Un Disco Dal Vivo Veramente “Mitico”, Anzi Due! Gov’t Mule – Bring On The Music – Live At The Capitol Theatre Parte 2

gov't mule bring on the music 2 cd 2 dvd

Gov’t Mule  – Bring On The Music – Live At The Capitol Theatre

2 CD + 2 DVD Deluxe/ Mascot/Provogue – Esce il 19 Luglio

Per chi non si accontenta della versione in 2 CD di cui abbiamo parlato ieri vediamo cosa troviamo in più e di diverso nella versione Deluxe 2 CD + 2 DVD, anzi prima vediamo cosa non c’è delle due serate tenute nello scorso aprile: manca la cover di Effigy dei Creedence, Unring The Bell, Mr. High And Mighty, il bis finale con I’ll Be The One, un brano solista di Haynes, che incorpora la Blue Sky Jam, è questo è un vero peccato, Rocking Horse dalla prima serata e anche una Tributary Jam, a favore di un paio pezzi ripetuti più volte, comunque in diverse versioni, sia nella parte audio che video. Per la serie “purtroppo”, parlo per i portafogli degli acquirenti, bisognerà avere entrambe le edizioni::quella Deluxe, seguendo sempre il formato CD doppio, inizia con Hammer And Nails, la cover del brano degli Staple Singers, che era su Deep End Vol. 2, dal soul dell’originale al blues a tutta slide della loro rilettura, seguita da una granitica e lunghissima Thorazine Shuffle, oltre dodici minuti di super jam per uno dei loro cavalli di battaglia sin dai tempi di Dose, sempre da quel disco anche Larger Than Life, altro pezzo rock di quelli tosti, Forsaken Savior da Shout, contiene una citazione della bellissima Sad And Deep As You di Dave Mason, Broke Down On The Brazos è un altro massiccio pezzo rock costruito su un pantagruelico riff di basso di Carlsson, Endless Parade è una splendida ballata ripresa da High And Mighy, lirica e malinconica, con un altro assolo da manuale di Haynes, Lola Leave Your Light On è un’altra scarica zeppeliniana da Dèjà Voodoo e Blind Man In The Dark è la quintessenza del suono dei Gov’t Mule, potenza devastante, classe, improvvisazione alla ennesima potenza, tra wah-wah impazziti e ritmica in libertà, e sempre da quel periodo arriva anche Raven Black Night, altro limpido e complesso esempio della loro musica, traccia che chiude il primo CD della versione Deluxe quadrupla.

In apertura del secondo CD, TravelingTune, versione alternata, ancora più allmaniana, e una durissima Stone Cold Rage, nuovamente dal disco del 2017, di Whisper In Your Soul su Shout c’era una bella versione cantata con Grace Potter, qui viene forgiata in una strana ed inconsueta versione quasi psych-soul, sorniona e ricercata, mentre molto bella è la blues and soul ballad Little Toy Brain, con Warren sempre splendido alla solista, canzone che placa un attimo gli animi prima del pezzo forte dell’intero concerto, un magnifico e lunghissimo medley di oltre 17 minuti di Trane ed Eternity Breath della Mahavishnu Orchestra, che poi sfocia in una jam costruita intorno a una sontuosa St. Stephen dei Grateful Dead, con tutti e quattro i musicisti in grande spolvero ai rispettivi strumenti, per un quarto d’ora di grandissima musica (come se il resto non bastasse), minchia se suonano, scusate il francesismo (però, delitto di lesa maestà, questo medley non è stato inserito nella parte video del doppio DVD) . Un attimo per riprenderci e arriva un altro brano da Revolutions, una breve ma epica Pressure Under Fire e pure Fool’s Moon da Deep End Vol. 1 non è malaccio, si fa per dire, sempre rock magistrale, che precede l’altra versione di Revolutions Come…Revolutions Go, ancora 10:45 magici tanto per gradire e dallo stesso album anche Bring On The Music che dà il titolo a questo Live, altro brano notevole, dall’inizio in sordina, solo percussioni e chitarre e tastiere accarezzate, fino all’ingresso vigoroso della ritmica e il “consueto” crescendo strumentale, tra pause ed improvvise ripartenze che poi confluiscono nella ripresa di Traveling Tune (Part 2) che concludeva il concerto del 28 aprile e pure questo doppio CD magnifico.

Il doppio DVD splendidamente ripreso con ben nove telecamere dal fotografo e regista Danny Clinch riporta un corposo estratto dai due concerti, pizzicando sia dalla versione standard che da quella deluxe, 23 brani in tutto, sempre non seguendo la sequenza originale, ma con interviste con la band, riprese dietro le quinte, fotografie ed altre chicche,  pur se con la pecca appena citata. Concludendo, in ogni caso, in una parola, “mitico”.

Bruno Conti

Un Supergruppo Di Non Famosi, Tranne Uno, Mr. Bonamassa! Rock Candy Funk Party – Takes New York Live At The Iridium

rock candy funk party takes new york live

Rock Candy Funk Party – Takes New York  Live At The Iridium 2CD+DVD J+R Rec.

Mentre è uscito anche l’atteso doppio album dal vivo con Beth Hart (nei prossimi giorni recensione completa sul Blog), Joe Bonamassa ci delizia con una delle sue tante avventure trasversali. I Rock Candy Funk Party nascono, come primo nucleo, nel 2007, dall’incontro tra il batterista e produttore Tal Bergman e il chitarrista Ron DeJesus per un disco intitolato Groove Vol.1, programmatico fin dal titolo. Negli anni successivi sono entrati via via in formazione il bassista Mike Merritt, il tastierista Renato Neto e, nel 2012, Joe Bonamassa. A questo punto le cose si sono fatte serie, la formazione ha inciso un primo CD di studio per l’etichetta di Bonamassa, We Want Groove, dove lo stile strumentale della band, che fonde jazz, rock, funky, fusion ha raggiunto una sua quadratura, rimanendo però assai ricco nel reparto improvvisazione https://www.youtube.com/watch?v=MCrXcvsRwPs .

rock candy band members

Tra un impegno e l’altro, il gruppo, con l’aggiunta di Daniel Sadownik alle percussioni, ha deciso di registrare un concerto all’Iridium di New York, per pubblicare un doppio CD dal vivo, con DVD (o Blu-Ray) allegato, che riporta, oltre al concerto, un ricco documentario girato dietro le quinte, più di 100 minuti di musica, nella migliore tradizione del genere, che proprio in questa modalità dà i migliori risultati. Forse non saranno un “supergruppo”, visto che l’unico famoso (ma non celeberrimo) è proprio Bonamassa, ma se conta la bravura allora ci siamo.

rock candy 1

Il titolo del primo disco era ispirato da un celebre album di Miles Davis, ma il primo brano, Octopus-E  ha un groove che è puro Herbie Hancock Headhunters circa Man-Child. con Wah-Wah Watson, Blackbyrd McKnight e David T-Walker alle chitarre https://www.youtube.com/watch?v=Cv_GE_n2oZQ . Non si può dimenticare il suono di Spectrum di Billy Cobham, con Tommy Bolin alla chitarra, quello dei Return To Forever di Chick Corea, Al Di Meola e Stanley Clarke, la Mahavishnu Orchestra, gli Eleventh Hour di Larry Coryell e Alphonse Mouzon, tutto un periodo glorioso che rivive nelle esplosioni ritmiche e chitarristiche di Work https://www.youtube.com/watch?v=DgoY7t1eGrQ . Ma anche il Jeff Beck del periodo jazz-rock, le percussioni latineggianti di Sadownik, le evoluzioni al basso di Merritt, le twin guitars di Bonamassa e DeJesus in We Want Groove, stanno tra il Santana influenzato da John McLaughlin, il Davis del periodo elettrico e tutto quel jazz-funky meticciato che impazzava nella prima metà anni ’70, potreste rifarvi alla famosa rubrica della settimana enigmistica, “scopri la differenza”!

rock candy 2

Tanto virtuosismo, ma anche tanto divertimento, la facciata accettabile del prog-rock virtuosistico e fine a sé stesso di molti gruppi (ma non tutti). Bonamassa si sente spesso e volentieri, ma è primus inter pares, le tastiere di Neto, oltre che salire al proscenio spesso, soprattutto con il piano elettrico, con la parte elettronica dei synth svolgono anche le funzioni che erano dei fiati (e parliamo sempre di We  Want Miles). Si vede e si sente che i musicisti (e il pubblico) si divertono, il wah-wah di Bonamassa (o DeJesus, o entrambi) e il piano elettrico di Neto sono frenetici nella superfunky Heartbeat,, ma il gruppo se la cava egregiamente anche nelle atmosfere liquide e sognanti di New York Song, dove anche le linee melodiche e non solo il groove inarrestabile hanno un loro spazio. Però quando la batteria di Bergman innesta le alte velocità ritmiche di Spaztastic, che sono nuovamente figlie di Spectrum, ma anche di James Brown, Sly and Family Stone e di tutti i funky drummers passati e futuri, le attitudini jam del gruppo prendono il sopravvento, in un’orgia di tastiere, chitarre e strumenti ritmici che folleggiano ondeggiando per la gioia degli ascoltatori. E siamo solo alla fine del primo CD.

rock candy 3

Altri sei brani nel secondo, con le lunghezze che si allungano, due oltre i dieci minuti e uno oltre i quindici: Ode To Gee sperimenta sonorità spaziali (sia come attitudine musicale che mentale, anche se non sono vestiti con quelle tutine da astronauti che impazzavano all’epoca), sempre in quel territorio tra jazz, rock e funky che è prerogativa dei Rock Candy Funk Party, non potendo tradire il proprio nome https://www.youtube.com/watch?v=c7SW3z3BVho . Un ensemble molto democratico, dove Bonamassa è la star, con i suoi soli e scale fulminanti, ma il suono è decisamente compatto, come nella “breve” Dope On A Rope, ricercato, sperimentale e ricco di inventiva nella lenta e sinuosa The Best Ten Minutes Of Your Life. Non siamo proprio a un concerto dei Kiss, per capirci, anche quando i ritmi si fanno nuovamente “fonky”  in Steppin’ Into It,  le evoluzioni sono comunque più per il cervello che per i piedi. Il rituale dell’assolo di batteria non poteva mancare, fa parte della liturgia, ma poi arrivano tutti gli altri che alla fine si scatenano nella devastante e lunghissima One Phone Call, vero tributo al jazz-rock e al virtuosismo dei suoi interpreti. Se vi piace Whole Lotta Love e non Quadrant forse avete sbagliato disco, se vi piacciono tutte e due e anche gli assolo di synth potreste averci preso!

Bruno Conti                                                      

Clienti Abituali! Chris Duarte Group – My Soul Alone

chris duarte my soul alone.jpg

 

 

 

 

 

 

Chris Duarte Group – My Soul Alone – Blues Bureau/Shrapnel

Chris Duarte procede, con solerte ed inesorabile cadenza (non c’è nessun connotato negativo, solo una constatazione), a pubblicare nuovi album, sempre per la Blues Bureau/Shrapnel di Mike Varney, che si occupa della produzione, come di consueto. Negli ultimi 6 anni ne sono usciti 7 (comprese delle uscite di materiale d’archivio): siamo lontanissimi dalle medie proibitive di Bonamassa, ma per un signore che a febbraio ha compiuto 50 anni (la stessa età della sua Stratocaster), una invidiabile media. Come detto più volte, Duarte è un texano Stevie Ray Vaughaniano e di conseguenza anche un hendrixiano, il suo rock-blues è, diciamo, energico, molto energico, ma ha un suo fedele seguito, magari anche di quelli che dicono che “Hendrix e Stevie Ray Vaughan hanno stufato” ma poi ascoltano i loro epigoni, che poi sono della stessa parrocchia di coloro i quali non ascoltano più Springsteen, “perché non è più come una volta”, salvo poi acquistare i dischi di quelli che lo imitano, spesso malamente.

Questo non è per dire che Chris Duarte sia uno scarso, tutt’altro, ma l’originalità non è più il suo forte, se mai lo è stata, ma per chi segue quella nicchia che è il power guitartrio in ambito rock-blues e non solo, rimane una certezza. My Soul Alone consta di dodici nuove composizioni, tutte firmate dal titolare, che si avvale della classifica formazione triangolare, con Steve Evans al basso e Aaron Haggerty alla batteria. Il disco mi sembra segnali un ritorno a sonorità blues, lontane dalle derive più hard di 396 con i giapponesi Bluestone, gia presenti in Blues In The Afterburner del 2011, il rock è sempre presente ma il disco è più vicino al sound classico degli inizi, quelli più influenzati da Stevie Ray Vaughan, il classico stile texano che attinge anche a ZZTop e altri gruppi della stato della stella solitaria (qui trovate i precedenti (chris+duarte)

La tecnica chitarristica non l’ha certa dimenticata, e tra i discepoli di SRV Duarte è sicuramente uno dei migliori in assoluto, con uno stile molto fluido, scorrevole, caratterizzato da un solismo molto variegato, al solito niente di nuovo, ma suonato con passione e competenza: già dallo shuffle iniziale di Show Me That You Want It, se chiudi gli occhi e non ascolti la voce, ti sembra di ascoltare un disco di Vaughan, impressione ribadita dalla più tirata Yes it’s you ma anche dalle trame più raffinate, tra jazz e psichedelia, di Take Me Now e sublimate nell’ottimo slow blues A Dollar Down And Feeling Low dove la chitarra si arrampica nell’Olimpo dei grandi con classe notevole per poi tornare allo stile tipicamente cadenzato di I Bucket It Up e alle coordinate claptoniane prima maniera, di un brano come Outta My Way dove il suono si incattivisce e Haggerty fa il Ginger Baker della situazione.

Leave My Soul Alone che dà il titolo alla raccolta è un altro slow, questa volta di chiara matrice hendrixiana (Voodoo Chile è lì, appena dietro l’angolo). Sweet Litte Girl più leggera e scanzonata, quasi R&R, avrebbe fatto la gioia dell’altro fratello della famiglia Vaughan, Jimmie. Lazy Afternoon, 11:11 di slow blues alla Ronnie Earl o alla Robillard farà la gioia di chi compra dischi come My Soul Alone anche e soprattutto per questo tipo di brani, e nel CD ce ne sono parecchi. Can’t Shut Me, chitarra e batteria in libertà, ricche di effetti è nuovamente un omaggio all’arte di Jimi mentre Blue Jean Outlaw è un altro lentone di atmosfera, quello peraltro che ti dovresti aspettare, direi per contratto, nei dischi di rock-blues, niente di più niente di meno, suonato come Dio comanda e poi reiterato nelle trame più complesse dello strumentale Carelessness dove compare anche un violino suonato da Mads Tolling che gli dona un’aura quasi jazz-rock alla Flock o alla Mahavishnu per un finale inconsueto. Un disco all’altezza della fama di Chris Duarte, tra i suoi migliori in assoluto.

Bruno Conti

Forse Non Più Un “Innovatore”, Sicuramente Ancora Un Grande Musicista (E Che Gruppo)! John McLaughlin & The 4Th Dimension – Now Here This

john mclaughlin now here this.jpg

 

 

 

 

 

 

John McLaughlin & The 4Th Dimension – Now Here This – Abstract Logix/Ird

Era da qualche tempo che non seguivo più con attenzione le evoluzioni della musica di John McLaughlin, anche se nell’ultima decade il musicista inglese stava vivendo una sorta di seconda giovinezza musicale, ma sicuramente il suo momento di maggiore splendore lo ha vissuto a cavallo tra gli anni ’60 e gli anni ’70, prima con la collaborazione in due dischi che hanno visto la nascita del Miles Davis “elettrico” (in A Silent Way e ancora di più Bitches Brew), tanto da meritarsi anche un brano a proprio nome, e poi con la fondazione della Mahavishnu Orchestra, uno straordinario gruppo che per primo ha affrontato quello stile musicale che allora fu definito Jazz-rock e poi, con connotati più “morbidi” e funky, meno furiosi sarebbe diventata fusion. Ma McLaughlin, già da prima aveva esplorato le connessioni tra jazz, rock e blues, in una formazione come la Graham Bond Organization, dove con lui suonava gente come Jack Bruce, Ginger Baker e Dick Heckstall-Smith e lì imparava l’arte della improvvisazione strumentale jazz applicata ad una musica con molti agganci al rock classico.

I primi dischi della Mahavishnu Orchestra, Inner Mountain Flame, Birds Of Fire e il Live, erano suonati con una ferocia e una carica che allora avevano solo le prime formazioni di hard rock, ma con una perizia strumentale quasi senza uguali, se non nei migliori musicisti dell’epoca: Hendrix fu sicuramente una influenza su McLaughlin, come anche il Tony Williams Lifetime, in cui peraltro militò (e nel quale, anni dopo, fu sostituito da Allan Holdsworth). Ma nella formazione della Mahavishnu c’erano altri musicisti formidabili, a partire da Billy Cobham, che era una sorta di piovra umana della batteria, con mani ovunque che si muovevano freneticamente sul suo strumento (e che con Spectrum, di lì a poco, avrebbe realizzato una creatura simile ma più spostata verso il rock), o un tastierista come Jan Hammer, fra i primi ad usare strumenti elettrici ed elettronici in un ambito jazz e con sonorità rock, e poi compagno di avventura di Jeff Beck, un altro che ha preso una bella sbandata per il genere, che continua a tutt’oggi. Al violino, un virtuoso dello strumento elettrico, Jerry Goodman, proveniente da un gruppo quasi psichedelico come i Flock. Il più “scarso” fra loro, ma è un eufemismo, era il bassista Rick Laird, diciamo che era il meno incline al virtuosismo del gruppo.

Dopo questa lunga introduzione, saltiamo (non perché non sia valido, ma per motivi di spazio) di sana pianta tutta la carriera successiva di John McLaughlin, la collaborazione mistica con Santana (tutti e due vestiti di bianco, come due pirla), la seconda versione della Mahavishnu con Jean-Luc Ponty e il batterista (Narada) Michael Walden, il periodo “orientale” con gli Shakti, le collaborazioni in trio acustico con Paco De Lucia e il suo epigono (nella fase elettrica) Al Di Meola e poi tutto quello che è venuto dopo, dagli anni ’80 fino a questi The 4Th Dimension, che sono nuovamente un gruppo di musicisti straordinari a livello tecnico e  che hanno ridato alla musica del chitarrista quel drive sonoro che si era un po’ smarrito in una serie di album sempre validi, ma abbastanza blandi e ripetitivi ( a questi livelli comunque elevati, ovviamente). Now here this, a livello innovativo non porta nulla di nuovo, ma è suonato un gran bene, e gli amanti del genere avranno modo di apprezzare le evoluzioni sonore di tutti i componenti del gruppo.

Dai duelli, a mille all’ora, tra la chitarra di McLaughlin e la batteria dell’indiano Ranjit Baron (uno che non ha nulla da invidiare al miglior Billy Cobham), nell’iniziale Trancefusion, dove si cominciano ad apprezzare anche il piano elettrico di Gary Husband (collaboratore di Allan Holdsworth e mille altri), e il basso vorticoso del camerunense Etienne M’Bappé che al basso elettrico e fretless è una sorta di incrocio tra Jaco Pastorius e Stanley Clarke, un altro mostro di bravura. Parlando proprio di “mille” e oltre, la tanto da me vituperata AllMusic Guide, riporta 1245 collaborazioni di McLaughlin nel corso della sua carriera pluridecennale (qualcuna “ciccata” come al solito, perché mi sembra improbabile che nel 1954 abbia suonato con Stan Getz, a 12 anni e anche con i Platters?!?), mentre con le sorelle Labeque sì, anche perché una delle due è stata sua moglie. Nell’altrettanto potente groove di Riff Raff, dove l’interplay tra il basso funky di M’Bappé e la batteria di Baron si avvicina alla stratosfera del ritmo, Gary Husband utilizza un synth spaziale che ricorda le sonorità futuristiche di Jan Hammer e riaccende la vecchia fiamma della improvvisazione più feroce, in un McLaughlin che non sentivo così ispirato nei suoi assoli da lunga pezza. Addirittura in Echoes From Then sfodera delle timbriche di chiara derivazione rock, con una chitarra dal suono duro e grintoso che ha poco del tocco raffinato dei solisti jazz, mentre tutti gli altri strumentisti lo attizzano di gusto, con le sinuose linee di basso dell’africano e l’intricatissimo lavoro della batteria dell’indiano, per non parlare delle tastiere, veramente bravi. 

Dopo un terzetto di brani quasi ail limiti della frenesia, Wonderfall si appoggia al piano acustico di Husband e al basso fretless di M’Bappé per un approccio più lirico, rilassato, quasi morbido, mentre Call And Answer giostra attorno ad un prodigioso assolo di basso che ricorda i virtuosismi indimenticabili del miglior Jaco e McLaughlin e Husband si scambiano assoli degni di quelli della coppia Beck e Hammer. Not here, not there è l’altro brano tranquillo, un mid-tempo sognante, dalle scansioni tra soul e derive quasi pop, con un lungo assolo molto lirico e melodico, inconsueto per McLaughlin, forse l’unico pezzo che potremmo definire “fusion”. Guitar Love, ancora rockeggiante, con M’Bappé che suona il suo basso con i guanti (inteso in senso letterale, se guardate la foto interna il musicista suona con un paio di guanti) e McLaughlin che improvvisa lunghe sequenze di note con la sua chitarra e Baron si sfoga dei suoi patimenti per le collaborazioni bollywodiane con A.R. Rhaman, con delle serie di scariche di batteria che faranno godere i patiti dello strumento, mentre nella parte conclusiva Husband rilascia un bel assolo di organo. Nella conclusiva Take It Or leave it, c’è una commistione tra atmosfere indiane e il basso funky slappato (mancava!), mentre le tastiere avvolgono il sound di questo brano, il più breve dell’album, sotto i 4 minuti.

Bello, non pensavo, “after all these years” e a 70 anni suonati, Mister John McLaughlin è ancora un signor musicista, e con un fior di gruppo! Per appassionati del genere, ma anche per amanti del virtuosismo non fine a sé stesso, per ascoltare qualcosa di diverso.

Bruno Conti