Lo Springsteen Della Domenica: Un Gran Concerto Per Tre Quarti, Con Un Finale “Normale”. Bruce Springsteen & The E Street Band – Madison Square Garden, New York, 6/27/2000

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Bruce Springsteen & The E Street Band – Madison Square Garden, New York, 6/27/2000 – live.brucespringsteen.net/nugs.net 3CD – Download

Partiamo dal presupposto che l’aggettivo “normale” associato ad un concerto di Bruce Springsteen & The E Street Band sottintende comunque un livello inarrivabile per circa il 90% dei gruppi rock al mondo, ma in ogni caso non sarebbe corretto spacciare per leggendario ogni singolo show tenuto dal rocker del New Jersey e dal “suo” gruppo, anche se penso che nessuno dei suoi fans se ne sia mai tornato a casa insoddisfatto. Il famoso Reunion Tour tenuto dal Boss nel biennio 1999-2000, che lo vedeva ricongiungersi con i suoi “blood brothers” dopo undici anni, terminò nell’estate del duemila con ben dieci serate consecutive al Madison Square Garden di New York, delle quali quella finale del primo luglio è già stata pubblicata tra le uscite mensili degli archivi live del nostro (ed in parte anche nel doppio CD del 2001 Live In New York City).

Oggi mi occupo del penultimo episodio della serie, Madison Square Garden, New York, 6/27/2000, che invece documenta l’ottava serata, a detta di molti la migliore dopo appunto quella conclusiva, e con nove canzoni diverse in scaletta. Ebbene, come ho accennato nel titolo del post per tre quarti lo show è una bomba, con il Boss ed i suoi compari in perfetta simbiosi ed in totale sintonia col pubblico: nei bis però, quando cioè di solito Bruce spende le ultime briciole di energia rimaste in corpo, sembra che i nostri inseriscano all’improvviso il pilota automatico, complice forse una parte finale di setlist che riserva poche sorprese. E comunque il giudizio complessivo rimane ampiamente positivo, grazie soprattutto a più di un momento esaltante nella parte di spettacolo prima dei bis. L’avvio è formidabile, con la rara Code Of Silence, una grande rock song suonata molto di rado, seguita dalla sempre irresistibile The Ties That Bind e da una potentissima Adam Raised A Cain, con Bruce che inizia a farci sentire la voce della sua sei corde. Un’energica Two Hearts, tradizionalmente un duetto con Little Steven, precede l’amatissima Trapped di Jimmy Cliff, vero e proprio “crowd-pleaser” con ritornello da cantare a squarciagola, ed una struggente Factory, dotata di un inedito arrangiamento country.

Dopo l’allora nuova American Skin (41 Shots), ispirata ad un tragico caso di abuso di potere da parte della polizia verso un uomo disarmato (ma musicalmente non eccelsa), lo show prosegue con ottime riletture di classici alternati a pezzi più recenti: vediamo quindi susseguirsi versioni super-coinvolgenti di The Promised Land, Badlands e Out In The Street, una Youngstown molto più rock e tagliente che in origine ed una scatenata Murder Incorporated. Tenth Avenue Freeze-Out, con i suoi 18 minuti di durata e varie improvvisazioni al suo interno (It’s Alright di Curtis Mayfield, Take Me To The River di Al Green, Red Headed Woman di Bruce e Rumble Doll cantata da Patti Scialfa), è forse il momento centrale della serata https://www.youtube.com/watch?v=r1twvwbB_cU , ma poi abbiamo un trittico di rarità (la splendida e trascinante Loose Ends, la bellissima soulful ballad Back In Your Arms e l’antica Mary Queen Of Arkansas) e la strepitosa Backsteets, a mio giudizio la migliore ballata della “golden age” del Boss insieme a Jungleland e The River.

Da qui in poi come dicevo il concerto da eccellente diventa “solo” buono: Light Of Day l’ho sempre vista come un pretesto per mostrare i muscoli (tra l’altro per quasi un quarto d’ora) ma non una gran canzone, Hungry Heart e Born To Run sono fra i pochi pezzi che Springsteen esegue sempre allo stesso modo, mentre sia la vecchia e solare Blinded By The Light che l’inimitabile Thunder Road fanno salire nuovamente la temperatura. Finale con If I Should Fall Behind, che in quel tour serviva come showcase per i vari membri “cantanti” della band che avevano una strofa a testa (quindi Bruce, Patti, Little Steven, Nils Lofgren e Clarence Clemons) e con l’allora inedita Land Of Hope And Dreams, un brano che non mi ha mai fatto impazzire ed anche discretamente tirato per le lunghe. Per la prossima uscita ci sposteremo sulla costa ovest e ci imbarcheremo sul “Tunnel Of Love Express”.

Marco Verdi

Miami Steve Al Cavern Di Liverpool Omaggia I Beatles… E Se La Gode Un Bel Po’! Little Steven And The Disciples Of Soul – Macca To Mecca!

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Little Steven And The Disciples Of Soul – Macca To Mecca! – CD + DVD Wicked Cool Records

Inutile sprecare tempo e parole per introdurvi Stevie Van Zandt, o Miami Steve, come tanti fans della E Street Band l’hanno sempre chiamato, o Little Steven come si fa accreditare sulle copertine dei suoi album. Tutti conosciamo l’importanza di questo amico e collaboratore del Boss sin dai lontani esordi e ne apprezziamo le doti di chitarrista, compositore, arrangiatore e produttore. La sua carriera solistica sembrava giunta a un punto morto dopo i primi due meritevoli episodi Men Without Women e Voice Of America dei primi anni ottanta (ristampati di recente con tanto di bonus DVD) https://www.youtube.com/watch?v=WAP-2yRvGD8  e i successivi assai meno convincenti Freedom No Compromise e Revolution. Un solo discreto ritorno nel ’99 con l’ingiustamente sottovalutato Born Again Savage e poi più nulla, se non gli esaltanti tour insieme a Bruce Springsteen e ai compagni della ricostituita E Street Band e il considerevole successo raggiunto come attore televisivo nel cast di importanti serial come I Sopranos e Lilyhammer. A sorpresa, nel 2017 arriva il disco della rinascita, un brillante compendio di rock, soul e rhythm ‘n’ blues intitolato Soulfire, seguito due anni dopo dall’altrettanto spumeggiante Summer Of Sorcery. Nel frattempo, mentre Bruce riempiva le sue serate di esibizioni solitarie a Broadway, il nostro Stevie ha rimesso in piedi una band coi fiocchi formata da quattordici elementi, i Disciples Of Soul, e ha girato in lungo ed in largo gli States e l’Europa portando il suo entusiasmante show anche dalle nostre parti, a Roma e Cortona, fino all’indimenticabile serata del 13 giugno 2019 all’Alcatraz di Milano.

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Prova tangibile dell’assoluto valore di queste sue esibizioni è il doppio CD (o triplo nella sua versione estesa) Soulfire Live!, probabilmente la miglior pubblicazione dell’intera sua discografia. A questa già monumentale prova di energia e talento, Stevie ha deciso di aggiungere un ulteriore dischetto che documenta la sua esibizione nel mitico Cavern di Liverpool, tenutasi all’ora di pranzo del 14 novembre 2017, un vero e proprio tributo ai Fab Four e ai loro esordi, realizzato con la devozione di un fan e l’entusiasmo di chi è consapevole di aver realizzato un sogno. Macca To Mecca prevede oltre agli otto brani eseguiti al Cavern anche un gustoso duetto con Paul McCartney registrato dieci giorni prima a Londra e un’ulteriore cover beatlesiana presa dalla data di Leeds dell’8 novembre https://www.youtube.com/watch?v=cBTL4IwOTaU . Il tutto è estremamente godibile, non solo in audio ma anche in video, grazie a un DVD di ottima qualità che ci rivela i notevoli sforzi logistici compiuti per far esibire una band di quindici elementi sul piccolo stage del Club di Liverpool.

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Ma lo sfizioso antipasto, come vi dicevo, si svolge sul palco della Roundhouse di Londra quando sir Paul raggiunge il visibilmente emozionato Miami Steve per lanciarsi in una ruspante versione di I Saw Her Standing There con tanto di solo all’elettrica. La band gira a mille, mentre il leader si gode la sua special guest supportandolo ai cori. Al Cavern invece i Disciples sono divisi in due settori, causa spazio claustrofobico della sala chiamata non a caso Tunnel: Little Steven, il chitarrista Marc Ribler e il bassista Jack Daley si spartiscono la prima linea e dietro di loro si accomodano, si fa per dire, i due tastieristi Andy Burton e Lowell Levinger, oltre al batterista Rich Mercurio e al percussionista Anthony Almonte. Nel corridoio laterale si devono giocoforza piazzare le tre notevoli coriste e il quintetto dei fiati guidato dal sassofonista Eddie Manion.

little steven macca to macca cd+dvd 1Proprio a loro è affidato il compito di introdurre un classico come Magical Mystery Tour, esecuzione da manuale e adeguata apertura di un omaggio che va a scavare nelle origini della band più famosa al mondo, quando la sua dimensione era ancora quella dei piccoli locali come il Cavern e il repertorio era infarcito di cover di artisti americani di soul e r&b. https://www.youtube.com/watch?v=jQLA-4ip7KI&list=OLAK5uy_kgydfMf_n6t2-kVyhqW9oF6SJ_-MslLNI  Questo spiega la scelta di una sequenza che parte con Boys, b-side delle Shirelles e prima incisione come lead vocalist di Ringo Starr sull’album d’esordio Please Please Me, poi Slow Down di Larry Williams, uno dei cinque artisti coverizzato sia dai Beatles sia dai Rolling Stones, Some Other Guy e Soldier Of Love, la prima dalla penna di Richard Barrett coadiuvato dalla premiata ditta Leiber & Stoller, la seconda dal repertorio di Arthur Alexander, entrambe presenti solo su Live At The BBC.

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Le versioni che di questi brani poco noti ci propongono Steven e i suoi compagni suonano fresche ed attuali, suscitando l’entusiasmo dello sparuto pubblico del Cavern. C’è ancora qualche piacevole sorpresa da menzionare come l’ottimo recupero da Sgt. Pepper di Good Morning Good Morning, con i suoi continui cambi di ritmo, e la perfetta resa in stile Motown di Got To Get You Into My Life, con una superlativa performance della sezione fiati, autentico valore aggiunto al suono dei Disciples. Per chiudere, Miami Steve sceglie l’inno ecumenico beatlesiano per eccellenza, All You Need Is Love, perfetto suggello di una performance impeccabile. Sul CD e DVD c’è ancora spazio per una sanguigna Birthday, registrata alla 02 Academy di Leeds con dedica alla moglie Maureen nel giorno del suo compleanno. Durante i saluti finali, il ghigno felice di Little Steven è l’immagine perfetta per quest’ulteriore riprova della sua rinascita artistica.

Marco Frosi

Una Edizione Riveduta E Corretta Del Suo Primo Album! Joe Bonamassa – A New Day Now 20th Anniversary Edition

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Joe Bonamassa – A New Day Now 20th Anniversary Edition – JR Adventures/Mascot Provogue

Nuovo ma vecchio, o se preferite vecchio ma nuovo: di solito invertendo i fattori il risultato non cambia, in questo caso non saprei. Come è noto Joe Bonamassa appartiene alla categoria “una ne pensa e cento ne fa”. In questi mesi di pandemia se ne è stato stranamente tranquillo nel suo quartier generale di Nerdville e da lì ha imperversato con video, interviste a colleghi e altri modi per passare il tempo; ovviamente non è stato con le mani in mano, ha pubblicato il primo album della sua band collaterale Sleep Eazys, lo strumentale Easy To Buy https://discoclub.myblog.it/2020/04/20/e-sempre-il-buon-vecchio-joe-bonamassa-ma-diverso-e-in-incognito-sleep-eazys-easy-to-buy-hard-to-sell/ , e ha prodotto l’eccellente album collettivo di Dion Blues With Friends https://discoclub.myblog.it/2020/06/17/un-altro-giovanotto-pubblica-uno-dei-suoi-migliori-album-di-sempre-dion-blues-with-friends/ . Già che c’era ha iniziato anche a registrare agli Abbey Road Studios Royal Tea il suo nuovo album di studio, che dovrebbe essere pronto, uscita il 23 ottobre, sto già preprando la recensione; ma nel 2020 ricorre anche il 20° Anniversario dalla pubblicazione dei suo primo album solista A New Day Yesterday, quello che ha trasformato un giovane e promettente chitarrista che divideva il palco con B.B. King a 12 anni, e nel 1994 a 17 anni pubblicava il suo primo non memorabile disco con i Bloodline, nella “Next Big Thing” della chitarra, tanto che a produrre quel disco venne chiamato Tom Dowd (Cream, Eric Clapton, Derek & The Dominos, Allman Brothers, Aretha Franklin possono bastare?).

Il risultato non fu per nulla disprezzabile, anzi, ma oggi Bonamassa, nel suo continuo desiderio di migliorarsi, ha deciso di riprendere in mano quei nastri, affidarli al suo attuale produttore Kevin Shirley e come dice il lancio del nuovo CD, presentare un prodotto “ri-cantato, rimixato, rimasterizzato e con l’aggiunta di tre bonus”. A voler essere pignoli, il disco uscito in origine per la Okeh Records nel 2000, era già stato “ri-pubblicato” nel 2005 e nel 2010, ma questa volta, come appena accennato, Bonamassa ha voluto rifare ex novo tutte le parti vocali, con la sua maturata voce di 43enne cantante di grande esperienza: ovviamente il “bravo recensore”, come direbbe Frassica, cioè il sottoscritto, si è andato a risentire anche il disco vecchio, e devo dire che in effetti Joe già allora non cantava poi così male, il suono del disco curato da un maestro come Dowd era brillante, e il repertorio, con 6 cover e 6 brani originali era ben bilanciato, quindi a voi l’ardua sentenza se ricomprarvelo. Il disco, se già non lo avete, comunque merita, nella nuova versione ancora di più: oltre alla sezione ritmica dell’epoca Creamo Liss al basso e Tony Cintron alla batteria, prevedeva anche la partecipazione di alcuni ospiti di pregio.

Il trittico iniziale di cover, Cradle Rock di Rory Gallagher, a tutto riff e con un assatanato Joe alla slide, Walk In My Shadow dei Free e A New Day Yesterday dei Jethro Tull, è veramente strepitoso, e la voce di oggi di Bonamassa gli rende ulteriore giustizia, quindi forse, a voler ben guardare non è una operazione del tutto peregrina; si diceva degli ospiti, Rick Derringer, seconda voce e chitarra aggiunta in una versione potente di Nuthin’ I Wouldn’t Do (For a Woman Like You) di Al Kooper, che ricorda moltissimo il sound dei Johnny Winter And dei quali Derringer era elemento decisivo, con sventagliate di chitarra wah-wah a piè sospinto. Come ha detto lo stesso Joe in una recente conversazione sul suo sito con Walter Trout, riferendosi alle critiche di alcuni loro detrattori puristi, “Too Many Notes Played Way Too Loud”, se lo sono pure stampati sul retro di una t-shirt e via senza problemi, sentire una vigorosa Colour And Shape e non godere come ricci è un vero delitto.

Nella cover di un brano di Warren Haynes If Heartaches Were Nickels, uno slow blues libidinoso, Bonamassa unisce le forze con Leslie West e Gregg Allman, per sei minuti di pura magia sonora, anche se nella nuova versione sono spariti i contributi vocali degli ospiti ed un paio di minuti del brano, e questo non va bene. L’ultima cover è Burn That Bridge, dal repertorio di Albert King, un altro rock blues tiratissimo con pedale wah-wah inserito a manetta , con il babbo di Bonamassa Len, alla chitarra aggiunta. Gli altri brani originali firmati da Joe, con molti richiami a Clapton e Stevie Ray Vaughan, illustrano il lato più duro e tirato del nostro amico. Diciamo più che buoni ma non eccelsi. Eliminata l’altra bonus, la versione lunga di Miss You, Hate You, presente nella versione “radio”, sono stati aggiunti tre brani con Stevie Van Zandt (Little Steven), uno dei primi a credere nel talento del nostro amico, demos registrati nel 1997 quando Bonamassa non aveva ancora un contratto discografico, Hey Mona, I Want You e Line On Denial sono tre brani di classico rock americano, il secondo, una cover irriconoscobile e durissima di I Want You di Dylan, il terzo con vaghi riff e rimandi zeppeliniani e un sound piuttosto robusto e corposo, ma forse niente per cui strapparsi le vesti. Come avrebbe detto Gene Wilder “Si-può-fare”!

Bruno Conti

Lo Springsteen Della Domenica: Una Delle Migliori Serate Del “Reunion Tour”. Bruce Springsteen & The E Street Band – Philadelphia 1999

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Bruce Springsteen & The E Street Band – First Union Center, Philadelphia September 25, 1999 – live.brucespringsteen.net/nugs.net 3CD – Download

Dopo essersi meritatamente conquistato la reputazione di formidabile performer dal vivo, Bruce Springsteen aveva deciso alla fine del tour del 1988 di sciogliere l’amata E Street Band, prendendosi una lunga pausa e gettando i fans nello sconforto. Era tornato nel 1992 con i due discussi album Human Touch e Lucky Town, e soprattutto per supportarli aveva deciso di usare un gruppo eterogeneo di musicisti che nulla aveva a che fare con il suo passato (a parte Roy Bittan), con il risultato di offrire prestazioni ben lontane da quelle leggendarie insieme ai suoi vecchi compagni. Il Greatest Hits uscito a inizio 1995, con gli E Streeters riuniti per i quattro brani nuovi, aveva ridato qualche speranza ai fans, ma il suo album successivo pubblicato alla fine dello stesso anno, The Ghost Of Tom Joad, vedeva di nuovo musicisti estranei al suo gruppo storico, e addirittura il Boss decise di promoverlo con una tournée acustica in completa solitudine.

Ci si cominciava dunque a chiedere se Bruce avesse ancora voglia (o fosse ancora in grado) di imbarcarsi in lunghi tour da rocker come una volta e con il gruppo “giusto”, e la risposta a queste domande arrivò nel 1999 quando finalmente il Boss riunì i suoi ex compagni (mettendo insieme per la prima volta sia Little Steven che il suo sostituto negli anni ottanta Nils Lofgren) per intraprendere una tournée di due anni che iniziò in Europa per proseguire tra fine anno e tutto il 2000 negli Stati Uniti, durante la quale il nostro dimostrò che i dubbi sulla sua capacità di entusiasmare ancora le folle erano assolutamente malriposti. Il live di cui mi occupo oggi, registrato il 25 settembre del 1999 a Philadelphia (l’ultimo di sei consecutivi al First Union Center), è considerato a ragione uno dei concerti migliori del periodo, con Springsteen in forma strepitosa sia dal punto di vista vocale che da quello della resa sul palco, e con la band in tiro come non si sentiva dal tour di Born In The U.S.A. Che la serata è di quelle giuste lo si capisce fin dal brano d’apertura, una formidabile, potente ed ispirata versione di Incident On The 57th Street, una canzone “antica” che Bruce non suonava dal vivo addirittura dal 1980 (ed anche all’epoca fu eseguita una sola volta in tutto il The River Tour), un pezzo che manda subito i fans in visibilio.

Non avendo un disco nuovo da promuovere i nostri spaziano poi tra i classici del songbook springsteeniano, con riletture da manuale di brani del calibro di The Ties That Bind (grande versione di una delle canzoni più coinvolgenti del Boss), Prove It All Night, Two Hearts, Atlantic City rigorosamente elettrica (da non perdere il boato del pubblico, vista la location, nel sentire i primi versi “They blew up the chicken man in Philly last night”), Badlands, Out In The Street, una Tenth Avenue Freeze-Out di ben 19 minuti nella quale Bruce assume il ruolo di predicatore rock, una Sherry Darling più gioiosa che mai; particolarmente belle e toccanti due rese della splendida Factory in versione molto più country che su disco (e se non vi commuovete all’ascolto, per dirla con Gigi Buffon, avete un bidone dell’immondizia al posto del cuore https://www.youtube.com/watch?v=GKiQ8QkF1dQ ) e della drammatica Point Blank. Sono presenti anche pezzi all’epoca recenti come l’elettrica e coinvolgente Murder Incorporated, una Youngstown trasformata in un selvaggio rock-blues e, visto il luogo del concerto, una bella resa della struggente Streets Of Philadelphia, che nei tour seguenti verrà ripresa pochissime volte; la prima parte della serata si conclude come era iniziata, e cioè con una monumentale rivisitazione di un pezzo appartenente agli esordi del Boss, nella fattispecie l’epica New York City Serenade.

Dopo la potentissima Light Of Day (che non ho mai amato più di tanto) e la sempre splendida Jungleland, lo show, finora da cinque stelle, cala un po’ nei bis. Intendiamoci, il gruppo è in serata di grazia e renderebbe imperdibile anche un brano di Tiziano Ferro, ma è la scelta delle canzoni che forse lascia in bocca un sapore un po’ di incompletezza: se Born To Run e Thunder Road è normale che ci siano, e la versione corale di If I Should Fall Behind è tipica di questo tour, forse il finale con l’allora nuova Land Of Hope And Dreams (non una grande canzone, ed anche troppo lunga) ed una seppur pimpante Raise Your Hand di Eddie Floyd https://www.youtube.com/watch?v=ZhIcXjmMLnU  (che da lì ad una decina d’anni verrà “retrocessa” a base strumentale quando Bruce a metà concerto scenderà tra il pubblico a raccogliere i cartelli con le richieste) manca dell’esplosività tipica di altri spettacoli del nostro, quando sarebbe bastato un bel Detroit Medley per portare anche il terzo CD al livello dei primi due.

Ma sono (forse) quisquilie da fan: lo show è per almeno due terzi imperdibile, ed è una più che adeguata aggiunta ad una serie di pubblicazioni che spero vada avanti ancora a lungo.

Marco Verdi

Un Altro “Giovanotto” Pubblica Uno Dei Suoi Migliori Album Di Sempre! Dion – Blues With Friends

dion blues with friends

Dion – Blues With Friends – Keeping The Blues Alive CD

Dion DiMucci, conosciuto semplicemente come Dion, fra un mese compierà 81 anni, di cui più di sessanta di carriera musicale: a dirlo uno non ci crede, in quanto il cantante originario del Bronx non dimostra assolutamente le sue primavere e soprattutto non le dimostra la sua voce, che è ancora incredibilmente limpida e giovanile. Dagli esordi negli anni cinquanta a capo dei Belmonts in poi, Dion ha sempre proposto un’ottima miscela di rock’n’roll, doo-wop, pop (il suo famoso album del 1975 Born To Be With You è stata una delle ultime produzioni di Phil Spector) e gospel, fino al ritorno al rock nel 1989 con lo splendido Yo Frankie. Nel nuovo millennio il nostro si è decisamente avvicinato al blues, con una trilogia di album di buona fattura pubblicati tra il 2006 ed il 2011 “interrotti” nel 2016 dal più variegato New York Is My Home https://discoclub.myblog.it/2016/02/18/vecchie-glorie-alla-riscossa-dion-new-york-is-my-homejack-scott-way-to-survive/ . Quest’anno Dion ha deciso di tornare di nuovo al blues, ma questa volta ha alzato il tiro a livelli inimmaginabili, confezionando un disco davvero magnifico, con una serie di ospiti da capogiro ed una produzione nettamente migliore rispetto agli ultimi lavori.

Blues With Friends è quindi una sorta di capolavoro della terza età per Dion, un album strepitoso in cui il nostro si cimenta ancora con la musica del diavolo (ma non solo, c’è anche qualche brano non blues) e lo fa con un parterre de roi incredibile, una serie di musicisti che non appaiono tutti i giorni su un disco solo, e che vedremo tra poco canzone dopo canzone. Ma il protagonista del disco è senza dubbio Dion, con la sua voce ancora splendida e la sua attitudine da bluesman sempre più sicura: se devo essere sincero, quando nel 2006 era uscito Bronx In Blue avevo storto un po’ il naso dato che non ritenevo Dion adatto al blues (ma il disco si era rivelato ben fatto), però negli anni il rocker newyorkese mi ha smentito acquistando sempre più credibilità come bluesman. E non è tutto: in Blues With Friends non ci sono cover di classici del blues, ma tutti i brani sono usciti dalla penna del nostro, alcuni nuovi, altri rifatti, altri ancora tirati fuori da un cassetto (e per il 98% scritti insieme a tale Mike Aquilina). Pare che lo stimolo iniziale per il progetto lo abbia dato Joe Bonamassa (ed infatti il CD esce per la Keeping The Blues Alive Records, etichetta di sua proprietà), ma gli altri grandi della chitarra non hanno tardato a rispondere presente, a parte qualche inevitabile assenza (dov’è Clapton?): e attenzione, questo non è un disco di duetti vocali (ce ne sono solo due su 14 brani totali), ma un album di chitarre al 100%.

La house band, se così si può dire, è formata dallo stesso Dion alla chitarra ritmica e da Wayne Hood (che produce anche il lavoro con Mr. DiMucci, una produzione solida ed asciutta) alla seconda chitarra, basso, tastiere e batteria; dulcis in fundo, Dion stesso accompagna nel libretto ogni canzone con interessanti aneddoti, e la prefazione è stata scritta nientemeno che da Bob Dylan, che ha gratificato il nostro con parole molto sentite e toccanti. L’iniziale Blues Comin’ On vede proprio Bonamassa protagonista, un boogie poderoso dal suono limpido e forte e dominato dalla voce scintillante del leader, con “JoBo” che arrota da par suo piazzando un paio di assoli torcibudella: miglior avvio non poteva esserci. Kickin’ Child era già stata incisa da Dion nei sixties con la produzione di Tom Wilson (era anche il titolo del suo “lost album” uscito nel 2017), ma qui viene rifatta con uno stile rock-blues pimpante ed allegro che ricorda un po’ B.B. King, accompagnato dalla chitarra “swamp” di Joe Menza (un commerciante in chitarre vintage che si cimenta anche con lo strumento); la sei corde piena di swing di Brian Setzer contribuisce fin dalle prime note alla riuscita della bella Uptown Number 7, altro coinvolgente boogie dal ritmo vigoroso con Dion che gorgheggia con la solita naturalezza ed il biondo Brian che lo segue senza perdere un colpo.

Il tintocrinito Jeff Beck è uno dei più grandi chitarristi di tutti i tempi (sicuramente da Top Ten, per qualcuno anche da Top Five) e qui è alle prese con Can’t Start Over Again che è uno slow più country che blues e forse un tantino sdolcinato (e poi quel synth che scimmiotta la sezione d’archi…), ma Jeff accarezza comunque il brano con classe e misura, mentre con My Baby Loves To Boogie torniamo in territori più consoni con un pezzo tutto ritmo e feeling, un jump blues classico nel quale le chitarre soliste sono di Dion e Hood in quanto l’ospite, John Hammond, per l’occasione suona (bene) l’armonica. Forse I Got Nothin’ potrebbe essere considerato un blues abbastanza canonico, ma se poi ci piazzi il grande Joe Louis Walker alla solista e soprattutto Van Morrison alla voce (in duetto con Dion), ti ritrovi con uno dei pezzi migliori del CD, da ascoltare in religioso silenzio; i fratelli Jimmy e Jerry Vivino, rispettivamente alla chitarra e sax, donano spessore, calore ed un tocco di raffinato jazz a Stumbling Blues, mentre Billy Gibbons non ha mezze misure dato che la chitarra se la mangia a colazione, e con la solidissima e cadenzata Bam Bang Boom porta un po’ di Texas nel Bronx. Se Gibbons è un macigno, Sonny Landreth è un fine tessitore di melodie con la sua splendida slide, ma sa dare potenza quando è necessario come accade con I Got The Cure (dove spuntano anche i fiati), fornendo una prestazione strepitosa, ricca di classe e grondante feeling, per uno degli highlights del CD.

Con Song For Sam Cooke (Here In America) Dion mette un attimo da parte il blues per un toccante omaggio al grande soul singer citato nel titolo (i due si conoscevano bene), una splendida ed evocativa ballata di stampo folk impreziosita dal violino di Carl Schmid e soprattutto dalla voce di Paul Simon, che fornisce il secondo duetto del disco. La giovane promessa del blues Samantha Fish si destreggia con brio ed energia nella saltellante e godibile What If I Told You (performance eccellente), e non sono da meno ancora John Hammond (slide) e la brava Rory Block (chitarra, basso e controcanto) nel notevole country-blues elettroacustico Told You Once In August, un pezzo degno di Mississippi John Hurt. Finale all’insegna della E Street Band prima con la roboante e coinvolgente Way Down (I Won’t Cry No More), dove la chitarra solista è di Little Steven che tira fuori un assolo molto sanguigno, e poi con il Boss e signora, quindi Bruce Springsteen (chitarra solista, ma non voce) e Patti Scialfa (armonie vocali) che accompagnano Dion nella bellissima e ricca di pathos (ma non blues) Hymn To Him, remake di un brano già inciso dal nostro nel 1987 e finale perfetto per un disco favoloso.

Credo che dal prossimo album Dion dovrà rivolgersi ad un genere musicale diverso, dato che per quanto riguarda le dodici battute a mio parere ha raggiunto l’apice con questo imperdibile Blues With Friends: disco blues dell’anno?

Marco Verdi

Lo Springsteen Della Domenica: Senza Tanti Giri Di Parole, Uno Dei Migliori Live Della Serie! Bruce Springsteen & The E Street Band – Gothenburg July 28, 2012

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Bruce Springsteen & The E Street Band – Gothenburg July 28, 2012 – live.brucespringsteen.net/nugs.net 3CD – Download

Quando si pensa ai concerti che hanno fatto la storia del rock la mente va subito agli anni settanta, che è stata indubbiamente la decade dei grandi dischi dal vivo: quando poi nello specifico si pensa a Bruce Springsteen (cioè uno dei migliori performers di sempre), gli anni “magici” sconfinano anche negli eighties, in quanto oltre ai leggendari show del 1978 bisogna mettere sullo stesso piano anche quelli del biennio 1980-81 e qualcosa anche dal tour di Born In The U.S.A. (come Los Angeles 1984, già pubblicato nella serie mensile dei live del Boss, o San Siro 1985). Ma chi ha detto che anche ai nostri giorni non si possa scrivere la storia delle performance dal vivo? Una dimostrazione in tal senso è sicuramente la penultima uscita degli archivi live di Bruce, che documenta il concerto che il nostro e la sua E Street Band hanno tenuto il 28 luglio 2012 all’Ullevi Stadium di Goteborg (o Gothenburg, per dirla all’inglese), uno show che i fans hanno sempre considerato come uno degli spettacoli migliori del tour europeo in supporto all’album Wrecking Ball ed in generale di tutta la decade, impressione confermata anche da Little Steven in persona che l’ha giudicata “una serata da ricordare”.

E dopo aver ascoltato questo triplo CD non posso che confermare: il nostro è in una forma semplicemente spettacolosa, e guida alla grandissima il suo gruppo storico (potenziato da quattro coristi ed altrettanti fiati, ma senza Patti Scialfa) in tre ore e quaranta minuti di rock’n’roll come se non ci fosse un domani, dove anche le ballate sono suonate con un impeto ed una potenza da lasciare a bocca aperta; tra l’altro, quel 28 luglio a Goteborg pioveva in maniera insistente, e sappiamo che il Boss in queste occasioni è spronato a dare quel 20% in più in aggiunta all’abituale 100%, come per ringraziare la folla che si prende tutta l’acqua a causa sua. Solitamente anche nei migliori concerti del nostro la fase iniziale è di riscaldamento, ma qui si parte subito a bomba con una splendida versione del classico dei Creedence Clearwater Revival Who’ll Stop The Rain, subito seguita da quattro dei brani più trascinanti, due a testa, presi da The River (The Ties That Bind, praticamente perfetta, e Out In The Street) e da Born In The U.S.A. (Downbound Train ed una delle più belle I’m Goin’ Down mai sentite); perfino la ritmata My Lucky Day, canzone “normale” tratta da Working On A Dream, qui sembra un grande brano.

Bruce poi regala ai fans una meravigliosa Lost In The Flood, rilettura di un’intensità da pelle d’oca, per poi suonare i primi tre pezzi provenienti da Wrecking Ball, cioè una potente We Take Care Of Our Own, non uno dei brani migliori del Boss ma dotata di un riff trascinante, una vigorosa title track (con un crescendo splendido), e l’appassionante folk-rock di stampo irlandese Death To My Hometown. Chiudono il primo CD il bellissimo R&B/soul di My City Of Ruins, uno dei brani migliori di Springsteen negli anni duemila, ed un salto nel passato con una mossa e rockeggiante ripresa di It’s Hard To Be A Saint In The City. Il secondo dischetto alterna magnifiche versioni di classici del passato (The River, Because The Night, Hungry Heart, una Backstreets fantastica, Badlands) ad altre di brani più recenti (Lonesome Day, Waitin’ On A Sunny Day, il travolgente gospel-rock Shackled And Drawn, Land Of Hope And Dreams), con in più un paio di chicche prese dal cofanetto di inediti del 1998 Tracks, e cioè l’ariosa ballata Frankie e la godibile rock’n’roll song Where The Bands Are.

Come bis, a parte i brani che ad un concerto del Boss non mancano quasi mai (Thunder Road, Born To Run, Dancing In The Dark e Tenth Avenue Freeze-Out, quest’ultima con una lunga pausa commemorativa per Clarence Clemons, che all’epoca era scomparso da solo un anno), abbiamo una rigorosa ma sempre coinvolgente Born In The U.S.A., la divertente Ramrod ed un finale splendido, durante il quale Bruce prima commuove il pubblico con una maestosa Jungleland dedicata proprio a Clarence, e poi lo stende definitivamente con una irresistibile e potentissima Twist And Shout di dodici minuti. Uno show da cinque stelle quindi, ed anche il prossimo episodio non dovrebbe essere da meno, in quanto relativo ad un concerto in New Jersey (quindi a casa del Boss) tratto dalla mitica tournée di The River del 1981.

Marco Verdi

Non Occorre Essere Americani Per Fare (Ottima) Musica Americana! The Blue Highways – Long Way To The Ground

blue highways long way to the ground

The Blue Highways – Long Way To The Ground – The Blue Highways CD

Nel panorama musicale mondiale ci sono casi di gruppi che, pur non essendo americani, suonano al 100% come se provenissero dagli Stati Uniti: in Italia per esempio abbiamo i casi di Cheap Wine, Lowlands e Mandolin Brothers, tanto per citare tre nomi vicini ai gusti di questo blog. Ovviamente una delle nazioni che guarda di più all’America è la Gran Bretagna, e tra le ultime proposte in tal senso mi ha colpito molto l’album di debutto dei Blue Highways, giovane rock band londinese (da non confondersi con i quasi omonimi Blue Highway, gruppo bluegrass quello sì americano, attivo dagli anni novanta). I BH sono una rock’n’roll band molto classica, due chitarre-basso-batteria, con influenze che vanno da Bruce Springsteen a Tom Petty, ma con un occhio di riguardo anche per un certo tipo di soul-rock sudista; il gruppo è composto da tre fratelli: Callum Lury, voce solista e chitarra ritmica (ma anche pianoforte, e suonato molto bene), Jack Lury, chitarra solista, e Theo Lury alla batteria, e sono completati dal bassista Pete Dixon.

Il quartetto lo scorso anno ha pubblicato un EP di quattro brani, che viene riproposto ora con l’aggiunta di sei canzoni nuove di zecca in questo ottimo e sorprendente album d’esordio intitolato Long Way To The Ground, un disco che, pur essendo autoprodotto, ha un suono pulito e professionale, e mostra un gruppo con le idee chiarissime: puro rock’n’roll, tante chitarre ma anche una serie di ballate elettriche e profonde, con un songwriting di alto livello che uno non si aspetterebbe di trovare in un’opera prima da parte di un combo di giovanotti. Pur avendo ben chiare e presenti le influenze citate poc’anzi l’album non suona per nulla derivativo ed il suono, già forte e nitido di suo, è ulteriormente arricchito qua e là dall’uso di una sezione fiati o di una steel guitar: dieci canzoni per meno di 37 minuti di musica, la durata perfetta per un disco come questo. Il CD si apre con il brano più lungo: Teardrops In A Storm è una suggestiva ballata pianistica con la steel in sottofondo ed il gruppo che entra in maniera potente dopo un minuto circa (ed i fiati sono usati in un modo che mi ricorda The Band), avvolgendo in maniera solida la voce arrochita ed espressiva di Callum (che qualcuno ha paragonato a Joe Cocker, anche se il cantante di Sheffield aveva un “growl” più pronunciato).

Una chitarra ruspante introduce la bella Blood Off Your Hands, un brano cadenzato che sembra quasi provenire dal songbook di una band del sud degli Stati Uniti, con un motivo diretto, un suono spettacolare e la voce del leader che dona un sapore soul. Thin Air è decisamente influenzata dal Boss, una ballata tersa e chitarristica che si apre a poco a poco fino a diventare una rock’n’roll song pulita ed immediata, tra le più coinvolgenti del CD: altro che Londra, qui sembra di essere su una lunga autostrada americana, di quelle ad orizzonti perduti https://www.youtube.com/watch?v=lnEGsABCWZo . Decisamente trascinante anche He Worked, un rock-got-soul dal ritmo sostenuto e con le chitarre che riffano alla grande insieme ai fiati, il tutto condito da un refrain irresistibile (e qui vedo tracce di Little Steven & The Disciples Of Soul); la title track ha il passo lento e quasi marziale, ma le chitarre non fanno mancare il loro apporto e nel ritornello si uniscono ancora pianoforte e fiati, con Callum che intona un motivo di notevole forza espressiva con la sua voce stentorea. Cover Me non è quella di Bruce ma bensì uno slow guidato dal piano e da una linea melodica intensa, con la solista che si fa largo gradualmente e la sezione ritmica che dalla seconda strofa entra prepotentemente portando il brano fino alla fine in deciso crescendo.

Matter Of Love è ancora puro rock’n’roll chitarristico e travolgente, con un refrain vincente ed il piano che “roybittaneggia”. Berwick Street vede ancora i nostri spostarsi idealmente al sud (ma non dell’Inghilterra), per una potente ballata elettroacustica dalla strumentazione coinvolgente e con un ottimo assolo di Jack; il CD si chiude con Borderline, un vivace pezzo che introduce elementi country nel suono (diventando una sorta di bluegrass elettrico, ancora con piano e chitarra a fare la differenza), e con Have You Seen My Baby (Randy Newman non c’entra), una vera e propria country ballad con tanto di steel che miagola languida sullo sfondo e l’ennesimo motivo orecchiabile.

Davvero un bell’esordio questo Long Way To The Ground: i Blue Highways sono indubbiamente il gruppo inglese più “americano” da me ascoltato negli ultimi mesi.

Marco Verdi

*NDB Come al solito il grosso problema è la reperibilità: il CD viene venduto sul loro sito, ma pare venga spedito solo nel Regno Unito e in USA (aggiornamento del 17/4/2020, si può acquistare anche dall’Italia e dalla Spagna).

 

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Cofanetti Autunno-Inverno 19. Un Box Con Tante Luci E Qualche Ombra…Ma Le Luci Sono Abbaglianti! Little Steven – Rock’n’Roll Rebel: The Early Work

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Little Steven – Rock’n’Roll Rebel: The Early Work – Wicked Cool/Universal 7LP/4CD Box Set

L’ottimo successo di pubblico e critica degli ultimi due album di Little Steven Soulfire e Summer Of Sorcery (unito al fatto che erano due dischi splendidi) ha convinto il rocker di origine italiana a rinfrescare la sua discografia passata, ma nel farlo il nostro ha deciso di regalare ai fans (si fa per dire, visto il costo del box) una cospicua serie di brani inediti. Rock’n’Roll Rebel: The Early Work ha però una struttura molto particolare: se infatti la maggior parte dei cofanetti che comprende sia CD che LP si limita a ripetere sul vinile quello che c’è sui supporti digitali, qui è stato scelto di includere i cinque album pubblicati da Van Zandt tra il 1982 ed il 1999 (più un “intruso”, come vedremo) solo in LP rimasterizzati e presentati in splendidi vinili colorati dal look “marmoreo”, e di lasciare le bonus tracks a parte in ben quattro CD. Un box spettacolare dal punto di vista visivo, che come vedremo ha qualche pecca dal lato musicale, attribuibile più che altro alle scelte artistiche del nostro negli anni ottanta, pecche che vengono però ampiamente bilanciate dal contenuto inedito dei CD, che per circa metà arriva a sfiorare le cinque stelle (specialmente nel primo). Ma bando alle ciance e vediamo nel dettaglio cosa contiene il box (NDM: la versione “fisica” del cofanetto, acquistabile solo online, è purtroppo già esaurita, comunque provate qui https://shop.udiscovermusic.com/products/rock-n-roll-rebel-the-early-work-box-set ma se volete è disponibile il download dei singoli album, con le bonus tracks divise per ognuno di essi e non a parte come nel cofanetto, anche se con qualche importante mancanza).

Men Without Women (1982). Steve Van Zandt, fino ad allora chitarrista della E Street Band e produttore di Southside Johnny & The Asbury Jukes e del comeback album di Gary U.S.Bonds Dedicated, decide di intraprendere la carriera solista cambiando il suo nome in Little Steven un po’ per distinguersi dal gruppo di Bruce Springsteen ed un po’ come omaggio a Little Richard e Little Walter. Men Without Women è accreditato a Steven ed ai Disciples Of Soul, un gruppo di romantici straccioni che mette su disco una perfetta riproduzione del “Jersey Sound”, cioè una miscela ad alto tasso energico di rock’n’roll, soul, R&B e doo-wop con largo uso di fiati (la sezione di cinque elementi di Richie “LA Bamba” Rosenberg): il disco è splendido, a tutt’oggi il migliore di Steven fino a Soulfire del 2017, che infatti ne ricalca le sonorità ed è inciso con una formazione aggiornata dei DOS. Si inizia con la trascinante Lyin’ In A Bed Of Fire, dalla melodia irresistibile, e si prosegue senza cadute di tono con highlights come lo scintillante errebi bianco Inside Of Me, la calda soul ballad Until The Good Is Gone, puro Jersey Sound, la bellissima e quasi dylaniana title track, Save Me, saltellante e vigorosa ma con una melodia d’altri tempi, la splendida e toccante Princess Of Little Italy, in cui viene fuori il ruvido romanticismo di questa band di pirati, la coloratissima e coinvolgente Angel Eyes. E mi fermo qui per non citarle tutte.

Voice Of America (1984). Con questo album Steve inizia a produrre canzoni dai testi arrabbiati a sfondo politico e sociale (principalmente ispirati dalla politica estera di Reagan), un andazzo che proseguirà per il resto della decade. Ma soprattutto, e purtroppo, si cominciano a palesare sonorità in voga in quel periodo, fatte di suoni gonfi e sintetizzati che in questo album finiscono per spersonalizzare l’apporto dei Disciples Of Soul (dove sono i fiati?) a favore di un rock sound piuttosto qualunque. Ma il disco si mantiene a galla grazie alla bontà di alcune composizioni: il brano più noto è l’orecchiabile reggae I Am A Patriot (che Jackson Browne farà sua di lì a poco), e non male sono la stonesiana Justice, pur con il suo suono eighties, Out Of The Darkness, che sarebbe una grande rock song se al posto dei synth ci fossero i fiati, e Los Desaparecidos che ha un bel tiro nonostante il suono gonfio. Per contro, la title track è un brano rock potente e diretto ma non eccelso, Checkpoint Charlie una ballata piuttosto qualunque, mentre Fear è brutta e basta. Un album comunque ben al di sopra della sufficienza considerando cosa verrà dopo

Sun City (1985). L’inclusione di questo album nel box è un po’ una forzatura, dato che trattasi di una compilation intestata al supergruppo United Artists Against Apartheid (una moda dell’epoca, basti pensare agli USA For Africa e ai britannici Band Aid). Ma Steve è l’ideatore e regista dell’operazione, nonché autore della title track, un brano di feroce protesta contro la segregazione razziale in Sudafrica (Sun City era – ed è ancora – un resort di lusso che allora era aperto solo ai bianchi). L’iniziativa è quindi più che lodevole, ma il risultato finale non è il massimo in gran parte a causa della produzione pesantemente anni ottanta di Arthur Baker e ad una scelta di pezzi non proprio impeccabile. La stessa Sun City non è una grande canzone (ed infatti il successo fu deludente), ma è supportata da un suggestivo video girato da Jonathan Demme in cui vediamo interagire insieme, e non succede tutti i giorni, gente del calibro di Bob Dylan, Bruce Springsteen, Miles Davis, Lou Reed, Pete Townshend, Peter Gabriel, Bono, Joey Ramone, Jimmy Cliff, Hall & Oates, Jackson Browne, Bonnie Raitt, Bobby Womack e molti altri (e purtroppo anche diversi rappers).

Il resto dell’album è di dubbio livello, a partire da No More Apartheid, in cui un Peter Gabriel in ciabatte si limita a gorgheggiare su una base musicale da mani nei capelli, mentre Revolutionary Situation è un collage quasi inascoltabile di suoni, rumori e dichiarazioni estrapolate da discorsi di politici ed attivisti. Let Me See Your I.D. è puro rap (genere che odio), The Struggle Continues un discreto pezzo di jazz-rock dominato dalla tromba di Davis e dal piano di Herbie Hancock (e con la sezione ritmica dei grandi Ron Carter e Tony Williams); il brano migliore è Silver And Gold, una rock song diretta, cadenzata e con elementi blues scritta e cantata da Bono ed eseguita con l’aiuto di Keith Richards, Ronnie Wood e Steve Jordan. Album che era comunque fuori catalogo dai primi anni novanta.

Freedom-No Compromise (1987). Il disco più venduto di Steve grazie al successo del singolo Bitter Fruit, un pop-rock orecchiabile che all’epoca si sentiva ovunque (ricordo che il nostro lo presentò anche al Festivalbar e ci fu una versione itailana di Antonello Venditi ). L’elettronica ha ormai preso il sopravvento sul rock (ed il songwriting non è dei migliori), e del resto del disco salvo solo Trail Of Broken Treaties, che pur essendo infarcita di sonorità finte ha un ritornello corale piacevole, e la solare ballata reggae Native American, con la seconda voce di Springsteen. Pollice verso per il resto, in cui il nostro assomiglia al peggior Prince.

Revolution (1989). Se il precedente era un album largamente insufficiente, di fronte a questa schifezza è un mezzo capolavoro: qui le poche idee affogano in un marasma di suoni orrendi, e qualcuno all’epoca aveva pensato che il buon Van Zandt ce lo fossimo giocati definitivamente. Non c’è molto altro da dire, se non che l’unico momento in cui affiora una parvenza di musica è nel solito reggae di Leonard Peltier, dedicato al protagonista di uno dei più scottanti e controversi casi di cronanca nera dei seventies. Tutto il resto è quasi inascoltabile. Born Again Savage (1999). Dopo dieci anni di silenzio, un deciso ritorno alla musica, un disco ispirato alle band rock e hard rock come Cream, Who, Jeff Beck Group e Led Zeppelin: un suono essenziale da power trio chitarra-basso-batteria, con il nostro aiutato dal bassista degli U2 Adam Clayton e dai tamburi di Jason Bonham. Non un capolavoro, ma una boccata d’aria fresca con strumenti veri e brani diretti, potenti ed essenziali (e testi a sfondo religioso) come il rock’n’roll sotto steroidi Camouflage Of Righteousness, il roboante e riffato hard blues Guns, Drugs And Gasoline, l’ottima rock ballad zeppeliniana Face Of God, la lunga ed epica Saint Francis, la stonesiana Salvation, la ritmata e trascinante Flesheater e gli otto strepitosi minuti della conclusiva Tongues Of Angels. Prima stampa in assoluto in (doppio) LP per questo album.

Ed ecco una disamina degli inediti e rarità nei quattro CD, che sono divisi per periodi.

CD1 – Men And Women (And Before). Dopo l’inedita Rock’n’Roll Rebel, brano invero bruttino e pieno di synth del 1983, andiamo indietro nel tempo per ben nove pezzi (esclusivi per questo box, nel senso che non fanno parte dei downloads), a partire da una rarissima performance del 1973 del duo Southside Johnny & The Kid (un country-blues acustico intitolato Who Told You?), dove The Kid è proprio Steve, e seguiti da otto canzoni unreleased registrate fra il 1976 ed il 1977 da Southside Johnny & The Asbury Jukes ma con Steve alla voce solista, tra demos, rehearsals, brani live (That’s How It Feels allo Stone Pony) e versioni alternate di titoli come When You Dance, Little Darlin’, Ain’t No Lady, Love On The Wrong Side Of Town, Little Girl So Fine, Some Things Just Don’t Change e She Got Me Where She Wants Me: inutile dire che è tutto imperdibile, nonostante l’incisione non sempre impeccabile. Poi abbiamo quattro scintillanti versioni live in studio di brani di Men And Women per un film musicale “alla Purple Rain” poi abortito (Angel Eyes, Forever, Until The Good Is Gone e Save Me), una early take di I’ve Been Waiting, il lato B Caravan (classico di Duke Ellington che Steve trasforma in un omaggio a Beck’s Bolero) ed il bellissimo inedito assoluto Time, outtake di Voice Of America che è meglio di molto materiale finito sull’album.

CD2 – Voice Of America. Tre splendidi brani dal vivo al Marquee di Londra nell’82 (This Time It’s For Real, Caravan ed una strepitosa I Don’t Want To Go Home), l’inedita It’s Possible, rock song dal sound bombastico ma coinvolgente, ma anche brutture come il singolo anti-Reagan Vote! (proposto in ben cinque versioni quando una bastava ed avanzava) o il remix danzereccio per il dodici pollici di Out Of The Darkness. Però abbiamo anche una rara performance solitaria per voce e piano (l’unica della carriera dal vivo di Steve) di Inside Of Me per una TV francese, e soprattutto il work in progress della canzone Alive For The First Time, una vera e propria writing session di dieci minuti, ancora con Steve al piano, in cui vediamo letteralmente nascere il brano a poco a poco.CD3 – Sun City. Sette lunghi brani, il dischetto meno interessante in quanto lo spazio è occupato da ben tre remix della pessima Let Me See Your I.D. e due della title track, in cui impazza l’arte, si fa per dire, di Baker. Molto interessante invece l’inedita Soweto Nights, una spettacolare e fluida jam tra Hancock, Carter e Williams nella miglior tradizione dei trii jazz (con Herbie fenomenale), mentre chiude il dischetto una The Struggle Continues “extended” in cui il solo intervento di Miles Davis supera i sei minuti.

CD4 – Freedom-No Compromise, Revolution (And Later). Anche qui gran parte del contenuto è dimenticabile, con tre remix dance di Bitter Fruit ed una versione in spagnolo della stessa canzone, più due altrettanto superflue No More Party’s (la prima più rock dell’originale e con la parte vocale ricantata); Vote Jesse In è un brano inedito scritto da Steve per la campagna presidenziale di Jesse Jackson ma non usato da quest’ultimo (e chiediamoci il perché), e poi ci sono altri due missaggi alternativi dell’orribile Revolution, entrambi con l’aggiunta del sax del grande Maceo Parker (che spreco!). Il finale per fortuna è in deciso crescendo con due deliziosi pezzi dal vivo acusitci in quartetto incisi nel 1995 per una trasmissione del noto DJ Vin Scelsa (I Wish It Would Rain dei Temptations ed una Princess Of Little Italy più struggente che mai), e l’evocativa ed intensa It’s Been A Long Time, incisa da Steve solo con la sua chitarra nel 2019 apposta per questo box.

Un cofanetto quindi dalla qualità altalenante specie per quanto riguarda gli LP degli anni ottanta (escluso il primo e parte del secondo), ma bilanciato dalla bellezza di molti inediti contenuti nei CD: se non verrà ristampato, potrebbe essere una delle rare volte in cui vi potete accontentare del download, anche perché così non siete costretti a prendervi tutto il blocco.

Marco Verdi

Lo Springsteen Della Domenica: Tutti Insieme Di Nuovo Nel Nome Del Rock’n’Roll! Bruce Springsteen & The E Street Band – Los Angeles 1999

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Bruce Springsteen & The E Street Band – Los Angeles, October 23 1999 – live.brucespringsteen.net/nugs.net 3CD – Download

Uno degli eventi dal vivo più importante degli anni novanta è stato senza dubbio il Reunion Tour del 1999/2000 di Bruce Springsteen & The E Street Band, dopo ben undici anni di assenza dalle scene, periodo nei quali il Boss aveva girato soltanto con la famigerata “Other Band” nella tournée di supporto agli album Human Touch e Lucky Town ed in totale solitudine in seguito a The Ghost Of Tom Joad: in entrambi i casi i commenti erano stati contrastanti, ma c’era unanimità nel riconoscere che a Bruce mancava tantissimo la “sua” band. Un primo riavvicinamento c’era stato nel 1995 con i quattro pezzi nuovi incisi per il Greatest Hits, ma la molla decisiva pare sia stata la compilazione da parte del rocker di Freehold del box quadruplo Tracks, nel quale trovavano posto molte canzoni inedite registrate con i suoi ex compagni. La macchina si era rimessa quindi in moto nel 1999, con il gruppo tirato a lucido e per la prima volta con sia Little Steven che Nils Lofgren contemporaneamente sul palco (il secondo aveva infatti sostituito il primo a metà anni ottanta), e Bruce che ricominciava ad affrontare platee numerose con rinnovata grinta ed energia.

Non c’era un album da promuovere (fatto più unico che raro per il Boss), e così ogni serata diventava una celebrazione del passato dell’artista, con scalette che riproponevano pochi brani tra quelli recenti ma in maggior parte i classici che tutti volevano risentire suonati come Dio comanda. Il concerto di cui mi occupo oggi, penultima uscita all’interno degli archivi live di Springsteen, documenta la serata del 23 Ottobre 1999 allo Staples Center di Los Angeles, ed è considerato dai fans uno degli show più belli ed intensi di quella tournée lunga due anni (NDM: questo è il terzo spettacolo del Reunion Tour ad essere pubblicato nella serie, dopo New York 2000 e Chicago 1999). Inutile dire che Bruce è in forma strepitosa, ed il gruppo non è certo da meno e rilascia una performance tra le più solide che ho sentito all’interno di queste uscite mensili: le setlist in quel tour avevano delle parti fisse ed altre “intercambiabili”, con diverse chicche suonate ogni sera (particolare strano, in questo concerto californiano non viene eseguito nessun pezzo da Born In The U.S.A., fatto piuttosto inusuale dato che stiamo parlando di uno dei dischi più amati dai fans).

Dopo una partenza scintillante con la rara Take’em As They Come, una outtake di The River pubblicata su Tracks, i nostri si lanciano in una serie di brani che nella prima parte attingono esclusivamente da Darkness On The Edge Of Town (la title track, The Promised Land in una delle migliori versioni mai sentite, una splendida Factory, una Adam Raised A Cain dalla notevole foga chitarristica e la sempre trascinante Badlands) e da The River (The Ties That Bind, Two Hearts, la toccante Independence Day ed una super-coinvolgente Out In The Street), con le uniche eccezioni delle recenti Youngstown, molto più elettrica e tesa che in studio e con grande assolo finale di Lofgren, e della travolgente Murder Incorporated, con Bruce, Nils e Steve che incrociano le chitarre come se fossero spade. Una torrenziale Tenth Avenue Freeze-Out di venti minuti, durante i quali Bruce infila una lunghissima presentazione della band con toni da predicatore gospel, precede la fase più emozionale dell’intera serata, con il nostro che regala al pubblico una straordinaria e struggente Incident On 57th Street, un’inattesa e pimpante For You che precede l’intensa The Ghost Of Tom Joad.

Ma soprattutto un uno-due dal pathos incredibile che inizia con una fantastica The Promise che vede Bruce da solo al pianoforte (per la prima volta dal 1978) ed una Backstreets splendida come sempre, grazie anche al tocco magico di Roy Bittan. Si riprende a tutto rock’n’roll con una potentissima Light Of Day di undici minuti, seguita a ruota dall’irresistibile Ramrod e dai superclassici Born To Run e Thunder Road. C’è ancora spazio per una tenue If I Should Fall Behind, in cui ogni membro “cantante” della band ha a disposizione una strofa, e per l’allora nuova Land Of Hope And Dreams (che sinceramente non mi ha mai fatto vibrare più di tanto): finale a sorpresa con una rara esecuzione di Blinded By The Light, che in questa nuova rilettura brilla particolarmente e chiude degnamente un concerto davvero bellissimo. Nel prossimo episodio troveremo Bruce in una veste sonora completamente diversa, ed anche molto più vicino a casa.

Marco Verdi

Direi Che Ci Ha Preso Gusto…E Noi Con Lui! Little Steven & The Disciples Of Soul – Summer Of Sorcery

little steven summer of sorcery

Little Steven & The Disciples Of Soul – Summer Of Sorcery – Wicked Cool/Universal CD

La temporanea sosta della E Street Band (e la pausa dalla carriera di attore) ha dato modo negli ultimi tre anni a Little Steven di tornare a dedicarsi alla sua carriera solista, ed il piccolo Van Zandt lo ha fatto nei migliore dei modi, riformando i Disciples Of Soul, un gruppo straordinario, e dando alle stampe due album eccellenti, Soulfire (tra i dischi più belli del 2017 https://discoclub.myblog.it/2017/05/26/per-una-volta-il-boss-e-lui-little-steven-soulfire/ ) ed il suo strepitoso compendio dal vivo, Soulfire Live!, disco dal vivo del 2018 per chi scrive https://discoclub.myblog.it/2018/09/12/il-disco-dal-vivo-dellestate-si-ed-anche-dellautunno-dellinverno-little-steven-and-the-disciples-of-soul-soulfire-live/ . Ma Steven non ha finito, ed ora si ripresenta con un lavoro nuovo di zecca, Summer Of Sorcery, inciso sempre con i DOS e destinato a bissare il successo di critica e pubblico di Soulfire. Anzi, a mio giudizio Summer Of Sorcery è leggermente meglio, anche per il fatto che il suo predecessore era costituito esclusivamente da brani che il nostro aveva scritto per altri durante gli ultimi 40 anni, mentre le dodici canzoni qui presenti sono tutte nuove di zecca, pensate appositamente per questo progetto: la cosa è oltremodo rassicurante, in quanto possiamo constatare che Steve non ha perso la capacità di scrivere, e che se la può cavare alla grande anche senza ricorrere a pezzi già conosciuti.

Dal punto di vista sonoro Summer Of Sorcery è, come già Soulfire, una vera goduria, una miscela irresistibile di rock, soul, errebi e funky, con più di un occhio alle sonorità degli anni cinquanta e sessanta, tra vibrante rock’n’roll e romanticismo “piratesco” da parte di un formidabile gruppo di scapestrati, composto da ben quindici musicisti compreso il leader (Marc Ribler, chitarre varie e direzione musicale, Jack Daley, basso, Rich Mercurio, batteria, Andy Burton e Lowell Levinger, piano ed organo, Anthony Almonte, percussioni, le tre backing vocalists Jessie Wagner, Sara Devine e Tania Jones, e soprattutto la strepitosa sezione fiati di cinque elementi diretta da Eddie Manion, sax baritono, con Stan Harrison al sax tenore e flauto, Ron Tooley e Ravi Best alla tromba e Clarck Gayton al trombone). Colore, ritmo e feeling a volontà, un’ora di grandissima musica, gioiosa e creativa: Little Steven non sarà il Boss (neanche e soprattutto a livello vocale), ma sopperisce con l’anima e tonnellate di grinta. Communion ha un attacco potente quasi degno della E Street Band, poi il suono si sposta su coordinate più squisitamente errebi, con ritmo subito altissimo ed i fiati immediatamente protagonisti (come già in Soulfire, sono il fiore all’occhiello del disco), per sei minuti ad alto tasso adrenalinico.

Party Mambo! è un titolo che è tutto un programma, ed è una canzone solare dai suoni e colori decisamente “caldi”, gran gioco di percussioni, fiati e cori, con Steve perfettamente a suo agio nel ruolo di maestro di cerimonie, mentre per quanto mi riguarda è quasi impossibile tenere fermo il piede; Love Again è invece una deliziosa e saltellante soul song dal sapore d’altri tempi, un pezzo che il nostro avrebbe benissimo potuto scrivere per Southside Johnny, con una melodia immediata ed il solito suono pieno e generoso: potrebbe diventare un instant classic di Steve. Vortex è un bellissimo e coinvolgente brano dal motivo vincente, che colpisce al primo ascolto, e con un arrangiamento degno dell’Isaac Hayes dei primi anni settanta (e qui oltre ai fiati abbiamo anche gli archi a simulare una sorta di sgangherata disco music dei bassifondi), mentre A World Of Your Own è un irresistibile pezzo in puro stile sixties, romantico e cantato col cuore, cori femminili in evidenza ed un arrangiamento decisamente “spectoriano”: splendida anche questa. Gravity è funk-rock della miglior specie, suono grasso e corposo e solita grinta formato famiglia, con le backing vocalists che assumono quasi la stessa importanza del leader, Soul Power Twist è ancora una festa di ritmo e suoni, come se Steven avesse trovato in un cassetto una canzone inedita e dimenticata di Sam Cooke e l’avesse fatta sua senza dirlo a nessuno: una meraviglia.

Superfly Terraplane non prova neanche ad abbassare il ritmo, ma qui siamo in presenza di un travolgente rock’n’roll con fiati, un’altra gioia per le orecchie (comincio ad essere a corto di aggettivi), Education inizia con un sitar ma si trasforma quasi subito in un robusto pezzo tra errebi e rock, in cui i fiati si prendono tanto per cambiare il centro della scena, mentre Suddenly You è un brano più soft, quasi afterhours, con Steve che canta in modalità sottovoce, una sorta di relax dopo tante energie spese. I Visit The Blues, come da titolo, vede i nostri cimentarsi con la musica del diavolo, e lo fanno in maniera assolutamente credibile, con il solito supporto dei fiati a dare il tocco in più e Steven che prova a dire la sua anche con la chitarra. Il CD si chiude con la title track, ed è un finale sontuoso in quanto ci troviamo di fronte ad un mezzo capolavoro, una ballata epica e fantastica che gronda feeling e romanticismo da ogni nota, otto minuti di grandissima musica, degna conclusione di un album che definire strepitoso è poco e che, se vivessimo in un mondo giusto, dovrebbe essere eletto all’unanimità disco per l’estate.

Marco Verdi