La Voce E’ Sempre Bella, Cambiano Parecchio Le Sonorità. Lloyd Cole – Guesswork

lloyd cole guesswork

Lloyd Cole – Guesswork – earMUSIC                   

Sono passati 35 anni dalla pubblicazione del primo disco di Lloyd Cole, il bellissimo Rattlesnakes, e 32 anni dall’ultima volta in cui Cole ha lavorato con i due vecchi Commotions originali, il tastierista Blair Cowan e il chitarrista Neil Clark, nell’album Mainstream. Però, prima di iniziare a festeggiare, c’è un “MA”  grosso come una casa: infatti, come si evince dalla cartella stampa dell’etichetta (visto ho ascoltato il disco molto tempo prima dell’uscita prevista per domani 26 luglio, ho attinto anche da lì le informazioni), questo Guesswork viene presentato così:  “Chiunque si aspetti il tipico sound dei Commotions è sulla strada sbagliata: Guesswork è prevalentemente un album elettronico!” C’è un altro ma di mpatto minore da aggiungere: nella versione inglese della presentazione ‘electronic’ è tra due virgolette. Cosa vuol dire? Che l’album non è elettronico? Mi rendo conto che sto cominciando ad arrampicarmi sugli specchi, ma la differenza per quanto sottile c’è: pensate, per fare un esempio colto, a Before And After Science di Brian Eno, che pur nella sua anima sonora ricca di synth e tastiere, rimane un gran disco, soprattutto nella parte canzoni.

Per sgombrare subito dagli equivoci, il nuovo album di Cole non è così bello, però la voce di Lloyd non ha perso il suo fascino, sempre calda ed avvolgente, con quegli accenti tra Lou Reed, Dylan e Tom Verlaine, che ce lo avevano fatto amare agli inizi, anche la sua facilità nell’approccio e nella costruzione melodica non manca, proprio a voler essere pignoli, e a mio parere personale, manca una certa brillantezza nelle canzoni e comunque gli arrangiamenti privilegiano quel sound “elettronico” ricordato all’inizio. Non è quello becero tra dance e pop insulso che impera al giorno d’oggi, la chitarre a tratti ci sono,  magari un po’ nascoste, Fred Maher è presente alla batteria,  con sonorità che comunque prevedono anche l’impiego di synth modulari e di tastiere sia classiche che moderne, pensate, per avere una idea generale, anche a gente come Stan Ridgway , David Sylvian o lo scomparso Scott Walker, quello meno estremo  D’altronde uno degli ultimi dischi usciti di Lloyd Cole è stato Selected Studies Vol. 1, insieme a Hans-Joachim Roedelius dei Cluster, seguito da 1D Electronics 2012-2014 Ricapitolando, in base a tutte queste premesse, il disco potrebbe (forse) piacere anche a quanti amano il vecchio Lloyd Cole.

Tra le otto canzoni, tutte piuttosto lunghe, tra i 5 e i 7 minuti, con testi asciutti e non ridondanti come al solito, devo dire che prediligo le ballate, per quanto particolari e “lavorate” esse siano, un po’ meno i brani volutamente più “moderni” (sto esaurendo le virgolette). The Over Under, il primo pezzo dell’album, dopo una lunga introduzione strumentale si apre in una ballata tipica del nostro, una bella melodia cantabile caratterizzata da chitarre elettriche arpeggiate e tastiere avvolgenti, una canzone veramente bella con un arrangiamento splendido, che poi si stempera nella altrettanto lunga coda strumentale, fosse tutto così il disco. Night Sweats, tra chitarre robuste e distorte, archi sintetici e tastiere analogiche ricorda i vecchi suoni dei Wall Of Voodoo, sempre con la sensibilità e la bella voce di Cole, però piace meno; anche Violins con i suoi sintetizzatori e batterie elettroniche molto anni ’80, mi ha ricordato certe cose synth-pop di Robert Palmer o i Talk Talk più orecchiabili, rispettabili, ma come diciamo noi inglesi, Not My Cup Of Tea.

Remains, uno dei brani scritti con Blair Cowan è più sontuoso, quasi malinconico nel suo dipanarsi, con qualche vago eco anche dei Prefab Sprout, un piacevole mid-tempo , mentre The Afterlife è ancora quell’electro-pop raffinato e maestoso, ma un po’ fine a sé stesso, con Moments And Whatnot che sta tra i Kraftwerk e la dance più melodica, ma non mi fa impazzire, anzi. When I Came From The Mountains, incalzante e piacevole, con la chitarrina di Clark in evidenza, e qualche ricordo del Bowie tedesco, fa parte della elettronica “umana”, mentre la conclusiva The Loudness Wars, è un’altra ballata dall’afflato classico, con grande uso di tastiere, ma anche con le chitarre a fare da contrappunto, sempre della categoria belle canzoni. Luci e ombre per scrive, ma si intravede la penna brillante di quello che rimane un autore di vaglia.

Bruno Conti

Lloyd Cole – Standards? Buoni, Decisamente Buoni!

lloyd cole standards.jpg

 

 

 

 

 

 

 

 

 


Lloyd Cole – Standards – Tapete Records

Quella che sta vivendo da alcuni anni Lloyd Cole è una sorta di terza giovinezza o di “third coming” se vogliamo dirla all’inglese, iniziata con l’eccellente Broken Records nel 2010 com-e-diventato-vecchio-ma-bravo-lloyd-cole-broken-record.html, e ora proseguita con questo Standards che conferma il nuovo stato di grazia che sta vivendo la musica di Lloyd. Intendiamoci, non siamo, forse, di fronte al capolavoro assoluto, come potrebbe sembrare leggendo le recensioni di Uncut che gli ha dato 8/10 o le quattro stellette di Mojo, ma neppure a quel lavoro di copia e incolla, e di seconda mano, della musica che ha sempre amato, che si potrebbe ricavare leggendo alcune recensioni italiane.

Ad essere sinceri, questo gusto per la citazione della musica altrui, Lloyd Cole l’ha avuto sempre presente, ma quando è sorretto da buone canzoni, come in questo caso, o, in passato, nel primo Rattlesnakes con i Commotions (ma anche Easy Pieces non era per niente male) e poi ancora nel suo primo album omonimo da solista nel 1990,  le stesse canzoni sono in grado di regalare all’ascoltatore il piacere della musica semplice ma fedele agli stilemi del rock (e del pop) più classico. Come ricordo spesso e voglio farlo anche in questa occasione, sono le canzoni che contano e poi se i riff e i ritornelli ricordano qualcuno o qualcosa, pazienza, le note e gli accordi sono quelli, l’importante, se citi o ti ispiri alla musica d’altri, è farlo con classe e nel rispetto della musica, senza volerlo fare di nascosto come è usanza per molti musicisti, anche di categoria superiore.

Il nostro amico ha sempre avuto un buon seguito di pubblico e di critica, soprattutto nel Regno Unito e in alcuni paesi europei (compresa la Germania, dove ha sede la sua etichetta e dove è uscito, recentemente, un disco di musica elettronica registrato in coppia con Hans-Joachim Rodelius dei Cluster, che una collaborazione non la nega a nessuno), ma non ha mai sfondato negli USA, dove vive, nel Massachusetts, con la famiglia, dal lontano 1989 e dove è stato registrato il disco, tra Los Angeles, New York e Easthampton. Eppure la sua musica è sempre stata influenzata da quella americana, Lou Reed, Dylan, Leonard Cohen, l’amato Tom Verlaine e i suoi Television, sono sempre stati punti di riferimento nella musica di Cole, insieme al pop dei Beatles e dei Kinks, per citare alcuni capisaldi della sua musica, che ancora una volta ritornano in questo disco.

Lloyd ha anche una passione, neppure troppo nascosta, per i nomi oscuri di certo country alternativo americano, come dimostra la energica cover rock di California Earthquakes del grande John Hartford che apre l’album: il sound, curato dal veterano collaboratore di Cole, nonché batterista, Fred Maher, si avvale di altri vecchi pards, come Matthew Sweet, qui al basso e alle armonie vocali, ma ottimo cantautore anche in proprio, Blair Cowan alle tastiere, fin dai tempi dei Commotions, e anche Joan Wasser (in arte Joan As A Policewoman) a violino, tastiere e background vocals, forse i chitarristi, lo stesso Lloyd, Matt Cullen, Mark Schwaber e il figlio Will Cole, non sono all’altezza del grande Robert Quine, ma la grinta e l’energia del rock’n’roll non mancano, come dimostra Women’s Studies che un riff o due e l’inlessione vocale “forse” la prendono da Lou Reed, ma con ottimi risultati, non è l’opera di un mero imitatore, e poi si è ispirato anche al miglior sé stesso del passato, con tutte le influenze citate poc’anzi bene in evidenza.

Il riff iniziale di basso di Period Piece è preso da “Un Cuore Matto” (scherzo!) ma il brano, ricco di simbolismi e di colte citazioni alla Dylan, è una piccola delizia “Coliana” e che dire di quella stupenda ballata che risponde al nome di Myrtle and Rose, con il lato malinconico e aulico di Cole che ancora una volta sale al proscenio: gente che scrive canzoni così belle in giro ce n’è poca, e chissenefrega se ricorda altri, è anche bravo di suo e quella voce è inconfondibile e regala emozioni all’ascoltatore, anche dopo ripetuti ascolti non stanca. Delicata e dolce anche la breve No Truck conferma il ritorno della migliore ispirazione anche in età matura ( i 50 ormai sono un ricordo pure per Cole)! Molto belle le atmosfere raffinate di Blue Like Mars, che il recensore di Mojo paragona ad un Chris Isaak fantascientico, con le chitarre e le tastiere che si intrecciano alla perfezione negli intermezzi strumentali, senza mai prevaricarsi ma interagendo in modo quasi chirurgico.

Lo hanno citato tutti, posso non farlo io? L’attacco di Opposites Day è proprio preso, pari pari, dal riff iniziale delle due chitarre di Marquee Moon dei Television, e più che una citazione è proprio un omaggio ad un autore, Tom Verlaine, che Cole, aveva già rivisitato ad inizio carriera con una bellissima cover di Glory. Se dovesse servire “solo” a ricordare l’opera di questo musicista geniale e uno degli album minori della storia del rock più belli di sempre, il suo compito l’avrebbe svolto egregiamente, ma poi il brano si sviluppa comunque in un rocker grintoso dove l’incedere circolare delle chitarre è stimolante di suo. Silver Lake è un’altra ballatona stupenda con il violino della Wasser in bella evidenza, le belle canzoni non mancano proprio in questo disco, sembra una di quelle che George Harrison sfornava a raffica ai tempi di All Things Must Pass. Non bastasse, c’è pure l’omaggio anche ai Beatles tutti in It’s Late, che sembra una You Won’t See Me rallentata o comunque un brano dei primi album, quelli più pop, ma già perfetti fin dalle armonie vocali inarrivabili qui duplicate con rispetto. Profumi dal passato ancora una volta nel reportage dei tempi che passano di Kids Today, sempre con quella malinconia immancabile che però non piange su sè stessa, ma cerca di trasporre i lati positivi del passato nel presente. L’ultimo “Standard” del disco è una ulteriore perla del tipo Pop Music, si chiama Diminished Ex e conclude degnamente un album che non posso non consigliarvi caldamente. Modelli come questo se ne fanno pochi, citano il passato ma lo fanno con gran classe!

Bruno Conti

Novità Di Giugno Parte II. Sigur Ros, Tungg, Jason Isbell, These New Puritans, Phish, Jerry Garcia, Lloyd Cole, Big Star

sigur ros kveikur.jpgtungg turbines.jpgthese new puritans field.jpg

 

 

 

 

 

 

Riprendiamo con la rubrica delle uscite prossime alle quali non dedico un Post specifico o sono state già trattate con molto anticipo. Ci sono alcuni titoli già pubblicati nelle settimane scorse ma il grosso esce  il prossimo 25 giugno. Tra oggi e domani, diviso in due, il tutto. Partiamo con i primi tre.

Il nuovo Sigur Ros Kveikur, il primo, dopo la cessione del contratto Parolophone/Virgin alla Universal, a uscire per la XL Recordings, è anche la loro prima volta con la formazione a tre. E’ stato pubblicato, a macchia di leopardo, nei vari paesi, tra il 12 e il 18 giugno. Secondo il gruppo il suono è più “aggressivo” rispetto ai lavori precedenti. Può essere, anche se non più di tanto, ma non sono mai stato un fan sfegatato del gruppo islandese, non mi dispiacciono ma non mi fanno impazzire, comunque interessanti e rispettabili!

I Tungg vengono presentati come una band di “folktronica” o folk sperimentale se preferite. Vengono dall’area londinese e Turbines è il loro quinto album, pubblicato dalla Full Time Hobby il 18 giugno. L’alternarsi e l’incrociarsi di elettronica e suoni acustici è sempre affascinante anche se un po’ spiazzante, come l’interagire tra voci maschili e femminili anche se i puristi del folk non sempre li apprezzano a fondo. Al sottoscritto non dispiacciono ma apprezzavo anche i tedesco-canadesi Emtidi che facevano queste cose (meglio) più di 40 anni fa nei dischi Saat e nell’omonimo Emtidi.

Field Of Reeds dei These New Puritans è il disco del mese della rivista inglese Uncut e anche se ultimamente non sempre condividido a fondo le loro scelte (come in questo caso, parlo della rivista) è sicuramente un disco interessante ma “not my cup of tea”: indie-altenative-post-punk-new wave-alternative, vedete e sentite voi. Si tratta del loro terzo disco, il primo per la Infectious Records ed è uscito l’11 giugno, questa V (Island Song) mi ricorda, vagamente. qualcosa dei vecchi Van Der Graaf (anche se Peter Hammill è di un’altra categoria), e devo ammettere che il brano non è male.

jason isbell southeastern.jpglloyd cole standards.jpgphish ventura.jpg

 

 

 

 

 

 

Jason Isbell, l’ex Drive-By-Truckers, ogni disco solista che pubblica fa un saltino in avanti a livello qualitativo e anche il nuovo Southeastern (quindi fa del southern rock dell’Est, in effetti venendo dall’Alabama), etichetta Relativity/Southeastern,  il suo sesto album, compresi due live, conferma questi progressi. Il CD è uscito l’11 giugno, anche se molti non se ne sono accorti, ma rimediamo, comprende dodici brani nuovi tutti firmati da Isbell ed è molto bello: tra gli ospiti due presenze femminili di spicco, Kim Richey e Amanda Shires. Senti che roba!!

Ogni tanto il nostro amico Lloyd Cole lascia la sua zampata (morbida, da gattone) e, dopo l’ottimo Broken Records del 2010 com-e-diventato-vecchio-ma-bravo-lloyd-cole-broken-record.html,  la settimana prossima esce il nuovo Standards, sempre per la Tapete Records. Nonostante il titolo sono tutti brani nuovi meno una cover (California Earthquake del grande John Hartford) e ne hanno parlato molto bene anche in questo caso, addirittura, una rivista, Classic Pop Magazine gli ha dato cinque stellette. Essendo stato finanziato anche dai fans, come ultimamente spesso capita, gli stessi hanno avuto diritto ad una special edition del disco con un secondo di CD di outtakes e rarities. Appena mi capita tra le mani, esce la settimana prossima, il 25 giugno, prometto recensione completa: da quello che ho potuto sentire mi sembra molto buono anche grazie ai musicisti utilizzati, Matthew Sweet, il batterista Fred Maher, Joan Wasser (Joan As A Policewoman), l’immancabile tastierista Blair Cowan.

Finalmente un nuovo Live dei Phish, sarà l’80°, ho perso il conto! Si chiama Ventura, è sestuplo, contiene le registrazioni dei concerti completi tenuti il 30 Luglio, 1997 e il 20 Luglio, 1998 al Ventura County Fairgrounds in Ventura, California. Se comprate il cofanetto sul sito del gruppo Dept.aspx?cp=773_61389, vi regalano anche un settimo CD con un estratto del concerto del 21 marzo 1993 al Ventura Theatre, Buenaventura. Certo che costa stare dietro ai Phish, in ogni caso li trovate qui sotto…

 

jerry garcia garcialive volume 2.jpgbig star nothing can hurt me.jpg

 

 

 

 

 

 

Sempre a proposito di dischi dal vivo prosegue la pubblicazione del materiale di archivio di Jerry Garcia, Garcialive Volume Two della Jerry Garcia Band riporta il concerto tenuto il 5 agosto del 1990 al Greek Theater Berkeley, California. Si tratta di un doppio CD pubblicato, sempre il 25 giugno e solo negli Stati Uniti, dalla ATO Records e anche se il tour è lo stesso del doppio CD Jerry Garcia Band pubblicato dalla Arista nel 1991, il repertorio cambia, come potete verificare:

Set 1:
1. How Sweet It Is (To Be Loved By You)
2. Stop That Train
3. Forever Young
4. Run For The Roses
5. That’s What Love Will Make You Do
6. My Sisters And Brothers
7. Tears Of Rage
8. Deal

Set 2:
1. Midnight Moonlight (featuring Béla Fleck)
2. The Harder They Come (featuring Béla Fleck)
3. And It Stoned Me
4. Waiting For A Miracle
5. Evangeline
6. Think
7. That Lucky Old Sun
8. Tangled Up In Blue

Questa è la formazione:

Jerry Garcia – Guitar, Vocals
John Kahn – Bass
Melvin Seals – Organ
Jaclyn LaBranch – Vocals
Gloria Jones – Vocals
David Kemper – Drums

con Bela Fleck ospite nei due brani indicati. Non costa molto nonostante sia import, poco più di un singolo CD, quindi un pensierino si può fare.

Oggi finiamo con un “nuovo” CD dei Big Star, Nothing Can Hurt Me. Era già uscito come doppio LP, a prezzi vertiginosi, per il Record Store Day ad aprile ed ora la Omnivore Recordings lo rende disponibile anche come CD. Si tratta della colonna sonora del documentario dedicato alla band di Alex Chilton (e Chris Bell) e contiene tutto materiale inedito con versioni alternative di tutti i classici della band, e non solo, questa è la tracklist del vinile ma il CD, in uscita il 25 giugno, ha lo stesso contenuto:

Side 1:

1. O MY SOUL (Demo, 1973)

2. GIVE ME ANOTHER CHANCE

(Control Room Monitor Mix, 1972)

3. IN THE STREET (Movie Mix, 2012

4. WHEN MY BABY’S BESIDE ME

(Alternate Mix, 1972)

5. STUDIO BANTER (1972)

6. TRY AGAIN (Movie Mix, 2012) – Rock City

Side 2:

1. MY LIFE IS RIGHT (Alternate Mix, 1972)

2. THE BALLAD OF EL GOODO

(Alternate Mix, 1972)

3. FEEL (Alternate Mix, 1972)

4. DON’T LIE TO ME (Alternate Mix, 1972)

5. WAY OUT WEST (Alternate Mix, 1973)

 

Side 3:

1. THIRTEEN (Alternate Mix, 1972)

2. YOU GET WHAT YOU DESERVE

(Alternate Mix, 1973)

3. HOLOCAUST (Rough Mix, 1974)

4. KANGA ROO (Rough Mix, 1974)

5. STOKE IT NOEL (Backward Intro, 1974)

6. BIG BLACK CAR (Rough Mix, 1974),

Side 4:

1. BETTER SAVE YOURSELF

(Movie Mix, 2012) – Chris Bell

2. I AM THE COSMOS

(Movie Mix, 2012) – Chris Bell

3. ALL WE EVER GOT FROM THEM WAS PAIN

(Movie Mix, 2012) – Alex Chilton

4. SEPTEMBER GURLS

(Movie Mix, 2012)

Per oggi è tutto, alla prossima!

Bruno Conti

Lasciateli Entrare! I Am Kloot – Let It All In

i am kloot let it all in.jpg

 

 

 

 

 

 

 I Am Kloot – Let It All In – Shepherd Moon 2013

Per chi non li conoscesse, gli I Am Kloot sono un trio mancuniano composto da John Bramwell (il vero talentuoso del gruppo), Pete Jobson e Andy Hargreaves, e dopo un decennio trascorso quasi sempre ai margini delle classifiche inglesi, finalmente con Sky At Night (è stato premiato nel 2010 ai Mercury Prize) la band di Manchester ha cominciato a raccogliere in proporzione alle proprie qualità. Indubbiamente meno, molto meno “vendibili” di realtà quali i Coldplay (per fare l’esempio più eclatante) gli I Am Kloot, denotano radici non prettamente anglosassoni, che fanno della loro musica un interessante crossover di influenze. Assodato che il loro appeal rimane fortemente di scuola inglese, l’utilizzo di alcune soluzioni armoniche e di una impostazione molto americana, li rende forse più “appetibili” al di fuori del Regno Unito. Infatti,mischiando ballate up-tempo, pop chitarristico d’autore, melodie Beatlesiane ed arpeggi d’effetto, in questo nuovo lavoro, il loro sesto disco Let It All In (per la prima volta arrivato, al momento, fino al 10° posto delle classiche inglesi citate prima), ottimamente prodotto e arrangiato in maniera semplice ed incisiva dai concittadini Guy Garvey e Craig Potter (Elbow), gli IAK dimostrano che nelle loro canzoni non c’è nulla di scontato.

Il disco si apre con Bullets, che inizia acustica per poi esplodere con lampi di chitarra elettrici, si prosegue con la bellezza cristallina di Let Them All In e la pianistica struggente Hold Back The Night con fiati e archi, da suonare in vecchi e fumosi piano bar. Si riparte con l’incedere pop di Mouth On Me e la cadenzata Shoeless, mentre Even The Stars (da lungo tempo nel loro repertorio) è sublime, ricorda echi lontani dei migliori Lambchop, ma anche dei Waterboys più rock ed epici. Masquerade è un brano dal ritornello orecchiabile, mentre una tromba introduce Some Better Day, dalla semplice ma affascinante linea melodica, cui fa seguito These Days Are Mine dove ritornano fiati e archi su un tessuto molto ritmico, per cedere poi il passo alla dolcezza di Forgive Me These Reminders, brano intenso e profondo, che può portare alla mente artisti introspettivi come David Gray e Lloyd Cole.

John Bramwell e soci sono un’ottima pop-rock band, niente di meno e nulla di più, capaci però di  scrivere belle canzoni, varie, dalle melodie efficaci e dall’ottimo “sound” elettrico (riconducibile anche ai Doves e agli stessi Elbow), e meriterebbero decisamente più fortuna dalle nostre parti, perché qui la qualità non manca di certo. Per gli amanti del rock inglese una formazione da scoprire.

Tino Montanari

Com’è Diventato Vecchio (Ma Bravo)! Lloyd Cole – Broken Record

lloyd cole brpken record_sleeve_300.jpgLloyd-Cole_A1_MitLogos_m_s.jpglloyd cole bearded.jpg

 

 

 

 

 

 

 

Lloyd Cole – Broken Record – Tapete Records Eu/Self-released Usa

Quando escono questi dischi (belli) è come ritrovare un vecchio amico. Ho inizato a frequentare Lloyd Cole quando nel 1984 uscì il primo disco con i Commotions quel Rattlesnakes che ancora oggi fa la sua bella figura, in versione Deluxe, nella mia discoteca. Anzi direi che la conoscenza iniziò con un vecchio vinile 12″, un mix si usava dire, non ricordo se era Perfect Skin o Forest Fire, ma non ha importanza visto che erano entrambe belle canzoni e comunque non li ho più da secoli (problemi di spazio).

Comunque quel disco resiste gagliardamente all’usura del tempo e non è più stato superato da Lloyd Cole e raramente avvicinato a livello qualititivo. Periodicamente ho rinnovato la conoscenza con la sua produzione ma soprattutto negli ultimi anni ho avuto pochi motivi di soddisfazione a parte forse il box di outtakes e rarities Cleaning Out The Ashtrays ma era tutto materiale d’archivio, peraltro ottimo.

Quando ho visto le prime news di questo disco ero piuttosto scettico, le foto ci presentavano un signore ormai quasi 50enne (a gennaio) che da giovane musicalmente sembrava più vecchio di quello che era e che oggi ha raggiunto la parità tra aspetto esteriore ed età anagrafica: ma la musica mi ha convinto pienamente!

Sono solo undici brani, poco più di 35 minuti di musica, ma non c’è una canzone di valore scarso, perfino la stampa inglese che lo ha quasi sempre massacrato gli ha dato quattro stellette come piovesse soprattutto analizzando il contenuto dei suoi testi, ma quelli sono sempre stati e sono rimasti brillanti. L’incipit del primo brano e quindi del disco tutto, quello che recita “Not That I Had That Much Dignity Left Anyway” li ha mandati addirittura in sollucchero.

Ma è la musica che convince. Il suono ritorna quello di un gruppo, con Fred Maher alla batteria, il vecchio pard Blair Cowan che si occupa nuovamente delle tastiere, uno stuolo (va bè ho esagerato, sono 3) di chitarristi tra cui una pedal steel guitar suonata da Bob Hoffnar, che conferma che questo strumento che appare in moltissimi dischi recenti è tornato di moda. E poi c’è Joan Wasser (Joan As A Policewoman per chi la segue con il suo nome d’arte) che si occupa delle deliziose armonie vocali e dei contrappunti vocali femminili nonché di violino, piano e chitarra.

Il risultato, fin dall’iniziale Like A Broken Record, è gioiosamente malinconico (che sembra una contraddizione di termini): la pedal steel e il banjo pizzicato gli conferiscono un suono quasi country,un bel valzerone, ma la voce, che assomiglia moltissimo, tra tanti, al glorioso Al Stewart (non sono stato l’unico a notarlo) ma anche, aggiungo io, a George Harrison (tornato molto in auge tra le influenze attuali dei musicisti), la voce si diceva è tornata sicura e in primo piano con le belle armonie della Wasser. Writers Retreat, con un testo delizioso, ha di nuovo quella perfezione pop dei primi anni, tra mandolini, armoniche e chitarre che si muovono agili su un tessuto sonoro delicato ma forte al tempo stesso (con qualche reminiscenza del suono del primo Rod Stewart, quello di Every picture tells a story).

The Flipside è un’altra stupenda ballata ancora con quelle melodie malinconiche ma solari che erano un marchio di fabbrica del terzo Beatle e che Lloyd Cole fa sue, candidandosi ad ideale erede di quel mondo sonoro. Una più bella dell’altra, Why In The World è un altro bijou sonoro, una perfetta rappresentazione di equlibri sonori, tra canzone d’autore e dolcezze folk-pop. Westchester County jail accelera i tempi e si riavvicina a sonorità più country (ancora la pedal steel) ma di nuovo con quelle fantastiche armonie vocali e una chitarra che sembra provenire da un vecchio disco degli anni ’60 o da un vecchio disco di Lloyd Cole se è per quello, breve ma perfetta.

If I Were A Song dopo un inizio acustico e raccolto si distende di nuovo verso raffinati e complessi arrangiamenti di gran classe e lui canta con una totale nonchalance; in That’s Alright fa la sua comparsa addirittura una certa grinta rock, la batteria arrota i tempi e i musicisti si scompongono un po’, le chitarre ruggiscono, alla Lloyd Cole quindi con la dovuta moderazione, ma in modo comunque trascinante.

Oh Genevieve con la sua saltellante andatura falsamente francese (mais oui) e qualche vocabolo gettato lì con noncuranza è un’altra perfect pop song, la vocina di Joan Wasser si accosta a meraviglia con quella del nostro amico.

Man Overboard si avvicina quasi a stilemi neo-folk da cantautore dei vecchi tempi ma è forse uno dei brani che più ricordano il vecchio Al Stewart che però, soprattutto, nei primi dischi, era molto più bravo in questo genere. (Cercatevi Past, Present and Future che è un disco straordinario).

Infine arriva anche un pezzo di puro country, a partire dal titolo, Rhinestones, con mandolino, banjo e chitarre acustiche che avvolgono la voce di Cole.

Last but not least l’ottima Double Happiness finisce le procedure in gloria. Secondo miglior risultato della sua carriera, per il sottoscritto, forse, poi magari ci ripenso, ma per il momento è così!

Bruno Conti