Una (Parziale) Rivincita Per L’Hank “Sbagliato”! Hank Williams Jr. – It’s About Time

hank williams jr. it's about time

Hank Williams Jr. – It’s About Time – Nash Icon/Universal CD

Nascere figli di Hank Williams e voler fare i musicisti non è facile, ma Hank Williams Jr., nel corso delle ormai quasi sei decadi di carriera, ci ha messo spesso e volentieri del suo per offrire il fianco alle critiche, complice una qualità media discografica altalenante (però comprensibile quando hai quasi sessanta album all’attivo, live ed antologie esclusi) e soprattutto testi che palesavano uno spirito patriottico un tantino qualunquista (per usare un eufemismo), una religiosità un po’ stucchevole ed una simpatia politica abbastanza evidente per il partito repubblicano (quasi un peccato mortale in ambito artistico per l’intellighenzia americana, mentre io penso che ognuno abbia il diritto di professare la propria ideologia in santa pace, tanto quello che conta è la musica). Ma Hank Jr. non è mai stato un beniamino della critica, anche perché musicalmente molto spesso si è lasciato andare a soluzioni non proprio raffinatissime, altre volte rivestendo le proprie canzoni con arrangiamenti discutibili, ma sovente, bisogna dirlo, i suoi dischi non sfiguravano affatto nell’ambito di un certo country-rock imparentato con la musica del Sud (sua area d’origine peraltro), e diverse volte il suo suono robusto non ha mancato di intrattenere a dovere gli ascoltatori, come è successo anche con il suo penultimo lavoro, il discreto Old School New Rules del 2012.

Ora Hank fa anche meglio, in quanto It’s About Time è, testi a parte, un signor disco di rockin’ country vigoroso ma non banale, con una dose più che sufficiente di feeling ed una serie di buone canzoni, suonate e cantate con il piglio giusto ed arrangiamenti asciutti e diretti (la produzione è di Julian Raymond, già collaboratore per molti anni di Glen Campbell): un bel disco dunque, direi anche un po’ a sorpresa dato che Williams Jr. non ha mai sfornato capolavori, né ha mai goduto di un gran credito (a differenza dei figli Holly, davvero brava, e Hank III, che però a fianco di ottimi dischi country ha pubblicato anche immani porcate quasi metal) ed è sempre stato guardato dall’alto in basso. L’album inizia subito col piede giusto, intanto perché Are You Ready For The Country di Neil Young è una grande canzone, e poi perché Hank ne fa una versione accelerata e decisamente più roccata (tra l’altro in duetto con Eric Church), un trattamento che dà nuova linfa ad un classico: chitarre e sezione ritmica dominano, ma c’è anche un tagliente violino a dire la sua (il grande Glen Duncan, e nel disco suona anche il leggendario steel guitarist Paul Franklin). La sciovinista Club U.S.A. è un rock’n’roll tiratissimo che non sfigurerebbe nel repertorio dei migliori Lynyrd Skynyrd, che in quanto a sciovinismo pure loro non scherzano, un pezzo davvero trascinante (e Hank, è giusto ricordarlo, ha anche una bella voce), God Fearin’ Man è ancora un southern country roccioso e potente, Hank non molla la presa e ci circonda di ritmo e chitarre a manetta (ed anche il refrain non è niente male), mentre Those Days Are Gone è più rilassata, un honky-tonk cadenzato dal suono comunque pieno e con la giusta dose di elettricità e “sudismo”.

https://www.youtube.com/watch?v=aoA-KwmUaAk

La divertente (nel testo) Dress Like An Icon ha anch’essa un bel tiro e non fa calare la tensione di un disco fino a questo momento sorprendente; God And Guns la conoscevamo già nella versione proprio degli Skynyrd (era anche il titolo di un loro album del 2009), e se il testo è una dichiarazione di intenti a favore di Donald Trump (o di chiunque vincerà le primarie repubblicane), musicalmente il brano è un southern rock teso ed affilato, con un trascinante finale a tutta potenza. Just Call Me Hank è invece una ballata scorrevole e molto più country, ma con un suono sempre deciso, la saltellante Mental Revenge (un classico di Mel Tillis, ne ricordo una bella versione anche dei Long Ryders) è scintillante e godibilissima; la title track è invece un country-rock dalla melodia contagiosa che conferma lo stato di ottima forma di un musicista spesso bistrattato.     L’album si chiude con il rutilante swing roccato di The Party’s On, la lunga Wrapped Up, Tangled Up In Jesus, puro gospel del Sud ( e ci sono le McCrary Sisters ai cori), dal ritmo sempre sostenuto e con un tocco swamp, e con la travolgente Born To Boogie (titolo che è tutto un programma), nella quale Hank divide il microfono con Brantley Gilbert, Justin Moore e Brad Paisley, il quale rilascia anche un assolo chitarristico dei suoi.

Bando agli snobismi: Hank Williams Jr. non sarà certo diventato all’improvviso un genio della musica, ma It’s About Time è un bel disco, e questo bisogna riconoscerglielo.

Marco Verdi

Piccoli Grandi Secreti Dalla Scena Musicale Americana, Anche In Veranda! Kate Campbell – The K.O.A. Tapes (Vol.1)

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Kate Campbell – The K.o.a. Tapes (Vol.1) – Large River Music

Avevo lasciato Kate Campbell con il delicato e pianistico 1000 Pound Machine (12) http://discoclub.myblog.it/2012/05/21/un-fiore-dal-sud-kate-campbell-1000-pound-machine/ , e me la ritrovo a distanza di quattro anni con questo nuovo lavoro, composto da un mix di canzoni sue rivisitate, e altre di autori importanti (amati in gioventù, e non solo, da Kate), proposte e suonate in modo intimo e scarno solo con strumenti a corda, e con l’accompagnamento di una vecchia tastiera Wurlitzer. Per questo suo dodicesimo album The K.o.a. (Kate On America) Tapes (Vol.1), la Campbell (registrando anche sul proprio iPhone 5) ha radunato sulla sua veranda e nel salotto di casa musicisti “stellari” di area folk e bluegrass quali Missy Raines al contrabbasso e armonie vocali, Laura Boosinger al banjo, Steve Smith al mandolino, Joey Miskulin alla fisarmonica, John Kirk al violino, Sally Van Meter al dobro, Ben Surrat al tamburello, e l’amico di vecchia data, il grande Spooner Oldham, alle tastiere (recuperate il magnifico For The Living Of These days (06), inciso con Oldham), con la produzione di David Henry che ha fatto il resto, assemblando il tutto, per una cinquantina scarsi di minuti deliziosamente senza pretese, ma con forti riferimenti al catalogo folk americano.

Mi sembra cosa giusta, elencare la  tracklist e gli autori dei brani:

1 –  Some Song (Elliott Smith)

2 –  America (Paul Simon)

3 –  Greensboro (Kate Campbell)

4 –  Lay Back (Kate Campbell The Darkness da Blues And Lamentations)

5 –  I Am A Pilgrim (Johnny Cash)

6 –  From Galway To Graceland (Richard Thompson)

7 –  Porcelain Blue (Kate Campbell da Rosaryville)

8 –  Me And Bobby McGee (Kris Kristofferson)

9 –  Hope’s Too Hard (Kate Campbell da Bird Songs)

10 – Jesus, Savior, Pilot Me (Traditional)

11 – Passing Through (Leonard Cohen)

12 – The Locust Years (Kate Campbell da Songs From The Levee)

13 – Strangeness Of The Day (Kate Campbell da Monuments)

14 – Seven Miles Home (Bobby Bare)

15 – Freebird (Ronnie Van Zant)

Tralasciando le sue canzoni rivisitate nell’occasione in questa forma “agreste”, il viaggio di Kate parte omaggiando autori come Elliott Smith con il bluegrass di Some Song, il Paul Simon di una pianistica e delicata America, passando poi ad un classico di Johnny Cash I Am A Pilgrim in una versione country-gospel, andando poi a pescare dal repertorio di Richard Thompson la tenue e dolce melodia di From Galway To Graceland, e il famosissimo brano Me And Bobby McGee di Kris Kristofferson, inno di una generazione. Dal sole della California, il viaggio prosegue verso New Orleans con il vecchio inno “spiritual” Jesus, Savior, Pilot Me, facendosi accompagnare dal bravissimo Spooner Oldham in una pianistica Passing Through, del mio autore preferito Leonard Cohen, e andando a chiudere il viaggio dei ricordi giovanili di Kate, con una delicata versione di un brano meraviglioso come Seven Miles Home di Bobby Bare, impreziosito dal commovente violino di John Kirk, e infine una sorprendente e intrigante versione di Freebird dei Lynyrd Skynyrd (in ricordo di un lontano ballo del liceo della protagonista).

The K.o.a. Tapes (Vol.1) è un disco splendido nella sua semplicità, realizzato con rigorosità e coerenza, un affascinante lungo e tortuoso cammino attraverso le radici americane, con Kate Campbell nella veste di meravigliosa compagna di viaggio, e sono certo che questo lavoro contribuirà a garantire a questa bravissima cantante del profondo Sud, un piccolo posto speciale nella storia della musica Americana. Attendiamo altri capitoli!

Tino Montanari  

 

Questi Suonavano, Eccome Se Suonavano! Outlaws – Live: Los Angeles 1976

outlaw live los angeles 1976

Outlaws – Live: Los Angeles 1976 – Purple Pyramid – Cleopatra CD

Gli Outlaws, storica band southern rock originaria di Tampa (ed ancora in attività), non ha mai goduto della popolarità e della considerazione di illustri colleghi contemporanei quali Allman Brothers Band, Lynyrd Skynyrd o Marshall Tucker Band: obiettivamente erano un gradino (nel caso degli Allman, anche due) più in basso dei gruppi che ho citato, e negli anni si sono un po’ persi con dischi, per usare un eufemismo, non imperdibili, ma a metà dei seventies erano indubbiamente una band coi fiocchi. Questo live non fa parte della discografia ufficiale del gruppo, ma non è neppure uno di quei CD tratti da trasmissioni radiofoniche (in poche parole: bootlegs) che hanno invaso il mercato in tempi recenti: si tratta invece di una nuova pubblicazione patrocinata dalla Cleopatra, label indipendente di Los Angeles che non sempre è sinonimo di qualità (ma nella maggior parte dei casi sì), e che dei Fuorilegge aveva già pubblicato l’eccellente quadruplo Anthology: Live & Rare 1973/1981.

Come il titolo di questo nuovo live lascia intuire, stiamo parlando di un concerto (registrato ai mitici Record Plant Studios) risalente al miglior periodo della band, quello seguito alla pubblicazione dei primi due dischi della loro carriera, Outlaws e Lady In Waiting. Gli Outlaws sono una delle band che negli anni ha cambiato il maggior numero di membri, ma qui abbiamo la formazione migliore, quella con tre chitarre soliste (Hughie Thomasson, Henry Paul e Billy Jones) e la sezione ritmica (Frank O’Keefe al basso e Monte Yoho alla batteria), un combo che dal vivo, se era in serata, era capace di mettere a ferro e fuoco l’ambiente. Come dimostra questo Los Angeles 1976 (nove brani, un’ora scarsa di musica), un concentrato di rock chitarristico puro e semplice, con marcati elementi country, feeling a pacchi ed una band in forma smagliante, che in quel periodo era abbastanza vicina anche agli Skynyrd (non per niente Thomasson in seguito si unirà proprio allo storico gruppo dell’Alabama): come ciliegina, il CD è inciso professionalmente, con un suono ben bilanciato e compatto.Il breve strumentale Waterhole viene utilizzato come warm up, un bluegrass elettrico dal gran ritmo, nel quale i nostri iniziano ad arrotare le chitarre (e il banjo); con Stick Around For Rock & Roll inizia il concerto vero e proprio, una rock song dall’alto potenziale elettrico, che si sviluppa fluida per ben nove minuti: Thomasson non è un grande vocalist, ma caspita se suona, e anche gli altri non si tirano certo indietro, assoli a profusione, una goduria insomma. La potente Song In The Breeze ha stranamente qualcosa che mi ricorda i Dire Straits (che nel 1976 dovevano ancora esordire), Henry Paul canta meglio di Thomasson (nel libretto interno Hughie è accreditato come unico cantante, ma è un errore, non il primo in casa Cleopatra), ed i fraseggi chitarristici sono, in una parola, formidabili; Lover Boy è sostenuta da una solida melodia, basso e batteria vanno come uno stantuffo e le chitarre…beh, che ve lo dico a fare

Freeborn Man è un classico bluegrass di Jimmy Martin, al quale i nostri conferiscono un vestito elettrico, trasformandolo del tutto: bello il cambio di tempo a metà canzone, con uno splendido assolo dal sapore blues. Cry No More è puro rock’n’roll sudista, che per certi versi avvicina i Fuorilegge al suono della Marshall Tucker Band: gran ritmo, mood trascinante ed i nostri che smanettano che è un piacere; Knoxville Girl è un divertente bluegrass-rock dal ritmo forsennato, nel quale i cinque scaldano i muscoli per concludere con una sontuosa versione della loro signature song Green Grass & High Tides (la loro Freebird), presentata qui in una resa monstre di un quarto d’ora: inizio lento, melodia di stampo epico, poi il ritmo sale gradualmente fino al momento in cui le tre chitarre impazzite iniziano a volteggiare da tutte le parti. Non so se si può parlare di versione definitiva di questo brano, certo è che in quel periodo i ragazzi non avevano paura di nessuno, e questa esecuzione lo dimostra. Chiude il disco la tersa ed orecchiabile There Goes Another Love Song, non male anche se dopo il brano precedente qualsiasi canzone sarebbe stata in secondo piano. Un bel live, che pone l’accento su una band forse non fondamentale ma che per un certo periodo ha saputo dire la sua.

Marco Verdi

Anche Senza Fratelli Ed Amici E’ Sempre Grande Musica! Gregg Allman – Live: Back To Macon, GA

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Gregg Allman – Live: Back To Macon, GA – Rounder/Universal 2CD + DVD

Mandati definitivamente in pensione gli Allman Brothers Band (anche se nel mondo della musica non è mai detta l’ultima parola, basti vedere i Grateful Dead che, dopo i concerti d’addio, ci hanno preso gusto e hanno deciso di proseguire con l’aiuto di John Mayer) Gregg Allman ha oramai soltanto più la carriera solista della quale prendersi cura, anche se l’età avanzata e la salute non proprio di ferro lasciano più di un dubbio per il futuro (anche se ha già programmato concerti fino al 2016). Il suo ultimo disco di studio, Low Country Blues (del 2011) http://discoclub.myblog.it/2011/01/12/il-notaio-conferma-grande-disco-gregg-allman-low-country-blu/  era forse il suo lavoro migliore insieme all’esordio solista Laid Back, un solido disco di rock-blues nel quale il vecchio Gregg dimostrava di non aver perso un’oncia né dell’antico magic touch né della sua proverbiale maestria (oltre a mostrare una grinta invidiabile per un quasi settantenne). Ora il nostro pubblica questo doppio Back To Macon, GA, registrato nella cittadina dove tutto ebbe inizio (ma anche dove finirono in maniera tragica le vite prima del fratello Duane e poi di Berry Oakley) il 14 Gennaio dello scorso anno nella suggestiva cornice della Grand Opera House, un teatro di appena mille posti costruito nel lontano 1884.

Nel corso del concerto Gregg ripercorre un po’ tutta la carriera, inserendo naturalmente anche parecchi brani della band che gli ha dato la popolarità (ma evitando fortunatamente Two the Hard Way, il disco inciso nei settanta con l’allora fidanzata Cher), fornendo una performance solida e vibrante, lontana dell’essere solamente un pretesto per autocelebrarsi come hanno fatto di recente, peraltro molto bene, i Lynyrd Skynyrd con One More For The Fans (nel quale compare pure Allman stesso con la splendida Tuesday’s Gone), anche perché un progetto analogo dedicato a Gregg era già uscito lo scorso anno, il bellissimo All My Friends. In Back To Macon vediamo quindi Gregg accompagnato solo dalla sua road band (oltre al figlio Devon ospite alla chitarra e l’ex Allman Brothers Marc Quinones alle percussioni, abbiamo Scott Sharrard alle chitarre, Ron Johnson al basso, Ben Stivers alle tastiere, Steve Potts alla batteria, Jay Collins al sassofono, Art Edmaiston e Dennis Marion alla tromba, mentre Gregg si divide tra piano, organo e chitarra), senza neppure mezzo ospite (Warren Haynes in almeno una canzone potevo anche aspettarmelo, Dickey Betts no dato che non si parlano da anni), ma il risultato finale è forse ancora più compatto ed unitario, in quanto c’è solo Gregg con le sue canzoni, senza gli alti e bassi tipici dei tributi.

Inutile dire che nei  sedici brani del doppio CD (nel DVD, o BluRay, ce ne sono due in più, Stormy Monday e Floating Bridge) c’è di che godere, grazie ad una serie formidabile di pezzi che, anche se in molti casi si conoscono a menadito, fa sempre un immenso piacere riascoltare, anche se in versioni più sintetiche e meno dilatate di quelle proposte dagli Allman Brothers. Circa un’ora e mezza (nel CD) di grandissima musica, durante la quale Gregg, che è ancora in possesso di una formidabile voce, ci delizia con una serie di performance elettriche e ad alto tasso emozionale, ben seguito da un ensemble di musicisti che non ha paura di nessuno.

Il primo CD si apre, forse non a caso, nello stesso modo del mitico Live At Fillmore East, cioè con il classico di Blind Willie McTell Statesboro Blues, potente come sempre, con Sharrard che cerca di non far rimpiangere Duane (compito assai arduo), Gregg che canta subito alla grande e piano e fiati che girano a mille. Poi il nostro alterna classici degli Allman ad episodi del suo passato solista (qui presenti in misura maggiore): tra i primi troviamo una grintosa Ain’t Wastin’ Time No More, con un grande assolo chitarristico, e soprattutto la strumentale Hot’Lanta, infuocata come nelle migliori serate degli ABB, mentre tra i secondi la fluida I’m No Angel, tipica southern ballad, calda e profonda (e che voce), il blues lento e notturno con accenni jazzati Queen Of Hearts, eseguito con classe sopraffina, lo scattante blues di Muddy Waters I Can’t Be Satisfied, unico estratto da Low Country Blues a parte Floating Bridge sul DVD, la cover di These Days di Jackson Browne (era su Laid Back), che ci fa apprezzare il Gregg Allman balladeer, lo scintillante slow Brightest Smile In Town, introducendo il quale Gregg ricorda con orgoglio che è stato inciso anche da Ray Charles, per terminare con una squisita cover di I’ve Found A Love di Wilson Pickett, piena di anima, con Gregg che canta come se non ci fosse domani e la band che suona da Dio.

Nel secondo dischetto si ribaltano le gerarchie, in quanto del repertorio solista di Gregg sono presenti soltanto la solida Before The Bullets Fly e l’inedita Love Like Kerosene, un veloce rock-blues scritto da Sharrard, buono ma non trascendentale. Poi è tutto ABB, a partire da quella che è erroneamente considerata la canzone più popolare del Gregg Allman solista, cioè Midnight Rider: la versione famosa è infatti quella su Laid Back, ma Gregg l’aveva già “provata” qualche anno prima con i Brothers su Idlewild South; a seguire abbiamo una tostissima Don’t Keep Me Wonderin’, la leggendaria Melissa, una ballata che non ha bisogno di presentazioni ma va solo ascoltata in religioso silenzio, la mitica Whipping Post, che qua non è forse nella sua versione definitiva (è molto più corta di come la facevano gli ABB) ma è sempre un gran bel sentire, ed il classico di Sonny Boy Williamson One Way Out (che chiude il concerto), un pezzo che Gregg secondo me riuscirebbe anche a suonare bendato e con una mano sola.

Un bellissimo live album, che chiude, forse, il cerchio di una splendida carriera, con il rimpianto di non aver mai visto passare dalle nostre parti un musicista di questo calibro.

Marco Verdi

Ed Ecco Il Tributo. One More For The Fans – Lynyrd Skynyrd

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Lynyrd Skynyrd & Friends – One More For The Fans – 2 CD – 2 DVD – Blu-ray Ear Music/Edel – Solo per il mercato USA Loud & Proud Records 2CD+DVD 24-07-15

Dopo una lunga pausa riprendiamo la rubrica delle anticipazioni discografiche, per il momento con un titolo, ma nei prossimi giorni conto di rendervi conto di molte uscite estive, alcune prossime, altre più a lunga gittata. Per iniziare parliamo di questo tributo ai Lynyrd Skynyrd.

In passato ne sono usciti moltissimi, country, rock, dal vivo, in studio, alcuni belli, altri decisamente meno, ma questo One More For The Fans, mi sembra uno dei meglio riusciti, se non il migliore in assoluto di quelli usciti fino ad oggi. Come vi dicevo un paio di giorni fa nella recensione del doppio CD al Rockpalast http://discoclub.myblog.it/2015/07/16/attesa-del-tributo-vecchio-concerto-dal-vivo-lynyrd-skynyrd-sweeet-home-alabama-rockpalast-1996/, ormai della formazione originale è rimasto solo Gary Rossington alla solista, gli altri sono Johnny Van Zant, voce, Rickey Medlocke, anche lui chitarra solista, Johnny Colt al basso, Peter Keys alle tastiere e gli ultimi arrivati Michael Cartellone alla batteria e Mark Mateijka alla terza solista, che sono quelli che mi convincono meno e, secondo me, hanno reso troppo hard il sound della band negli ultimi anni (vedi i due album di studio, Last Of A Dyin’ Breed God And Guns, non a caso usciti per i “metallari” della Roadrunner e anche il Live From Freedom Hall del 2010, non era memorabile, suono troppo duro e risaputo).

Ma in questa serata del 12 novembre dello scorso anno al mitico Fox Theatre di Atlanta, Georgia, finanziata con il crowfunding dalla band ed in uscita il 24 luglio per la loro etichetta Loud And Proud negli Stati Uniti (dove ci sarà anche una versione con i 2 CD insieme al DVD) e per Ear Music/Edel in Europa, tutta funziona a meraviglia, anche grazie al cast notevole che è stato assemblato per l’occasione. Ecco artisti e titoli:

1. Whiskey Rock A Roller – performed by Randy Houser
2. You Got That Right – performed by Robert Randolph & Jimmy Hall
3. Saturday Night Special – performed by Aaron Lewis
4. Workin’ For MCA – performed by Blackberry Smoke
5. Don’t Ask Me No Questions – performed by O.A.R.
6. Gimme Back My Bullets – performed by Cheap Trick
7. The Ballad of Curtis Loew – performed by moe. & John Hiatt
8. Simple Man – performed by Gov’t Mule
9. That Smell – performed by Warren Haynes
10. Four Walls of Raiford – performed by Jamey Johnson
11. I Know A Little – performed by Jason Isbell
12. Call Me The Breeze – performed by Peter Frampton
13. What’s Your Name – performed by Trace Adkins
14. Down South Jukin’ – performed by Charlie Daniels & Donnie Van Zant
15. Gimme Three Steps – performed by Alabama
16. Tuesday’s Gone – performed by Gregg Allman
17. Travelin’ Man – performed by Lynyrd Skynyrd With Johnny and Ronnie – Ronnie on big screen
18. Free Bird – performed by Lynyrd Skynyrd
19. Sweet Home Alabama – performed by Lynyrd Skynyrd and the entire line-up

Come vedete, ormai è una consuetidine, alla fine del tributo salgono sul palco anche i Lynyrd Skynyd stessi, con la trovata scenica dei due fratelli, Johnny e Ronnie (sul grande schermo), che duettano in Travelin’ Man, prima di lanciarsi in una ottima versione di Free Bird e nella classica Sweet Home Alabama, con tutto il cast sul palco. Non tutto luccica, ma mi piaiono buone le versioni di You Got That Right con Robert Randolph e Jimmy Hall dei Wet Willie, gli O.A.R. con una versione muscolare, ma ben eseguita di Don’t Ask Me No Questions e al sottoscritto piace anche la rilettura di Working For MCA dei Blackberry Smoke. Ottima, e non poteva essere diversamente, The Ballad Of Curtis Loew di John Hiatt (visto recentemente in gran forma a Milano) accompagnato dalla jam band dei moe., come pure la Simple Man dei Gov’t Mule di Warren Hayes, che poi esegue come solista anche That Smell. Notevole anche la versione acustica, che conclude il primo CD, di Four Walls Of Raiford di un Jamey Johnson dalla voce prorompente.

Parlando sempre di cantanti-chitarristi anche Jason Isbell con I Know A Little e un sorprendente Peter Frampton, in grande spolvero con Call Me The Breeze, mantengono elevato il livello qualitativo. E pure Gregg Allman, accompagnato alle armonie vocali dalle McCrary Sisters, rilascia una versione di Tuesday’s Gone da antologia, anche grazie alla house band guidata da Don Was, anche al basso, con Sonny Emory alla batteria e Jimmy Hall, voce e armonica. Le altre versioni non sono brutte, alcune caciarone, alcune troppo country (non male gli Alabama con Gimme Three Steps), ma forse si poteva trovare di meglio, anche Randy Houser è comunque molto buono. Comunque il tutto, unito al gran finale, fa sì che questo One More For The Fans sia un disco da avere, una grande festa del southern rock, magari per metterlo sullo scaffale di fianco al giustamente più  celebrato One More From The Road.

Bruno Conti

In Attesa Del Tributo Un “Vecchio” Concerto Dal Vivo. Lynyrd Skynyrd – Sweeet Home Alabama – Rockpalast 1996

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Lynyrd Skynyrd – Sweeet Home Alabama – Rockpalast 1996 – Eagle Rock

Come è abbastanza noto, anche se è una pratica da me non condivisa, molti non apprezzano il formato DVD (o Blu-Ray)  per i concerti dal vivo, preferendo il CD o addirittura il vecchio vinile. E’ altrettanto noto che le case discografiche, nella loro immensa bontà, nonché illuminata e disinteressata lungimiranza, sono sempre pronte a farci ricomprare gli stessi dischi più e più volte. Prendiamo il caso di questo Sweet Home Alabama: era già uscito in DVD (e in seguito in Blu-ray) una decina di anni fa, ma mancava la versione in compact, e quindi eccovi serviti, un bel doppio CD, eventualmente disponibile anche nel cosiddetto formato combo 2CD+DVD e pure in doppio vinile, però, perché la perfezione non è di questa terra, privo dei tre brani bonus registrati dalla formazione originale dei Lynyrd Skynyrd alla Hamburg Musikhalle nel 1974, mentre il resto del concerto è registrato alla famosa rocca di Loreley, per la versione estiva del Rockpalast nel 1996. Siamo alla quinta versione della band, nella versione post reunion, quella che affianca a Gary Rossington, l’unico membro originale tuttora vivente, Johnny Van Zant, il fratello di Ronnie e altri due chitarristi storici del southern rock, Rickey Medlocke, leader dei Blackfoot, ma anche batterista in una delle prime incarnazioni della band e Hughie Thomasson, scomparso nel 2007, ex solista degli Outlaws.

La parola “scomparso” ricorre spesso nella storia degli Skynyrd, l’ultimo della lista è Bob Burns, il batterista dell’epoca d’oro, morto in un incidente nell’aprile di quest’anno, ma dei musicisti presenti al concerto del 1996, mancano all’appello anche Billy Powell, il tastierista, deceduto nel 2009 e Leon Wilkeson, il bassista, anche lui “andato” nel 2001; resiste, nel senso che è ancora vivo, Owen Hale, che era il batterista nell’occasione. In effetti questa recensione sta diventando ormai un necrologio e quindi parliamo brevemente del contenuto, anche se il DVD era già stato recensito ai tempi: in teoria il gruppo avrebbe dovuto promuovere quelli che erano gli album pubblicati al tempo, ma per fortuna dei presenti e di noi che ascoltiamo una ventina di anni dopo, scorrono praticamente tutti i classici della band. Si parte con una gagliarda Workin For MCA, seguita da I Ain’t The One, il primo brano del primo album, sempre con le chitarre che ruggiscono come ai vecchi tempi, Down South Jukin’ era su First And Last ma anche nel recente (all’epoca) Endangered Species, eccellente pure Double Trouble, con il piano di Powell che cerca di farsi largo nel muro di chitarre, il boogie di I Know A Little viene da Street Survivors mentre Saturday Night Special si trovava su Nuthin’ Fancy e la meno nota (rispetto alle altre) Swamp Music era su Second Helping.

Ancora da Street Survivors viene pure What’s Your Name, che non dà segni di cedimento, seguita da una poderosa That Smell, mentre Simple Man, una delle loro canzoni più belle, è una delle rare e (apparenti) oasi di tranquillità del concerto e anche Three Steps non scherza come energia, prima di fare spazio a una poderosa (e lunghissima, oltre 12 minuti) Call Me The Breeze, dove il compianto Hughie Thomasson, nel suo assolo, cita Green Grass and High Tides e Ghost Riders In The Sky della sua vecchia band, gli Outlaws. Finisce il primo compact e il secondo ha “solo” cinque brani: però che brani, troviamo due versioni di Sweet Home Alabama e Free Bird (con dedica a Rory Gallagher a tutti i “freebirds”), quelle ottime del 1996, e due, eccellenti del 1974 (incise un filo meno bene, e forse non le migliori della loro carriera, ma sono quisquiglie) con Ronnie Van Zant alla guida della sua creatura, in mezzo c’è, sempre dal concerto del 1974, una poderosa Workin’ For MCA. Tutte canzoni sentite mille volte, però piacciono sempre, se non avete già il DVD, un pensierino a questo ottimo doppio CD lo farei: in definitiva le case discografiche ci fregano sempre!

Come riporto nel titolo del Post, per il 24 luglio è atteso One More For The Fans, un ennesimo tributo ai Lynyrd Skynyrd, previsto nel formato 2 CD, 2 DVD o Blu-ray. Ne parliamo, in breve, nei prossimi giorni, insieme ad altre uscite interessanti del periodo.

Bruno Conti

Altro Grande Doppio Album Southern Dal Vivo (Ma Anche Triplo)! Blackberry Smoke – Leave A Scar Live North Carolina

blackberry smoke leave a scar cd dvd

Blackberry Smoke – Leave A Scar Live North Carolina – 2CD o DVD 3 Legged Records – 2 CD+DVD Earache Records

Alla luce del recente, ottimo, Early Morning Shakes pensavo che la punta di diamante del nuovo southern rock statunitense fossero i Whiskey Myers http://discoclub.myblog.it/2014/02/18/vero-southern-rock-whiskey-myers-early-morning-shakes/ . E invece devo ricredermi, con questo doppio CD dal vivo i Blackberry Smoke si aggiudicano lo scettro di nuovi re del rock sudista https://www.youtube.com/watch?v=UaGoEPx1yyc . Gli ingredienti ci sono tutti, capelli lunghe, barbe, cappelli (per quanto nel live il batterista Brit Turner esibisca una vistosa bandana), ma soprattutto tante belle canzoni, tredici delle quali (tutte praticamente) provengono dal loro ultimo album di studio del 2012, The Whippoorwill, disco pubblicato anche in Inghilterra dalla Earache con due tracce in più (ed in effetti, a metà agosto, la stessa etichetta ha edito la versione europea di questo Live, con il CD ed il DVD in una unica confezione https://www.youtube.com/watch?v=ZKCKERcqbF0 , il cosiddetto Combo, altrimenti reperibile solo sul loro sito a 40 dollari). Ultimo dettaglio tecnico: per i misteri della tecnologia, il DVD, che come tipo di supporto può contenere più materiale rispetto al CD, riporta solo 18 brani contro i 22 del doppio album, per cui se trovate il combo meglio.

blackberry smoke 1

Tornando ai Blackberry Smoke, un altro lato distintivo della formazione è quello di provenire da Atlanta, Georgia, una delle capitali della buona musica, nel Sud degli USA. Rodato da circa 250 date all’anno il gruppo arriva all’appuntamento con il classico doppio dal vivo nel migliore dei modi: questo Leave A Scar Live In North Carolina non ha nulla da invidiare ai grandi dischi live doppi che, chi più chi meno, hanno fatto la storia del genere, Live At Fillmore East degli Allman Brothers, Where We All Belong della Marshall Tucker Band (va bene, c’era anche materiale di studio https://www.youtube.com/watch?v=a4Fr5US7Iqs !), One More From The Road dei Lynyrd Skynyrd, il doppio degli Outlaws e quello dei Molly Hatchet, aggiungiamo qualche capitolo delle varie Volunteer Jam di Charlie Daniels, per illustrare anche un lato più country rock che appartiene pure ai Blackberry Smoke, in virtù delle collaborazioni passate con Zac Brown, Jamey Johnson e George Jones, controbilanciato dal rock stonesiano alla Black Crowes o Georgia Satellites, che ogni tanto affiora nei loro brani.

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Un altro dei punti di forza del gruppo è Charlie Starr, cantante carismatico, ottimo autore, seconda chitarra solista, in possesso di una voce che ti può accarezzare nelle ballate o nei pezzi country, dove assume, di volta in volta, tonalità alla Steve Earle, Russell Smith o Bob Seger, o travolgerti con la sua grinta e potenza, nei pezzi più duri e tirati. La formazione si completa con il fratello di Brit, Richard Turner al basso, l’eccellente tastierista Brandon Still, uno dei migliori sentiti nel genere dai tempi del southern classico, concludendo con il chitarrista Paul Jackson, solista sia di quantità, ottimo il lavoro ritmico, sia a livello virtuosistico, una via di mezzo tra Rossington e Collins. A conferma che il repertorio del gruppo è solido e ricco di ottimi brani (pur avendo da attingere per il momento solo da tre dischi di studio, più due EP), non ci sono cover, con una eccezione, che poi vediamo: il concerto si apre con una variazione sul tema classico del patto con il diavolo, questa volta è Shakin’ Hand With The Holy Ghost, ed è subito grande rock, Black Crowes meets Lynyrd, la voce potente e antemica di Starr in primo piano, e tutta la band che rocca e rolla, piano e organo, le due chitarre stonesiane https://www.youtube.com/watch?v=4PWv0qyrxic  e sudiste, wah-wah innestato per Jackson, una sola canzone e ci hanno già ammaliato, potenza e classe subito in evidenza, senza soluzione di continuità si passa a Sanctified, altro esempio di rock ad alta componente di ottani. Testify viene dal primo album, Bad Luck Ain’t No Crime, altro brano molto cantabile, riff rocciosi e ritornello che entra subito in circolo, intermezzo di piano e poi le chitarre iniziano a scambiarsi fendenti con Still che saltella anche all’organo.

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Good One Comin’ On è il primo rockin’ country della serata, qui Starr ricorda moltissimo Russell Smith dei grandissimi Amazing Rhythm Aces, e anche il resto della band non scherza, con la prima slide che fa la sua apparizione. Come Good One apriva l’ottimo Little Piece Of Dixie, così Six Ways To Sunday apriva The Whippoorwill, e qui scatta il boogie, entrano le sonorità alla Lynyrd Skynyrd https://www.youtube.com/watch?v=GFOBID5OXaM , compreso il classico fischio, adatte anche per essere cantate tutti in compagnia, con la birra che scorre a fiumi. Primo intermezzo elettro-acustico con il puro outlaw country della godibilissima Ain’t Got The Blues, deliziosa, come pure Lucky Seven dove le chitarre riprendono a ruggire, ma sempre in un ambito country. Pretty Little Lie è un’altra bella ballatona con uso di slide, che si inserisce in questa porzione più rilassata del concerto che finisce quando parte il riff alla Humble Pie o Black Crowes, fate voi, di Restless, chitarre nuovamente “cattive”, ritmica che inizia a picchiare, la voce sale, si chiama rock, ragazzi miei, e anche Up In Smoke non è male, la band è partita e non li ferma nessuno, riff a destra e a manca, chitarre in overdrive, questi non scherzano. Crimson Moon, il pezzo scritto con Zac Brown, è uno “strano” incrocio tra chitarre alla Zeppelin e lirico southern https://www.youtube.com/watch?v=DW-jKoV_kAI , mentre The Whippoorwill è semplicemente una grande canzone, atmosfere tra i Pink Floyd più bucolici e la West Coast classica, inserite sul tipico sound sudista della band, con grandi risultati anche nella bellissima parte centrale strumentale, con le twin guitars di Starr e Jackson in azione https://www.youtube.com/watch?v=oWCGyBf9bRY . Son Of The Bourbon, viene da uno degli EP ed è country puro e non adulterato  .

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Fine del primo CD, il secondo è anche meglio, forse da 4 stellette: in Everybody’s Knows She’s Mine, grazie anche all’ondeggiante pianino alla Payne di Still, sembra di ascoltare i Little Feat, seguito da una bellissima One Horse Town, che potrebbe essere un brano del miglior Steve Earle cantato da Russell Smith. Ancora dall’EP Honky Tonk Bootlegs una stupenda e malinconica country song come Lesson in A Bottle, e poi Ain’t Much Left Of Me, un grandissimo pezzo rock che non ha nulla da invidiare ai migliori Black Crowes o alle grandi band rock sudiste del passato, un crescendo pazzesco con il gruppo che si scatena in un turbinio di chitarre e tastiere, con la voce di Starr che tiene insieme il tutto https://www.youtube.com/watch?v=_kr9rejHcE4 . Ci si avvicina al gran finale e scatta il rock’n’roll con una rocciosa Leave A Scar, ritmi vorticosi ed energia pura, tra scariche devastanti di chitarre elettriche, poi elevate all’ennesima potenza nella rutilante Sleeping Dogs, un insieme di picchi e vallate di puro rock che sfociano in una parte centrale dove sembra di ascoltare i Grateful Dead inseriti in un contesto southern e poi, dal nulla, arriva l’omaggio ai maestri Allman Brothers, con una lunga citazione di Midnight Rider, prima di rilanciare ancora una volta con un finale a tempo di boogie. E non è  finita, ci sono ancora, (ma non nel DVD) un’altra fusione tra Led Zeppelin e sapori sudisti in Payback’s A Bitch, e Up The Road, una nuova meravigliosa ballata southern che ricorda certe cose epiche della Band, con la chiusura del secondo CD affidata a Shake Your Magnolia, un altro dei loro cavalli di battaglia che mette il suggello su questo album, uno dei migliori Live dell’ultima decade, keep on rockin’!

Bruno Conti         

Questa Volta “Buon Sangue Mente”. Tammy Van Zant – Freebird Child

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Tammy Van Zant – Freebird Child – Dixie Rose Records

Quando Ronnie Van Zant moriva, nell’ottobre 1977, la sua figlia primogenita Tammy aveva 10 anni. Oltre a tutto il babbo si era diviso dalla prima moglie Nadine, quando la bambina aveva due anni, quindi non penso che ricordasse molto di questo padre poco conosciuto. Ma crescendo, nel corso degli anni, si deve essere resa conto che si era trattato di una icona della canzone americana, voce solista dei Lynyrd Skynyrd, una delle più popolari band a stelle e strisce (nel vero senso del termine).

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Come ha raccontato lei stessa in una intervista che circola on line, quando aveva vent’anni o giù di lì venne ricoverata in ospedale per dei calcoli renali e mentre il medico le somministrava del Valium per i dolori, alla radio iniziò a suonare Freebird https://www.youtube.com/watch?v=CkTQUtx818w e pensando che fosse un segno del destino, il padre che veniva in suo soccorso, pensò di dirlo al dottore, il quale, non sapendo che era effettivamente la figlia di cotanto padre, si preoccupò che non le avessero dato troppi tranquillanti. Che c’entra tutto questo, vi chiederete? Niente: come avrebbe detto il Sani Gesualdi di Frassica era solo un “nanetto” perché, purtroppo, sul disco non c’è molto da dire. O meglio ci sarebbe, ma trattandosi di una signora e comunque per il rispetto che va ai musicisti che realizzano un disco, mi trattengo.

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Il disco, Freebird Child, ha tra l’altro avuto una lunga gestazione: tre canzoni erano già uscite, con lo stesso titolo, come un EP, nel lontano 2007, e anche il CD era circolato in modo indipendente negli scorsi anni, anche se non è dato sapere la data, in quanto nel libretto del album non è riportato nulla https://www.youtube.com/watch?v=JecOXY5bx1Y . O meglio ci sono i testi di alcune canzoni, autobiografiche, sia dedicate al padre, quanto alla nonna, Sister Van Zant, basate su sentimenti semplici e alla portata di tutti, come l’amore per la famiglia, i figli e la musica, ma non particolarmente memorabili, spesso melensi e zuccherosi. Le musiche le firma Robert White Johnson (che non è bravo come l’altro Robert Johnson, quello black vero), collaboratore di Johnny Van Zant e dei Van Zant Brothers, che suona anche parecchi strumenti e cura la produzione, con un sound pure piacevole, chitarristico e sudista, a tratti, non in tutti i pezzi, ma la voce è impresentabile. La nostra amica, Tammy Michelle, ha 47 anni, ma la voce di una ragazzina (beata lei), molto sottile e leggera, e forse si capisce perché non abbia intrapreso prima la carriera della cantante, gli arrangiamenti, a tratti sono insopportabili, alternando canzoncine come It’s Gonna Be Alright dove chitarre e tastiere sudiste cercano di farsi largo in un testo che parla di occasioni perdute, simple man,sweet home, Tuesday’s gone, Billy, Leon, Steve & Allen e padri ingombranti, e questa è una delle migliori, diciamo non delle peggiori.

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Anche Stone Washed Genes ha un bel riff sudista, piano e organo d’ordinanza, coretti ad hoc, un bel groove, persino soli di chitarra a ripetizione, peccato per la voce. E Freebird Child è una ballata che si rifà quasi sfacciatamente all’originale, l’arrangiamento è pacchiano e il babbo era un’altra cosa, i musicisti sono onesti professionisti e se la cavano https://www.youtube.com/watch?v=CqwvpzKHLc0 , infatti il disco che per i contenuti meriterebbe una stelletta per meriti acquisiti ne otterrebbe due. Stendiamo un velo pietoso su More Of Heaven, Daddy Can You See Me (che essendo scritta da Anita Cochran non parla neppure di “quel babbo”), due ballatone lacrimose e le cover di Lean On Me di Bill Withers e Can’t Buy Me Love dei Beatles, massacrate in modo ignobile. Discrete Surviving On A Wing And A Prayer e Your Many Vices, ma a voler essere di manica larga. Super zuccherosa anche la country ballad Dixie Rose, in totale troppo poco per una che porta con quel cognome, gli zii, Donnie e Johnny, ringraziati nelle note, forse non erano al livello del fratello Ronnie ma, in confronto…, quindi questa volta “buon sangue mente”!

Bruno Conti

Questo E’ Vero Southern Rock! Whiskey Myers – Early Morning Shakes

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Whiskey Myers – Early Morning Shakes – Wiggy Thump Records ***1/2

Come forse alcuni di voi ricorderanno (per chi vuole approfondire eccolo http://discoclub.myblog.it/2011/05/15/sudisti-veri-e-di-quelli-ma-molto-bravi-whiskey-myers-firew/ ), in occasione dell’uscita del precedente album Firewater, mi ero lanciato, nell’incipit della recensione, a definire quali erano la provenienza e il genere di musica che fanno i Whiskey Myers, con queste parole, che ricordo per i più distratti: “Vengono da Elkhart, una piccola cittadina dell’East Texas e, per una volta, non ci sono dubbi su che genere di musica facciano: Southern Rock. E di quello duro e puro!” https://www.youtube.com/watch?v=HZku85Lk7FA  Ebbene mi sbagliavo! Ogni tanto, per documentarmi, come fanno molti, sono andato a fare un giretto in rete e controllando alla voce Whiskey Myers su Wikipedia e Allmusic ho scoperto che fanno country!

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Mi scuso dell’errore e vado a parlarvi di questo nuovo Early Morning Shakes https://www.youtube.com/watch?v=LpsxU_6Sb6I . Scherzi a parte (ma non troppo), il quintetto texano, ostinatamente, ha dato alle stampe, a tre anni di distanza dal precedente, un nuovo album dove “sembra” che facciano ancora quel tipo di musica che negli anni ’70 ha fatto la fortuna di formazioni tipo gli Allman Brothers, i Lynyrd Snynyrd, la Marshall Tucker Band e ai giorni nostri viene frequentato da formazioni come Blackberry Smoke, Skinny Molly e altri, il country! Come ha giustamente ricordato il leader della band Cody Cannon, non è che lui e i due chitarristi Cody Tate e John Jeffers, e la sezione ritmica di Gary Brown e Jeff Hogg, si chiudano scientemente in uno studio di registrazione (in questo caso con Dave Cobb, già produttore di Jason Isbell e molti altri) per creare un disco di southern rock! Però poi, senza volere, e per fortuna, gli viene https://www.youtube.com/watch?v=oPOWJu-URdU .

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Nell’apertura, affidata alla title-track, Early Morning Shakes, un brano che profuma di blues anche per la presenza dell’armonica di Chris Hennessee, la quota country e rock è meno pervasiva, anche se Tate e Jeffers cominciano a scaldare gli attrezzi e Cannon l’ugola, ben coadiuvato dalla voce di supporto di Kristen Rogers (molto brava). Un inizio più in sordina del solito (ma giusto quel poco), perché già da Hard Row To Hoe, la ritmica trova un groove quasi zeppeliniano, dove i tre solisti, possono far rivivere la leggenda dei Lynyrd Snynyrd, Cody Cannon è un cantante che  non ha nulla da invidiare al vecchio Ronnie Van Zant e come ricordavo già per il precedente album, Tate e Jeffers sono degni epigoni di Rossington e Collins, in questo brano entrambi al wah-wah, per un sound che si rifà alle migliori cavalcate della band di Jacksonville, Florida. Quando si aggiunge anche la pedal steel dell’ospite Robby Turner, come nella eccellente Dogwood, dove salgono al proscenio pure le tastiere di Michael Webb, peraltro presente in tutto il disco, la quota country ovviamente sale, ma è quello energico che ci piace, ottima ancora una volta la presenza della voce femminile di Kristen Rogers. Steel che rimane anche per Shelter From The Rain, una gentile ballata mid-tempo degna dei migliori del genere, Gregg Allman e Ronnie Van Zant sarebbero fieri del loro degno erede Cannon, ma tutta la band suona alla grande.

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Home ha un sound non dissimile da quello dei Black Crowes, rock potente e chitarristico https://www.youtube.com/watch?v=kLz-C8R3uNA , che deriva sicuramente dal classico hard rock degli anni ’70, ma suonato come Dio comanda, con la slide di Jeffers che taglia a fettine il tessuto del brano. Lo so, tutta roba sentita migliaia di volte, e per la milionesima volta mi ripeto, chi se ne frega! Se la fanno così bene, noi siamo contenti, la critica più esigente se ne farà una ragione e lascerà ai vecchi rockers (ma anche a quelli giovani, se vogliono) il piacere di ascoltare una musica che non profuma di plastica e campionamenti, ma di sudore del palcoscenico e che si replica all’infinito, come nel riff alla Zeppelin di Headstone, roccioso come si conviene e con l’assolo di Tate (o è Jeffers? O tutti e due?) che rende omaggio al maestro Page.

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Where The Sun Don’t Shine, sempre ricca di armonie sudiste ha una andatura più cadenzata e precede la atmosfere acustiche di Reckoning, con il piano che delinea la melodia di questa bella ballata, con il classico costrutto in crescendo dei classici del genere, ma senza il finale chitarristico che ci si potrebbe aspettare. Wild Baby Shake Me, bluesata e sudista quanto basta, è un altro ottimo esempio della classe di questa band che da Austin e dintorni porta il proprio genere per gli States e per il mondo, e in questo caso le chitarre non mancano, doppia slide addirittura. Anche Lightning si lascia ascoltare con piacere https://www.youtube.com/watch?v=-MdLuXBdOlY  e Need A Little Time Off For Bad Behavior, ancora con pedal steel e armonica aggiunte, è l’unica cover presente, un brano di David Allan Coe, country, ma da “fuorilegge cattivo”, come il proprio autore https://www.youtube.com/watch?v=nI_ZBa9xK1I . Colloquy se la sono tenuta per ultima ed è un’altra fantastica ballata che nei suoi oltre sei minuti ripercorre il meglio del loro repertorio. I Whiskey Myers non deludono, ottimo disco!                

Bruno Conti

Da Omaha, Nebraska Un “Sudista” Convertito! Michael Lee Firkins – Yep

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Michael Lee Firkins – Yep – Magnatude/Magna Carta

Anche se Michael Lee Firkins è sempre stato considerato uno dei nuovi “fenomeni” della chitarra, un axeman funambolico, sin dalla sua apparizione con il primo omonimo album del 1990, pubblicato dalla Shrapnel di Mike Varney, tra critiche e musiche roboanti, capello lungo alla Yingwie Malmsteen (e un po’ anche la musica, stranamente però con echi roots, country e sudisti, un pizzico di Steve Morse, ma vicino pure a Vai e Satriani), ebbene, devo dire che al sottoscritto la sua musica non è mai apparsa irresistibile, pur apprezzandone le indubbie qualità tecniche, mi sembrava sempre “troppa”, non so se mi spiego, non sulla mia lunghezza d’onda. Dopo una decina di anni di onorata carriera Firkins ha avuto una sorta di ripensamento, di “crisi mistica” musicale, si è più volte ritirato nella sua città natale di Omaha, Nebraska, per studiare a fondo la sua musica ed il suo strumento.

E’ emerso una prima volta nel 2007, con l’album Black Light Sonatas che interrompeva il digiuno dei fans che durava dal 1999 del precedente Decomposition e introduceva le prime interessanti variazioni al suo stile; in alcuni brani erano presenti Matt Abts e Andy Hess, praticamente la sezione ritmica dei Gov’t Mule, e alle tastiere sedeva Chuck Leavell (per dirne tre con cui ha suonato, Allman, Stones, Clapton oltre ai suoi Sea Level) e la musica cominciava a dirigersi verso lidi più papabili per i miei gusti, anche se, aggiungo per i “chitarrofili,” nei vari dischi passati di Firkins ci sono fior di cover di Lynyrd Skynyrd, Rick Derringer, naturalmente Jimi Hendrix, ma anche la “Pantera Rosa” di Henry Mancini e Caravan di Duke Ellington, tutte suonate in modo incredibile (forse anche troppo) con la particolare tecnica di Michael Lee che non prevedeva l’uso del plettro, un vero virtuoso in sostanza. In questi anni di studio e ricerca il nostro amico ha “creato” una Reso-Electric Guitar, un incrocio tra una acustica Resonator e il corpo e il collo di una Fender Telecaster una sorta di slide, ma di quelle vigorosamente elettriche. Con undici nuove canzoni, niente cover, ha preso baracca e burattini e si è trasferito a Nashville, negli studi di Johnny Neel, dove lo aspettavano nuovamente Abts, Hess e Leavell, per registrare questa volta tutto il nuovo disco.

Michael Lee Firkins, in questi anni ha lavorato anche molto sulla propria voce e i risultati più che vedersi si sentono, per questo disco sfodera una voce da perfetto southern rocker. Ovviamente non ha perso neppure la sua prodigiosa tecnica, che però viene utilizzata in funzione delle canzoni e non solo per un mero sfoggio di bravura, anche se ci sono molti assolo che vi costringeranno ad andare a ricercare in giro per la stanza la vostra mascella che è caduta per terra per la meraviglia. Dalla Clapton anni’70 meets Allmans dell’iniziale Golden Oldie Jam dove la Reso e la solista di Firkins duettano con lo splendido organo old school di Leavell in modo magistrale e misurato, ho subito capito che questo è un disco ricco della “nostra” musica, spesso realizzato in presa diretta, senza sovra incisioni, con i quattro musicisti registrati live in studio, come nella deliziosa Cajun Boogie, ancora nella migliore tradizione del vecchio southern rock dei primi Lynyrd Skynyrd, già rivisitati da Firkins nel passato,ma qui presi solo come fonte d’ispirazione, sempre con quella solista che scorre velocissima sul groove solidissimo della sua band. No More Angry Man è un altro ottimo esempio del sound “roots” che Firkins per l’occasione riesce a cavare dalle sue chitarre, mentre Standing Ovation ancora con le splendide tastiere di Leavell ad affiancare le evoluzioni della solista ci trasporta sulle onde del miglior rockin’ country di Outlaws o Charlie Daniels Band, ragazzi se filano.

Long Day ci mostra che il musicista del Nebraska padroneggia anche l’arte della ballata, rock, ricca di chitarre e tastiere, ma pur sempre ballata, mentre Wearin’ Black è nuovamente quel country according to Michael Lee Firkins che si lascia ascoltare con piacere. Out Of Season è un’altra ballata mid-tempo sudista in crescendo, con continui spunti chitarristici, come pure Take Me Back, con un bel tessuto sonoro elettroacustico sempre orientato verso gli stati del Sud. Last Call con la sua slide tagliente è decisamente più bluesata, mentre No More Angry Man (Part 2) è un discreto boogie rock con Michael Bland (ex della band di Prince) che sostituisce Abts alla batteria, un po’ scontato, anche se non è che il disco tutto brilli per innovazione, ma non manca di feeling, come dimostra l’atmosferica e “misteriosa” The Cane, peraltro un po’ pretenziosa e che come il brano precedente lascia calare la giusta tensione che sostiene il resto dell’album. Bravo e sorprendente per chi conosceva la produzione precedente, solo del buon sano vecchio rock (anche sudista)!      

Bruno Conti