Giovani Talenti Si Affermano! Samantha Fish – Wild Heart

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Samantha Fish – Wild Heart – Ruf Records/Ird 07-07-2015

Recentemente, recensendo l’ultimo disco di Laurence Jones http://discoclub.myblog.it/2015/05/05/lo-shakespeare-del-blues-magari-laurence-jones-whats-it-gonna-be/ , avevo tirato in ballo anche tutti gli altri giovani, perlopiù inglesi, che sono suoi compagni di etichetta alla Ruf, ma il nome di Samantha Fish, in parte a ragione, visto che è americana, Kansas City, la sua città di origine, non era stato fatto tra i talenti da tenere d’occhio https://www.youtube.com/watch?v=zDvhSGtaRBs . Rimedio, subito dopo l’ascolto di questo Wild Heart, che mi pare veramente un ottimo disco di rock-blues e dintorni. Già i primi due, Runaway (http://discoclub.myblog.it/2011/09/14/giovani-talenti-crescono-samantha-fish-runaway/)  e Black Wind Howlin’, entrambi prodotti da Mike Zito https://www.youtube.com/watch?v=0dO0tmBO9vQ , sembravano dei buoni dischi, ma, sempre per citarmi, concludevo la recensione del primo disco (che leggete al link) così: “ Globalmente la ragazza se la cava brillantemente e le consiglierei di insistere su quello stile rock and soul dei due brani citati all’inizio” (uno dei due, una cover di Lousiana rain di Tom Petty). Non solo la brava Samantha ha insistito ma ha allargato la sua linea d’orizzonte sonoro a ballate alla Susan Tedeschi e Bonnie Raitt, ma anche a brani decisamente tirati, che suonano molto rock & roll, grazie alla presenza della seconda solista di Luther Dickinson, che è pure il bassista e produttore di Wild Heart, ed in alcuni brani rispolvera il vecchio gusto per il rock-blues del periodo in cui suonava con i Black Crowes (e quindi per proprietà transitiva un sound à la Stones e Led Zeppelin). Sicuramente contribuisce pure la presenza alla batteria di Brady Blade, uno che ha una lista di collaborazioni impressionante, dai Dukes di Steve Earle agli Spyboy di Emmylou Harris, ma anche Indigo Girls, Buddy Miller, Anders Osborne e Tab Benoit.

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Proprio con quest’ultimo e Tommy Castro, la Fish ha condiviso il Six Strings Down Tour, vera palestra di miglioramento per lei e alla riuscita del disco contribuiscono anche le locations dove sono stati incisi i vari brani, dai Brady Studios di Shreveport, Lousiana, gli Ardent e i Royal Studios di Memphis; Tennesse, nonché il Zebra Ranch dei North Mississippi Allstars, ognuno ha contribuito a donare quell’atmosfera che caratterizza i vari brani. Si parte sparatissimi con Road Runner, con un dualismo slide/solista che spinge subito il brano verso una grinta rock-blues che mancava nei dischi precedenti, grazie anche alle ottime armonie vocali di Shontelle Norman-Beatty e Risse Norman, di nuovo presenti con belle armonizzazioni nella ballata sudista Place To Fall, che non ha nulla da invidiare a certi brani di Susan Tedeschi (forse solo la voce, certo  la Fish è migliorata, ma non fino a quel punto, il resto è un dono di natura) e anche la lap steel di Dickinson è fondamentale nell’atmosfera sonora della canzone, di grande coinvolgimento emotivo https://www.youtube.com/watch?v=an9g70oklvk . Blame In On The Moon, con un ritmo diddleyano, le solite slide e steel di Luther, aggiunte alla solista della Fish, confermano la qualità di questo brano, grande impianto sudista ribadito nella jam finale, mentre Highway’s Holding Me Now, con il basso pompato di Dickinson, una chitarra acidissima e la voce grintosa, ha quello spirito rock tra Crowes e Zeppelin citato prima.

Go Home viceversa è una bellissima ballata di stampo quasi acustico, ricca di belle melodie e con un arrangiamento sontuoso, tipo le cose migliori della Raitt, che ribadisce la crescita della Fish anche come autrice (tutti suoi i brani, meno le due cover): una Jim Lee’s Blues Pt.1, a firma Charley Patton, un blues arricchito dal mandolino di Dickinson e dalla seconda chitarra di Lightnin’ Malcolm, altro compagno di avventura della brava Samantha. Turn It Up, con il volume delle chitarre alzato a manetta, ricorda quel sound alla Black Crowes citato in apertura, con le due soliste che si fronteggiano gagliardamente su un groove quasi kudzu blues https://www.youtube.com/watch?v=VBi-JvFvlaw . Anche Show Me, l’unico brano dove non c’è Dickinson, non abbassa la tensione sonora, sempre quasi minacciosa e pronta ad esplodere in scariche chitarristiche micidiali alla Jimmy Page https://www.youtube.com/watch?v=8jlmEw2FALE . Poi riaffiora il lato più gentile e ricercato, nella lunga Lost Myself, nuovamente impreziosita dalla lap steel del NMA nel finale in crescendo del brano, con la title-track Wild Heart, di nuovo un violentissimo boogie-rock zeppeliniano di grande impatto e ricco di riff,  con accenni di jam chitarristiche, riservate per l’eccellente Bitch On The Run, altro ottimo esempio di rock-blues quasi stonesiano con i due che si lasciano andare https://www.youtube.com/watch?v=31Tg95EuDTA . L’ultimo brano è l’altra cover, I’m In Love With You, scritta da Junior Kimbrough, un insolita ballata acustica e gentile per l’inventore dell’Hill Country Blues, assolutamente deliziosa e che chiude in gloria un disco veramente bello. Esce ufficialmente il 7 luglio, ma lo trovate già in circolazione.

Bruno Conti

Un Altro Supergruppo? Senza Parole! The Word – Soul Food

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The Word – Soul Food – Vanguard/Caroline/Universal

Quando nel 2001 i cinque componenti dei Word unirono per la prima volta le forze per formare un gruppo destinato ad incidere un disco nessuno probabilmente immaginava che 14 anni dopo ci sarebbe stato un seguito e neppure che i vari componenti della band sarebbero diventati più o meno famosi.

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Il disco in questione, quello qui sopra, copertina abbastanza anonima con la scritta The Word, univa i tre componenti dei North Mississippi Allstars, Luther e Cody Dickinson e il bassista Chris Chew, allora agli inizi del loro percorso artistico, avendo appena pubblicato i primi due dischi (forse il secondo non era ancora uscito), con il tastierista John Medeski del trio jazz-funky-rock-groove Medeski, Martin & Wood, che era quello interessato a lavorare con il giovane Robert Randolph, virtuoso della pedal steel guitar, allora sconosciuto ai più, avendo partecipato solo a un paio di brani (forse uno) della compilation Sacred Steel vol. 2 Live pubblicata dalla Arhoolie. Affascinato dal viruosismo di questo giovane musicista (che all’epoca faceva l’impiegato in uno studio di avvocati), Medeski voleva unire lo stile Sacred Steel, che era già una fusione di generi, tra gospel, funky, soul, un pizzico di country, blues naturalmente, con l’improvvisazione del jazz, l’energia del rock e gli schemi liberi delle jam band. Il tutto chiamando disco e gruppo The Word, “la parola”, per un album che era completamente strumentale. Il CD, all’epoca pubblicato dalla Atalantic, fu un buon successo, sia di di critica che di pubblico, lanciando la carriera di Robert Randolph, che oggi con i suoi Family Band raduna folle non dico oceaniche, ma comunque consistenti, partecipando a Festival vari (uno per tutti, il Crossroads Guitar Festival di Eric Clapton, che è un altro dei suoi tanti estimatori https://www.youtube.com/watch?v=hRCyTzXRJBw ) e dischi degli artisti più disparati (non ultimo proprio Heavy Blues di Bachman, recensito giusto ieri). Guadagnandosi lungo il cammino l’attributo di “Jimi Hendrix dalla pedal steel”, per il suo estremo virtuosismo e per la capacità di esplorare le capacità tecniche dello strumento, apportando anche molto migliorie tecniche che lo rendono in grado di creare spesso sonorità quasi impossibili da credere, allontandolo dal classico sound del country e dei gruppi country-rock, che pure hanno avuto i loro virtuosi, da Sneaky Pete Kleinow a Buddy Cage, passando per Rusty Young, Al Perkins, lo stesso Jerry Garcia, senza dimenticare il suono più mellifluo di gente come Santo & Johnny o gli “antenati” hawaiiani.

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Dimenticate tutto, perché nel caso di The Word possiamo parlare di una sorta di fusione tra il soul ricco di groove di Booker T. & The Mg’s, innervato dallo stile jam delle band southern, per non fare nomi gli Allman Brothers, l’improvvisazione jazz-rock già citata di Medeski, Martin & Wood e lo stile tra gospel, R&B e spiritual delle chiese episcopali degli Staples Singers. Il tutto ben esemplificato in questo Soul Food, registrato tra New York, e soprattutto ai leggendari Royal Studios di Memphis, dove il grande Willie Mitchell produceva i dischi di Al Green, Ann Peebles, Otis Clay e moltissimi altri, per la sua Hi Records (di recente anche Paul Rodgers ci ha inciso il suo disco dedicato al soul http://discoclub.myblog.it/2014/01/25/incontro-nobili-quel-memphis-paul-rodgers-the-royal-sessions/). Deep soul arricchito da mille sfumature di musica dal sud degli States. Naturalmente tutto nasce dal gusto per l’improvvisazione e da lunghe jam in assoluta libertà, che mentre nel primo album prendevano lo spunto soprattutto dai brani della tradizione gospel e religiosa, con un paio di pezzi scritti da Luther Dickinson, nel nuovo album sono firmati per la più parte dai componenti del gruppo, ma sono solo un canovaccio per permettere ai vari solisti, soprattutto a Robert Randolph, che è sempre il vero protagonista, di improvvisare in piena libertà.

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Ed ecco quindi scorrere il puro Booker T Sound  in trasferta a New Orleans di New Word Order, dove la pedal steel di Randolph assume tonalità quasi da tastiera, una sorta di synth dal suono “umano” ed analogico, mentre l’organo di Medeski dà  pennellate di colore e la slide di Dickinson duetta da par suo con la chitarra del buon Robert  https://www.youtube.com/watch?v=4m_jSBbiplw . In Come By Here, le sonorità della pedal steel si fanno ancora più ardite, e il brano è anche cantato (una primizia, poi ripetuta nel CD), solo il titolo del pezzo reiterato più volte, con un effetto d’insieme quasi alla Neville Brothers, mentre Dickinson e Randolph lanciano strali quasi hendrixiani con le loro soliste infuocate su una base ritmica tipo Experience . https://www.youtube.com/watch?v=DZ5cJfePE8k  In When I See Blood, un bellissimo gospel soul, appare pure Ruthie Foster con la sua voce espressiva e partecipe, una variazione anche gradita sullo spirito strumentale dell’album, è sempre un piacere ascoltare una delle migliori cantanti dell’attuale scena musicale americana, e in questo caso l’organo di Medeski, molto tradizionale, assurge a co-protagonista del brano, con la solita folleggiante steel di Randolph. Anche Play All Day è un vorticoso funky-rock-blues con i tre solisti che danno sfogo a tutta la loro grinta, per passare poi a Soul Food 1 e Soul Food 2 due parti estratte da una lunga jam improvvisata nei Royal Studios di Memphis, dopo avere mangiato il cibo sopraffino preparato dalle figlie di Willie Mitchell, parte come un brano di Santo & Johnny e poi va nella stratosfera dell’improvvisazione.

You Brought The Sunshine è considerata una delle canzoni più famosi di Gospel nero (perché c’è anche quello bianco, come ricordano i fratelli Dickinson, ricercatori, come il babbo, della tradizione musicale americana), il brano delle Clark Sisters parte come un reggae, poi diventa un ibrido tra blues, rock e soul quasi alla Little Feat, con Medeski al piano e i due chitarristi sempre liberi di improvvisare. Early In The Moanin’ Time, gioca sul titolo di brani blues famosi e il termine Moanin’ appropriato per definire le sonorità della pedal steel guitar di Robert Randolph che con i suoi “gemiti” sembra veramente un Moog Synthesizer dei primi anni ’70, quelli più genuini e piacevoli delle origini del rock. Swamp Road ha quell’aria dei duetti organo/chitarra di Wes Montgomery e Jimmy Smith se fossero vissuti ai giorni nostri e l’organo di Medeski avesse dovuto misurarsi con due piccoli geni della chitarra rock, ma tiene botta alla grande. Chocolate Cowboy introduce anche l’elemento country, con tutti i musicisti che improvvisano a velocità supersoniche come se fossero in un gruppo bluegrass di virtuosi, mentre The Highest è un maestoso lento di puro sacred steel style, un inno quasi religioso di grande fascino, prima di tuffarci in Speaking In Tongues dove John Medeski sfoggia tutte le sue tastiere, piano elettrico, organo e synth e ci mostra la sua classe e bravura. La conclusione è affidata a Glory Glory, il famoso traditonal reso come un folk-blues acustico, con tanto di acoustic slide e con la brava Amy Helm che la canta in coppia con Randolph, e come verrebbe da dire, tutti i salmi finiscono in gloria. Alla fine, dopo averne spese tante, rimaniano senza parole per la bravura dei protagonisti, musica che è veramente cibo per l’anima di chi ascolta! Esce martedì prossimo.

Bruno Conti

 

Disco Bellissimo, Peccato In Teoria Non “Esista”! NMO/ Anders Osborne + North Mississippi AllStars – Freedom And Dreams

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NMO – Anderson Osborne & North Mississippi Allstars – Freedom And Dreams solo download

Come sapete chi scrive (e gli altri collaboratori del Blog), sono fedeli seguaci del disco fisico e contrari per principio al download digitale degli album, ma quando i dischi sono così belli come questo Freedom And Dreams dei North Mississippi Osborne, NMO per abbreviare, l’eccezione conferma la regola, e quindi mi sono affrettato a scaricare questa collaborazione tra alcuni dei migliori musicisti che attualmente graziano il panorama americano della buona musica: vogliamo definirlo un disco roots and blues, con la voce splendida di Anders Osborne, grande vocalist (e chitarrista) di origine svedese, ma da anni cittadino di New Orleans, Lousiana, dove ai Dockside Studios, nel cuore dello stato del Sud, e sotto la produzione di Mark Howard, è stato registrato questo meraviglioso disco. Un disco dove si respira grande musica, sembra a tratti un disco di quelli belli del Ry Cooder degli anni ’70, a momenti sembra di ascoltare la Band (tanto per volare bassi), ma perlopiù si tratta di questa riuscitissima fusione tra il soul-blues di Osborne e il groove e la musica folk-rock-blues dei NMA, ovvero i fratelli Luther e Cody Dickinson. Non so dirvi se ci siano altri musicisti coinvolti (si sentono qui e là piccoli interventi di tastiere, fisarmonica e qualche strumento acustico) e anche se dalla foto qui sotto pare esserci un quarto elemento nella line-up, non avendo trovato note nel download non posso confermarlo.

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Comunque la musica parla da sola, dai primi ripetuti ascolti mi sembra una delle cose migliori mai fatte dai musicisti coinvolti (e dischi belli sia Anders Osborne, quanto i fratelli Dickinson, nelle loro varie personificazioni, ne hanno fatti parecchi in passato): ma in questo caso deve essere scattato quel quid che si accende quando si incontrano spiriti eletti. Registrato in quattro giorni di sessions non-stop ai citati Dockside Studios l’album (mi suona strano definirlo così, ma il futuro, speriamo lontano, sembra essere questo) nasce da una serie di brani di Osborne costruiti con questo spirito collaborativo, da jam session, dove l’improvvisazione ha ovviamente una sua parte, ma le canzoni hanno pure una loro solida costruzione ed una notevole varietà di temi sonori. Il disco si apre con il blues puro di Away Way Too Long che sembra quasi un brano di Blues Jam At Chess dei Fleetwood Mac, dove maestri stregoni delle 12 battute ed apprendisti si scambiano impressioni a colpi di slide e voce, ma in modo molto rispettoso della tradizione. Back Together è la prima di una serie di blues soul ballads, marinate nell’aria della Lousiana e caratterizzate dalla bellissima voce di Osborne, con le chitarre che pigramente intessono un finissimo lavoro di cesello ed interscambio degno dei “sudisti” più raffinati degli anni ’70, un piccolo gioiello di equilibri sonori, grazie anche all’eccellente groove impostato dall’inconsueto drumming di Cody Dickinson, e Lonely Love con le soliste di Luther e Anders che navigano a vista di conserva https://www.youtube.com/watch?v=wLdE0TUHlBc , potrebbe essere una traccia perduta di qualche vecchio vinile dei Free di Paul Kossoff (magari, come atmosfera, Molten Gold, tratta dal suo primo disco solista https://www.youtube.com/watch?v=WmKPNaV2HX0), tra improvvisazione e leggera psichedelia.

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Molto bella anche Dyin’ Days, altro pregevole esempio della grande capacità di Osborne di riappropriarsi della tradizione sonora del Sud degli States, grazie ancora una volta al preciso lavoro, molto minimale, ma direi essenziale dei fratelli Dickinson raramente così ispirati https://www.youtube.com/watch?v=tXMvz24WU0Y ; Shining (Spacedust), viceversa, altra ballata sontuosa, potrebbe avvicinarsi al Ry Cooder legato alle radici blues e soul dei suoi dischi migliori della decade fine anni ’70, primi anni anni ’80,  addirittura con qualche retrogusto dylaniano e messicano che avevano canzoni di frontiera come Across The Borderline (che porta anche la firma di Jim Dickinson, il babbo) https://www.youtube.com/watch?v=wzWuTxNfLQI . Brush Up Against You è il brano più lungo del disco e qui la slide viaggia, perentoria e minacciosa, appaiata alla voce distorta e incattivita di Anders, per creare un groove che viene dalle colline del Mississippi, da quei juke joints dove si praticava un blues elettrico primevo e malandrino, egregio nuovamente il lavoro delle chitarre, sempre in grande spolvero e libere di improvvisare, come il gruppo nel suo insieme https://www.youtube.com/watch?v=OAwhFBC7EbI . Annabel è pura southern music della più bell’acqua, una bella voce, una melodia delicata, un liquido piano elettrico che si aggiunge alle chitarre https://www.youtube.com/watch?v=MwChOeTUVes  e il risultato ricorda la Band più legata al sound del Sud, che qui viene replicato in un brano che vuole essere un ricordo di un avvenimento mai dimenticato dagli abitanti di New Orleans, Katrina, una delicata ballata pianistica cantata con grande trasporto e partecipazione da Osborne, che si conferma vocalist dal feeling innato, prima di lasciare spazio all’essenziale lavoro della solista slide che imbastisce un lavoro di breve ma intenso raccordo con il piano.

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Kings And Peasants si incentra su un elegante groove ritmico, un brano quasi cantautorale, dove le chitarre lavorano ancora una volta di fino, in un sottile lavoro dove toni e volumi sono impiegati con precisione e classe squisita https://www.youtube.com/watch?v=iDweTJxIeLw . Ancora due brani prima della conclusione, Many Wise Men ricorda le migliori ballate mainstream scritte da Anders Osborne per i suoi dischi solisti https://www.youtube.com/watch?v=RptHWExz2Oo , quelle canzoni dove lo spirito di Jackson Browne sembra aleggiare benevolo su queste morbide ed aggraziate atmosfere, tra folk e canzone d’autore, mentre Junco Parda è un’ultima scarica di blues cooderiano, semplice, raffinato ed estremamente coinvolgente, come peraltro tutto il disco. Veramente niente male per un disco che “non esiste”.

Bruno Conti

Tipi Tosti E Senza Fronzoli, Altro Gran Disco! JJ Grey & Mofro – Ol’ Glory

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JJ Grey & Mofro – Ol’ Glory – Mascot/Provogue – 24-02-2015

JJ Grey e i suoi Mofro per molti anni, in virtù del fatto di essere sotto contratto per la Alligator, venivano spesso catalogati come un gruppo di Blues ( genere che è comunque presente in quantità rilevante nella loro musica): ma sarebbe come dire che gente come John Hiatt, Willy DeVille, Boz Scaggs, Delbert McClinton, i primi che mi vengono in mente, in qualità di “spiriti affini” a Grey,  siano semplicemente dei cantanti blues, tout court. Quindi unendo gli elementi blues, miscelati con la canzone d’autore, funky, soul, rock ovviamente, e volendo aggiungiamo pure R&B, gospel e southern music in generale, otteniamo questo stile meticciato a cui ascrivere un personaggio come JJ Grey. In possesso di una voce “nera”, potente, ma al tempo stesso suadente e ricercata, leader di una band che, nel corso di sei album in studio e lo strepitoso live Brighter Days  http://discoclub.myblog.it/2011/10/02/ragazzi-che-grinta-jj-grey-and-mofro-brighter-days/ , ha saputo regalarci piccole pepite di buona musica, una fusione di di Florida e Georgia, i due poli di provenienza, shakerata, in un cocktail ad alta gradazione, con elementi aggiunti di soul e R&B da Memphis, il vigore del miglior roots-rock americano, senza dimenticare, per carità, il blues, più volte evocato https://www.youtube.com/watch?v=rojN_3s88RA .

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Il cambio di etichetta non mi pare abbia portato nessuna variazione nel loro stile, Grey canta in questo Ol’ Glory https://www.youtube.com/watch?v=j0xlugIvxcE sempre con una passione ed un abbandono incredibili, i suoi pard lo spalleggiano come meglio non si potrebbe e quando serve i vecchi amici Luther Dickinson e Derek Trucks forniscono i loro servizi al dobro e alla slide in alcuni brani. I Mofro sono una band dal tiro rispettabile, con le chitarre di Andrew Trube e dello stesso JJ (che si disimpegna con classe anche a tastiere ed armonica a bocca) sempre taglienti, ma capaci, a tratti, di dolcezza, la sezione fiati con Edmaiston e Marion, aggiunge un sapore speziato alle procedure, ben coadiuvata dalle tastiere di Anthony Farrell e da una sezione ritmica con il basso fondante di Todd Smallie e le variegate evoluzioni di Anthony Cole alla batteria, anche, come tutti gli altri componenti della band, ottimo vocalist di supporto. Prendiamo l’iniziale Everything Is A Song, sembra qualche perduto brano del repertorio di Ben E. King con i Drifters, un brillante R&B d’annata, innervato dai fiati e dalle armonie vocali di gruppo, con la bella melodia intonata da JJ che attinge agli stilemi della musica nera, con la voce che subito cattura l’attenzione dell’ascoltatore. The Island è anche meglio, uno slow gospel-blues dall’atmosfera rarefatta e sognante, con il dobro e la slide (probabilmente Dickinson, non ho le note sottomano), che disegnano traiettorie di grande pathos, lui canta come meglio non si potrebbe e la canzone, in un leggero crescendo, dove man mano si aggiungono i vari strumenti, è un piccolo capolavoro di equilibri sonori. Molto bella anche Every Minute, con la slide elettrica di Derek Trucks (questa lo so) aggiunta, un rock-blues sudista di grande impatto, arricchito da un pacchetto di pimpanti voci femminili, con il solito crescendo tipico della band, gli strumenti che si aggiungono gradatamente, ma con precisione quasi matematica, per creare uno sfondo perfetto per le evoluzioni vocali di Grey e, nel finale, della slide di Trucks, ancora grande musica https://www.youtube.com/watch?v=tKJVA37aEl0 .

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A Night To Remember è un altro brano sincopato, tra blues e R&B, dove la voce nerissima del nostro si fa strada tra slide e chitarra solista, il basso macina note e i fiati che lo fronteggiano mettono in luce la sua grinta incredibile. In questa alternanza di storie musicali sudiste, Light A Candle è una deep soul ballad di quelle sanguigne e coinvolgenti, mentre Turn Loose è un funky-rock della categoria “cattivi e pericolosi”, con la band che trovato un groove non lo molla più, siamo a cavallo tra New Orleans e Sly & Family Stone, con la chitarrina wah-wah che titilla la voce del leader, mentre i fiati si fanno largo nel suono d’assieme. Anche Brave Lil’ Fighter esplora territori musicali che stanno a metà tra R&R e musica nera, sempre con una carica incredibile nel reparto vocale, poi addolcita, in questa alternanza di soluzioni sonore, da un altro soul-blues come Home In The Sky, dove la slide è nuovamente protagonista del contrappunto alla voce ispirata di JJ Grey. Hold On Tight, viceversa, con una violentissima chitarra wah-wah suonata probabilmente dallo stesso JJ, vive su un call and response tra Grey e la seconda voce di Cole, in questa esplorazione delle radici “bianco-nere” della loro musica e Tic Tac Toe è uno slow blues con fiati, dagli immancabili crescendi e ripartenze, tipico della musica dei Mofro;  Ol’ Glory, la title-track è un ennesimo trascinante R&B, ritmato ed incontenibile, con voce, fiati, chitarra wah-wah ed il gruppo tutto, che si sfidano in una orgia di suoni devastante. The Hurricane, posta in chiusura, nonostante il titolo, è una ballata di impronta acustica che chiude in dolcezza questo album che conferma ancora una volta il talento di JJ Grey e dei Mofro. Esce martedì 24 febbraio.

Bruno Conti

Opinioni E Punti Di Vista “Differenti”! Turchi – Can’t Bury Your Past

turchi can't bury your past

Questa recensione era stata preparata più di un mese fa, come anteprima dell’album dei Turchi, poi per vari motivi non è stata utilizzata, ma visto che, come per il maiale, delle recensioni non si butta via nulla, la pubblico oggi. Come leggerete all’interno della stessa i pareri su questo nuovo album, che ha una data di uscita presunta intorno a metà aprile, ma già circola sul nostro territorio da un mesetto, sono contrastanti, per esempio, per onestà, sul Buscadero ne hanno parlato benissimo ma altri meno, il mio parere lo leggete qui sotto!

Turchi – Can’t Bury Your Past – Devil Down Records

Terzo album per la band di Asheville, North Carolina, i Turchi, dopo l’ottima accoglienza avuta per il Live In Lafayette, uscito lo scorso anno e distribuito, come il precedente Road Ends In Water e questo nuovo Can’t Bury Your Past, dalla etichetta Devil Down Records https://www.youtube.com/watch?v=UclitQ9wJAc  che pubblica anche altri dischi di artisti del cosiddetto filone “Hill Country Blues” . In effetti loro definiscono il genere che suonano “Kudzu Boogie”, un incrocio tra un rock-blues piuttosto grezzo ed ipnotico e la musica southern tipica della zona da cui provengono: si chiama Carolina del Nord ma è nel sud negli Stati Uniti. Fondamentalmente sono un trio, Reed Turchi, la voce solista, leader, chitarrista, anche slide e autore dei brani, Andrew Hamlet al basso e Cameron Weeks alla batteria. Nel disco dal vivo la formazione si ampliava a quintetto con l’aggiunta di John Troutman alla pedal steel e Brian Martin all’armonica, questa volta i musicisti aggiunti sono Art Edmaiston, da Memphis, al sax tenore e baritono e Anthony Farrell, di Austin, Texas alle tastiere e organo.

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Dieci nuovi brani registrati in studio, con due canzoni che erano già apparse nel disco dal vivo (evidentemente il nuovo album era pronto fa tempo). Due precisazioni: i Turchi, come ho verificato sentendo un po’ di “colleghi recensori” non sono amati proprio da tutti, la benevolenza degli addetti ai lavori non è unanime, per dirla francamente varie persone mi hanno espresso non dico un disgusto verso la band, ma non un particolare amore, per usare un eufemismo. Altrettanto onestamente, altri avranno letto la recensione più che favorevole scritta da Paolo Carù per il Buscadero (con relativa copertina della rivista), in relazione al CD dal vivo. Diciamo che il sottoscritto si situa nel mezzo, il Live In Lafayette mi era piaciuto, la famosa frase, “ah, ma dovresti sentirli dal vivo”, era più che giustificata https://www.youtube.com/watch?v=-b2vc2rAks4 , e l’oretta di musica contenuta in quel dischetto era più che soddisfacente https://www.youtube.com/watch?v=xMxGqhtslVQ . Immagino che a questo punto vi aspettiate un ma…che ora vado ad esplicarvi.

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In studio, o almeno in questo Can’t Bury Your Past mi sembra che il gruppo perda un po’ della potenza delle esibizioni in pubblico, in favore, a tratti, di un sound più “lavorato”, anche per la presenza di sax e tastiere, con le dovute eccezioni. Per esempio il brano posto in apertura dell’album, che esplica una delle anime sonore del disco, Take Me Back Home, ha il solito groove lento ed ipnotico tipico dei loro pezzi, la voce rauca di ReedTurchi forse non uno strumento formidabile (uno dei difetti che vengono loro imputati), ma la chitarra slide è libera di improvvisare come usa nel gruppo e il sax e la tastiere ampliano lo spettro sonoro del pezzo https://www.youtube.com/watch?v=pW2rYx24GFA , inconsuete anche le sonorità di Burning In Your Eyes e Each Other’s Alibi, dove il sax ha moltissimo spazio, nel primo con un approccio che mi ha ricordato quello di una vecchia band inglese dei primi anni ’70, i Backdoor (qualcuno li ricorda?), un trio basso-sax e batteria che aveva un approccio inconsueto al blues, aggressivo e particolare, formula applicata anche in questo caso, con risultati che però non mi convincono fino in fondo, atmosfere più sospese ma la chitarra passa in secondo piano, soprattutto in Each Other’s Lullaby a favore delle improvvisazioni del sax e del basso fin troppo saturo.

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In Sawzall torna il kudzu boogie della band con la chitarra in bella evidenza e le tastiere usate in supporto della solista e anche in Lightning Skies la slide di Reed Turchi è protagonista assoluta in un brano che però ha sempre questo sound che ogni tanto si incarta verso derive quasi funky, forse non consone alla loro anima. Brother’s Blood era uno dei due brani già presenti nel Live In Lafayette, un blues di impianto sudista con qualche similitudine con il boogie dei vecchi Canned Heat o il suono dei vari bluesmen delle colline da cui i Turchi traggono ispirazione, oltre che degli “amici” Luther Dickinson North Mississippi Allstars, la slide cerca sempre strade inconsuete con il supporto del sax. Bring On Fire, Bring On Rain, se devo essere sincero, è uno dei brani che ho apprezzato maggiormente, un brano che parte acustico e poi aggiunge l’organo, la solista di Turchi e crea un tipo di sound più sospeso, meno ossessivo e ripetitivo, nei suoi quasi cinque minuti, uno dei più lunghi ma anche più vari del disco. Ancora un approccio parzialmente acustico per lo slideggiare più tradizionale di 450 Miles mentre la cover di Big Mama’s Door di Alvin Youngblood Hart, l’altro pezzo già presente nel live, conferma la sua validità da boogie sudista e sudato. Non tutto mi convince in questo nuovo disco, anche se avendolo sentito solo in uno streaming “faticoso” mi riservo il giudizio definitivo.

Bruno Conti

P.s. Nel frattempo è uscito, in anticipo sul previsto, l’ho risentito e confermo il mio giudizio.

Il Meglio Di Uno Dei Migliori! John Hiatt – Here To Stay: The Best Of 2000-2012

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John Hiatt – Here To Stay – Best of 2000 -2012 New West Records

Penso che esistano almeno una decina di raccolte dedicate a John Hiatt, non le ho contate esattamente, forse anche di più, oltre a parecchi dischi dal vivo e tributi vari. E ogni casa discografica ha dedicato un suo Best of al periodo in cui Hiatt incideva per loro: la Epic nella preistoria, poi la MCA-Geffen, il lungo periodo con la A&M e infine la Capitol. E’ uscita anche qualche antologia multi-label e delle raccolte con inediti e rarità. Mancherebbe qualcosa relativo al periodo Vanguard, ma visto che i due album sono stati ristampati dalla New West, appaiono in questo Here To Stay, il titolo del disco non solo un incitazione a rimanere, ma anche quello dell’unica canzone inedita inserita nella raccolta, una canzone che vede la partecipazione di Joe Bonamassa alla solista, sia in considerazione del fatto che il buon Joe non resiste ad un invito, sia perché da qualche anno condividono lo stesso produttore, ovvero Kevin Shirley.

Sia di produttori che di chitarristi Hiatt ne ha avuti di ottimi in questi anni 2000 (e anche prima), oltre a Shirley, Jay Joyce, Don Smith e Jim Dickinson tra i primi e Sonny Landreth, Luther Dickinson e Doug Lancio, nel reparto chitarre, oltre all’ottimo David Immergluck, presente nel disco che apre questa carrellata sui “migliori” brani che compongono la raccolta, Crossing Muddy Waters. Il disco, giustamente, si chiama Best of e non Greatest Hits, perché Hiatt nel corso degli anni di successi, purtroppo, ne ha avuti veramente pochi, pensate che il disco con il miglior piazzamento in classica è proprio l’ultimo, Mystic Pinball, arrivato “ben” al 39° posto della classifica di Billboard. Se ci leggete della amara ironia non vi sbagliate, per fortuna che la critica e i colleghi lo hanno sempre considerato, giustamente, uno dei migliori cantautori che abbia graziato la faccia di questo pianeta negli ultimi 40 anni. Genere: rock, folk, country, blues, roots, Americana? Scegliete voi, un po’ di tutti questi e molto altro, forse buona musica può andare? Per chi ama John Hiatt, forse, questa antologia è superflua (il pensiero di comprarsi un CD per un brano è duro, potevano fare uno sforzo, magari un bel doppio con un live in omaggio), ma per chi non ha nulla o vive di raccolte, potrebbe essere l’occasione di ampliare il proprio panorama sonoro, se ci state pensando non è una cattiva idea, musica così buona ne fanno poca in giro. Tra l’altro il nostro amico, in Italia, è conosciuto, dal grande pubblico, per una canzone, Have A Little Faith, che era contenuta nello spot di una nota marca di budini, oltre tutto sotto forma di cover, che non rendeva neppure un decimo della bellezza di quella straordinaria canzone.

Tornando a bomba, ossia a questa antologia, direi che i compilatori sono stati molto democratici, due brani per ognuno degli otto album che coprono il periodo 2000-2012, prolifico come sempre per Hiatt e ricco di belle canzoni, come ricorda il giornalista americano Bud Scoppa (ma che scrive per la rivista inglese Uncut), nelle interessanti note del corposo libretto che accompagna il CD: si parte con il suono acustico, volutamente scarno di Crossing Muddy Waters, rappresentato dalla raffinata e dolce title-track oltre che dalla grintosa e tirata Lift Up Every Stone, dove il mandolino e la chitarra di Immergluck, uniti al basso di Davey Faragher, disegnano traiettorie blues, mai disdegnate da John Hiatt, anche nel passato. Per il successivo The Tiki Bar Is Open il boss riuniva i grandissimi Goners, con Kenneth Blevins alla batteria e Dave Ranson, al basso, nonché il ritorno del mago della chitarra slide, Sonny Landreth, tutti eccellenti nella ballata My Old Friend, dove Hiatt sfodera anche una armonica d’annata, oltre all’utilizzo delle tastiere, affidate al produttore Jay Joyce e allo stesso Hiatt, Everybody Went Low è uno dei tanti capolavori scritti nel corso di una carriera prodigiosa con un Landreth devastante.

Cambio di etichetta per il successivo Beneath This Gruff Exterior, dalla Vanguard alla New West, ma i musicisti rimangono i Goners, produce Don Smith, i brani scelti sono My Baby Blue e Circle Back, due robusti pezzi rock, da riscoprire. Da Master Of Disaster, altro disco gagliardo da riascoltare, con babbo Dickinson alla produzione e i figli Cody e Luther, batteria e chitarra, oltre a David Hood al basso, per una title-track, anche questa volta tra le cose migliori della sua carriera, molte volte “coverizzata”.  Same Old Man, altro signor album, con il ritorno di Blevins e l’arrivo di Patrick O’Hearn al basso, oltre a Luther che rimane alla chitarra, la figlia Lily alle armonie, una produzione “semplice” a cura dello stesso Hiatt, e due ballate di una bellezza sopraffina come Love You Again e What Love Can Do.

Nel successivo The Open Road arriva Doug Lancio, altro mostro della chitarra e si ritorna all’Hiatt rocker. Il gruppo, ironicamente, ora si chiama Ageless Beauties e inizia l’era Kevin Shirley, con due album bellissimi come Dirty Jeans & Mudslide Hymns, Damn This Town e Adios To California i brani scelti, e Mystic Pinballs, con l’ottima We’re Alright Now, classico Hiatt con Lancio grande alla slide e Blues Can’t Even Find, una delle canzoni più tristi (e più belle) del canone hiattiano. Anche Here To Stay, l’inedito, è un blues con Bonamassa alla slide che fa i numeri e non si capisce perché sia stato lasciato fuori da Dirty Jeans, ma adesso è qui, insieme alle altre 16 canzoni, a testimoniare la classe immensa di uno più bravi cantanti e autori (di culto) di sempre. Quattro stellette per le canzoni, mezza in meno per l’operazione commerciale, un inedito, si sono sforzati!

Bruno Conti    

Novità Di Maggio Parte IV. Valerie June, Deerhunter, Sallie Ford, Ruth Moody, Turchi, Amy Speace

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Proseguiamo con le liste delle uscite di maggio (che in una settimana hanno già superato quelle di tutto Aprile) e esaminiamo un bel terzetto di voci femminili.

La prima si chiama Valerie June, viene da Memphis, Tennesse. Non è del tutto nuova alle scene musicali, anzi, ha già pubblicato due album e un EP nel 2010 in collaborazione con gli Old Crow Medicine Show. Già, perché nonostante le apparenze esteriori, non fa jazz, blues, soul o hip-hop, anche se qualche piccolo elemento di questi generi appare. Si potrebbe definire folk-blues-gospel con elementi rock, co-produce, con Kevin Augunas, Dan Auerbach dei Black Keys, che ha firmato anche parecchi dei brani con la stessa Valerie, il disco si chiama Pushin’ Against A Stone (in ricordo delle difficoltà incontrate nella vita e nella carriera), esce per la Sunday Best Recordings in Europa e verrà pubblicato ad agosto dalla Concord negli States (pur essendo lei americana). Il suono e la voce hanno un che di old fashioned ed affascinante mescolato a sonorità più moderne, il tutto sembra assai interessante, una cantante e chitarrista da tenere d’occhio. Tra i musicisti che suonano nell’album si segnala anche la presenza di Booker T. Jones.

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Anche Sallie Ford con i suoi Sound Outside è da tenere d’occhio (e a portata d’orecchio). Il disco si chiama Untamed Beast esce in questi giorni per la Fargo inglese (anche se per la verità era già stato pubblicato a febbraio negli Stati Uniti con copertina differente, dalla Partisan, processo inverso rispetto a quello per Valerie June) si tratta del secondo CD per il gruppo e si vi sono piaciuti gli Alabama Shakes qui c’è trippa per gatti, voce della madonna, rock, blues, anni ’60, soul, surf, R&R senti che roba… poco “originale”, dirà qualcuno a cui non piacciono, pazienza, non salveranno il mondo della musica neppure loro ma ci mettono almeno una grande energia!

Ruth Moody, nata in Australia, ma da anni residente in Canada, è una signora cantautrice, ma è anche un terzo delle Wailin’ Jennys, ha cantato nell’ultimo Privateering di Mark Knopfler, che ora ricambia il favore apparendo in These Wilder Things il nuovo ottimo album solista della Moody, credo il secondo a nome proprio ma ha partecipato a una valanga di progetti musicali. Il CD esce in Canada per la True North e in America per la Red House, entrambe sinonimo di buona musica.

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Nuovo disco per una delle istituzioni dell’indie-rock americano, da Atlanta, Georgia i Deerhunter, che con Monomania, pubblicato in questi giorni dalla 4 AD, toccano il sesto album in una decina di anni di attività.

Mamma li Turchi, questa ve la dovevate aspettare! Lo so non si fa, torno serio, questo Live In Lafayette è già il secondo Cd che pubblicano, etichetta Devil Down Records, quella del giro North Mississippi All-Stars, nel primo disco di studio infatti c’era come ospite anche Luther Dickinson oltre al trio classico con Reed Turchi, solista, slide micidiale e voce, Andrew Hamlet basso e Cameron Weeks batteria. Il sottotitolo del nuovo abum recita “Kudzu Boogie From Swamplandia” e ci sarebbe poco da aggiungere, John Troutman alla pedal steel e Brian Martin completano la formazione per questo disco dal vivo, date una ascoltatina…

Nel primo brano a duettare con Amy Speace appare Mary Gauthier, nel quarto brano The Sea And The Shore il bravo John Fullbright, ma questo How To Sleep In A Stormy Boat pubblicato dalla Thirty Tigers, dopo una Kickstarter Campaign che ha finanziato il disco, è il quinto album pubblicato dalla cantautrice di Baltimora che ha una fan speciale in Judy Collins. Il CD è molto bello, una voce che si colloca a metà tra Lucinda Williams, Mary Chapin Carpente e le cantanti folk-rock classiche (molto della Collins anche), una manciata di belle canzoni, ancora buona musica in definitiva.

Per il momento è tutto, alla prossima settimana per la rubrica (mentre già nel corso di questa vi “toccheranno” un po’ di recensioni sui dischi che non sono rientrati nelle anticipazioni, Savoy Brown Live, Jason Elmore Hoodoo Witch, Cassie Taylor, Johnny Winter Live In Spain, Simon McBride, Johnny Vivino Live, insomma la solita razione mensile di blues e rock), ma anche altro, vado all’ascolto e al lavoro!

Bruno Conti

Un Tributo Di Gran Classe! Shannon McNally – Small Town Talk

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Shannon McNally – Small Town Talk (Songs Of Bobby Charles) –Sacred Sumac 2013

La signora (per chi scrive) è una delle più intriganti “rockers in gonnella” in circolazione, da dieci anni a questa parte. Lei si chiama Shannon McNally ed è ormai una realtà del cantautorato femminile americano: gli incidenti di percorso non sono certo mancati, ed è per questo che il talento della McNally sembrava destinato a perdersi nel sottofondo musicale a stelle e strisce. Questa ancora giovane songwriter originaria di Long Island, ma da tempo accasatasi tra le paludi della Lousiana (New Orleans), da autentica musicista di strada aveva colto l’occasione giusta entrando in contatto con l’entourage della Capitol, per la pubblicazione dell’esordio Jukebox Sparrows (2002), il più convincente Geronimo (2005), qualche EP sparso (compreso uno con Neal Casal Ran On Pure Lightnin‘), per poi approdare al primo live della carriera North American Ghost Music (2006) un disco aspro e chitarristico, con brani lunghi (tra i cinque e sei minuti). In seguito senza uno straccio di contratto (ricorrendo al finanziamento dei fans), incide due buoni lavori come Coldwater (2009) e Western Ballad (2011) e un altro disco dal vivo Live At Jazz Fest 2011 di difficile reperibilità (sono quelli registrati a New Orleans e distribuiti in loco). shannon-mcnally-coldwater.html

In questo Small Town Talk, Shannon rilegge a modo suo le canzoni di Bobby Charles (una cover di una dolcissima Tennessee Blues era in Geronimo), un grande autore di New Orleans scomparso nel 2010 (i suoi brani sono stati portati al successo da artisti del calibro di Fats Domino e Bill Haley)  e nel 2007 entrato a far parte della Music Hall of Fame, per il contributo dato alla musica  della Louisiana. Il disco prodotto dalla stessa McNally e Mac Rebennack e con l’aiuto del grande Dr. John (che sempre Mac Rebennack è), si avvale di ottimi musicisti di “area” quali lo stesso Rebennack alle tastiere, Herman Hernest alla batteria, David Barare al basso, John Fohl alle chitarre, oltre alla presenza di ospiti di certificato spessore che rispondono al nome di Vince Gill, Derek Trucks, Luther Dickinson e Will Sexton (fratello del più noto Charlie), gli arrangiamenti di archi e fiati sono di Wardell Quezerque, il “Beethoven Creolo”. Buona parte di queste canzoni, Shannon le ha pescate dall’album omonimo Bobby Charles (ristampato in edizione deluxe dalla Rhino Hamdade (2011), partendo dal funky iniziale di  Street People, dalla chitarra di Luther Dickinson in Can’t Pin A Color, dal duetto dolcissimo con Vince Gill in String Of Hearts, ai riff di chitarra di Derek Trucks nel soul-blues di Cowboys and Indians, proseguendo con la ballata pianistica Homemade Songs con l’apporto alla chitarra di Will Sexton, l’inconfondibile voce del “dottore” nella ritmata Long Face, passando per la splendida tittle track Small Town Talk (co-autore Rick Danko della Band), con l’armonica di Alonso Bowens in primo piano, nella travolgente interpretazione di Love In The Worst Degree, per chiudere alla grande con la canzone forse più bella di Bobby Charles, I Must Be In A Good Place Now, una ballata soul, dove la voce della McNally  si insinua alla perfezione in un brano che trasmette pace e tenerezza.

C’e qualcosa nella voce di Shannon che ti cattura e ti seduce, e questa ancora giovane ragazza di New York ormai ne ha fatta di strada e pare lontanissima dai miraggi pop-rock di inizio carriera, si è trasferita armi e bagagli a New Orleans, ha vissuto il dramma dell’uragano Katrina, si è immersa in questi suoni, inventandosi interprete di grande sex-appeal e ricca di sfumature soul. Small Town Talk è un doveroso tributo ad un autore magnifico e poco conosciuto, fatto con cuore e sentimento da Shannon McNally, un’artista che non ha nulla da invidiare a personaggi come Mary Gauthier, Kathleen Edwards e Shelby Lynne. Consigliatissimo!

Tino Montanari   

Uscite Prossime Venture: Edizione Primavera 2013. Parte II: Rod Stewart, Bonnie Tyler, Patty Griffin, Paula Cole, Chapin Sisters

Oggi arrivo un po’ in ritardo, ma ecco il solito post quotidiano.

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Ancora novità per i prossimi mesi, capitolo secondo.

Si spera sempre che venga il tempo in cui Rod Stewart ci regali un disco degno del suo passato, ma, nonostante il titolo, Time, temo che neppure questa volta sarà l’occasione (peraltro avendone ascoltato solo dei brevi assaggi e quindi gli lascio il beneficio d’inventario). A giudicare dall’anticipo offerto nel sampler che ascoltate qui sotto, qualche segnale di ripresa da Rod The Mod si nota, chitarre acustiche, slide, violini e batterie non sintetizzate (a parte un paio di brani), le atmosfere soporifere dei dischi della serie “Great American Songbook” alle spalle (quasi, perché ogni tanto ci ricasca), qualche accenno di rock qua e là, non ci sono purtroppo le vociferate collaborazioni con Jeff Beck e cover blues and soul come Shake Your Money Maker e Here Comes The Night. Quindi direi che in questa prima uscita per la Capitol/Universal prevista per il 7 maggio, siamo dalle parti dei dischi fine anni ’70/anni ’80, non un periodo memorabile come quello dei primi 5 album per la Mercury e dei Faces, ma migliore dello Stewart degli ultimi 25 anni, qualche canzone a parte.

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La signora in questione, definita la “Rod Stewart in gonnella”, sia per la voce che per le origini (gallese e non scozzese, ma siamo da quelle parti) ed è il motivo per cui appare qui, ha fatto un disco bello, troppo? “Bellino” diciamo: Faster Than The Speed Of Night, quello prodotto da Jim Steinman, reduce dai successi con Meat Loaf e che per l’album aveva scritto anche Total eclipse of the heart e la title-track. Ma in quell’album c’era anche un duetto con il grande Frankie Miller e canzoni di Fogerty, Ian Hunter & Eric Bloom dei BOC, un brano tratto da Spectres e di un Bryan Adams agli inizi. Da parecchi anni vive sulla rendita del passato e tra una comparsata e l’altra in televisione, anche dal mio quasi omonimo CarloConti (tutto attaccato), ha registrato questo Rocks And Honey che è un ritorno alle sue radici country (più o meno!?), genere che era preponderante nei suoi primi cinque album incisi 1976 e il 1981. Registrato in quel di Nashville, uscirà per la Warner Bros UK il 14 maggio e il 7 negli States (ma in alcuni paesi europei è già uscito). C’è un duetto con Vince Gill, però il disco è prodotto da David Huff, quello dei Giant e dei White Heart e a fianco di brani scritti da James House (che suona nel disco) e Beth Hart ce ne sono altri con la firma di Desmond Child e “last but not least” la nostra amica Bonnie Tyler (non l’avevo ancora citata) parteciperà a maggio all’Eurovision Song Contest (l’Euro Festival come lo chiamiamo in Italia)!

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A proposito di belle voci, ma siamo su un altro pianeta, il 7 maggio per la New West, anche in versione CD+DVD con il solito Making of,  in una pausa della sua collaborazione con i Band Of Joy di Robert Plant che stanno preparando il secondo album, Patty Griffin pubblica il suo settimo album da solista, dopo il fantastico disco ispirato al gospel che era Downtown Church, uno dei più belli del 2010. Il disco, composto di materiale originale, si chiama American Kid ed è stato registrato in quel di Memphis, co-prodotto dalla Griffin e da Craig Ross e nel disco suonano Cody e Luther Dickinson dei North Mississippi Allstars, oltre a Doug Lancio che è la chitarra solista in ben otto brani e ha suonato in quasi tutti i dischi di Patty! Quindi, per me, il disco è ottimo, già sulla fiducia, senza sentirlo, ma è una delle mie preferite in assoluto patty-griffin-downtown-church-o-forse-no.html

Sempre a proposito di cantautrici, un paio che hanno applicato la formula della Kickstarter Campaign per finanziare il loro nuovo disco.

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La prima è Paula Cole che per il suo primo album pubblicato a livello indipendente sperava di raccogliere 50.000 dollari, ne ha raccolti oltre 75.000 e quindi Raven, in uscita il 23 aprile, avrà fondi anche per una piccola promozione (non certo quella a cui  era abituata con le major). Etichetta 675 Records/United For Opportunity, questi i titoli dei brani:

1. Life Goes On 4:39
2. Strong Beautiful Woman 5:05
3. Eloise 4:13
4. sorrow-on-the-hudson 3:58
5. Manitoba 5:33
6. Scream 3:06
7. Imaginary Man 6:09
8. Billy Joe 4:18
9. Secretary 3:33
10. Why Don’t You Go? 4:55
11. Red Corsette 3:29

E questo è il video di Eloise, il primo singolo tratto dall’album, il suo sesto di studio. Una delle voci più espressive del panorama femminile americano e ben nota agli amanti di Peter Gabriel con cui ha spesso collaborato nel passato.

 

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Anche le Chapin Sisters si sono autofinanziate il nuovo disco A Date With The Everly Brothers, con una più modesta cifra di 12.000 dollari (e ne hanno raccolti 17.000, con la parte eccedente hanno iniziato ad incidere anche un disco di brani nuovi). Si tratta del secondo disco, in breve tempo, dedicato alle canzoni di Don & Phil Everly, dopo il recente What The Brothers Sang di Dawn McCarthy & Bonnie “Prince” Billy. Evidentemente il bacino di canzoni a cui attingere è enorme ed in questo caso i brani prescelti sono i seguenti:

1. Crying in the Rain
2. Brand New Heartache
3. Sleepless Nights
4. Sigh, Cry, Almost Die
5. Cathy’s Clown
6. So Sad
7. Dream
8. When Will I Be Loved
9. Some Sweet Day
10. Love Hurts
11. Always It’s You
12. Down in the Willow Garden
13. Till I Kissed Ya
14. Maybe Tomorrow

Quindi più sui classici rispetto all’altro disco. Ma giustamente mi chiederete, chi azz sono le Chapin Sisters?  Sono Abigail & Lily Chapin, ovvero le figlie di Tom Chapin, onesto cantautore americano dalla discografia corposa, tra il 1976 e il 2013 ha pubblicato quasi 25 album, ma soprattutto fratello di Harry Chapin (che quindi è lo zio delle Chapin Sisters), uno dei migliori cantautori americani degli anni ’70, scomparso prematuramente nel 1981, in un incidente automobilistico, poco conosciuto in Europa, se non forse per il suo brano più noto, Cat’s In The Cradle, ma assolutamente da investigare se amate la musica di qualità. Esistono molte ristampe e raccolte dedicate alla sua opera, magari, se e quando trovo il tempo, sarebbe il caso di dedicargli un Post ad hoc. Tornando al disco delle sorelle Chapin esce su etichetta Lake Bottom, è il loro terzo e se amate il folk e le belle voci femminili, potreste avere una piacevole sorpresa con questo A Date With…

Per oggi è tutto, gli aggiornamenti arrivano un po’ alla rinfusa, man mano che vengono pronti.

Bruno Conti

Un Inglese Alle Radici Del Blues, Di Nuovo! Ian Siegal & The Mississippi Mudbloods – Candy Store Kid

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Ian Siegal & The Mississippi Mudbloods – Candy Store Kid – Nugene Records

Ormai Ian Siegal sembra avere preso gusto per queste trasferte americane, alle radici della musica blues, nel Nord Mississippi e dintorni. Quella dello scorso anno, per l’album The Skinny, in compagnia dei Youngest Son, gli ha fruttato la nomination come Miglior Disco di Blues Contemporaneo ai premi annuali della Blues Foundation del 2012, la prima volta di sempre per un musicista inglese. Ma non è la sola “prima” per Siegal, anche il premio assegnatogli dalla rivista Mojo per il disco Broadside come Blues Album Of the Year, accadeva per la prima volta con un artista non americano (anche se per onestà, all’epoca d’oro dei Bluesmen britannici Mojo non esisteva). Visto il successo del disco dello scorso anno, il buon Ian ha deciso di ripetere il “trucco” di registrare l’album sulle colline del Mississippi, e questa volta non si è portato dietro neppure la sua abituale sezione ritmica. Candy Store Kid è stato realizzato con musicisti locali, amici importanti, qualche “figlio di…” come nel disco precedente e alcune new entry.

Quindi troviamo Cody Dickinson, alla batteria, tastiere e chitarra anche, nella traccia iniziale, la poderosa Bayou Country, il fratello Luther, chitarre, sitar, mandocello e basso in parecchi brani. Il basso, in effetti, viene democraticamente affidato a diversi musicisti a seconda dei brani, Garry Burnside e Alvin Youngblood Hart lo suonano in parecchie tracce, anche se, soprattutto il secondo, è alla chitarra in molte canzoni. Lightnin’ Malcom, altro musicista del giro North Mississippi, compone un brano, So Much Trouble, nel quale è pure la seconda voce. E a proposito di voci, purtroppo solo in tre brani, perché sono strepitose, appare un terzetto di voci femminili Stephanie Bolton, Sharisse Norman e Shantelle Norman, che aggiungono una patina soul e R&B che scalderà le vostre fredde serate invernali, oltre a ricreare in parte quel tipo di sound che Luther Dickinson frequenta nel suo “altro” gruppo, i Black Crowes (uno degli altri gruppi, diciamo)!

 Naturalmente per Ian Siegal suonare questa musica e con siffatti musicisti è un po’ come entrare in un “Negozio di canditi”: quelli particolarmente gustosi e succulenti, come nell’iniziale Bayou Country, scritta da un paio di musicisti minori nativi della Lousiana, Bardwell e Veitch, che una quarantina di anni fa lavoravano con Tom Rush. Il brano, oltre al bayou, ha il ritmo e la consistenza delle canzoni di Joe Cocker con i Mad Dogs o dei Delaney & Bonnie con Clapton, nelle linee sinuose della solista, mentre le tre ragazze in sottofondo caricano il brano con la loro esuberanza vocale, per un inizio esaltante. Loose Cannon è un rock-blues sporco e cattivo da juke joint, come quelli frequentati dai babbi di alcuni dei musicisti presenti, con le chitarre e le voci, spesso distorte, che aggiungono intensità ad un brano gagliardo. I Am The Train ha ritmi incalzanti da soul revue sudista, con un slide che si insinua nel groove  del tessuto della canzone e la miriade di altre chitarre che imprimono anche il loro marchio di qualità. So Much Trouble, con il sitar di Luther Dickinson in evidenza, è quella che più ricorda il sound ipnotico e ripetitivo dei vecchi maestri della Fat Possum, ma è impreziosita da piccole (o grandi) coloriture sonore, oltre al sitar, la slide, un organo in sottofondo e, Lightnin’ Malcolm e le tre ragazze che ogni tanto si fanno sentire nel reparto voci.

Kingfish è una collaborazione tra Luther e Ian Siegal, con la voce paludosa e profonda di quest’ultimo che si spinge in territori più chiaramente Blues, fiancheggiata dalla solita miriade di strumenti a corda, sia elettrici che acustici. In The Fear la voce di Siegal va in cantina a raggiungere quelle di Cohen e Waits, anche se il brano è talmente attendista che quando finisce siamo ancora lì ad aspettare che si apra in qualche modo. Earlie Grace Jr. sembra un brano perduto dei Creedence cantato dal fratello minore del Waits giovane e con Harrison alla chitarra. La Green Power l’hanno usata per nutrire un wah-wah tostissimo che propelle una cover super-funky di un brano di Little Richard scritto da tale H.B. Barnum che non penso sia l’inventore del circo ma di sicuro del funky era tra i contribuenti, inutile dire che le tre vocalist di colore sono nel loro “ambiente”. Strong Woman è una breve e poderosa iniezione rock-blues firmata con Burnside che svergogna quasi tutto il repertorio di Lenny Kravitz. The Rodeo è una bella ballata campagnola che evidenzia la “parentela” di intenti con il Tom Waits di Jersey Girl. Hard Pressed (what da Fuzz?) è un altro funkaccio cattivo e il “fuzz” ovviamente è nella chitarra, cattiva quanto basta. Bravo e bello (scusate, guardo la foto): direi bravo e basta!           

Bruno Conti