Ottima Moderna Country Music Con Uno Sguardo Al Passato Per Un Esordio Fulminante! Logan Ledger – Logan Ledger

logan ledger

Logan Ledger – Logan Ledger – Rounder/Concord CD

Era da parecchio tempo, forse addirittura da qualche anno, che non mi capitava tra le mani un disco prodotto da T-Bone Burnett, uno che specialmente tra gli anni novanta e la prima decade dei duemila era senza dubbio il produttore più richiesto a livello internazionale. Anzi, pare che Burnett avesse intenzione di ritirarsi a vita privata, ma che abbia “dovuto” rimandare tale proposito quando ha avuto per le mani i demo di alcune canzoni scritte ed eseguite da un certo Logan Ledger, un illustre sconosciuto originario di San Francisco ma residente a Nashville: la reazione di T-Bone all’ascolto di quel nastro è stata tale da convincerlo a contattare Ledger per produrgli il disco d’esordio. Tra l’altro non è che Burnett si sia risparmiato nella scelta dei musicisti, in quanto ha portato in studio con sé il grande chitarrista Marc Ribot (a lungo con Tom Waits), il bassista Dennis Crouch, il batterista Jay Bellerose, il tastierista Keefus Ciancia e l’illustre steel guitarist Russ Pahl (ovvero, a parte Ciancia e Pahl, la stessa band che incise il capolavoro di Robert Plant ed Alison Krauss Raising Sand): ma non ci si deve stupire di tanta magniloquenza, in quanto Burnett è uno che il talento lo riconosce dopo poche note, e nel caso di Ledger di talento ce n’è in abbondanza.

Logan infatti non è un countryman qualsiasi, ma uno che sa scrivere canzoni di qualità eccelsa in puro stile country classico, bilanciando il tutto con una miscela sonora di antico e moderno: il gruppo che lo accompagna fornisce infatti un background quasi rock, che viene però stemperato dalla languida steel di Pahl e soprattutto dalla bellissima e profonda voce del leader, che a seconda dei momenti richiama gente come Elvis Presley, Roy Orbison, Chris Isaak e Raul Malo. Logan Ledger è quindi un disco di country al 100%, ma con una band come quella che c’è alle spalle del nostro il livello sale di botto, per non parlare del fatto di avere uno come Burnett in consolle e, soprattutto, l’avere portato in dote una manciata di brani di livello notevole. L’iniziale Let The Mermaids Flirt With Me comincia per sola voce e chitarra in tono confidenziale, poi entra la band ma con passo discreto e vellutato, per uno slow dal chiaro sapore anni cinquanta/sessanta in cui spicca la splendida steel di Pahl ed un raffinato assolo “ricamato” da Ribot. Starlight è un saltellante honky-tonk elettrico dalla strumentazione moderna e rockeggiante, che contrasta apertamente con la voce d’altri tempi di Logan, un connubio quasi irresistibile per la prima grande canzone del CD: il paragone coi Mavericks è il primo a venirmi in mente.

Invisible Blue è una ballata dai toni crepuscolari ma nello stesso tempo ariosa e distesa, di nuovo con la voce suadente e melodiosa di Ledger a dominare (tracce di Orbison) ed il solito tappeto sonoro di tutto rispetto; l’elettrica e coinvolgente I Don’t Dream Anymore presenta echi di country cosmico/psichedelico anni sessanta, con una prestazione vocale perfetta ed accompagnamento potente e decisamente ispirato dal suono della Bay Area, mentre Nobody Knows è un lento intenso e drammatico, eseguito con grandissimo pathos e, devo ripetermi, cantato in maniera sublime. (I’m Gonna Get Over This) Some Day, scritta da Burnett, è una deliziosa e solare country tune dal motivo immediato, suonata sempre con approccio da rock band, Electric Fantasy è più moderna sia nella parte vocale che in quella strumentale, con ottimi interventi chitarristici di Ribot che sanno di surf music e che rendono il pezzo ancora più bello e trascinante, Tell Me A Lie, scritto da Ledger insieme a John Paul White (ex Civil Wars), è invece un altro slow romantico ed elegante, di nuovo simile allo stile di Malo e soci.

Skip A Rope, altra pura e squisita country song dai connotati western, precede uno degli highlights del CD, e cioè la bellissima The Lights Of San Francisco (alla cui stesura Logan ha collaborato con Steve Earle), una country ballad di livello assoluto e suonata splendidamente, un brano che spiccherebbe con qualsiasi tipo di arrangiamento; chiusura con Imagining Raindrops, ancora un notevole honky-tonk di stampo classico, che rimanda alle pagine migliori del repertorio di George Jones e Merle Haggard. Logan Ledger dimostra quindi con questo suo debutto omonimo come fare in 44 minuti un perfetto album di country moderno ma con un occhio al passato, seppur con un “piccolo” aiuto da parte di un grande produttore e di un gruppo di musicisti formidabili.

Marco Verdi

E Costui Da Dove Sbuca? Ma Che Chitarrista Ragazzi! Kevin Breit – Johnny Goldtooth and The Chevy Casanovas

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Kevin Breit – Johnny Goldtooth and The Chevy Casanovas – Stony Plain

Kevin Breit, chi è costui, e soprattutto da dove sbuca, vi chiederete voi? Viene da McKerrow, un piccolo paesino dell’Ontario, quindi canadese, e già questo depone a suo favore: ha vinto svariati premi, soprattutto per album strumentali (e ne ha incisi almeno una decina, poi trovarli è un altro paio di maniche) in Canada, tra cui un paio di Juno Awards, ma come musicista ha partecipato a dischi che complessivamente hanno ricevuto 13 Grammy, e il suo nome lo trovate nei credits di album di Norah Jones, Rosanne Cash, k.d. Lang, Hugh Laurie, Cassandra Wilson, Holly Cole, Jane Siberry, Serena Ryder, Taj Mahal, Irma Thomas e tantissimi altri. Ah dimenticavo: suona la chitarra, ed è uno dei più bravi in circolazione, ma se serve se la cava egregiamente pure a bass clarinet, contrabbasso, vibrafono, melodica e organo, e in questo Johnny Goldtooth & The Chevy Casanovas li suona tutti (volendo canta anche ed è un anche virtuoso del mandolino. Genere musicale praticato? Boh. Pensate ad un incrocio tra Danny Gatton, Buddy Miller, James Burton, per fare i primi nomi che mi vengono in mente, dotato di tecnica ovviamente mostruosa, ma anche una propensione al “cazzeggio” musicale per stemperare il suo virtuosismo debordante, quindi ascoltando i brani di questo CD non ci si annoia di sicuro.

C’è del jazz, del country con tanto di twangy guitar in azione, l’immancabile Americana sound (quando non si sa esattamente il genere, citare sempre), qualche escursione nelle eccentriche traiettorie musicali di un Marc Ribot o di un Bill Frisell, quindi anche un pizzico di Tom Waits ma senza la voce, dei brani che ricordano degli Hellecasters schizzati (avete presente? Will Ray, John Jorgenson e Jerry Donahue), per esempio in un pezzo come Zing Zong Song, oppure il Waits blues e “wordless” in una quasi maniacale The Goldtooth Shuffle, per delle 12 battute molto futuribili e stravaganti, con la chitarra che parte per la tangente con sonorità veramente sghembe e non usuali, anche con slide. Nel disco appaiono con lui Davide Direnzo, il batterista di Cassandra Wilson, che suona in tutti pezzi, Michael Ward Bergman ( che suona nel Silk Road Ensemble di Yo Yo Ma), alla fisarmonica in un brano vorticoso intitolato I Got ‘Em Too, tra country, cajun e musica da festa di paese, ma dalle parti del confine messicano, giuro. Nell’iniziale Chevy Casanova appare Vincent Henry a sax e flauto, uno che ha suonato con Waits (appunto) e Amy Winehouse, e siamo dalle parti di uno strano R&B, misto a musica per colonne sonore, una traccia con continui cambi di tempo e variazioni, dove si apprezza il virtuosismo sopra (e sotto) le righe del pentagramma di Kevin Breit, che assume connotati ancora più inusuali nella non etichettabile C’Mon Let’s Go, dove il clarinetto basso di Breit si intreccia con una chitarra che sta tra i riff del rock e delle sonorità trasversali e quasi acide che sfociano in un assolo incredibile, ma non è facile da descrivere la musica di questo signore, bisogna sentirla e vi consiglio vivamente di farlo per convertirvi al suo approccio inconsueto ma eccitante.

The Knee High Fizzle sembra quasi un esperimento di Danny Gatton nei ritmi del country, con una twangy guitar impazzita sul solito tappeto ritmico complesso dove si annidano anche il vibrafono e il clarinetto di Breit, impegnato vieppiù a sconcertare l’ascoltatore con suoni e timbriche eccentriche ma affascinanti. Cozy With Rosy (divertenti anche i titoli) si avvale, come pure altri brani, della tromba del compatriota Gary Diggins, in un incontro tra musica hawaiiana (la chitarra di Kevin assume quel vibrato particolare della slack-key) e un mezzo valzer dissonante, io ci provo a descriverla questa musica, ma forse è più semplice lasciarsi trasportare dalla genialità di questo vero asso della chitarra, libero nei suoi dischi solisti di dare libero sfogo ad una inventiva sfrenata. Anche Crime Holler ha un arrangiamento curatissimo, ma spiazzante, dove avanguardia e voglia di divertire ricordano per certi versi il compianto Frank Zappa, che era uno che amava una musica complessa ma ricca anche di spunti divertenti e che sorprendessero chi l’ascoltava, con la chitarra che folleggia sempre in modo splendido, diciamo in un approccio non convenzionale. A Horse By Another Stripe è una sorta di desert song tra Calexico e Morricone, che viene omaggiato (penso, almeno nel titolo, ma non solo) anche nella conclusiva Dr. Lee Van Cleef, aggiunta per confondere ancora di più le acque, o forse perché i dischi di Kevin Breit devono avere comunque 11 canzoni. Ma prima ci sarebbe anche One Mo Bo, dove l’urticante solista del nostro si pone su un intricato tappeto di organo e batteria e dimostra una volta ancora che la sua musica non si può catalogare, ma è solo da godere, maneggiare con cura, in tutti i sensi: il mio nuovo “eroe”!

Bruno Conti

Una Stella Che Brilla Con “Grazia” Nel Panorama Jazz, Soul & Gospel. Lizz Wright – Grace

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Lizz Wright – Grace – Concord/Universal Records

Nel corso degli anni in questo blog abbiamo parlato e recensito bravissime cantanti donne: penso a Dana Fuchs, Grace Potter, Beth Hart, Susan Marshall, Ashley Cleveland (rock), Mary Black, Maura O’Connell, Pura Fè, Buffy Sainte-Marie (folk), Bettye Lavette, Candi Staton, Ruthie Foster, Kelly Hunt (soul), Rory Block (blues), Barb Jungr (jazz), senza dimenticare la compianta Eva Cassidy e tantissime altre che meriterebbero di essere citate, ma stranamente (e forse colpevolmente) non ci siamo mai occupati di Lizz Wright, eccellente vocalist di colore che spazia fra jazz, soul, rock e gospel. Originaria della Georgia, Lizz (guarda caso, ma forse no, figlia di un Pastore) si è rivelata nel 2003 grazie ad uno dei tanti tributi a Billie Holiday, incantando gli addetti ai lavori con una voce che non si dimentica tanto facilmente. Il suo primo album da solista Salt,proprio di quel anno, fu subito un successo, bissato poi con Dreaming Wide Awake (05), dove rileggeva in chiave “jazzy” anche classici rock come Old Man e Get Together, per poi arrivare ad un disco di gospel e soul strepitoso come The Orchard (08), con i componenti dei Calexico coinvolti. Arrivata ad un certo successo, la Wright proseguiva la sua carriera con un disco ambizioso Fellowship (10), che rileggeva pagine di Jimi Hendrix, Eric Clapton, Gladys Knight, con la presenza di ospiti del valore tra cui Angelique Kidjo e Me’Shell Ndegèocello, sino ad arrivare all’ultimo lavoro in studio Freedom & Surrender (15), dove spiccava una notevole versione di Right Where You Are (del duo rap Jack & Jack) in duetto con il cantante jazz Gregory Porter.

Per questo nuovo lavoro Grace, Lizz Wright alza ulteriormente l’asticella affidando la produzione all’ottimo Joe Henry, di cui consiglio sempre di ascoltare Shuffletown (90), disco che al sottoscritto piace parecchio; per l’occasione Joe negli studi United Recording di Hollywood porta i suoi soliti musicisti di fiducia, a partire da Jay Bellerose alla batteria e percussioni, David Piltch al basso, Marvin Sewell alle chitarra elettrice e acustica, Marc Ribot chitarra e voce, Patrick Warren alle tastiere, Kenny Banks al piano, e con il supporto vocale di Angela e Ted Jenifer, Cathy Rollins, Artia Lockett, Valorie Mack, tutti impegnati ad accompagnare la bellissima voce della WrightGrace parte con il blues acustico Barley, che evoca immagini di territori densi di piantagioni di cotone, a cui fanno seguito il classico di Cortez Franklin Seems I’m Never Tired Lovin’ You (splendida la versione di Nina Simone che trovate su Nina Simone And Piano), interpretata da Lizz al meglio e che non sfigura con l’originale; viene riproposto anche uno dei più celebri cavalli di battaglia di Sister Rosetta Tharpe Singing In My Soul, in una chiave veramente “soulful”, e viene rivoltata come un calzino Southern Nights diel grande Allen Toussaint, trasformata in una sofisticata ballata quasi da “piano bar”di lusso.

Con What Would I Do Without You,  la Wright rende omaggio pure a Ray Charles con una rilettura sublime da ascoltare a tarda notte, mentre la title track Grace, scritta dalla cantautrice canadese Rose Cousins e da Mark Erelli, è cantata da Lizz in maniera sofferta e commovente, che poi prosegue sullo stesso standard qualitativo con le note raffinate di Stars Fell On Alabama (dove si apprezza  la bravura di Marc Ribot), eccellente anche il Bob Dylan di Shot Of Love, con una Every Grain Of Sand interpretata in una versione “spirituale” da premio Nobel. La personalità di Lizz emerge ancora nella parte finale del disco, con una bella versione di una ballata di K.D. Lang Wash Me Clean (la trovate su Ingènue), trasformata in una sorta lamento ansioso sulle note di un organo e con un brillante lavoro di chitarra, e le note finali di un brano autobiografico All The Way Here, scritto con la cantautrice Maia Sharp, e cantato in uno stile quasi sussurrato Il filo comune che lega le dieci canzoni di Grace è sicuramente rappresentato dall’estrema eleganza della voce della Wright, ma anche dalla bravura di Joe Henry nel trovare il modo e il tempo giusto di assecondarla, ed è inutile cercare di nasconderlo, ci sono voci diverse dalle altre, non solo per essere uniche e incompatibili, ma soprattutto per la loro capacità di arrivare direttamente al cuore e all’orecchio, e sicuramente Lizz Wright è una icona perfetta della cantante jazz, gospel e soul raccolta in una unica figura (per certi versi vicina allo stile di Cassandra Wilson), una sicura protagonista della musica di qualità, capace di elevare una qualsiasi canzone ad un livello superiore, e quindi di far parte a pieno titolo della pattuglia di voci femminili citate all’inizio. Deliziosamente ammaliante!

Tino Montanari

Musica Indie Di Classe Per Orecchie “Mature”. The National – Sleep Well Beast

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National – Sleep Well Beast – 4 AD CD

Finalmente è giunta l’occasione di parlarvi per la prima volta sul Blog dei National (un gruppo di Cincinnati, Ohio, ma da tempo di stanza a Brooklyn), con la particolarità, in parte come i Radiohead, di formare  un quintetto a conduzione familiare, composto da fratelli e amici di scuola, come i gemelli chitarristi e tastieristi Aaron e Bryce Dessner, la sezione ritmica dei fratelli Scott e Bryan Devendorf al basso e batteria, a cui si aggiunge il cantante e compositore Matt Berninger, dotato di una voce baritonale e indiscusso leader del gruppo, senza dimenticare una figura chiave come il bravissimo musicista girovago e violinista australiano Padma Newsome, determinante nelle prime intuizioni armoniche del gruppo, nonché autore spesso degli arrangiamenti di archi e tastiere.

I National una volta approdati a New York, pubblicarono il primo album, l’omonimo The National  pochi giorni dopo la tragedia dell’11 Settembre 2001, un lavoro forse un po’ acerbo ma già ricco di idee musicali prettamente acustiche, mentre con il seguente Sad Songs For Dirty Lovers (03) il suono si fece più vicino a sonorità “alt-country” che richiamano alla mente i mai dimenticati Wilco e Uncle Tupelo, con perle come Cardinal Song e Thirsty, e dopo un EP meraviglioso come Cherry Tree (04), una breve raccolta di brani rimasti fuori dall’album precedente, arriva il fortunato Alligator (05), una serie di ballate per cuori infranti, situata tra i migliori Tindersticks e i Morphine. Con il bellissimo Boxer (07) i National  arrivano (per ora) al loro punto più alto, e concludono un ideale “trilogia” iniziata con Sad Songs… tra sfumature folk, atmosfere notturne e arrangiamenti orchestrali curati come detto da Padma Newsome, che vedono come ospite al pianoforte Sufjan Stevens (raggiungendo ai la vendita di 170mila copie negli Stati Uniti), a cui faranno seguire un altro EP The Virginia (08), una raccolta di brani inediti e cover registrati dal vivo, il crepuscolare High Violet (10),  una “colonna sonora” di 45 minuti con almeno due canzoni strepitose come England e Vanderlyle Crybaby Geeks, e per finire l’ultimo lavoro in studio Trouble Will Find Me (13), forse, a parere di chi scrive, il meno convincente, ma che nei brani finali Pink Rabbits e Hard To Find, certifica ancora una volta la genialità e la bravura dei National. Ora, dopo la lunga pausa, in cui hanno curato lo splendido tributo ai Grateful intitolato Day Of The Dead, tornano con nuovo album.

Questo nuovo lavoro Sleep Well Beast, prodotto dai fratelli Dessner e da Berninger, è stato registrato negli studi (di proprietà dello stesso Aaron) Long Pond a New York, per una dozzina di brani che parlano di separazione e desiderio, anche firmati dal barbuto “frontman” Matt Berninger  con la moglie Carin Besser, e si avvale in alcuni brani di ospiti di rilievo come Bon Iver e Marc Ribot. Il disco si apre con la “matrimoniale” Nobody Else Will Be There, una ballata notturna marchio di fabbrica del gruppo, a cui fanno seguito il flusso chitarristico iniziato dei fratelli Dessner in una tambureggiante “post punk-song” come Day I Die, dall’intrigante elettronica di una “berlinese” Walk It Back, e dal riff “assassino” di The System Only Dreams In Total Darkness con grande lavoro delle chitarre. Con l’intro iniziale di pianoforte di Born To Beg , si evidenzia ancora una volta la bravura di “crooner” di Berninger, per poi passare al rock duro e tirato di una “psichedelica” Turtleneck, alla melodia palpitante di Empire Line, e alla sperimentazione di una elettronica I’ll Still Destroy You, comunque splendida. La parte finale inizia con la raffinata e dolce Guilty Party, per poi farci commuovere come sempre con la pianistica Carin At The Liquor Store (dove Matt dà sfoggio della sua bravura), tornare ai tempi “confidenziali” con il delicato valzer di Dark Side Of The Gym (dal titolo stranissimo), e chiudere con la “title track” Sleep Well Beast, dal suono scarno e dark, canzone guida di quello che potrebbe essere il “sound” del prossimo album dei National, una formazione ambiziosa e in perenne movimento nel ricercare strade nuove.

Per chi scrive, i National di Matt Berninger sono una delle band “indie-rock” più atipiche e nello stesso tempo più significative del panorama musicale americano, e queste dodici canzoni di Sleep Well Beast sono da gustare in perfetta solitudine come un brandy d’annata, e non possono lasciare indifferente qualsiasi ascoltatore dotato di buon orecchio, e magari non di primo pelo.

Esce domani 8 settembre.  

Tino Montanari

Ormai E’ Tra Le Più Brave Songwriters In Circolazione! Tift Merritt – Stitch Of The World

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Tift Merritt – Stitch Of The World – Yep Roc CD

Graditissimo ritorno per Tift Merritt, cantautrice e rocker nativa del Texas, ma trapiantata in North Carolina, che mi aveva piacevolmente impressionato con i suoi due album d’esordio all’inizio della scorsa decade, Bramble Rose e soprattutto l’ottimo Tambourine, due riusciti lavori di rock cantautorale, con le giuste dosi di country, che vedevano all’opera due produttori di vaglia come Ethan Johns e George Drakoulias, e musicisti del calibro di Mike Campbell, Benmont Tench e Neal Casal. I due lavori seguenti, Another Country e See You On The Moon, pur validi, erano secondo me un gradino sotto, ma Traveling Alone del 2012 era certamente il suo disco migliore (insieme a Tambourine), un eccellente album di roots-rock d’autore con la produzione di Tucker Martine (l’uomo dietro gli ultimi album dei Decemberists).

Poi, ben cinque anni di silenzio, un periodo lunghissimo se hai una carriera in pieno sviluppo: ma Tift non si è persa d’animo, ed in questi cinque anni è ulteriormente maturata, prendendosi tutto il tempo necessario per portare a termine quello che a mio parere è il lavoro della sua completa maturità, oltre che probabilmente il suo più riuscito. Stitch Of The World è infatti un disco molto bello, a tratti addirittura splendido, che ci mostra un’artista che ha completato un percorso creativo ed ora si presenta in tutte le sue sfaccettature; la bionda (e carina) songwriter non rinuncia al rock, ma lo mette un attimo in secondo piano in favore di canzoni più profonde, sentite, a volte intime: una prova da vera songwriter, con una serie di fulgide ballate ed un suono perfetto, merito del produttore Sam Beam (che altri non è che Iron & Wine) e di un ristretto combo di musicisti con i contro baffi, tra i quali spiccano il chitarrista Marc Ribot (uno dei preferiti da gente del calibro di Tom Waits ed Elvis Costello, ma ha suonato anche con il nostro Vinicio Capossela) e ed il batterista Jay Bellerose (tra i più utilizzati da T-Bone Burnett), ma anche la bassista Jennifer Condos, un’altra con un bel curriculum (era anche sull’ultimo di Graham Nash, This Path Tonight) e lo steel guitarist Eric Heywood, mentre la Merritt si occupa di chitarra acustica e pianoforte.

L’album si apre con un’impronta decisamente rock: Dusty Old Man è un vibrante brano elettrico, che l’uso della slide di Ribot rende leggermente blues, e contraddistinto da un drumming potente in netto contrasto con la voce gentile di Tift. Grinta ed energia, anche se il pezzo non entra in circolo immediatamente, ed è abbastanza diverso dal resto del CD. Heartache Is An Uphill Climb, per contro, è splendida, una toccante ballata pianistica cantata alla grande ed arrangiata in maniera sopraffina, con gli strumenti che si uniscono ad uno ad uno in un crescendo strepitoso, uno dei brani più belli che ho ascoltato finora in questo ancora giovane 2017; My Boat, adattata da una poesia di Raymond Carver, è un’altra canzone di grande intensità, una ballad profonda, lunga e distesa, tra folk e rock, mentre Love Soldiers On è una moderna country song, sul genere della Emmylou Harris degli ultimi vent’anni (quella più sofisticata), anche questa decisamente godibile e suonata come Dio comanda.

Molto bella anche la title track, anzi direi deliziosa, una folk song gentile ma con un motivo ricco di pathos e reminiscenze irlandesi, altra grande canzone, con quel tocco di elettricità che funge da ciliegina; Icarus è lenta, profonda, suggestiva, con un leggero accompagnamento di piano, chitarra elettrica e steel, un’altra perla da aggiungere ad una collana sempre più preziosa (bellissimo anche qui il crescendo nel bridge). Proclamation Bones è più rock, con la ritmica pressante ed ancora la slide a lavorare di fino sullo sfondo, mentre Something Came Over Me è uno struggente slow dal sapore bucolico, puro e cristallino, così come la squisita Eastern Light, altro brano di grande impatto ed intensità, tra folk e country; chiusura con Wait For Me, altra ballata elettroacustica di notevole livello (ma esiste anche la solita edizione con tre brani in più, Day He Died e due riprese acustiche di Something Came Over Me e Stitch Of The World con Sam Beam). Diamo quindi volentieri la bentornata a Tift Merritt, che ci ha regalato uno dei dischi migliori di questo inizio 2017.

Marco Verdi

Vecchio Ma “Nuovo”, E’ Rifiorito Un Piccolo Capolavoro – Richard Buckner – Bloomed

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Richard Buckner – Bloomed – Merge Records – Deluxe Edition – Remastered – 2 CD – 25-03-2014

Nell’ambito delle celebrazioni del 25° anniversario della Merge Records (l’etichetta “indie” della North Carolina) dopo le ristampe Deluxe di Nixon dei Lambchop e Living Indoor dei Superchunk, viene immesso sul mercato (a vent’anni dalla prima edizione) Bloomed di Richard Buckner (a dire il vero l’album era già stato ristampato nel ’99 dalla Rykodisc Recordscon l’aggiunta di cinque pezzi). Questa nuova versione, oltre al disco originale rimasterizzato, contiene un CD bonus di undici tracce con sessioni radiofoniche, registrazioni dal vivo e canzoni dell’epoca, alcune poi usate nei lavori successivi.

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Cantautore introspettivo, Buckner ( che viene da San Francisco) interpreta in maniera molto personale un “background” artistico difficilmente classificabile, con canzoni dalle quali trapela un senso di malinconico intimismo, evidenziato oltre che in Bloomed (94), anche nei successivi splendidi  Devotion + Doubt (97), con l’accompagnamento dei Giant Sand e della chitarra di Marc Ribot e Since (98), senza tralasciare l’ambizioso concept-album The Hill (00), progetto dedicato alla famosa Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters.

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Bloomed, registrato nell’estate del ’94 (e prodotto da quel mago di Lloyd Maines), vedeva in veste di “sessionmen” lo stesso Maines alla pedal steel, lap steel e dobro, il grandissimo Butch Hancock all’armonica, Ponty Bone alla fisarmonica, Joe Carr al mandolino, Steve Meador alle percussioni e Lanny Field al violino, un disco dove Buckner dimostrava già di avere la vena del cantautore di classe, scrivendo canzoni intense dal passo rallentato, accompagnate da pochi strumenti, in quanto sin dall’inizio sposava una componente prevalentemente acustica. Capita che, riascoltando a distanza di anni (e qui sono tanti!) dischi che colpevolmente si sono dimenticati, si apprezzino di più le forti sonorità country dell’iniziale Blue And Wonder http://www.youtube.com/watch?v=NIToWtcSLfM , la ballata dai toni notturni Rainsquall, una perfetta folk song come 22, e ancora la linea melodica del mandolino in Mud http://www.youtube.com/watch?v=yp_OR7eu3uI , l’incedere della fisarmonica di Ponty Bone nella malinconica Six Years, mentre con This Is Where http://www.youtube.com/watch?v=ulBVus0nFoo e Gauzy Dress In The Sun, con la steel di Maines in evidenza, si viaggia dalle parti del country d’autore, andando a chiudere con la ritmata e lineare Daisychain, Il folk di Desire http://www.youtube.com/watch?v=28IugZ2GvT8 , il country di Up North, la dolce Surprise, A.Z. con il violino di Lanny Field e la lap steel di Maines a disegnare la melodia e la conclusiva Cradle Of The Angel, intima e avvolgente.

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Il bonus CD vede Richard Buckner nelle vesti del menestrello folk, con le ballate acustiche The Last Ride e Settled Down, mentre The Worst Way, sostenuta solo dalla voce e chitarra di Richard, è seguita da una delle più belle canzoni del disco due, Emma, un accorato lamento d’amore http://www.youtube.com/watch?v=iKHCo_K89Fw  che viene poi addolcito dalla vibrante Hutchinson. Le rimanenti tracce del disco sono versioni di brani già sentiti, molti dal vivo, eseguiti tra il 1995 e il 1997, riprese in forma più acustica e scarna (dove si valorizza anche la bravura chitarristica di Buckner), molto bella una cover di Still Lookin’ For You di Townes Van Zandt http://www.youtube.com/watch?v=w3cHDotqbw8 , registrata dal vivo al World Café nel 1997!

Dotato di una voce splendida, dalla timbrica profonda e intensa, Richard Buckner scrive canzoni impregnate di poesia e sentimento, una musica interiore da ascoltare, brano dopo brano (come in questa pregevole ristampa), canzoni che hanno il potere di catturare l’ascoltatore: un artista di “culto”, sicuramente lontano dal grande pubblico, ma ben dentro al cuore di ogni appassionato di “vera” musica.

Tino Montanari

NDT: Visto che li hanno in catalogo, spero che la Merge ristampi (magari con inediti) anche gli American Music Club di Mark Eitzel. E’ chiedere troppo?

Una Festa di Chitarre (E Voci)! Buddy Miller – Majestic Silver Strings

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Buddy Milller – Majestic Silver Strings – New West CD+DVD 01-03-2011

Ve ne avrei parlato con più calma nei prossimi giorni, ma oggi non ho avuto molto tempo per scrivere altro, per cui mi limito a una breve anticipazione sull’Anticipazione. La data ufficiale d’uscita è il 1° marzo negli Stati Uniti e l’8 marzo in Europa ma visto che è già approdato nelle nostre lande in questi giorni, due parole su questo nuovo, bellissimo, album di Buddy Miller, reduce dall’avere appena vinto un Grammy per la sua produzione dell’ultimo (anche quello magnifico) disco di Patty Griffin Downtown Church e per la precisione nella categoria Miglior Disco di Gospel Tradizionale (ma al di là dei generi in quel disco c’è della gran bella musica e non solo semplicemente gospel). Comunque Patty Griffin, con Emmylou Harris, Shawn Colvin, Lee Ann Womack, Ann McCrary, Julie Miller e i Chocolate Genius sono i vocalist di rango che accompagnano il quartetto di magici chitarristi che si esibisce in questo CD: oltre a Buddy Miller gli altri Majestic Silver Strings sono Bill Frisell, Greg Leisz e Marc Ribot.

Quindi questa è la nuova avventura di Miller e Griffin reduci dall’esperienza con Robert Plant nell’ottimo Band Of Joy: sono 13 brani della tradizione country rivisitati con gusto e classe da Miller e soci e contrariamente a quello che si può pensare visto lo schieramento di chitarristi solo un brano è strumentale, negli altri si alternano i vari ospiti oltre allo stesso Buddy Miller e Marc Ribot che si cimenta anche come cantante in tre brani.

Come ciliegina sulla torta la confezione contiene anche un DVD con un Making Of dell’album di una ventina di minuti e un brano tratto dall’unico concerto della formazione.

Appena ho un po’ di tempo ci ritorno con calma (se riesco), nel frattempo prendete nota perché merita.

Bruno Conti

Non Si Può Fare Meglio Di Così! John Mellencamp – No Better Than This

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John Mellencamp – No Better Than This – Rounder/Universal 17-08-2010 USA – 24-08-2010 Italia

Prima di parlare del disco una precisazione sulla copertina: il “beato fra le donne” immortalato sulla cover del CD da mamma Elaine è il quarto figlio di Mellencamp, Hud (che era il ragazzino sulla copertina di Trouble No More del 2003) che si gode la bella compagnia, d’altronde No Better Than This.

Questo è il secondo album consecutivo di studio di Mellencamp prodotto da T-Bone Burnett dopo Life, Death, Love And Freedom ed è un signor disco! Però, c’è un però… non è sicuramente un disco facile, quando verrà il momento di ascoltarlo per tutti voi tra un mesetto e mezzo (un Bruno recensore sadico) il primo e forse anche il secondo ascolto potrebbero risultare alquanto ostici agli amanti del Mellencamp rocker ruspante per quanto già in passato le “radici” della musica americana hanno fatto spesso capolino nei suoi dischi.

Non temete, perseverate e, spero, sarete premiati dall’ascolto di un disco sicuramente di notevoli qualità.

La genesi del disco risale all’incirca ad un anno fa (qualcosina di più) quando Mellencamp partecipa al tour 2009, in alcune date, di Bob Dylan (esperienza che ripeterà quest’anno): la vicinanza con Mr. Dylan ( e Willie Nelson, c’era anche lui, peraltro soci fondatori con Neil Young del Farm Aid) ha risvegliato nel nostro amico il desiderio di risalire alle fonti della musica popolare americana, quella delle origini, il country, folk e blues degli anni ’30 e ’40 e il rock’n’roll e rockabilly degli anni ’50.

Se il tuo socio di avventura è T-Bone Burnett è ovvio che la cosa verrà portata fino alle estreme conseguenze: apparecchiature vintage, luoghi “storici” che hanno fatto la storia della musica, sonorità il più possibile vicine alle “fonti”, registrato in Mono e poi riprocessato da Burnett per gli impianti moderni. La grande differenza la fanno le canzoni: i tredici brani sono tutti originali scritti da Mellencamp per l’occasione, nessuna cover ma un’impronta musicale il più possibile vicina a quella dei grandi del passato.

Le tre locations prescelte per registrare l’album sono la First African Baptist Church a Savannah (la prima chiesa americana fondata da Neri americani addirittura prima della Rivoluzione quando i suoi componenti erano ancora tutti schiavi), i mitici Sun Studios di di Memphis, Tennesse, quelli di Sam Phillips, da dove tutto il R&R ha avuto le sue origini, quelli di Elvis Presley, Carl Perkins, Johnny Cash e Jerry Lee Lewis, il Million Dollar Quartet, che sono stati riadattati per l’occasione utilizando i segni originali che Phillips utilizzava per i suoi protetti, una croce per terra qui per il cantante, un’altra lì per la sezione ritmica, l’ultima laggiù per il chitarrista. Per finire la stanza 414 del Gunter Hotel di San Antonio, Texas dove nel novembre del 1936 Robert Johnson registrò i suoi primi nastri per la Brunswick Records.

Il brano scritto per questa registrazione si chiama Right Behind Me, “Proprio Dietro Di Me” e vi lascio immaginare chi è proprio dietro di voi! Maybe The Devil?

Non contenti di tutto ciò Mellencamp e Burnett sono partiti per questo breve tour degli studi americani muniti di un registratore Ampex a bobine del 1955. Il risultato, ovviamente, è un disco dal suono antico, arcaico, antiquato, ancestrale qualcosa che inizia con la A, ah ecco mi è venuto in mente, Primigenio direi. Come i vecchi vinili di quegli anni ma senza il rumore della statica.

In alcuni brani, per esempio Thinking About You, ma anche altri John Mellencamp assomiglia in modo impressionante al primo Dylan, e lo intendo come un complimento e come pietra di paragone per apprezzare questo disco: dimenticate il “solito” Mellencamp per una volta e pensate a Dylan ma anche al Johnny Cash degli anni ’50, il contrabbassista che propelle i brani che hanno una sezione ritmica è quello originale di Cash, David Roe.

Già che siamo in argomento una citazione per gli ottimi musicisti che suonano in questo No better than this, un misto tra la band abituale di Mellencamp e quelli che usa di solito T-Bone Burnett: oltre al citato Roe, allo stesso Mellencamp alla chitarra acustica, un trio di chitarristi sia all’elettrica che all’acustica, Andy York, Marc Ribot e lo stesso T-Bone Burnett, la batteria e le percussioni sono affidate all’ottimo Jay Bellerose. Infine al violino, per esempio proprio nella già citata Right Behind Me la bravissima Miriam Sturm dalla band del Coguaro (lo so che s’incazza, per questo epiteto e per gli orsi di Pippo Baudo).

Tredici brani in tutto, registrati lo scorso anno in alcuni brevi pause del tour con Dylan: c’è il divertente rockabilly (ma rigorosamente primigenio) di No One Cares About Me, oltre 6 minuti che “sicuramente” saranno trasmessi da tutte le radio americane, il singolo ufficiale No Better Than This che è il brano che pur nella sua veste austera è quello che più si avvicina al suono classico à la Mellencamp, qualcuno ha detto Rock and roll? Esatto!

Ma anche l’iniziale Save Some Time To Dream che se devo dire mi sembra qualcosa debba al riff classico di Sweet Jane, rallentato all’ennesima potenza ma rimane il fascino di quel riff inconfondibile, ma molto bello anche il testo che ci dice che nonostante nessuno si curi di lui (o del narratore della canzone) lui avanti lo stesso per la sua strada e continua a credere nell’amore.

Anche il malinconico valzerone country Don’t Forget About Me ci riporta al Mellencamp raffinato storyteller di “beautiful losers”. Each Days Of Sorrow con il suo contrabbasso slappato è un bel blues anni ’50 ai primordi dell’imminente contaminazione tra le due musiche del diavolo, blues e rock and roll.

Easter Eve ci riporta al primo Dylan ma anche al suo maestro Woody Guthrie, il folk da cui sono nati tutti i grandi cantautori americani della prima generazione e così pure la successiva Clumsy Old World che mi ricorda anche molto uno dei tanti “nuovi Dylan” che si sono avvicendati negli anni sino a diventare il “vecchio John Prine”, parafrasando un vecchio titolo si potrebbe dire “It’s Only Folk Music But I Like It”.

Perseverare, gente, perseverare.

Questa è la prima versione di Save Some To Dream che anche Mellencamp ha messo sul suo sito, ce ne sarebbe un’altra di qualità sonora migliore registrata al Farm Aid dello scorso anno e una stupenda, con vista nuche del pubblico, ma vada per questa.

Bruno Conti