E Questa Sarebbe Una Edizione Deluxe? Neil Young – After The Gold Rush 50

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Neil Young – After The Gold Rush 50 – Reprise/Warner CD

Il 2020 appena trascorso ha visto un Neil Young molto attivo dal punto di vista discografico: a parte il secondo volume degli Archivi che è stato l’apice delle varie pubblicazioni abbiamo avuto il leggendario unreleased album Homegrown (che però poi è stato inserito anche nel cofanettone degli Archives, creando così un poco gradito doppione), l’EP registrato in lockdown The Times ed il doppio Greendale Live con i Crazy Horse. Per quest’anno ci sono già in calendario diverse cose, tra cui altri due live (Way Down In The Rust Bucket ancora con il Cavallo Pazzo e l’acustico Young Shakespeare) e l’inizio di una serie di Bootleg Series sempre dal vivo, anche se al momento non sono state annunciate date di pubblicazione (ma proprio ieri mentre scrivevo queste righe il buon Neil ha confermato che il doppio Way Down In The Rust Bucket uscirà il 26 febbraio).

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lo scorso dicembre però il cantautore canadese, avendo forse deciso che non aveva inondato abbastanza il mercato, ha fatto uscire una versione deluxe per i 50 anni del suo famoso album del 1970, After The Gold Rush, cosa insolita per lui dal momento che né l’esordio Neil Young né il seguente Everybody Knows This Is Nowhere avevano beneficiato dello stesso trattamento. C’è un problema però, grosso come una casa, e cioè che chiamare deluxe una ristampa (ok, in digipak) aggiungendo appena la miseria di due bonus tracks, delle quali solo una inedita, necessita di una buona dose di fantasia per non dire faccia di tolla. E chiaro comunque che è sempre un piacere immenso riascoltare un disco epocale, che molti considerano il migliore di Young (io posso essere d’accordo, anche se sullo stesso piano ci metto Harvest e forse Rust Never Sleeps), un album inciso assieme ai suoi consueti collaboratori dell’epoca, cioè i Crazy Horse al completo (Danny Whitten, Billy Talbot e Ralph Molina), Nils Lofgren, l’amico Stephen Stills, Jack Nitzsche e Greg Reeves, oltre a Bill Peterson che suona il flicorno in un paio di pezzi e prodotto insieme al fido David Briggs.

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After The Gold Rush è principalmente un disco di ballate, e la magnifica trilogia all’inizio è uno splendido esempio in tal senso: Tell Me Why https://www.youtube.com/watch?v=sSWxU-mirqg , la title track (uno dei più bei lenti pianistici di sempre) https://www.youtube.com/watch?v=d6Zf4D1tHdw  e Only Love Can Break Your Heart, tre classici assoluti del songbook del Bisonte e del cantautorato in generale https://www.youtube.com/watch?v=364qY0Oz-xs . Ma anche le meno note Birds e I Believe In You sono due ballad fantastiche, completate dalla malinconica e riuscita cover di Oh Lonesome Me di Don Gibson. Detto di due piacevoli bozzetti di poco più di un minuto ciascuno (Till The Morning Comes e Cripple Creek Ferry), l’album non dimentica comunque il Neil Young rocker, con la tesa Don’t Let It Bring You Down https://www.youtube.com/watch?v=eVy1h2FcRiM  e soprattutto le mitiche Southern Man (dal famoso e controverso testo, al quale i Lynyrd Skynyrd risponderanno con Sweet Home Alabama) https://www.youtube.com/watch?v=-KTpIQROSAw  e When You Dance I Can Really Love.

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Le due bonus tracks riguardano due versioni della stessa canzone, vale a dire l’outtake Wonderin’, un gustoso e cadenzato honky-tonk: la prima era già uscita sul volume uno degli Archivi, mentre la seconda (più rifinita, dal tempo più veloce ed in definitiva migliore) è inedita https://www.youtube.com/watch?v=2hE5w-2sz-w . Tutto qui? Ebbene sì, ma se avete dei soldi da buttare via a marzo uscirà una versione a cofanetto con l’album in LP a 180 grammi ed un 45 giri con le due takes di Wonderin’, il tutto alla “modica” cifra di 90-100 euro! Attendiamo dunque pubblicazioni più stimolanti da parte di Neil Young, anche se è abbastanza evidente che se per qualche strana ragione non possedete After The Gold Rush, questa è l’occasione giusta per riparare alla mancanza.

Marco Verdi

Ma Milano E’ In Texas? Half Blood – Run To Nowhere

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Half Blood – Run To Nowhere – Heavy Road CD

Se qualcuno mi avesse fatto ascoltare questo CD senza fornirmi informazioni sulla band che lo aveva realizzato, avrei pensato di trovarmi di fronte ad una nuova formazione di country-rock di qualche posto del Sud degli Stati Uniti (Texas, Oklahoma o Georgia che fosse), ma una volta consultato il booklet accluso, pur scritto interamente in inglese, risulta chiaro che abbiamo a che fare con un gruppo della nostra penisola, e più precisamente di Milano. Gli Half Blood sono nati nel 2013 a seguito dell’iniziativa di Alexander De Cunto, cantante la cui passione per la musica è nata in seguito all’ascolto di band hard rock degli anni ottanta (in particolar modo Bon Jovi, Guns’n’Roses, Skid Row e Cinderella) e solo in un secondo momento all’avvicinamento alla musica country; l’idea era di formare un gruppo che unisse queste due influenze (Half Blood, mezzosangue, sta proprio ad indicare le due diverse anime) in un solo progetto, e per farlo ha coinvolto il chitarrista Alessio Brognoli, il bassista Christian Sciaresa ed il batterista Simone Marini. I quattro hanno quindi cominciato a scrivere canzoni insieme e soprattutto a macinare chilometri ed a costruirsi un buon seguito a livello locale a suon di concerti, specialmente in serate a tema country. Run To Nowhere è il loro primo disco, e dopo averlo ascoltato devo dire di essere rimasto favorevolmente impressionato, in quanto mi sono trovato di fronte ad un eccellente lavoro di country-rock elettrico con implicazioni sudiste, una miscela stimolante e godibile di ottima musica e con un suono americano al 100%, tra l’altro molto professionale dal punto di vista della produzione.

Ci sono echi dello Steve Earle di dischi come Copperhead Road e The Hard Way, ma anche qualcosa dei Lynyrd Skynyrd nei momenti più “robusti”. Non sento molto il suono dell’hard rock di cui parlavo prima, ma forse lo posso ritrovare nella grinta con la quale i ragazzi porgono le canzoni: De Cunto è un cantante espressivo e con una voce forte e limpida, Brognoli un chitarrista bravissimo, con una tecnica ed un feeling notevoli, e la sezione ritmica pesta di brutto, un po’ come sui dischi degli anni ottanta di John Mellencamp. Run To Nowhere è quindi un album che consiglio di sicuro a tutti gli amanti del vero rockin’ country dominato dal suono delle chitarre, anche perché all’interno dei nostri confini di musica come questa se ne produce davvero poca. Ma non c’è solo grinta in queste canzoni, in quanto i ragazzi sanno anche scrivere melodie dirette e che entrano in circolo immediatamente, come nell’orecchiabile title track che apre il CD, un brano dallo sviluppo fluido dominato dalla chitarra e da un ficcante violino, con la sezione ritmica che può contare sulla batteria “alla Kenny Aronoff” di Marini: un ottimo inizio. Molto rock anche What Turns Me On (scritta dalla country singer americana Erica “Sunshine” Lee), che mi ricorda suoni sudisti alla Skynyrd, con una bella slide che arrota per tutta la durata del brano e la solita ritmica schiacciasassi; Me And My Gang è uno di quei rock’n’roll irresistibili tutti ritmo e chitarre che piacciono a noi che amiamo la vera musica, un pezzo degno di essere suonato in qualunque bar texano, mentre Beautiful è più elettroacustica ma sempre con la batteria che picchia duro, puro southern rock che fa venire in mente immense praterie sferzate dal vento, e presenta un bellissimo assolo centrale di Brognoli.

Beer! Cheers! One More Song! è ancora rock’n’roll all’ennesima potenza, uno di quei pezzi che dal vivo fanno saltare per aria la sala, con un altro splendido intervento della slide, Something To Dance To (ancora della Sunshine Lee, evidentemente i quattro sono suoi fans) è una magnifica e cadenzata rock ballad, limpida, forte e dal motivo vincente, in poche parole una delle migliori del CD. Poor Cody O’Brian’s Guitar Story inizia come una slow ballad e ha una parte cantata molto breve, poi il ritmo aumenta vertiginosamente assumendo quasi toni tra country e punk, e la chitarra diventa protagonista assoluta con una performance strepitosa; We Are Country è una dichiarazione d’intenti fin dal titolo, ed infatti il brano è il più countreggiante finora (ma sempre con approccio dal rock band), ritmo saltellante e mood davvero coinvolgente. In With My Friends spunta un banjo, ed il pezzo è una sorta di bluegrass elettrico ancora una volta godibilissimo e con la solita impeccabile chitarra, Tonight Goodbye, tenue ed acustica, è l’unica oasi del disco (e con la seconda voce femminile di Chiara Fratus); il CD si chiude con la dura Love Mud, ennesimo potente rock chitarristico, ottimo veicolo per la sei corde di Brignolo anche se forse un gradino sotto alle precedenti dal punto di vista compositivo.

Segnatevi il nome Half Blood, milanesi col cuore in Texas (e dintorni) e se cercate il CD lo potete richiedere direttamente a loro qui https://www.facebook.com/powercountry/photos/a.643734065721847/1901301753298399/?type=3&theater

Marco Verdi

Per Rivalutare (In Parte) Un Gruppo Spesso Bistrattato. Molly Hatchet – Fall Of The Peacemakers 1980-1985

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Molly Hatchet – Fall Of The Peacemakers – Cherry Red/Sony 4CD Box Set

Nel panorama dei gruppi southern rock degli anni settanta, a parte la sacra triade formata da Allman Brothers Band, Lynyrd Skynyrd e Marshall Tucker Band, una delle band più popolari, ma negli anni più maltrattate dalla critica sono stati (esistono ancora, seppur senza membri originali al suo interno) i Molly Hatchet, provenienti da Jacksonville, Florida, la vera culla del southern, e fondati nel 1971 dai chitarristi Dave Hlubek (scomparso nel 2017) e Steve Holland, ai quali si sono aggiunti negli anni seguenti (il loro esordio discografico avverrà solo nel 1978) il terzo chitarrista Duane Roland, il cantante solista Danny Joe Brown e la sezione ritmica formata da Banner Thomas e Bruce Crump. Considerati da sempre fautori di un southern rock grezzo e destinato a palati non proprio raffinatissimi, con sconfinamenti anche nell’hard rock, i MH nella seconda metà dei seventies hanno invece pubblicato tre album di buona fattura, di certo inferiori a quelli dei tre gruppi da me citati all’inizio, ma con una loro logica all’interno del calderone southern: Molly Hatchet (1978), Flirtin’ With Disaster (1979, il loro migliore per il sottoscritto, contiene la strepitosa Boogie No More) e Beatin’ The Odds (1980, con Jimmy Farrar alla voce al posto di Brown) sono tre album che non sfigurerebbero nella collezione di qualsiasi amante della buona musica, ed ebbero anche un buon successo di vendite, forse grazie anche alle iconiche copertine in stile medievale-fantasy ad opera di Frank Frazetta.

In genere si pensa che da lì in poi i MH abbiano indurito il loro sound, adattandolo ai gusti dell’epoca ed allontanandosi dunque dai territori southern, e se questo può essere condivisibile quando parliamo del periodo che va dalla seconda metà degli anni ottanta fino più o meno ad oggi, l’inizio degli eighties non è poi così disastroso, e questo boxettino di quattro CD, intitolato Fall Of The Peacemakers 1980-1985 (il titolo secondo me è fuorviante, in quanto Beatin’ The Odds non c’è ed il primo album contenuto è del 1981), appena uscito, è qui per ricordarcelo. Quattro CD, tre in studio più uno dal vivo, che dimostrano che i nostri erano ancora in grado di fare musica coinvolgente e sanguigna, una miscela molto tonica di rock, southern e boogie, e solo nel terzo dischetto si nota qualche cedimento verso un genere più “levigato”. La confezione non è spartana come altre di questo tipo, ma contiene un bel libretto di più di trenta pagine con note e crediti, ed i dischetti hanno anche delle bonus tracks (tranne quello dal vivo). Take No Prisoners (1981), ancora con Farrar alla voce solista (e come cantante lo preferisco a Brown) è un ottimo dischetto di energico southern rock, forse con i primi accenni di toni più hard, ma comunque piacevole, a partire dalla trascinante Bloody Reunion, un rock’n’roll chitarristico di grande presa, potenziato dalla sezione fiati dei Tower Of Power (presente anche nell’accattivante Lady Luck, un perfetto esempio di rock sudista radiofonico ma con un suono non ancora compromesso).

Altri brani degni di nota sono lo scatenato boogie Respect Me In The Morning, con la gran voce di Joyce Kennedy dei Mother’s Finest in duetto con Farrar, una granitica versione di Long Tall Sally di Little Richard (notevole la performance chitarristica), l’ottima Power Play, potente rock song alla Skynyrd, ricca di feeling e suonata alla grande, l’orecchiabile Don’t Leave Me Lonely ed il coinvolgente boogie Dead Giveaway. Ma anche i pezzi più normali, come Loss Of Control e All Mine, hanno delle parti di chitarra di livello egregio. Questo primo dischetto è anche quello con le bonus tracks più interessanti: a parte un paio di single versions, abbiamo una grintosa ancorché breve Mississippi Queen dei Mountain, suonata dal vivo con Ted Nugent, e, per la prima volta su CD, un raro promo EP live uscito sempre nell’81, sei canzoni, tra cui due scintillanti riletture di Few And Far Between e Dead And Gone ed una cover tostissima di Penthouse Pauper dei Creedence. No Guts, No Glory (1983) vede il ritorno di Brown alla voce ed il cambio della sezione ritmica, con l’arrivo di Riff West al basso e Barry Borden alla batteria, ed è l’unico album in studio della loro discografia ad avere in copertina una foto del gruppo invece dei famosi disegni. Lo stile però non cambia: si inizia con la possente What Does It Matter?, tra hard e southern, e si prosegue con il rock’n’roll sotto steroidi di Ain’t Even Close ed il travolgente boogie Sweet Dixie. Ma il centerpiece del disco è la straordinaria Fall Of The Peacemakers, un tour de force epico che è considerata una delle loro signature songs, la loro Freebird, una lunga ed evocativa ballata che si trasforma in un infuocato inno rock di quelli che non vorresti finissero mai, otto minuti di grande musica.

Una breve menzione anche per la diretta What’s It Gonna Take?, dal ritornello vincente, la squisita Kinda Like Love, singolo portante del disco e brano quasi country, e Both Sides, gustoso strumentale dall’approccio molto Skynyrd (il riff somiglia parecchio a quello di Sweet Home Alabama). Come bonus, solo due “radio edit” di brani dell’album. The Deed Is Done (1984) vede l’ingresso nella band di John Galvin alle tastiere (in sella ancora oggi) e soprattutto il cambio di produttore: da Tom Werman, presente in tutti i dischi fino a quel momento, si passa a Terry Manning, che garantisce una svolta più radiofonica nel suono con elementi quasi AOR (era l’uomo dietro Eliminator degli ZZ Top, ed è per questo che gli Hatchet lo hanno ingaggiato), un suono che però con i MH non c’entra una mazza. E proprio una outtake degli ZZ Top di quel periodo sembra Satisfied Man (così come Good Smoke And Whiskey): chitarre dure, synth, big drum sound tipico degli anni ottanta e refrain corale, un abisso rispetto agli Hatchet conosciuti fino a questo punto. Backstabber sembra opera di uno dei mille gruppi “hair metal” di scena a Los Angeles all’epoca, She Does She Does ricorda il Glenn Frey di The Heat Is On, Stone In Your Heart non sarebbe male ma è piena zeppa di sintetizzatori, Man On The Run è brutta e basta. Si salvano Heartbreak Radio, una cover di Frankie Miller che mantiene lo spirito rock’n’roll dei primi dischi (ma Roy Orbison la rifarà in modo migliore), e lo strumentale acustico Song For The Children. Nei bonus i soliti due singoli e due canzoni dal vivo (Walk On The Wild Side Of Angels e Walk With You) tratte da Double Trouble Live ma omesse dalla prima stampa in CD per motivi di durata.

E proprio Double Trouble Live (1985, registrato tra Jacksonville e Dallas con Crump che riprende il suo posto alla batteria) è il quarto dischetto di questo box, un album uscito fuori tempo massimo per essere inserito nella categoria “doppio dal vivo degli anni settanta”, tappa obbligatoria per qualsiasi gruppo di quella decade. Ma l’album funziona lo stesso, e mostra i nostri al massimo della loro potenza e feeling, ed anche i brani di The Deed Is Done (Stone In Your Heart, Satisfied Man) ne escono migliorati, nonostante Galvin non rinunci del tutto ad usare il synth. Non mancano i brani più noti dei primi tre album (Whiskey Man, Gator Country, Bounty Hunter, Beatin’ The Odds) ed anche un pezzo dall’unico disco solista di Brown (Edge Of Sundown), ma il meglio i nostri lo danno con le trascinanti Flirtin’ With Disaster e Bloody Reunion e soprattutto con le strepitose Boogie No More e Fall Of The Peacemakers, dimostrando che il palco è la dimensione naturale per canzoni come queste. Ci sono anche due cover di lusso come Freebird degli Skynyrd e Dreams I’ll Never See degli Allman (che poi sarebbe semplicemente Dreams), non al livello delle originali ma più che dignitose. Da questo momento in poi la carriera dei Molly Hatchet si arenerà decisamente, ed i nostri non riusciranno più a tornare sulla retta via, ma questo box set, se non possedete già i dischi al suo interno, è un acquisto che mi sento di consigliare sia per il costo contenuto, sia perché per almeno tre quarti è composto da musica di buon livello.

Marco Verdi

La Ragazza Sa Benissimo Dove Andare! Ashley McBryde – Girl Going Nowhere

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Ashley McBryde – Girl Going Nowhere – Atlantic/Warner Music Nashville CD

Quando mi imbatto in una newcomer in ambito country che al suo esordio incide subito per una major e con un produttore affermato, mi insospettisco all’istante. E’ quello che ho fatto anche quando ho avuto tra le mani questo Girl Going Nowhere, disco d’esordio di Ashley McBryde, giovane musicista dell’Arkansas (avrebbe due album autogestiti alle spalle, ma sono introvabili), che vede alla produzione il noto Jay Joyce, uno abituato a passare dall’oro allo stagno, avendo nel curriculum gente di livello come John Hiatt, Emmylou Harris e Wallflowers ed altra molto meno interessante, come Keith Urban, Cage The Elephant e Carrie Underwood. Ma questa volta i miei sospetti erano, con mio grande piacere, infondati: Girl Going Nowhere è davvero un dischetto pienamente riuscito, da parte di un’artista che sa il fatto suo, scrive molto bene, canta anche meglio e passa con disinvoltura dalla ballata più toccante al brano rock più trascinante, uscendo spesso anche dall’ambito del country di Nashville (dove risiede attualmente).

Ed il disco non contiene il solito fiume di musicisti che timbrano il cartellino, né vede la presenza di strumenti che poco hanno a che vedere con la vera musica (come synth e drum machines), ma presenta una ristretta e solidissima band di appena quattro elementi (cinque compresa Ashley), coordinati da Joyce con mano sicura ed esperta: due chitarristi (Andrew Sovine e Chris Harris), un bassista (Jasen Martin) ed un batterista (Quinn Hill). Non ci sono neppure le tastiere. Ed il disco ha pertanto un suono solido, vigoroso ed unitario, perfetto per accompagnare le ottime canzoni scritte dalla McBryde: in poche parole, un album da gustare dal primo all’ultimo brano. La title track non fa iniziare il disco col botto, bensì con una dolce ed intensa ballata acustica https://www.youtube.com/watch?v=9s830jmiqnw , molto cantautorale, sullo stile di Rosanne Cash: dopo due minuti entra il resto della band in maniera discreta, ed il pezzo acquista ulteriore pathos. Per contro Radioland ha un bel riff chitarristico ed un ritmo decisamente sostenuto, un rockin’ country pulito e trascinante al tempo stesso: Ashley ha voce e grinta, ed in questi due brani dimostra anche una certa versatilità; molto bella anche American Scandal, una ballata fluida, potente e di sicuro impatto, con un refrain di pima qualità ed un arrangiamento elettrico che la veste alla perfezione.

Southern Babylon è notturna ed intrigante, cantata con voce quasi sensuale, The Jacket è invece solare, orecchiabile, dallo spirito californiano e similitudini con certe cose dei Fleetwood Mac, uno di quei pezzi che si canticchiano dopo appena un ascolto; Livin’ Next To Leroy ha marcati elementi sudisti, con un motivo che ricorda, forse volutamente, Sweet Home Alabama dei Lynyrd Skynyrd, ed è manco a dirlo tra le più riuscite. La McBryde si dimostra una gradita sorpresa, è brava, ha personalità e sa scrivere belle canzoni, come A Little Dive Bar In Dahlonega, una notevole ballad dalla melodia distesa (neanche tanto country), o Andy (I Can’t Live Without You), altro momento acustico e pacato, ma dal feeling ben presente. El Dorado è roccata ed energica, con una ritmica a stantuffo e la solita grinta, Tired Of Being Happy è uno straordinario slow dal sapore southern country (con un tocco soul), perfetto sotto tutti i punti di vista, un brano splendido e suonato alla grande che non fatico ad eleggere come il migliore del CD. Chiude l’intensa ed emozionante Home Sweet Highway, ancora molto soul nel suono: Girl Going Nowhere è dunque un disco, come ho già detto, sorprendente, ed Ashley McBryde una musicista di cui spero sentiremo parlare ancora.

Marco Verdi

Il Ritorno Dei Vecchi Sudisti 1! Blackfoot – Southern Native

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Blackfoot – Southern Native – Loud And Proud Records

Come detto recentemente, parlando del Live Broadcast relativo ai concerti del 1980 e 1983 http://discoclub.myblog.it/2016/07/17/vecchi-concerti-sudisti-blackfoot-the-classic-broadcasts-chicago-1980-hollywood-1983/ , i Blackfoot nascono intorno alla metà degli anni ’70, quando Rickey Medlocke, uno dei primi membri dei Lynyrd Skynyrd, in quel di Jacksonville, Florida, decide di fondare una propria band, portatrice di un rock più duro e meno influenzato dalla country music del gruppo originale, ma sempre tipicamente sudista. Nel corso degli anni il sound si è poi via via spostato verso un hard rock più di maniera, ma nel periodo aureo dei 70’s il gruppo era uno dei migliori nell’area southern. L’ultimo disco di studio della band, After The Reign, risale al 1994, poi Medlocke è rientrato in pianta stabile nei Lynyrd Skynyrd, ma il brand, attraverso tour, concerti e vari album live è rimasto comunque attivo, pur senza la presenza del suo leader e con altri componenti della band originale a proseguire il lavoro, fino a che, nel 2012,  si riparte con una line-up completamente rinnovata con Rickey Medlocke che ritorna come produttore, factotum, voce e chitarra aggiunta, affiancato dai nuovi Tim Rossi e Rick Krasowski, entrambi alle chitarre e voci, con Brian Carpenter, basso e Matt Anastasi, batteria, a completare la formazione. Negli ultimi due anni lo stesso Medlocke ha scritto nove delle dieci tracce che compongono questo nuovo Southern Native (titolo che è un chiaro omaggio alle radici indiane pellerossa del leader), mentre l’unico brano non originale è una potente cover di Ohio, il classico di Crosby, Stills, Nash & Young, molto chitarristica (e ci mancherebbe, il brano del vecchio Neil si presta al trattamento), ma anche a livello vocale i nuovi Blackfoot sembrano avere ritrovato tracce dell’antico splendore, come dimostra questo brano, con tanto di citazione a Southern Man aggiunta al testo.

Per il resto il southern rock del gruppo è sempre duretto anziché no, ma gli eccessi hard sembrano più contenuti rispetto al periodo anni ’80: I Need My Ride è tiratissima, con riff sparati a destra e manca, Rossi e Krasowski cantano bene, la ritmica non molla il colpo e sembra di sentire gli ZZ Top moltiplicati per tre ma anche proprio i “vecchi” Blackfoot https://www.youtube.com/watch?v=mNyDz_7ez7Q . Anche la title track Southern Native non prende prigionieri, pur se il vecchio difetto di “esagerare” con suoni metallurgici a tratti riaffiora; Everyman prende la forma di una ballata più riflessiva su cui si innesta il sempre ottimo lavoro delle chitarre che rilasciano buoni soli, mentre in Call Of The Hero si cercano di mediare le due anime, quella “hair metal” e quella sudista, a tratti riuscendoci. Cosa che vieppiù  riesce in Take Me Home, dove la slide di Rickey Medlocke si innesta sulle twin guitars degli altri due solisti e si evita in parte il rischio dell’hard americano più becero anni ’70, al limite ricordando certe buone cose degli Aerosmith.

Whiskey Train si rifà ancora al suono di altre band sudiste energiche come 38 Special, Molly Hatchet, Point Blank e, di nuovo, gli stessi Blackfoot. Insomma in definitiva il suono di “questi” Blackfoot è molto vicino a quello dell’attuale band di Medlocke, ovvero gli ultimi Lynyrd Snynyrd, con cui condividono la stessa etichetta e il suono hard&heavy, vedi Satisfied Man, dove muri di twin lead guitars, wah-wah a manetta e ritmica rocciosa lasciano intravedere il vecchio sound. Love This Town abbatterebbe un treno lanciato a piena velocità a colpi di slide, lasciando allo strumentale elettroacustico Diablo Love Guitar il compito di illustrare il lato più riflessivo della band che c’è, e volendo non è male. Solite luci e ombre di queste reunion a tutti i costi, ma tutto sommato un onesto lavoro, per quanto forse inutile, se non per gli appassionati del genere che comunque ci sono e ascolteranno con piacere.

Bruno Conti