Questi Vanno Tenuti D’Occhio: Warren Hood Band!

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The Warren Hood Band -The Warren Hood Band – Red Parlor CD

Ecco un gruppo veramente bravo.

In realtà un trio, la Warren Hood Band proviene da Austin, Texas, ed è formata appunto da Warren Hood (violino, chitarra, mandolino e voce solista), Willie Pipkin (chitarra solista) ed Emily Gimble (piano ed organo, veramente brava, e d’altronde è la nipote del leggendario Johnny Gimble, violinista dei Texas Playboys di Bob Wills).

Anche Warren è nella musica da parecchi anni: suona il violino da quando ne ha nove, e, prima di formare un suo gruppo, ha collaborato con fior di artisti, come Emmylou Harris, Lyle Lovett, Little Feat, Elvis Costello e Gillian Welch, pure lui figlio d’arte, il babbo era Champ Hood, collaboratore a lungo di Lyle Lovett (anche nella Large Band) e Toni Price, nonché nella Uncle Walt’s Band  con Walter Haytt, tra i tanti, scomparso prematuramente nel 2001.

Esperienze importanti, direi decisive per maturare un background musicale di tutto rispetto, che viene rivelato in questo album di debutto, intitolato semplicemente The Warren Hood Band, che vede, tra i vari musicisti di supporto, il grande Lloyd Maines, e per produrre il quale si è scomodato addirittura Charlie Sexton, uno che negli ultimi anni ha spesso suonato la lead guitar on the road per Bob Dylan (nuovamente dal 2009, in sostituzione di Danny Freeman) oltre che essere un bravissimo musicista di suo.

Non male per un disco di debutto.

E Warren (già con i Waybacks) che scrive nove delle undici canzoni dell’album, dimostra di avere non poco talento: possiamo dire di trovarci di fronte ad un texano atipico, in quanto non fa semplicemente del country-rock diretto ed elettrico come molti suoi colleghi, ma fonde nel suono elementi sudisti, country, folk, pop, soul, cantautorali e bluegrass, riuscendo a non risultare caotico, ma bensì fornendoci una manciata di brani davvero intriganti. I suoi compagni, Pipkin e la Gimble, sono molto bravi ad accompagnarlo (soprattutto lei), e quindi il disco che ne risulta non può che essere uno dei debutti più positivi degli ultimi tempi.

Apre Alright, che è anche il primo singolo e forse la più texana del lotto, un rock’n’roll frizzante, tra roots e country ma con un tocco di pop, ed una bella slide ad occuparsi delle parti soliste.

You’ve Got It Easy continua con il mix tra rock e pop, strumenti al posto giusto, melodia solare ed una bella personalità (ottimo anche il lavoro di Sexton alla consolle, ma questo non lo scopriamo oggi). Pear Blossom Highway, con la Gimble voce solista (il primo di tre brani con lei come lead vocalist), è una ballata d’altri tempi, sfiorata dal country e nobilitata da ottimi assoli di violino (Hood) e steel (Maines); la mossa Where Have You Gone ha un gradevole sapore white soul, come se fosse stata scritta da Dan Penn.

La corale The More I See You è puro country, semplice e vivace, con violino e piano protagonisti ed una melodia decisamente buona; Songbird è praticamente un brano folk, sempre sostenuto da un motivo di prim’ordine, mentre Take Me By The Hand è più rarefatta e forse meno immediata, ma musicalmente molto interessante, sembra quasi che nell’arrangiamento ci abbia messo le mani Van Morrison. Motor City Man, sostenuta dal piano, ha per contro un motivo molto diretto, Last One To Know è quasi una bluegrass tune, suonata in maniera volutamente sghemba.

L’album si chiude con la lenta e soulful This River, quasi una ballata alla Delaney & Bonnie, e con What Everybody Wants, saltellante e gioiosa, sempre con la Gimble sugli scudi.

Warren Hood ed i suoi compagni possiedono un sicuro talento: speriamo non lo disperdano strada facendo.

Bel disco.

Marco Verdi

Un Altro Galletto Nel “Pollaio” Del Rock! Martin Zellar And The Hardways – Roosters Crow

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Martin Zellar & The Hardways – Roosters Crow – Owen Lee Recordings Self Released 2012

Cosa accomuna Martin Zellar ex leader dei Gear Daddies (formazione di Minneapolis) con Will T. Massey, Michael McDermott (è uscito da poco un nuovo lavoro), Willie Nile, Joe Grushecky, il primo Matthew Ryan e le “meteore” Billy Falcon , Doc Lawrence e Larry Crane (il fidato chitarrista di Mellencamp)? Sono tutti “rockers” riconducibili a quello stile, figlio di Springsteen e cugino di Earle e Mellencamp, fatto di ballate elettriche stradaiole, di racconti di vita semplice e quotidiana che in buona parte abbiamo imparato ed amare grazie al “Boss”. Metà rocker e metà songwriter, il buon Martin Zellar è uno di quelli che nella seconda metà degli anni ’90, con un esordio importante Born Under (95), il seguente omonimo Martin Zellar (96) e direi anche The Many Moods of Martin Zellar (98), ha alimentato la speranza di una nuova ondata di giovani di belle speranze (quelli che ho elencato), dal sound elettrico e dal cuore romantico. A dieci anni dall’ultimo lavoro in studio Scattered (2002), Martin Zellar si rimette in gioco con i suoi fidati Hardways (che sono Dominic Ciola al basso e Scott Wenum alla batteria), con questo lavoro Roosters Crow (uscito da qualche mese), sotto l’esperta produzione di Pat Manske e con l’apporto di validi musicisti texani come Lloyd Maines al dobro e pedal-steel, Bukka Allen all’organo, Michael Ramos al piano, e le redivive Kelly Willis e Terri Hendrix alle parti vocali, il rocker di Minneapolis si è rimesso di nuovo sulla strada giusta.

Si parte subito alla grande con Took The Poison , una splendida ballata notturna, tra le più belle ascoltate quest’anno, con una melodia toccante valorizzata dal controcanto della Willis, seguita da Wore Me Down, tipico brano in mid-tempo accelerato con uso di dobro e mandolino. Si ritorna alla ballata con Running On Pure Fear, cantata ancora con la brava Kelly Willis, brano dall’andatura sognante, che si sviluppa in un crescendo quasi rabbioso, mentre Give & Take ha un ritmo più campagnolo dove entrano in gioco la fisarmonica, il mandolino e il dobro, un brano dal quale molti nomi di punta del “nuovo country”, dandogli un ascolto, potrebbero trarre qualche spunto e giovamento. Roosters Crow inizia con la batteria tambureggiante di Wenum e il basso di Nick Ciola, che dettano il tempo di una canzone tipicamente “blue collar”, che purtroppo, secondo chi vi scrive, da un po’ di tempo Joe Grushecky non sa più scrivere.

Si cambia ritmo con l’anonima I’m That Problem, mentre Some Girls è un’altra bella rock-song cantata al meglio da Martin, dove musicalmente si fa notare una bella slide, bissata da Where Did The Words Go? che si sviluppa su un tessuto sonoro guidato da pianoforte e cello. La canzone successiva, Seven Shades Of Blue, mette in risalto la bravura di Maines al dobro, mentre The Skies Are Always Gray è il cambio di rotta che non ti aspetti: chitarre in spolvero, organo in tiro con Bukka Allen sugli scudi, per un brano che solo un americano “vero” può fare, con tanto feeling, mentre la conclusiva It Works For Me è un brano country-rock, dominato dalla sezione ritmica, al quale la voce aggressiva (anche se non straordinaria) di Zellar conferisce caratteristiche urbane.

Dopo 25 anni di carriera Martin Zellar e i suoi Hardways dimostrano di essere degli “outsiders” di lusso in un panorama musicale alquanto stagnante ultimamente, dove in definitiva questo lavoro Roosters Crow (bellissima la copertina), è senza una sbavatura, suonato e cantato splendidamente, consigliato a chi ama il Boss e i derivati, per il sottoscritto la conferma che dopo anni di anonimato, Zellar, fortunatamente, ha visto di nuovo la luce.

Tino Montanari