono, e ha giustamente invitato alcuni amici e colleghi a contribuire anche con il loro talento alla buona riuscita del disco, a partire dal grande musicista spagnolo Javier Mas (elemento di spicco negli ultimi anni di tournée con Leonard), ammiratori e collaboratori di lunga data come Jennifer Warnes, Sharon Robinson (entrambe coriste storiche di Cohen),  Leslie Feist, Damien Rice, Beck,, il compositore Dustin O’Halloran al piano, Richard Reed Parry degli Arcade Fire) al basso, Bryce Dessner il chitarrista dei National, il tutto con il supporto del coro berlinese Cantus Domus e della Congregation Shaar Hashomayim  (già impiegata nel disco precedente), oltre ad altri amici di lunga data Patrick Watson alle tastiere, che ha curato gli arrangiamenti dei fiati e di Daniel Lanois chitarra e piano. Ma nel disco sono stati impiegati complessivamente più di quaranta musicisti. Data la particolarità del lavoro, mi è sembrato giusto sviluppare i brani “track by track”:

Happens To The Heart – Il brano iniziale, dopo qualche secondo come in un “fil-rouge”, riparte da dove era terminato l’ultimo meraviglioso You Want It Darker, con le note iniziali della chitarra flamenco di Mas, il piano vellutato di Lanois, e il solito canto meditativo di Cohen, che mette i brividi alla schiena di ogni ascoltatore.

Moving On – Questa canzone è l’ennesimo omaggio all’amata Marianne Ihlen, una tenue ballata declamata da Leonard e sussurrata come una preghiera, sostenuta solamente dalle note della chitarra di Javier, e dal suono lieve di uno scacciapensieri.

The Night Of Santiago – Meritevole recupero di un poema di Garcia Lorca, che era gia apparsa in Book Of Longing di Philip Glass, e che nella versione suddetta era cantata in forma corale e operistica, in questa nuova rilettura di Adam viene rivoltata come un calzino ed eseguita in una versione “spagnoleggiante”, che si dipana tra accordi di pianoforte che flirtano con il virtuosismo dell’artista spagnolo, accompagnando la voce baritonale del “maestro”.

Thanks For The Dance – Anche questo brano era stato già interpretato da Anjani Thomas in Blue Alert (06), uno dei suoi memorabili valzer che richiama immancabilmente il famoso Take This Waltz, un bellissimo commiato in musica impreziosito ai cori dalle voci sensuali di Jennifer Warnes e Leslie Feist.

It’s Torn – Un giro di basso accompagnato dal pianoforte di Lanois introduce It’s Torn, uno dei brani più oscuri del lavoro, una ballata “dark” che si avvale nella parte finale, della voce sinuosa e vellutata di una delle sue tante brave coriste, Sharon Robinson.

The Goal – Sempre dal libro di poesie e poemi Book Of Longing, viene recuperata questa brevissima lirica in musica, recitata in forma di monologo dal grande Leonard.

Puppets – Questo è certamente il brano più politico del disco (viene ricordato lo sterminio degli Ebrei vittime del genocidio nazista, conosciuto storicamente come Shoah), dove la voce quasi minacciosa dell’autore, viene accompagnata dalla chitarra di Michael Chaves, e dal coro solenne dei berlinesi Cactus Domus, e monastico dei Shaar Hashomayim Choir.

The Hills – Indubbiamente questo è il pezzo più in formato canzone dell’album, una piccola gemma che si sviluppa in modo crescente, con un arrangiamento ricco e vario dove spiccano le voci angeliche delle sconosciute (ma brave) Erika Angell, Molly Sveeney, Lilah Larson

Listen To The Hummingbird – Il testo di questo brano altro non sono che i versi recitati da Cohen nell’ultima conferenza stampa ai tempi di You Want It Darker, con il piano delicato di Larry Goldings che detta la scarna melodia, valorizzata dalle voci di Damien Rice e del figlio Adam.

Giunto alla fine dell’ascolto del CD di Leonard e Adam Cohen,(sono solo poco più di 28 minuti, ma molto intensi) ho la netta sensazione che il figlio d’arte abbia fatto un lavoro splendido e altamente meritevole, tenendo fede alla promessa fatta al padre prima di morire, confermando anche che sarà l’unico album postumo che uscirà a suo nome, perché deve essere chiaro che la discografia ufficiale di Cohen finisce con questo ultimo viaggio, senza le eventuali contaminazioni discografiche varie. La carriera di Leonard Norman Cohen è stata un lungo percorso di epitaffi, poemi e poesie , cantati e arrangiati con scrupolo,  con una voce (la cosa più bella di questo Thanks For The Dance) incredibilmente bassa, baritonale, che sembra parlare al cuore e all’anima di ognuno di noi. Purtroppo, non ci sarà una prossima volta (vedremo se sarò vero), ma grazie per l’ultimo ballo Mr. Cohen.

*NDT: Se non conoscete Adam Cohen (nonostante il fardello di essere figlio di cotanto padre), ha una dignitosa carriera alle spalle, composta da quattro uscite discografiche, di cui almeno due Like A Man (11) e We Go Home (14), altamente consigliate. Cercate gente, cercate.!

Tino Montanari

Quietamente…Dal Canada. Doug Paisley – Constant Companion

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Doug Paisley – Constant Companion – No Quarter Records

Un disco così potrebbero farlo o Nick Drake o un cantante canadese. Per la serie “Elementare Watson!” non essendo più tra noi, purtroppo, Nick Drake (in questo caso il Drake “vero” per gli appassionati di musica) rimane l’opzione canadese. E in effetti Doug Paisley, di cui questo Constant Companion è il secondo album, viene da Toronto, Canada e ama circondarsi di altri compratrioti nei suoi dischi creando quel suono indefinibile ma inequivocabilmente tipico di chi è nativo dello stato più a nord del continente americano (l’Alaska non la contiamo). Quel suono che viene dalle grandi distese canadesi, molto quieto e tranquillo, dove sembra che succeda poco ma ogni volta che lo riascolti ti si aprono nuovo orizzonti, sonorità misurate con il bilancino e poi rilasciate nei solchi “ideali” di questo album (ne dovrebbe per l’appunto esistere pure una versione in vinile con download digitale incluso).

Perché l’accostamento a Nick Drake? Se altri hanno parlato di Neil Young e della Band (ci arriviamo subito) ma anche del primo James Taylor, di Cat Stevens, persino di Jim Croce e, tra i contemporanei, di Bonnie Prince Billy (con cui ha condiviso spesso il palco), il sottoscritto avrà il diritto di dire di avere “percepito”, in alcuni brani che poi vi citerò, e comunque nelle atmosfere sonore generali delle analogie con la musica del grande cantautore inglese.

Partiamo dai “legami” con la Band: il primo brano, stupendo, No One But You si apre su una chitarra acustica accarezzata, una sezione ritmica discreta ma molto variegata e soprattutto il suono magico di un organo che disegna sonorità direi inconfondibili, si tratta dello strumento di Garth Hudson della Band, uno dei maestri indiscussi delle tastiere in un ambito rock. Vi trovate immersi in una musica serena e senza tempo che rievoca quell’epoca dorata a cavallo tra la fine anni ’60 e inizio anni ’70 quando una serie di musicisti dopo la sbornia rock e psichedelica degli anni precedenti riscopriva un suono pastorale che risaliva alle “radici” della musica popolare americana e del folk o country (rock). Doug Paisley è un degno esponente di questo ciclico revival che risale a quelle “fonti”: si fa aiutare anche da alcune voci femminili, Jennifer Castle dei Fucked Up, Julie Faught dei Pining e un’altra di cui vi riferirò fra un attimo, anzi subito perché l’ascoltiamo nella evocativa What I Saw (uno dei brani che mi ha ricordato moltissimo Nick Drake ma anche il primo Cockburn, altro grande canadese), si tratta di Leslie Feist che vocalizza con grande compartecipazione in questo brano dove domina ancora il suono maestoso dell’organo di Hudson.

Per completare la fantastica tripletta iniziale, Don’t Make Me Wait ha ancora un incipit Drakiano fantastico, con il suono delle dita che scivolano sulle corde della chitarra, un piano (l’ottimo Robbie Grunwald) e di nuovo la voce di Feist che questa volta duetta alla pari con la sua controparte maschile per creare un brano minimale ma al contempo avvolgente e assolutamente soddisfacente per chi ascolta, fantastica canzone. Bluebird è un’altra meraviglia sonora, ancora quell’organo quasi mistico, la chitarra acustica discreta ma presente e la sezione ritmica precisa e inventiva formata dal batterista Rob Drake (ma allora è scritto nel destino!) e dal bassista Bazil Donovan (esatto proprio quello dei Blue Rodeo).

End Of The Day è un brano acustico, chiaramente di derivazione folk (non vi cito più chi sapete ma lì stiamo) molto raccolto e scarno mentre Always Say Goodbye ricorda nella musica, con la sua andatura marcata, il suono del Neil Young “acustico” più classico, sarà anche la presenza di una chitarra elettrica discreta ma efficace nei suoi interventi, mentre la voce assume tonalità più profonde e risonanti mentre una seconda voce inserisce periodicamente il suo controcanto, quando arriva l’armonica, brevemente, nel finale ti ritrovi tra i solchi di Harvest.

Heart è un’altra meraviglia sonora, con il basso rindondante di Donovan, la batteria avvolgente di Drake e il pianoforte evocativo di Grunwald che creano degli interi universi sonori dove la voce di Doug Paisley può sprigionare la sua piena potenza. Anche I stand alone con quel verso fantastico che recita “the sun goes down and the ground is waiting” è pura poesia, anche sonora, nuovamente nobilitata dalle tastiere di Hudson e Grunwald e dalle armonie vocali della consueta voce femminile (mai scontata nei suoi interventi). Il tema dell’attesa ricorre nei testi di Paisley anche quel “Everyone is waiting” che apre Come here and love me dispiegato su una meravigliosa base di piano e chitarra acustica è il viatico per un’ennesima stupenda canzone fedele al motto dell’album che si potrebbe definire Meno è meglio!

Nove canzoni, poco più di trentacinque minuti di musica ma sono brani che potete risentire e gustare più volte come si era soliti fare con i vecchi vinili dei tempi che furono che rimanevano tuoi compagni di ascolto per mesi e mesi e ad ogni ascolto svelavano “nuove verità” e delizie nascoste. Questo Constant Companion, dal titolo profetico, potrebbe affiancare i Drake, Stevens, Taylor e Young, citati all’inizio e, quietamente, insinuarsi nei vostri ascolti quotidiani.

Per i San Tommaso dell’ascolto ho inserito i soliti stuzzichini audio e video.

Bruno Conti