Ancora “Quelle” Canzoni, Ma Non Ci Si Può Certo Lamentare! Roger Waters – Us + Them

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Roger Waters – Us + Them – Columbia/Sony DVD – BluRay – 2CD

Di comune accordo con Bruno ho deciso di sorvolare sul nuovo album dal vivo dei Queen con Adam Lambert (una combinazione che può avere senso vedere di persona, più che altro per la storia personale di Brian May e Roger Taylor, ma che ascoltata su disco innesca un chiaro “effetto cover band”, nonostante il giovane Adam abbia comunque una gran voce), ma non potevo esimermi dal parlare di Us + Them, nuovo live di Roger Waters che, piaccia o no, è una delle figure di spicco e più carismatiche del panorama rock mondiale. Quarto disco dal vivo dell’ex leader dei Pink Floyd dopo i due The Wall (quello “collettivo” del 1990 a Berlino e quello più recente del 2015) ed il “greatest hits live” In The Flesh del 2000, Us + Them è in realtà la colonna sonora del film-concerto uscito nelle sale lo scorso anno (che non ho visto), nel quale le immagini registrate nel corso di quattro serate allo Ziggo Dome di Amsterdam (e pare anche in qualche imprecisata data inglese) durante il tour in supporto a Is This The Life We Really Want? vengono intervallate da interviste ed incontri con immigrati di varie etnie da parte dello stesso Waters, attento come sempre alle problematiche sociali.

A differenza di altre uscite, per esempio dei Rolling Stones, in cui sono disponibili i “bundle” CD/DVD o CD/BluRay, qui i due supporti video vengono venduti separatamente rispetto al doppio CD, e la cosa mi ha fatto optare per la sola parte audio dal momento che volevo evitare, come per esempio succedeva nel The Wall del 2015, di vedere un concerto interrotto più volte per sorbirmi le opinioni politiche di Waters che mi interessano il giusto (e che comunque non mancano neppure durante lo show): e poi, in ogni caso, avevo assistito nel 2018 alla prima delle due serate al Forum di Assago, quindi per questa volta ho preferito concentrarmi più sulla musica che sulle immagini. C’è da dire che il concerto è decisamente spettacolare dal punto di vista visivo, con i soliti giochi di luci, colori ed effetti speciali nonché le splendide immagini ad altissima definizione proiettate sul palco, ma non è che dal punto di vista musicale lo show sia inferiore, anzi: le canzoni che Waters ha reso celebri con i Floyd sono note a tutti, e qui non mancano di certo, ma quello che rende secondo me il doppio CD imperdibile è la qualità sonora incredibile, cosa non comune per un disco dal vivo, al punto che mi sorge qualche dubbio sul fatto che sia stato “aggiustato” in studio.

Non è neppure secondaria per la riuscita del lavoro la superband che accompagna il nostro (che tra parentesi è in buona forma vocale considerata l’età ed il fatto che non sia mai stato un grandissimo cantante), un gruppo guidato dal ben noto Jonathan Wilson alla chitarra e voce (sue le parti cantate originariamente di David Gilmour), gli altri due chitarristi Dave Kilminster e Gus Seyffert, i tastieristi Jon Carin (a lungo coi Floyd guidati proprio da Gilmour) e Bo Koster, il batterista Joey Waronker, il sassofonista Ian Ritchie ed il duo delle Lucius, ovvero Jess Wolfe e Holly Laessig, alle voci di supporto. Un live molto bello quindi (e non potrebbe essere altrimenti con certe canzoni) che, ripeto, ha un suono che raramente ho ascoltato in un album dal vivo. L’inizio è di esclusivo appannaggio di The Dark Side Of The Moon, con l’introduttivo battito cardiaco di Speak To Me seguito da Breathe, Time (con un duetto Wilson-Waters), la ripresa di Breathe e The Great Gig In The Sky (quest’ultima con le due Lucius protagoniste), una sequenza interrotta solo dalla sempre trascinante ed applauditissima One Of These Days, già sentita recentemente sul live di Nick Mason (ed il match si chiude in parità). Una splendida Welcome To The Machine, brano che ascolto sempre con grande piacere, precede un trittico di pezzi dall’ultimo studio album del nostro, e cioè la bellissima ed emozionante Déjà Vu, una ballatona che è puro Waters, la drammatica The Last Refugee e la tesa ed affilatissima Picture That.

Il primo CD si chiude con la sempre toccante Wish You Were Here, suonata da Dio e particolarmente suggestiva, e l’unico e forse un po’ scontato omaggio a The Wall con The Happiest Days Of Our Lives seguita dalla seconda e terza parte di Another Brick In The Wall. La seconda parte dello show è la più spettacolare dal punto di vista visivo, dal momento che la famosa Battersea Power Station raffigurata sulla copertina di Animals viene ricreata on stage (e presto raggiunta anche dal mitico maiale volante), ma anche la parte musicale non scherza con un uno-due tra Dogs e Pigs (Three Different Ones) davvero strepitoso, che rappresenta forse il punto più alto del concerto. Il finale è ancora riservato allo storico disco con in copertina il prisma ottico con Money, Us & Them, Brain Damage ed Eclipse suonate una dietro l’altra, mentre come aggiunta speciale sul doppio CD abbiamo due tracce esclusive registrate in studio, cioè una breve ripresa strumentale di The Last Refugee ed una cantata della sempre splendida Déjà Vu, ma con due versi inediti non presenti su Is This The Life We Really Want?

Interessante, ma forse avrei preferito l’inserimento di Mother e Comfortably Numb, spesso suonate come bis (la seconda è però presente come bonus nel DVD e BluRay, insieme a Smell The Roses). Considerando l’età di Roger Waters e soprattutto la sua “pigrizia”, questo Us + Them potrebbe anche essere la sua ultima testimonianza dal vivo: un motivo in più per non lasciarsela sfuggire.

Marco Verdi

Il Gabbiano Jonathan Vola Sempre Alto! Jonathan Wilson – Rare Birds

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Jonathan Wilson – Rare Birds – Bella Union Records

La prima volta che vidi sul palco Jonathan Wilson non sapevo neppure chi fosse. Mi trovavo con alcuni amici a San Sebastian per assistere ad un concerto di Jackson Browne , che, per l’occasione, doveva suonare insieme alla giovane band californiana dei Dawes, talentuosi esordienti il cui secondo disco, Nothing Is Wrong, era stato prodotto proprio da Jonathan Wilson. Il calendario datava 24 luglio ma sembrava ottobre inoltrato, la magnifica spiaggia su cui torreggiava il grande palco del festival Jazzaldia era zuppa per la pioggia che era caduta quasi incessantemente tutto il giorno, accompagnata dal vento freddo proveniente dall’oceano. A riscaldarci furono prima gli stessi Dawes, con un’esibizione sanguigna e coinvolgente, poi, a mezzanotte e mezza passata (ma per gli spagnoli è ancora presto…), il buon Jackson con i suoi classici immortali, supportato egregiamente dal gruppo dei fratelli Goldsmith e dal loro produttore. Alto e magro, capello lungo e barba incolta, Wilson sembrava una di quelle tipiche icone californiane degli anni settanta. Mostrò subito la stoffa del leader, come ottimo chitarrista e corista, e Browne gli cedette la scena per fargli eseguire Gentle Spirit, la lunga e affascinante ballad che dà il titolo all’ album che sarebbe stato pubblicato di lì a poco https://discoclub.myblog.it/2011/08/08/un-jonathan-tira-l-altro-da-laurel-canyon-e-dintorni-jonatha/ .

Esattamente due anni dopo la scena si è ripetuta al Carroponte, spazio concertistico alle porte di Milano, con la sostanziale differenza che stavolta Jonathan era l’unico protagonista della serata con la sua band. Io, gli amici e ciascuno dei presenti ci siamo goduti un’esibizione esaltante di rock imbevuto di psichedelia e divagazioni folk di chiara matrice californiana. I brani, spesso dilatati da pregevoli parti strumentali in cui giganteggiava la chitarra del leader, ben coadiuvato dai suoi compagni, davano l’idea di un musicista maturo, abile riesumatore di suoni del passato assemblati con gusto ed intelligenza. Questa impressione fu pienamente confermata dall’uscita del successivo album Fanfare, nell’ottobre del 2013, che fece incetta di critiche positive un po’ ovunque, generando al contempo un equivoco che perdura ancora oggi, ovvero il considerare Jonathan Wilson come una sorta di erede del suono californiano degli anni d’oro di quella comunità di musicisti che si era formata nei dintorni di Los Angeles nell’area di Laurel Canyon (dove tuttora Jonathan possiede uno studio di registrazione, rinomato per le sue preziose apparecchiature analogiche). La varietà delle fonti d’ispirazione da cui Wilson attinge è molto più ampia e complessa, riguarda tanto il contesto americano quanto quello britannico, come testimonia la sua produzione e collaborazione con una colonna del folk rock inglese come Roy Harper, oppure la recente partecipazione all’ultimo album di Roger Waters e al successivo tour che è appena andato in scena nei palasport italiani, dove Jonathan si esibisce come seconda chitarra, cantando le parti che erano di David Gilmour.

Rare Birds , il nuovo album pubblicato all’inizio di marzo, lo evidenzia ancora di più, nelle tredici lunghe tracce che il suo autore ha definito cosmiche, originate da uno stato d’animo spesso non positivo, il tentativo di superare una situazione di abbandono e di solitudine. Wilson mescola sapientemente sonorità vintage usando l’elettronica accanto a strumenti tradizionali, creando un connubio quasi sempre riuscito e piacevole. L’iniziale Trafalgar Square si apre come una citazione della pinkfloydiana Breathe, con le voci registrate e la languida steel guitar sullo sfondo, poi una sventagliata di mandola apre la strada ad un’elettrica dal suono sporco e la canzone prende corpo in modo efficace. Ancora meglio Me, che parte sonnacchiosa e si sviluppa in modo avvolgente fino all’esplosione finale che vede protagonista una chitarra distorta e urticante. Over The Midnight, coi suoi furbi campionamenti stile anni ottanta, ha una struttura melodica che inevitabilmente conquista e invita a premere sull’acceleratore durante le guide notturne. There’s A Light ci rituffa in California, con una bella lap steel a condurre le danze e una melodia ancora accattivante, con le belle armonie vocali delle Lucius. Il pianoforte domina la nostalgica Sunset Blvd, fino alla conclusiva stratificazione di suoni che rimanda a certe composizioni del suo quasi omonimo, l’inglese Steven Wilson. La title track offre acide sventagliate di chitarra che è facile accostare al maestro Neil Young, nulla di nuovo, ma certamente gradevole. 49 Hairflips scava ancora nel melodramma di un amore finito, il piano si fonde in un magma di tastiere dall’effetto evocativo e malinconico.

In Miriam Montague convivono i Kinks e l’Electric Light Orchestra in una specie di mini suite non particolarmente esaltante. Meglio il mantra ipnotico Loving You che, grazie ai vocalizzi del guru della new age Laraaji ci conduce in territori insoliti ed evocativi. Ancora atmosfere notturne dominano la successiva Living With Myself che gioca sul contrasto tra le strofe crepuscolari ed un ritornello solare. Il synth sullo sfondo sembra rubato a quello che Roy Bittan suonava in Downbound Train o in I’m On Fire  Boss, e che dire allora della rullata di batteria campionata su cui si basa tutta la ritmica della successiva Hard To Get Over? Andate a riascoltare l’intro di Don’t Come Around Here No More di Tom Petty (e Dave Stewart) e non potrete ignorarne la somiglianza. Dall’episodio meno riuscito del disco ad uno dei più positivi, il country scanzonato e un po’ ruffiano di Hi Ho To Righteous, in cui convivono lap steel e disturbi rumoristici quasi a voler parodiare inni del passato come Teach Your Children. Notevole anche qui il finale in crescendo che ci conduce alla rarefatta e conclusiva Mulholland Queen, una intensa e disperata confessione che si sviluppa sulle note del piano e dell’orchestra in sottofondo. Fra echi e rimandi non si può dire che Rare Birds sia un disco innovativo e neppure un capolavoro (e certo non merita le critiche negative che qualcuno, pochi, a torto gli hanno appioppato), eppure ascoltarlo fa lo stesso effetto che guidare su una strada panoramica: ad ogni curva ti puoi imbattere in uno scorcio bello ed emozionante.

Marco Frosi

Dal Nostro Inviato: Anche Dal Vivo Il Ragazzo E’ “Bravino”! Roger Waters A Milano.

Roger Waters

Roger Waters – Forum Di Assago 18.04.2018

In realtà non è che devo arrivare io bello bello a dirvi che Roger Waters, leader storico dei Pink Floyd (75 anni da compiere a Settembre), dal vivo vale la pena di essere visto, anche perché per il sottoscritto quella di ieri sera a Milano era la quarta volta. Ho però constatato con piacere che il nostro è ancora in forma smagliante nonostante gli anni, cosa non scontata visto che il tour di The Wall di qualche anno fa sembrava essere il suo canto del cigno on stage. Ed invece Roger, a seguito del suo bellissimo album dello scorso anno Is This The Life We Really Want  https://discoclub.myblog.it/2017/06/03/e-questo-il-roger-waters-che-veramente-vogliamo-si-direbbe-di-si-roger-waters-is-this-the-life-we-really-want/ ha messo su di nuovo un imponente giro di concerti che lo ha già visto in giro per il mondo nel 2017: quella di ieri al Forum di Assago è stata la seconda ed ultima data milanese del suo Us + Them Tour, ed è stato come al solito uno spettacolo eccelso di più di due ore, nel quale il nostro, che è carismatico come pochi altri, ha entusiasmato senza troppi problemi un pubblico decisamente caldo e preparato, anche se con una scaletta forse un po’ scontata, senza troppi rischi, composta all’80% da pezzi dei Floyd.

Si sa che nei concerti di Waters anche l’impatto visivo ha la sua importanza, ed anche ieri non è stata un’eccezione, con immagini bellissime ma anche drammatiche ed inquietanti proiettate sull’enorme schermo dietro il palco, ma, specie nel primo set, stavolta più di altre, la musica ha avuto il sopravvento sulla parte video (ma la “ricostruzione” all’inizio del secondo tempo, tramite schermi speciali e ciminiere gonfiabili, della mitica centrale termoelettrica di Battersea in mezzo alla platea – e con tanto di maiale volante – valeva da sola il prezzo del biglietto). Inoltre, Roger si è circondato come al solito di musicisti formidabili, che hanno dato alle canzoni proposte un suono decisamente compatto, forte ed in alcuni casi anche più rock che in origine: oltre alle due vecchie conoscenze Jon Carin alle tastiere e steel guitar e Ian Ritchie al sax, abbiamo Gus Seyffert al basso e chitarra, Joey Waronker alla batteria, Bo Koster al piano, synth e hammond, le due bravissime vocalist Jess Wolfe e Holly Laessig (cioè le leader dei Lucius) e, last but not least, due splendidi chitarristi che si sono divisi equamente le parti ritmiche e soliste, cioè Dave Kilminster ed il ben noto Jonathan Wilson (presente anche lui nell’ultimo disco di Roger), che oltre ad essere un musicista coi fiocchi per conto suo si è dimostrato anche una validissima spalla, al punto da sobbarcarsi anche quasi tutte le parti vocali che in origine erano di David Gilmour (tranne in Time, dove però ha fatto le veci di Richard Wright, e Wish You Were Here).

Particolare personale curioso: è la seconda volta che vedo Wilson dal vivo, e nessuna delle due volte per mia scelta (la prima è stata quando aveva aperto il concerto di Tom Petty a Lucca). La serata comincia alle 21.15 circa con Breathe, un avvio rilassato in cui i nostri suonano in maniera pulita (e per una volta l’acustica del Forum è buona), con Wilson voce solista e Roger che per ora fa il sideman al basso; si entra poi subito nel vivo con una versione molto rock e “cattiva” di One Of These Days, che provvede già a riscaldare il pubblico a dovere, con un’ottima prestazione di Kilminster alla slide. Ancora un po’ di The Dark Side Of The Moon con una fluida Time, nella quale Roger esordisce finalmente alla voce prendendosi la parte di Gilmour (la scaletta sarà studiata in maniera di dare al nostro diverse pause alle corde vocali, dato che non è mai stato Pavarotti ed in più gli anni cominciano a farsi sentire) e con una liquida The Great Gig In The Sky, dove le due Lucius fanno di tutto per non far rimpiangere Clare Torry. La dura Welcome To The Machine viene fuori decisamente più roccata, ed il pubblico mostra di apprezzare; e poi la volta di tre brani in fila dall’ultimo album di Roger, la splendida e toccante Dejà Vu, uno dei pezzi migliori di Waters da quando ha lasciato i Floyd, la più normale The Last Refugee e la dura (nel testo) e solida Picture That. Wish You Were Here non ha bisogno di presentazioni, è una delle più belle ballad di sempre, e la band la suona in maniera cristallina, con prevedibile singalong da parte del pubblico (buona anche l’interpretazione vocale di Roger, che non la cantava in origine). Il primo set si chiude con un trascinante medley tratto da The Wall, composto da The Happiest Days Of Our Lives e dalla seconda e terza parte di Another Brick In The Wall, con la partecipazione sul palco di una serie di ragazzini di una scuola milanese in tuta arancione da carcerato.

Dopo venti minuti di pausa, si apre il secondo set con quelle che mi sono sembrate le due performance più convincenti della serata, cioè due stratosferiche Dogs e Pigs (Three Different Ones), entrambe tratte da Animals (e con la seconda accoppiata ad immagini dell’attuale presidente degli Stati Uniti, che Waters non ama particolarmente), suonate davvero alla grandissima, non oso dire meglio dei Pink Floyd ma non siamo molto distanti, con una jam session strepitosa nella parte centrale e conclusiva di Pigs. Finale a tutto Dark Side, con una Money forse un po’ col freno a mano tirato e con la maestosa Us And Them (entrambe cantate da Wilson), e con la coinvolgente chiusura in crescendo di Brain Damage ed Eclipse: in mezzo, il quarto ed ultimo pezzo preso dal disco del 2017, la vibrante Smell The Roses, forse il brano più floydiano dell’album. Due i bis: la sempre splendida e toccante Mother, con le due coriste bravissime nella parte di Gilmour, e la sontuosa Comfortably Numb, con Wilson e Kilminster che si dividono i due assoli di chitarra. Bellissima serata quindi: se vogliamo tornare sul discorso della scaletta, forse si sarebbe potuto osare di più, un po’ meno The Dark Side Of The Moon e qualche episodio in più dagli album solisti del passato (penso a Every Stranger’s Eyes, The Tide Is Turning e Perfect Sense), e magari una o due canzoni da The Final Cut, che in passato il nostro era solito mettere. Ma è il classico pelo nell’uovo (se proprio vogliamo anche Shine On You Crazy Diamond mi è mancata un po’), il concerto è stato comunque eccellente e poi Roger Waters è uno dei “totem” della nostra musica, con o senza i Pink Floyd.

Marco Verdi

Quando Il Vintage Diventa Alternativo! JD McPherson – Undivided Heart And Soul

jd mcpherson undivided heart & soul

JD McPherson – Undivided Heart And Soul – New West CD

Terzo album con incluso cambio d’etichetta (la New West, dopo i primi due lavori targati Rounder) per JD McPherson, giovane musicista originario dell’Oklahoma ma da tempo residente a Nashville. Nonostante risieda nella capitale del Tennessee, e sia anche andato ad incidere il suo nuovo album nel leggendario RCA Studio B (un pezzo di storia, dentro ci sono passati tra gli altri Chet Atkins, Ernest Tubb, Don Gibson, Jim Reeves, Porter Wagoner, Willie Nelson e, last but nor least, Elvis Presley), McPherson non fa country, non ne è neppure lontanamente influenzato. Infatti la sua musica è una originalissima miscela di sonorità rock’n’roll anni cinquanta, surf music, pop in perfetto stile sixties ed anche garage music, il tutto mescolato ad arte e condito con melodie di stampo moderno. JD (che sta per Jonathan David) non assomiglia a nessuno, fa la sua musica ed album dopo album è riuscito nell’intento di far parlare di sé: Undivided Heart And Soul è il suo nuovo disco, un lavoro che riunisce in undici canzoni tutte le caratteristiche del nostro, con la produzione di Dan Molad, da tempo collaboratore dei Lucius (e metà del gruppo di Brooklyn è presente, nelle persone di Jess Wolfe e Holly Laessig).

Un album fresco, pimpante, creativo e, per una volta, originale, anche se fa un po’ di tristezza dover constatare che per essere fuori dal coro bisogna tornare alla musica di cinquanta e passa anni fa. JD può inoltre contare su di una band molto solida che ha i suoi punti di forza nella chitarra di Doug Corcoran e nelle tastiere di Raynier Jacildo, ma anche la sezione ritmica formata da Jimmy Sutton e Jason Smay non si tira certo indietro. Il disco inizia con la roccata Desperate Love, un brano coinvolgente, ritmato e con un feeling da garage band anni sessanta, voce sicura ed attenzione dell’ascoltatore già catturata fin dal principio. Crying’s Just A Thing You Do è più elettroacustica, ma il ritmo è comunque sostenuto, forse il brano è un po’ ripetitivo ma JD compensa con energia e feeling, e poi c’è un assolo molto particolare di una chitarra twang alquanto distorta. Lucky Penny è il singolo (esiste anche un video), ma il pezzo non è per nulla commerciale, anzi mantiene quelle caratteristiche da canzone underground d’altri tempi, elettrica, grintosa e molto diretta, mentre Hunting For Sugar, sempre restando a cavallo tra sessanta e settanta, ha un’atmosfera eterea, cosmica, al limite del psichedelico, ma con un’anima pop niente male.

Con On The Lips andiamo ancora più indietro nel tempo, l’accompagnamento è quasi surf, con reminiscenze degli Shadows o del Link Wray più “tranquillo”, il tutto in contrasto con la voce e la melodia, indubbiamente contemporanee; la title track, sempre cadenzata, ha un deciso e limpido gusto pop-rock che la avvicina a certe cose di Dave Edmunds, Bloodhound Rock inizia come uno strumentale ancora molto sixties, la voce entra solo a metà canzone e le chitarre, ben doppiate dall’organo, suonano con grinta. Style (Is A Losing Game) ricorda i primi Kinks, quelli più rock’n’roll, Jubilee è una squisita pop ballad che sembra uscita da un disco del 1967/68, ancora piacevole nel suo voluto citazionismo, Under The Spell Of City Lights è giusto a metà tra pop e rock, anzi sembra quasi il pezzo di un oscuro gruppo beat; il CD si chiude con Let’s Get Out Of Here While We’re Young (bel titolo), già vintage fin dalle prime note d’organo, e pure nel prosieguo a base di riff di chitarra in puro stile garage, degno finale per un album molto piacevole, fresco e perfino innovativo nel suo voler essere insistentemente retro.

Marco Verdi

Con Babbo, Fratello, Zia e Cugine “Acquisite” Al Seguito, Non Male. Lukas Nelson And Promise Of The Real

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Lukas Nelson & Promise Of The Real – Lukas Nelson & Promise Of The Real –Fantasy/Concord//Universal

Lukas Nelson, non ce lo possiamo nascondere, è il figlio di Willie Nelson, uno dei sette, insieme all fratello Micah, il più giovane della discendenza. Il suo primo disco, sempre omonimo, era uscito nel 2010, a livello indipendente, poi ne hanno fatti uno per la Warner e un altro indie, e questo quindi è il quarto album: in mezzo i Promise Of The Real sono diventati la band di Neil Young, prima per il discreto (per il sottoscritto, http://discoclub.myblog.it/2015/06/24/ogm-grande-musica-neil-young-promise-of-the-real-the-monsanto-years/ a Marco era piaciuto) The Monsanto Years e poi per lo “strano” Live Earth http://discoclub.myblog.it/2016/06/26/nuovo-tipo-musica-ambient-neil-young-promise-of-the-real-earth/ .Si parlava anche di un ennesimo disco in coppia con il canadese (e infatti era uscito il video per un brano nuovo Children Of Destiny,  ma per ora non se ne è fatto nulla https://www.youtube.com/watch?v=4RKBUG9VLFU ), ma a sorpresa esce questo nuovo CD,: il fratello Micah Nelson è stato retrocesso ad ospite, al piano e banjo in un brano, mentre il resto della famiglia è presente tutta, babbo Willie con chitarra Trigger al seguito in Just Outside Of Austin, dove appare anche al piano la zia Bobbie Nelson. Volendo, come ospiti, ci sarebbero anche le “cuginette” acquisite Lucius (sentite nel recente disco di Roger Waters), presenti in cinque brani, e la “lontana cugina italiana” Lady Gaga, in due brani, dove non fa disastri, in uno indistinguibile, potrebbe cantare chiunque, anche Janis Joplin risorta, nell’altro Find Yourself, uno dei pezzi migliori del disco, persino brava.

La formazione è diventata un sestetto, aggiungendo un tastierista e un secondo chitarrista, alla steel: il genere? Bella domanda, direi che più che country, che è comunque presente, si potrebbe definire Americana, roots music, spesso con una propensione per il rock: se avete letto da qualche parte che ascoltando Lukas sembra di sentire il padre, non credeteci, per me è una balla colossale, sì, Lukas ha una voce piacevole, direi persino “adeguata”, ma non è un grande cantante come Willie. Ci sono almeno un paio di categorie di cantanti, quelli che hanno una bella voce e quelli con una voce “particolare”, come Bob Dylan o Lou Reed, ma questi scrivono canzoni sensazionali. Forse ce ne sarebbe anche una terza, quelli con voce normale e canzoni memorabili, direi che Lukas Nelson non rientra in nessuna delle tre: questo non vuol dire che non sia bravo o che l’album sia brutto, tutt’altro, il disco è buono e si ascolta con piacere, con qualche pezzo sopra la media. Citando alla rinfusa, la conclusiva If I Started Over, una sorta di valzerone country pianistico con uso di pedal steel, dove effettivamente all’inizio la voce di Lukas assomiglia in modo impressionante a quella del babbo, ma poi quando sale di tonalità la similitudine si spegne, anche se la canzone rimane bella e malinconica, come certe composizioni di Willie. L’aria di famiglia si respira anche nella citata Just Outside Of Austin, che parte come una sorta di Everybody’s Talkin’ Part II, o un pezzo della Nitty Gritty più dolce e melanconica, e poi nella seconda parte quando il ritmo si anima maggiormente, si respira aria di morbido country texano, ma anche di qualche perduto brano di Glen Campbell, con la chitarra di Willie a sostituire il vecchio amico.

L’iniziale Set Me Down On A Cloud è un cadenzato pezzo rock dove si apprezza l’ottimo lavoro della solista, e anche di tutta la band, con una nota di merito per le armonie quasi gospel delle Lucius, che danno un aria rock got soul alla canzone, provvista pure di una bella coda strumentale un po’ alla Young; Die Alone è un robusto ‘70’s rock, di nuovo con le Lucius in spolvero, organo e chitarra in vivaci call and response, ben cantato ed energico il giusto, mentre Fool Me Once è un ondeggiante honky-tonk, dalle parti di Jimmy Buffett, solare e molto piacevole, sempre con Jess Wolf e Holly Laessig (le Lucius) a spalleggiare la voce del leader, che si disbriga con classe anche alla solista. Carolina è uno dei due brani con Lady Gaga, che insieme alle Lucius canta le armonie vocali di questo leggero connubio tra honky-tonk e qualche deriva caraibica, piacevole ma niente di che; Runnin’ Shne è il pezzo dove appare il fratello Micah, una morbida ballata quasi alla James Taylor o alla John Denver nella parte iniziale, che poi si apre e si trasforma in una texan country song, con Find Yourself, l’altro pezzo con Lady Gaga, che è un potente blues-rock, cadenzato e chitarristico che ricorda nella sua andatura anche certi pezzi dei Pink Floyd quando la chitarra di David Gilmour è più presente, e l’intreccio di voce maschile e femminile è veramente trascinante, decisamente una bella canzone, con lunghi inserti strumentali, che si ripetono anche in Forget About Georgia, l’altro pezzo forte dell’album, un sontuoso mid-tempo, una sorta di “risposta” al Ray Charles di Georgia on My Mind (nel testo), serena ed avvolgente, di nuovo con le Lucius in bella evidenza, e dove appaiono ancora le influenze di Neil Young, soprattutto nella lunga coda strumentale. Non male anche Four Letter Word e High Times dove si vira verso un country-southern energico, quasi alla Billy Joe Shaver, tutto ritmo e chitarre, e quella specie di ninna-nanna  dolce e fischiettata Breath Of My Baby, dedicata alla prole, forse superflua ma gradevole.

Bruno Conti

E’ Questo Il Roger Waters Che Veramente Vogliamo? Si Direbbe Di Sì! Roger Waters – Is This The Life We Really Want?

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Roger Waters – Is This The Life We Really Want? – Columbia/Sony

*NDB Questa è la recensione dell’album che potete leggere anche sul numero di Giugno del Buscadero, dove tra l’altro, per un refuso, è apparsa pure priva della mia firma: visto che però era stata fatta, come è riportato all’interno della stessa, solo dopo un unico veloce ascolto blindato, circa due mesi prima dell’uscita, pensavo di aggiungere ulteriori considerazioni sul disco, ma, ripensandoci e rileggendolo, quello riportato qui sotto mi pare congruo e quindi rimango fedele alla mia prima stesura, solo con qualche piccolo aggiustamento, buona lettura.

25 anni dall’ultimo album di studio non sono proprio bruscolini. Praticamente è lo stesso lasso di tempo di tutta la sua precedente carriera discografica, iniziata con i Pink Floyd nel lontano 1967. E’ vero che in tutti questi anni, dall’uscita di Amused To Death, Roger Waters non è rimasto esattamente con le mani in mano: però, se devo essere sincero, l’opera lirica in francese Ça Ira non era proprio il massimo della vita, e comunque in quel caso era solo l’autore delle musiche. Per il resto sono usciti un Live nel 2000, In The Flesh, relativo al tour dell’epoca, e un Roger Waters: The Wall nel 2015, sempre dal vivo, in vari formati, e basato sul lungo tour tenuto dal 2010 al 2013. In mezzo c’era stata l’antologia Flickering Flame (con degli “inediti”) nel 2002, la reunion ottima  e una tantum con gli altri Floyd per il Live Aid, le partecipazioni al Coachella Festival e al Live Earth nel 2008 e prima il Dark Side Of the Moon Live Tour. A memoria, e alla rinfusa, ricordo anche una nuova versione di We Shall Overcome di Pete Seeger, un’altra rimpatriata con Gilmour e Mason nel 2011 all’O2 Arena, il Concert for Sandy Relief del 2012, la partecipazione al Tributo per Levon Helm, con i My Morning Jacket, replicata al Newport Folk Festival nel 2015, e con quella al Desert Trip (una costola del Coachella) dove lo scorso ottobre ha sbeffeggiato l’amato Trump, non ancora eletto, sulle note di Pigs, e con tanto di maiale volante. E penso possa bastare. Era solo per rimarcare che non è mai stato fermo in questi anni.

Quindi quando, all’inizio di aprile, mi è stato detto se volevo partecipare ad uno di quegli ascolti “blindati”, dove devi firmare con il sangue il tuo impegno a non divulgare nulla di quanto ascoltato (scherzo, ma non troppo), mi sono detto, perché no? E’ ovvio che un solo ascolto, per quanto con una qualità sonora eccellente, in uno studio di registrazione, con la presenza del manager che ti incombe alle spalle, non è l’ideale per “capire” un album, ma la prima impressione è stata molto buona. E lo dice uno che non ama molto il Roger Waters della carriera solista (ebbene sì lo ammetto, ero andato con una predisposizione d’animo abbastanza negativa, benché, spero, professionale), ma sono stato smentito, perché poi l’album mi è sembrato decisamente buono. Non sarà forse un capolavoro assoluto, ma mi sembra un disco organico, prodotto in modo ottimale da Nigel Godrich (quello dei Radiohead) che ha svolto un eccellente lavoro di tessitura del suono, già nella fase di pre-impostazione del disco, dove l’incazzoso Roger (è il suo carattere) ha dovuto questa volta delegare l’intera produzione nelle mani del produttore inglese, e anche le scelte di Joey Waronker alla batteria, e soprattutto Jonathan Wilson, alle chitarre e tastiere (una sorta di spirito affine ai Pink Floyd), sono parse azzeccate, già sulla carta, prima ancora di ascoltare il disco.

Per il sound e l’assieme del disco si era parlato pure di affinità con Animals e The Wall, ma a parere del sottoscritto (e credo non solo mio) mi sembra che si ritorni addirittura verso un approccio alla Dark Side Of The Moon o Wish You Were Here, con alcune citazioni di vecchi titoli di brani all’interno dei testi delle nuove canzoni, e pure nella costruzione della sequenza sonora ci sono analogie: l’apertura per esempio di When We Were Young, che è un classico collage alla Dark Side, con effetti sonori, passi, rumori, voci campionate, penso anche di The Donald, sveglie che ticchettano, ricorda qualcosa? Ma avendole scritte lui queste partiture, ovviamente può autocitarsi. Poi l’album scorre con belle sonorità: molte tastiere, ma usate in modo proficuo e non eccessivamente “moderno” o elettronico (alla Pink Floyd quindi), oltre a Wilson, alle tastiere Roger Manning dei Jellyfish e Lee Pardini dei Dawes (quindi quella California che oltre al West Coast sound ha sempre guardato con amore ai Pink Floyd), nonché Gus Seyffert, bassista, chitarrista, tastierista aggiunto e anche lui produttore (gli Spain di recente, ma come musicista appare in moltissimi dischi), e infine le due Lucius, Jessica Wolfe e Holly Laessig, alle armonie vocali, già con lui a Newport e al Desert Trip, e che fanno di nuovo, quando impiegate, un effetto molto Dark Side Of The Moon. Una canzone come Déjà Vu, che all’inizio doveva chiamarsi If I Had Been God (per fortuna Waters Dio non lo è davvero, sarebbe molto vendicativo, ma comunque nel testo del brano è rimasto) avrebbe fatto un figurone anche su Wish You Were, una ballata che parte con una chitarra acustica e poi si sviluppa in modo avvolgente e classico, con un bel crescendo e gli strumenti che entrano mano a mano, piano, tastiere, gli archi, la batteria, con Waters che canta veramente bene: al di là del testo “importante” il brano è veramente bello, anche gli inserti (sound collages) di Godrich sono molto pertinenti, come pure il corredo vocale delle Lucius è affascinante.

Come dissi a Mark Fenwick, il manager di Waters presente all’anteprima, se la domanda fosse stata “Is This The Roger Waters We Really Want?”, la risposta sarebbe stata era un bel sì! Rispetto agli altri dischi solisti (non Radio Kaos, che secondo me era veramente “bruttarello”, pure la copertina, e nel nuovo disco la copertina mi pare l’unica cosa non memorabile) di Waters, dove uno dei fattori principali erano gli assoli di chitarra di Eric Clapton in Pros & Cons e di Jeff Beck, in Amused To Death, Jonathan Wilson, che è comunque un eccellente chitarrista, viene utilizzato in un modo più fine, sottile, da tessitore, meno in primo piano, e anche se gli assoli, quando ci sono, sono pochi e brevi, comunque la presenza delle chitarre è sempre fondamentale nel sound; come ad esempio nel singolo Smell The Roses, un classico midtempo sincopato con un bel groove di basso, la voce parzialmente filtrata, l’intermezzo “rumoristico” quasi immancabile che lega il passato al presente e infine un breve solo sognante di Wilson,  in modalità slide, molto pinkfloydiano. Altrove ci sono anche brani più complessi e decisamente rock, come la title track, ma pure canzoni d’amore intime come The Most Beautiful Girl o la pianistica Wait For Her, ispirata dalle lezioni del Kama Sutra, con il suo seguito ideale, l’intensa Part Of Me Died  Ovviamente non mancano un paio di citazioni per Trump, dirette, quando viene definito un nincompoop (che sarebbe uno sciocco o uno stupido, dottamente dal latino “non compos mentis”), nella title track o altrove indirettamente, credo, quando viene detto che siamo guidati da leader “senza un fottuto cervello”, in Picture That!

Non si può forse sempre condividere tutto quello che pensa o scrive Waters (e lui non è comunque simpaticissimo, per usare un eufemismo), ma la  sua visione di un mondo futuro (e presente) fatto solo di ossa spezzate, Broken Bones, e poco altro, o dove i rifugiati non sono molto amati, The Last Refugee, sono inquietanti e si possono condividere sicuramente. Non essendo questo comunque un lungo trattato, ma una recensione fatta di impressioni immediate, soprattutto a livello musicale, il disco, lo ripeto, mi sembra che scorra liscio e composito nel suo divenire, con una unitarietà di fondo fornita dalla produzione di Godrich, e nei suoi circa 55 minuti si ascolta più che volentieri, soprattutto a volumi sostenuti, magari in uno studio di registrazione, ma va bene anche a casa vostra! Un bel disco insomma, che sarà seguito dall’Us And Them tour che parte a fine maggio negli Stati Uniti e arriverà l’anno prossimo in Europa e in Italia probabilmente ad Aprile del 2018.

Bruno Conti

*NDB Se il counter del Blog non ha dato i numeri, questo è il Post n° 3000!