Nonostante I Continui Riferimenti Al Suono Di “Quella Band”, Un Bel Disco! John Illsley – Long Shadows

john illsley long shadows

John Illsley – Long Shadows – Creek Records CD

Confesso che per me John Illsley è stato per anni “solo” il bassista dei Dire Straits (hai detto niente, uno degli acts più popolari di sempre), tra l’altro l’unico membro del gruppo, a parte il leader Mark Knopfler, ad essere presente su ogni disco ed in ogni tour della celebrata band inglese. Un paio di dischi solisti negli anni ottanta, passati perlopiù inosservati, e due album agli inizi del nuovo secolo insieme al cantautore irlandese Greg Pearle. Poi nel 2010 mi sono imbattuto quasi per caso in Streets Of Heaven (forse incuriosito da una recensione positiva letta da qualche parte), primo vero lavoro da solista di John dai tempi di Glass (1988), e ne sono rimasto talmente folgorato da metterlo addirittura nella mia top ten dell’anno. Un disco bellissimo, suonato alla grande e con una serie di canzoni superlative, che avevano un unico difetto (ma che per me difetto non era): suonavano in tutto e per tutto come brani inediti del gruppo grazie al quale Illsley era diventato famoso, le stesse atmosfere laidback, una chitarra dal timbro decisamente “knopfleriano”, ed anche la voce sussurrata di John che ricordava molto quella del suo ex boss; per dirne una,  l’opening track Toe The Line da sola era meglio di tutto il materiale incluso in On Every Street, l’ultimo deludente album di studio dei Dire Straits. Nel 2014 Illsley ha pubblicato il discreto Testing The Water, nettamente inferiore al precedente, nonostante la presenza di Knopfler in qualche brano, e lo scorso anno è uscito il godibile Live In London, un album dal vivo ben fatto che però scontava l’effetto cover band quando John intonava i pezzi degli Straits, canzoni che non gli appartengono se non perché ci ha suonato.

E’ quindi con interesse che mi sono avvicinato al nuovo Long Shadows, e devo dire che ne sono rimasto soddisfatto: il CD, otto canzoni per 35 minuti di musica, è molto meglio di Testing The Water ed appena un gradino sotto a Streets Of Heaven, e presenta una serie di ottime canzoni (tutte di John) al solito ottimamente suonate e cantate con buon piglio dal nostro, che come voce non è eccezionale ma molto meglio di tanti altri sidemen che si mettono a fare i solisti (chi ha detto Bill Wyman?), con un timbro che ricorda abbastanza quello di Knopfler ma ha anche dei punti in comune con Leonard Cohen, anche se il canadese ha una tonalità più profonda. Certo, il disco presenta sempre il solito “difetto”, cioè di suonare più Dire Straits di quanto non facciano gli album solisti di Knopfler, ma, ripeto, se le canzoni ci sono per me non è assolutamente un problema. Gran parte del merito (o della responsabilità, a seconda dei punti di vista) del suono va al polistrumentista nonché produttore Guy Fletcher, membro degli Straits dal 1984 e compagno di lungo corso del Knopfler solista, uno quindi che in questi suoni ci sguazza; nel disco troviamo anche fior di musicisti (oltre a John che suona la chitarra acustica oltre naturalmente al basso e Fletcher alle tastiere), come l’ex Pretenders e Paul McCartney band Robbie McIntosh alla solista, Phil Palmer ancora alla sei corde (uno che ha suonato davvero con tutti, da Bob Dylan, Eric Clapton, Roger Daltrey, fino ai nostri Lucio Battisti, Pino Daniele e…Paola E Chiara!), Steve Smith al piano e Paul Beavis alla batteria, ed una serie di backing vocalists utili a sostenere la voce non certo potente del leader.

Il CD a dire il vero comincia in maniera particolare, con uno strumentale intitolato Morning, per piano, chitarra acustica arpeggiata e quartetto d’archi, un inizio imprevisto ma poi se vogliamo neanche tanto strano se pensiamo a brani come Private Investigations (l’uso della chitarra lo ricorda vagamente); con In The Darkness si entra nel vivo, un suggestivo uptempo molto raffinato anche se derivativo (indovinate da che cosa), la voce knopfleriana di John intona una melodia decisamente orecchiabile, sostenuta a dovere dal big sound creato dal gruppo, compreso un assolo chitarristico denso di riverberi. L’inizio di Comes Around Again è puro Straits sound, dall’accompagnamento vellutato alla chitarrina evocativa, ma poi la canzone prende una direzione quasi da western song, ancora caratterizzata da una melodia fluida ed un ottimo ritornello corale, mentre There’s Something About You è una ballata soffusa e di gran classe, con una strumentazione rarefatta che ha quasi dei punti in comune con il suono di Daniel Lanois, mentre la melodia è più dalle parti di Cohen: decisamente il brano meno dipendente dall’ex gruppo di Illsley. Ship Of Fools (i Grateful Dead non c’entrano, la canzone è originale come tutte le altre) è ancora una raffinatissima ballad (la classe non manca al nostro) che sconfina addirittura nello stile del Knopfler solista, soprattutto per il sapore leggermente folk (e qui vedo lo zampino di Fletcher), ma il motivo ed il refrain sono di primissima qualità, come anche la coda strumentale; Lay Me Down sembra quasi una outtake da Brothers In Arms, un delizioso e vivace motivo con un tocco country, di quelli che fanno muovere da subito il piedino. L’album si chiude in crescendo con la splendida Long Shadow, una rock song trascinante e dal ritmo acceso, bella slide ed altro chorus diretto e fruibile, e con Close To The Edge, brano d’atmosfera suonato alla perfezione e con la chitarra che ricorda indovinate chi, ma il brano sta in piedi sulle sue gambe, ed anzi si propone come uno dei più riusciti.

Se, come me, avete sempre considerato John Illsley soltanto un ottimo bassista, accaparratevi Long Shadows (ma anche Streets Of Heaven) e forse comincerete a cambiare opinione. E poco importa se penserete di avere fra le mani un disco dei Dire Straits cantato da un altro.

Marco Verdi

Sempre La Solita Zuppa? Sì, Ma E’ Un Ottimo E Saporito Gumbo! Tony Joe White – Rain Crow

tony joe white rain crow

Tony Joe White – Rain Crow – Yep Roc CD

Credo che Tony Joe White, musicista di lungo corso originario della Louisiana, nella sua carriera abbia guadagnato di più con le versioni dei suoi brani fatte da altri che con i suoi dischi. In particolare citerei Polk Salad Annie, uno dei maggiori successi dell’ultimo periodo di Elvis Presley (ed anche nella versione di White unico suo brano da top ten), ma anche Rainy Night In Georgia, hit del soulman Brook Benton  (incisa, tra gli altri, anche da Ray Charles, Otis Rush, Boz Scaggs e Johnny Rivers) e, nel 1989, Steamy Windows nella versione di Tina Turner. Comunque White da solista non ha mai conosciuto il successo vero, nonostante una discografia che parte dal 1969 e che ha conosciuto qualche battuta d’arresto solo negli anni ottanta, pur avendo inventato un sottogenere, lo swamp rock, ed avendo influenzato diversi colleghi, tra cui sicuramente Mark Knopfler e J.J. Cale (che a sua volta ha ispirato l’ex leader dei Dire Straits). Però White ha sempre fatto la sua musica, fregandosene delle mode, e pertanto è sempre stato fuori dal giro che conta, pur essendo portato in palmo di mano da musicisti e critici: il classico artista di culto, ed anche un musicista “rassicurante” per i suoi fans, in quanto da lui si sa sempre cosa aspettarsi (mentre i detrattori potrebbero asserire che fa dischi tutti uguali).

La sua musica infatti è una miscela molto annerita di rock e blues, influenzata dai bayou della Louisiana e con un suono della chitarra molto particolare, un laidback decisamente paludoso, ed un cantato che va di conseguenza: Tony Joe non è mai stato un grande vocalist, ma il suo timbro cupo è perfetto per il suo tipo di sound. Un sound che è poi lo stesso reso popolare dai Creedence Clearwater Revival, anche se John Fogerty non è un vero born on the bayou, essendo originario della California. Neppure in anni recenti White ha mai mollato il colpo, ma anzi ha realizzato alcuni dei suoi dischi più belli, come The Heroines del 2004, pieno di duetti al femminile con Emmylou Harris, Shelby Lynne, Lucinda Williams e Jessi Colter, ed Uncovered del 2006, con grandi ospiti come Knopfler, Cale, Eric Clapton e Waylon Jennings. A tre anni di distanza dal discreto Hoodoo, ora White pubblica Rain Crow, un CD con nove canzoni nuove di zecca (due delle quali scritte con la moglie Leann White ed una con l’attore/musicista Billy Bob Thornton) che posso tranquillamente collocare tra i suoi più riusciti, almeno in anni recenti. Certo, non c’è nulla di nuovo, Tony fa esattamente il tipo di musica che ci si può aspettare da lui, ma è in ottima forma, le canzoni sono valide, i musicisti pure (a parte Tony sono solo in tre: Steve Forrest al basso e Bryan Owings alla batteria forniscono una sezione ritmica coi fiocchi, e Tyson Rogers colora il tutto con il suo organo hammond) e la produzione, a cura di Jody White (figlio di Tony) è molto diretta e con gli strumenti ben separati tra loro.

E poi, naturalmente, c’è White con la sua tipica chitarra swamp. Hoochie Woman apre il CD con un ritmo sostenuto, un basso molto pronunciato, e subito Tony con i suoi tipici fraseggi e la sua voce profonda, e l’organo sullo sfondo a riempire gli spazi. The Bad Wind è più scura, l’atmosfera è quasi minacciosa, la chitarra si staglia sopra una ritmica volutamente soffusa, ed il brano assume toni cupi e foschi, un classico blues delle paludi. Con la title track rimaniamo in territori swamp (ma con Tony sono quasi cinquant’anni che siamo in quei territori), brano cadenzato ed annerito, con il nostro che canta, parla, soffia nell’armonica e rilascia brevi assoli “fogertyiani” (oppure è John che li fa “tonyjoewhitiani”?). The Opening Of The Box è uno swamp-blues pressante, Tony usa anche il pedale wah-wah, ma la sua vocalità “pigra” ci riporta sulla terra: come canzone forse non è niente di che, ma il modo sporco con cui è suonata le fa guadagnare punti. Right Back In The Fire ha un ritmo intrigante ed una linea melodica insolita per il nostro, che canta anche in maniera rigorosa, con deliziosi spunti chitarristici ed un ottimo organo alle spalle: se la sente Knopfler gli piace di sicuro https://www.youtube.com/watch?v=ptR-UDs5O6Y . Se a The Middle Of Nowhere sostituiamo la voce di Fogerty a quella di White avremo un brano Creedence al 100% https://www.youtube.com/watch?v=zoOh_VTMD6U , anche se qui l’indice di “fangosità” è decisamente più alto; Conjure Child è quasi attendista, ma il suono cupo si insinua piano piano, grazie anche alla voce quasi narrante di Tony, ed alla fine il brano coinvolge appieno. Il CD si chiude con la fluida e scorrevole Where Do They Go (non ho detto solare, queste sono tutte canzoni da luna piena, ecco, Full Moon Songs potrebbe essere un bel titolo per un suo futuro album, devo fare in modo di segnalarglielo) e con Tell Me A Swamp Story, un titolo che dice tutto https://www.youtube.com/watch?v=QbXJTpNMj8U . Un altro bel disco per Tony Joe White: se vi piace il genere, non resterete delusi.

Marco Verdi

Se Sono Bravi Li Troviamo Sempre! D.L. Duncan – D.L. Duncan

d.l. duncan

D.L. Duncan – D.L. Duncan – 15 South Records

Dave Duncan, per l’occasione D.L. Duncan, è uno dei tanti “piccoli segreti” che costellano la scena musicale americana, con una carriera lunga più di 35 anni (o così riportano le sue biografie), anche se discograficamente è attivo solo dagli anni duemila, con un paio di album a nome proprio e uno come Duncan Street, in coppia con l’armonicista Stan Street, uno stile che partendo dal blues incorpora anche alcuni elementi country (in fondo vive e opera a Nashville) e di Americana music, oltre a sapori soul e R&B, presi da Lafayette, Louisiana, l’altra città in cui è stato registrato questo album. Duncan si è sempre circondato di musicisti di pregio, e se nei dischi precedenti apparivano Jack Pearson, del giro Allman, Reese Wynans e Jonell Mosser, oltre a Kevin McKendree e il suo datore di lavoro Delbert McClinton, in questo nuovo lavoro, in aggiunta agli ultimi due citati, appaiono anche Sonny Landreth, David Hood. Lynn Williams e le McCrary Sisters, oltre ad una pattuglia di agguerriti musicisti locali; produce lo stesso D.L. Duncan, con l’aiuto dell’ingegnere del suono Tony Daigle, più volte vincitore di Grammy Awards, recente produttore anche dell’ultimo disco di Landreth.

Il suono è quello classico che ci piace, molto blues e country (poco tradizionale) molto got soul, ma anche rock chitarristico e non mancano neppure vivaci ballate tra New Orleans e il Randy Newman più elettrico, il tutto condito dalla voce laconica ma efficace di Duncan, che è pure ottimo chitarrista. Si passa dal ciondolante e divertente groove dell’iniziale I Ain’t The Sharpest Marble, con il piano di McKendree e l’armonica di McClinton a dare man forte alla solista efficace e variegata di Duncan, al poderoso e tirato rock-blues di Dickerson Road, dove la chitarra del nostro si colloca tra il Santana più bluesy e Mark Knopfler dei primi Dire Straits, con continui lancinanti rilanci e un efficace lavoro di raccordo di McKendree, oltre a Hood che pompa di gusto sul suo basso. You Just Never Know è puro Chicago blues elettrico, di nuovo con McClinton all’armonica e McKendree che passa al piano, oltre alle McCrary Sisters che aggiungono la giusta dose di negritudine, il resto del lavoro lo fa una slide tagliente. Che torna, presumo nella mani di Landreth, per una vigorosa Your Own Best Friend, dove tutta la band conferma ancora una volta il suo valore, Duncan e le McCrary cantano con grande impegno, la ritmica e le tastiere lavorano di fino e il pezzo si ascolta tutto di un fiato https://www.youtube.com/watch?v=P_NDU1bA68M . I Know A Good Thing, scritta con Curtis Salgado (il resto dell’album è quasi tutto firmato dallo stesso Duncan) è un altro minaccioso blues d’atmosfera, costruito intorno a un giro di basso di David Hood che ti arriva fino alle budella, sempre con ottimo lavoro alla bottleneck del nostro amico, che pure lui non scherza come slideman.

Sending Me Angels è una bellissima ballata country-blues, scritta da Frankie Miller (altro grandissimo pallino di chi vi scrive) e cantata in passato anche da McClinton, eccellente il lavoro al dobro di Duncan e di McKendree all’organo con le McCrary che aggiungono una quota gospel con le loro deliziose armonie vocali, una sorta di Romeo & Juliet in quel di Nashville https://www.youtube.com/watch?v=xE3LGA7jyNY . Orange Beach Blues, una specie di autobiografia in musica, è comunque grande musica sudista, profumo di blues, di Texas e Louisiana, quella anche delle canzoni di Randy Newman a cui Duncan assomiglia moltissimo nel cantato di questo brano, che poi è un quadretto sonoro che rasenta la perfezione, e con un finale chitarristico di grande fascino. St. Valentine’s Day Blues è la slow ballad avvolgente e malinconica alla B.B. King che non può mancare in un disco come questo, sempre con la chitarra di Duncan in grande evidenza. Sweet Magnolia Love sembra un pezzo di Ry Cooder da Bop Till You Drop o quelli con la coppia di compari Bobby King e Terry Evans, qui sostituiti dalle voci delle bravissime sorelle McCrary, e la chitarra viaggia sempre che è un piacere https://www.youtube.com/watch?v=QEkp3aAcGOc . E a chiudere il tutto All I Have To Offer You Is Love, una bella ballata di stampo knopfleriano scritta da Craig Wiseman, noto autore di brani country in quel di Nashville, di nuovo eccellente il lavoro di Duncan, qui ancora a dobro e mandolino e con il prezioso contributo di David Pinkston alla pedal steel https://www.youtube.com/watch?v=wnx9YqRyATI . Sarà pure piccolo, ma rimane un gioiellino di disco, non facile da recuperare ma la vale la pena cercarlo!

Bruno Conti    

Con Tutta La Buona Volontà Non Riesco A Stroncarlo! Rod Stewart – Another Country

rod stewart another country

Rod Stewart – Another Country – Capitol CD

Piccola premessa: a me Rod Stewart è sempre stato simpatico. Mi è sempre piaciuto il suo spirito un po’ guascone, la sua espressione da furbetto, le sue passioni mai nascoste, oltre che per la musica, per calcio, donne e whisky (non necessariamente in questo ordine). Ma, per quanto possa essere ben disposto nei suoi confronti, il critico che è in me deve vedere le cose da un lato oggettivo, ed ammettere che musicalmente il buon Rod non azzecca un disco da quasi quaranta anni. Stewart ha indubbiamente avuto un inizio di carriera sfolgorante, prima con i due mitici primi dischi del Jeff Beck Group (Truth e Beck-Ola), nei quali era la voce solista, poi con una serie di album solisti che variavano dal buono all’ottimo, ed in cui riusciva ancora a coniugare vendite eccellenti e bella musica (Every Picture Tells A Story, Smiler e gli “americani” Atlantic Crossing e A Night On The Town i miei preferiti), fino alla strepitosa carriera parallela con i grandi Faces, una delle rock’n’roll band più influenti del periodo (chiedere ai Black Crowes per informazioni). L’ultimo suo disco decente è stato Foot Loose And Fancy Free, ma già dal seguente Blondes Have More Fun Rod ha cominciato ad annacquare la sua musica con ritmi disco (la famigerata Da Ya Think I’m Sexy?, ma non solo) e con un pop da classifica che sicuramente gli ha regalato molte soddisfazioni finanziarie ma che gli ha anche alienato gli estimatori della prima ora. Da quel momento, qualche discreta canzone sparsa qua e là, ma quasi mai bei dischi tutti interi (Vagabond Heart del 1991 non era malaccio, come le canzoni nuove del semi-antologico Lead Vocalist del 1993, mentre l’Unplugged dello stesso anno era uno dei migliori della serie patrocinata da MTV, ma era pur sempre un live), fino a quando, nel corrente millennio, il biondo scozzese si è messo in testa di riproporre i grandi classici della canzone americana con l’interminabile serie The Great American Songbook, con esiti che definire soporiferi è voler essere generosi.

Nel 2013, il nostro ha infine deciso di riprendere a scrivere canzoni (ha sempre funzionato meglio come interprete, specie negli ultimi anni), e l’album che ne è risultato, Time, non era nemmeno da buttare, non certo un capolavoro, ma ci faceva risentire barlumi del vecchio Rod, pur non essendo certo privo di difetti: il successo ottenuto (primo numero uno in Inghilterra dal 1976) lo ha convinto a continuare sulla stessa strada, ed il frutto delle sue fatiche è il nuovo Another Country. L’album prosegue sulla falsariga del suo predecessore: Rod scrive (quasi) tutti i brani di suo pugno, in collaborazione con Kevin Savigar (i due sono anche i produttori) e, oltre alla consueta miscela di pop e ballate che lo hanno reso ricco e famoso, abbiamo molti riferimenti alle sue radici celtiche, quindi più di un aggancio al folk e persino qualcosa di country (e, ahimè, di reggae), con un risultato finale che, anche se non lo farà rientrare certo tra i dischi preferiti di chi frequenta abitualmente questo blog, non lo classifica nemmeno come ciofeca. Diciamo che dodici brani nell’edizione normale e diciassette in quella deluxe sono forse un po’ troppi, si poteva fare tranquillamente un disco con le dieci canzoni più riuscite ed avremmo probabilmente avuto il miglior disco di Rod dagli anni settanta. Oltre a Savigar, soprattutto alle tastiere, nel disco suonano una lunghissima serie di sessionmen che non sto ad elencare per non tediarvi (tanto non ne conosco mezzo), a parte Joanna Jacoby al violino, Don Kirkpatrick e Mike Severs alle chitarre, Emerson Swinford al banjo e ukulele e la sezione ritmica composta da Conrad Korsh e Iggy Grimshaw (rispettivamente basso e batteria).

Love Is, che è anche il primo singolo, apre il disco quasi alla maniera di Mark Knopfler, con un malinconico violino a ricamare un’aria molto irish, poi entrano chitarra acustica, banjo e la voce di Rod che intona una melodia molto gradevole, con un bel crescendo ritmico alle spalle: non male come inizio. Anche Please mantiene il disco su livelli buoni, un brano decisamente più elettrico e dal ritmo sostenuto, ma con un arrangiamento rock solido e senza sbavature, mentre Walking In The Sunshine, sempre molto mossa, ci riporta il Rod più commerciale, con una canzone orecchiabile e solare (normale, visto il titolo), ma comunque non da buttare. Love And Be Loved è il tanto temuto (da me) reggae, ed il nostro in queste vesti ha la stessa credibilità di un politico italiano che prometta le riforme, mentre We Can Win ha ancora quel sapore irlandese che la rende piacevole, anche se la confezione è un po’ ridondante (ma questo è Stewart, prendere o lasciare). La title track mi piace, ha una melodia perfetta per il singalong (Rod è ruffiano come pochi al mondo), e con una mano più leggera poteva essere un signor brano; Way Back Home è uno slow un po’ troppo sdolcinato, e qui sorvolerei volentieri, così come Can We Stay Home Tonight?, che non sarebbe male come ballad, ma suona come un disco di Eric Clapton degli anni ottanta, quando si faceva produrre da Phil Collins. Batman, Superman, Spiderman, a parte il titolo idiota (allora perché non anche Ironman e i Fantastici Quattro?), prosegue con il mood sonnolento, dopo un buon inizio il CD si sta sedendo (anzi, coricando); The Drinking Song ha finalmente un po’ di brio, ed un arrangiamento più in linea con i miei gusti (alla Maggie May, per intenderci), una slide sbarazzina ed un bel refrain, uno dei pezzi miglior https://www.youtube.com/watch?v=7rV3ZAzlle4 i.

Hold The Line (scritta e prodotta da tali RedOne e TinyIsland) vorrebbe essere un pezzo country-folk, e tutto sommato Rod se la cava, pur senza fare sfracelli, mentre A Friend For Life (cover di un brano di Steve Harley), torna ad aumentare il tasso zuccherino, e ne avrei fatto anche a meno. Every Rock’n’Roll Song To Me, che inaugura la versione deluxe, non mantiene del tutto quello che promette il titolo, ma ha un tiro discreto e poi Rod ha classe da vendere; One Night With You è un errebi radiofonico tipico del nostro, si fa ascoltare ma non lascia traccia. In A Broken Dream merita un discorso a parte: è infatti la versione extended di un pezzo del 1968 della semisconosciuta band australiana Phyton Lee Jackson, il cui cantante David Bentley non si sentiva in grado di cantare questo brano e chiamò un allora sconosciuto Rod Stewart a fare le sue veci (non accreditandolo poi sul singolo); Rod si prende qua la sua rivincita (ne registrò un’altra versione nel 1992, con David Gilmour e John Paul Jones https://www.youtube.com/watch?v=-S9kuSLtupM ), ed il brano si staglia potente ed epico, con un tappeto sonoro tipico dell’epoca, un organo in grande spolvero ed uno stile che a me ricorda un po’ gli Animals di quegli anni: una canzone strepitosa, ma non vale in quanto è di quasi cinquanta anni fa. L’album si chiude, stavolta sul serio, con la solare Great Day, discreta, e con Last Train Home, trascurabile.

Se qualcuno sperava nel ritorno del Rod Stewart degli esordi rimarrà deluso, ma comunque Another Country non è neppure una schifezza totale: non vi sto dicendo di correre a comprarlo, ma se a Natale ve lo regalano prima di riciclarlo al vicino di casa dategli un ascolto.

Marco Verdi

E’ Una Delle “Girls With Guitars”, Ma Suona Il Basso! Heather Crosse – Groovin’ At The Crosse Roads

heather crosse - groovin' at the crosse roads

Heather Crosse – Groovin’ At The Crosse Roads – Ruf Records/Ird 

Heather Crosse è al suo secondo album del 2015, il primo è uno sforzo di gruppo, come componente delle Girls With Guitars – Blues Caravan 2015, con l’italiana Eliana Cargnelutti e la compatriota Sadie Johnson, che sono le due vere “ragazze con le chitarre”, per Heather dovremmo dire “girl with bass”, in quanto siamo di fronte ad una bassista, e pure di quelle brave, oltre che ottima cantante dalla voce duttile e molto adattabile a generi diversi. Nel disco in trio il sound è decisamente più rock, oltre ai pezzi firmate dalle tre ragazze ci sono cover di Tush degli ZZ Top https://www.youtube.com/watch?v=gENAaIDwlkI , brani di Dave Mason (la celeberrima Feelin’ Alright) e Joan Jett, mentre nel primo album solista di Heather Crosse (sempre prodotto da Jim Gaines, che come sapete chi scrive non ama alla follia, ma in questo caso ha fatto un ottimo lavoro) si vira decisamente sul blues, ma sempre tenendo conto di una forte componente soul e R&B. La nostra amica è nata in Louisiana, ma ormai da qualche anno vive a Clarksdale, Mississippi, una delle culle del blues, dove da otto anni con la sua band Heavy Suga’ & the SweeTones accompagna artisti come Bob Margolin, Guitar Shorty, Jody Williams e James “Super Chikan” Johnson, quando passano in città.

Questo Groovin’ At The Crosse Roads, undici brani, 40 minuti di musica, è un bel biglietto da visita per la musicista americana: accompagnata dalla sua band abituale, Lee Williams alla batteria, Mark Yacovone (conoscevo Seth Yacovone, ma quello è un chitarrista) alle tastiere e  Dan Smith alle chitarre, gente di valore che ha suonato con BB King, Kenny Brown, Maria Muldaur, Anson Funderburgh, Smokin’ Joe Kubek e altri, con un repertorio che comprende cinque brani composti da Heather e sei cover di brani non celeberrimi ma che illustrano anche il suo passato di appassionata, oltre che di blues anche di musica Motown (forse da lì la decisione di diventare una bassista) oltre che di soul music e R&B, con pezzi scelti per esempio dal repertorio di Etta James, una gagliarda Damn Your Eyes, un bel esempio di buona musica soul sudista, con basso e batteria essenziali ma di gran classe, ma anche un raffinato lavoro di chitarra solista, piano e organo Hammond che evidenziano le componenti blues, mentre Heather dà tutto quello che ha nel reparto vocale (ovviamente la James e le grandi cantanti soul hanno ben altro spessore ma la ragazza si difende con onore). Ogni tanto si sfiora il plagio, Steppin’ Up Strong, firmato dalla Crosse ha un giro di accordi che ricorda molto quello di People Get Ready, ma si sa le note sono sette e comunque l’arrangiamento, con una chitarra limpida e sgargiante che ricorda il miglior Mark Knopfler degli inizi, oltre all’organo sudista e ai coretti deliziosi, fanno sì che il tutto si ascolti con gran piacere e poi lei canta veramente bene, mi ricorda un poco la texana Toni Price (che non fa dischi da tempo, ho controllato oggi, siamo sempre fermi al 2010, in attesa dell’originale un buon surrogato) con la giusta grinta e un cantato essenziale ma di spessore.

Rockin’ Chair è stato un successo del soul morbido di metà anni ’70 per Gwen McRae, un brano solare e leggero dal ritmo irresistibile, veramente adorabile con le sue chitarrine choppate, coretti pre-disco e organo hammond d’ordinanza, e pure Hurryin’ Up To Relax ha questa aria laid-back che ti predispone al buon umore, piano elettrico e organo perfetti e poi sempre con quella chitarrina che si insinua sotto pelle. Ma anche quando Heather Crosse vira sul blues i risultati sono assolutamente all’altezza: My Man Called Me era un vecchio pezzo del repertorio di Big Mama Thornton e anche se quei livelli sono lontani, lo spirito del blues non manca in questa versione molto swingata. E pure quando si cimenta con pezzi propri, come nell’ottima Walkin’ In Their Shoes si sente che la Crosse ha il blues nel sangue e Yacovone alle tastiere e Smith alle chitarre, anche slide, sono musicisti di indubbio valore https://www.youtube.com/watch?v=xiOzkZeLmDw . Non manca anche l’autoironia come nella divertente e ritmata Why Does A Woman Need A Bass Guitar, dove dimostra pure la propria abilità allo strumento. Nella parte blues da ricordare ancora una decisa Clarksdale Shuffle che tiene fede al titolo, una Bad Boy Kiss virata funky, un altro shuffle deciso come Call On Me e You Don’t Move No More altro pezzo dal songbook della Thornton, dove la Masse estrae il meglio dalla sua ugola con risultati decisamente confortanti.

Bruno Conti

Anche Per Loro Quest’Anno Sono 50! Kim Simmonds And Savoy Brown – The Devil To Pay

kim simmonds & savoy brown

Kim Simmonds And Savoy Brown – The Devil To Pay 

Da qualche anno a questa a parte, più o meno in coincidenza con l’inizio della seconda decade degli anni 2000, Kim Simmonds ed i suoi Savoy Brown (ma sempre lui è) sembrano avere recuperato una certa consistenza qualitativa a livello discografico, ripulendo una immagine di band leggendaria che si era deteriorata dopo intere decadi di dischi stanchi, triti e ritriti, ripetitivi, poco appetibili anche per i fans più accaniti del vecchio British blues. Dal vivo, sia con dischi nuovi come con pubblicazioni di materiale inedito d’archivio Simmonds e soci avevano mantenuto una loro dignità (come confermato anche dall’ottimo Songs From The Road, uscito un paio di anni or sono http://discoclub.myblog.it/2013/05/08/era-l-ora-savoy-brown-songs-from-the-road/ e dal recentissimo Still Live After 50 Years, un doppio CD registrato a New York venduto solo ai concerti e sul loro sito), ma anche in studio, dopo la firma con la Ruf, hanno sfornato alcuni album di buona fattura, non parliamo di capolavori, ma Voodoo Man del 2011, Goin’ To The Delta, disco registrato in trio dello scorso anno e ora questo The Devil To Pay, sempre con formazione a tre, segnalano una ritrovata vena compositiva di Simmonds, anzi, dirò di più, in passato il biondo Kim non aveva mai scritto così tanti brani, se consideriamo che gli ultimi CD contengono esclusivamente materiale a propria firma, cosa mai successa.

Forse l’idea di divenire anche il cantante fisso della formazione si poteva evitare, perché, per quanto mi sembri di notare un certo miglioramento nelle sue performance vocali degli ultimi anni, il nostro amico non è mai stato un gran cantante e messo a confronto con gente come Chris Youlden, Lonesome Dave Peverett o Dave Walker e Paul Raymond che cantavano in Street Corner Talking,  il disco a cui Simmonds dice di essersi ispirato per il tipo di approccio usato nel nuovo album, registrato in pochi giorni in uno studio di New York nell’aprile di quest’anno, dopo un accurato lavoro di preparazione ed arrangiamento delle canzoni che avrebbero fatto parte del progetto nel suo studio personale casalingo. Le canzoni, come nel caso del precedente Goin’ To The Delta, sono tutte nuove, ma è innegabile che se uno ci si mette di impegno in ognuna si trovano echi, ritmi, riff, idee che vengono dalla storia del blues e del rock (come ha fatto un critico per il succitato disco precedente, un brandello di Chicago Blues, Hound Dog Taylor e Muddy Waters, un riff di chitarra di Son Seals o Buddy Guy, un attacco di Ted Nugent o degli ZZ Top, un ritmo alla Bo Diddley o una “scivolata” di bottleneck).

E la voce, ripeto, pur migliorata, si può paragonare ad un Mark Knopfler con la raucedine, in effetti quando non alza il tono tutto bene, quando si sforza di essere più vigoroso non ci siamo. Però poche righe fa avevo detto che il disco è piuttosto buono e lo confermo. Le parti chitarristiche sono decisamente valide, con punte di eccellenza qui e là, la sezione ritmica di Pat DeSalvo al basso e Garnett Grimm alla batteria è tra le migliori con cui ha suonato negli anni e i pezzi, sia pure sentiti mille volte, suonano comunque freschi, arrangiati con cura ed eseguiti con grande passione. Dallo slow blues appassionato e dall’atmosfera melanconica di Ain’t Got Nobody, con la vecchia Epiphone di Simmonds che traccia traiettorie calde e ricche di feeling, al classico Chicago Blues ritmato e travolgente di Bad Weather Brewing che ricorda proprio il sound classico dei migliori Savoy Brown, rigoroso ma con il vigore del rock nel suo DNA https://www.youtube.com/watch?v=RznhCkZ-VWY , passando per la tirata Grew Up In The Blues, dove la voce mostra i suoi limiti ma la chitarra vola fluida o nello shuffle When Love Goes Wrong, sempre pimpante, il vecchio Kim, 68 anni quest’anno e 50 di carriera alle spalle, ancora una volta dimostra perché è sempre stato considerato uno dei grandi del blues britannico. Ogni tanto si cimenta anche all’armonica, come nella cadenzata Oh Rosa, o in ritmi diddleyani come nella title-track https://www.youtube.com/watch?v=3Xrfkwn4T6o , ci delizia nello strumentale Snakin’ che ricorda quelli dei vecchi maestri dello strumento https://www.youtube.com/watch?v=lYRl-2YoQSU , ed eccelle di nuovo in un lento lancinante come Got An Awful Feelin’, senza dimenticare una cavalcata slide con la sua Gibson 335 nella vorticosa I’ve Been Drinking https://www.youtube.com/watch?v=__ma8TfMvpA . Quindi, con i limiti ricordati, tutto sommato un eccellente disco blues per uno dei maestri del genere.

Bruno Conti

Ancora Irlandesi. Che Serate, Con Amici Vecchi E Nuovi! Paul Brady – The Vicar St. Sessions Vol. 1 (With Mark Knopfler, Van Morrison, Sinead O’Connor, Bonnie Raitt, Mary Black, Maura O’Connell, Moya Brennan, Ecc.)

paul brady vicar st, sessions vol.1

Paul Brady – The Vicar St. Sessions Vol. 1 – Proper Records  

Ci sono i misteri di “Fatima”, e anche i misteri delle industrie discografiche. Quattordici anni fa il cantante irlandese Paul Brady (mi ero già occupato di lui in occasione dell’ultimo Dancer In The Fire, una doppia antologia http://discoclub.myblog.it/2012/05/28/uno-degli-ultimi-bardi-irlandesi-p/), ha suonato per 23 serate consecutive al leggendario Vicar Steet Bar % Club di Dublino ( dove lo scorso anno ho avuto la fortuna di assistere ad un concerto di Christy Moore), con la presenza di numerosi ospiti e amici che ogni sera si alternavano sul palco a cantare con Paul brani del loro repertorio. Ora, una prima selezione di queste canzoni registrate in quel “tour de force” musicale prendono forma, e vengono raggruppate, in questo The Vicar St. Sessions Vol.1 (con la promessa di ulteriori volumi a seguire), dove Brady, anche alla chitarra, sale sul palco del magico locale dublinese accompagnato dalla sua meravigliosa band, composta dal polistrumentista Steve Fletcher alle tastiere, percussioni, basso e voce, Jennifer Maidman alle chitarre acustiche e elettriche, Liam Genockey alla batteria e la brava Leslie Dowdall alla percussioni e armonie vocali, per un “set” virtuale composto da tredici brani (di cui 9 sono “covers”) che danno vita ad un concerto coinvolgente.

Come consuetudine Paul inizia i suoi concerti con I Want You To Want Me (la trovate in Spirits Colliding (95), eseguita, come al solito, al livello di gente come Richard Thompson e John Martyn, per poi far salire sul palco Mark Knopfler per Baloney Again (pescata da Sailing To Philadelphia) con la suo inconfondibile voce e tocco di chitarra, andando poi a ripescare un vecchio brano come The Soul Commotion da Primitive Dance (87) e una sempre commovente Believe In Me tratta da Oh What A World (00), qui riproposta in stile à la Van Morrison, per poi lasciare il palco al duo Gavin Friday e Maurice Seltzer che trasformano la sua bellissima Nobody Knows in un brano crepuscolare che viaggia dalle parti di Lou Reed o Nick Cave, la splendida voce a “cappella” di Sinead O’Connor in In This Heart, e un Van Morrison accolto calorosamente dal pubblico, che canta in duetto con Paul la sua celeberrima Irish Heartbeat (dall’album con i Chieftains), dove il buon Van mi sembra meno svogliato di alcune altre occasioni https://www.youtube.com/watch?v=kbfjVwKxkB4 , anzi, in gran forma!

Si riparte con la classe cristallina di Bonnie Raitt che omaggia Paul con un duetto in Not The Only One (da un album straordinario come Full Moon (86), dove si trovano altre “perle” come Helpless Heart e Steel Claw (portata al successo da Tina Turner), passando poi a Curtis Stigers che presenta la sua Don’t Goi Far (scritta con la brava Beth Nielsen Chapman), il pop melodico (senza fare troppi danni) di Ronan Keating in The Long Goodbye (sempre da Oh What A World), il toccante racconto di un’altra grande artista irlandese Eleanor McEvoy Last Seen October 9th (in memoria di una ragazza scomparsa), il ritorno della Raitt sempre in coppia con Brady nella bluesy The World Is What You Make (da The Paul Brady Songbook (02), andando poi a chiudere il concerto con una stratosferica versione di Forever Young di Dylan, cantata da Paul con un trio di meravigliose voci femminili irlandesi come Mary Black, Maura O’Connell e Moya Brennan dei Clannad (tanto per fare un paragone noi abbiamo avuto e possiamo proporre il Trio Lescano!). Giù il sipario. Per Il momento!

Pur non avendo mai raggiunto le vette della popolarità di altri artisti, Irlanda esclusa (nonostante 16 album al suo attivo e diverse collaborazioni), le sue canzoni godono di grande prestigio, e sono state cantate da una vasta gamma di artisti nel corso degli ultimi quattro decenni, tra cui ricordo Mark Knopfler, Eric Clapton, Joe Cocker, Carole King, Bonnie Raitt, Tina Turner, Mary Black, Maura O’Connell, Trisha Yearwood e molti altri che hanno incluso sue composizioni nel proprio repertorio. Ci sono grande speranze che queste Vicar Street Sessions ottengano il riconoscimento che meritano (certificato dai 17.000 biglietti venduti ai tempi per tutte le serate della serie), e facciano scoprire finalmente, a chi non lo conosce, uno degli artisti più apprezzati e di successo della Emerald Island, un autore dal talento eccezionale che nelle sue esibizioni dal vivo (sia da solo come con la band al completo), trasmette allo spettatore la sensazione di partecipare ad una serata affascinante!

Tino Montanari

Un Vero Cowboy Canadese! Ian Tyson – Carnero Vaquero

ian tyson carnero vaquero

Ian Tyson – Carnero Vaquero – Stony Plain

Ian Tyson, ormai da oltre trenta anni ha deciso di dedicarsi al repertorio delle cosiddette “Cowboy Songs”, tanto da diventarne uno degli interpreti ed autori più amati e rispettati, addirittura due sue canzoni, Navajo Rug e Summer Wages, entrambe tratte dall’album Cowboyography, sono state inserite nella lista delle 100 canzoni Western più importanti di tutti i tempi. Non male per un cantautore che è nato e vissuto in Canada, e che nella sua vita precedente di folk singer ha scritto una delle canzoni più belle degli anni ’60, quella Four Strong Winds, del duo Ian & Sylvia https://www.youtube.com/watch?v=wjfTDPhMdTk , che è considerata una sorta di inno non ufficiale della canzone canadese, eseguita da decine di interpreti, dal Neil Young di Comes A Time, con Nicolette Larson, passando per Dylan, Judy Collins, Joan Baez, Johnny Cash, Waylon Jennings, John Denver, non ultimi i Blue Rodeo, che ne hanno fatto una bellissima versione su The Gift, il disco tributo a Tyson, uscito nel 2007, e che se non avete, vi consiglio di recuperare. Ma quella era un’altra storia https://www.youtube.com/watch?v=W4gQr38Azfo .

the gift tribute to ian tyson

Come si diceva, Ian Tyson si è inserito in questo filone western e nel sottogenere Cowboy Songs, ben frequentato anche da altri autori, Tom Russell, che firma pure un brano di questo Carnero Vaquero, che viene dalla California, ma è un texano d’adozione, o un texano vero come Michael Martin Murphey, per non parlare di Chris Ledoux, un altro che ha costruito una carriera intorno a questo stile e che di mestiere faceva anche il cowboy ai rodeo, o frequentatori più occasionali come il grande Johnny Cash, lo stesso John Denver, o ancora specialisti come Don Edwards e Marty Robbins,  e ci fermiamo qui, se no diventa la lista della spesa. Tyson, ormai veleggia per gli 82 anni e nonostante, abbia avuto problemi alle corde vocali, non ha diradato le sue uscite discografiche, anzi, negli ultimi dieci anni ha pubblicato sei album, compreso questo. La voce risente dell’età e degli acciacchi del tempo, ma è ancora piuttosto buona e la penna regala buone canzoni agli appassionati del genere.

E poi, anche se Ian Tyson è presentato come “The Legendary Singing Cowboy”, le sue canzoni, almeno musicalmente, non sono rigidamente inserite in un sound western puro, raccontano storie, miti e leggende del West, ma il suono è più vario di quello che si potrebbe pensare: accompagnato da Thom Moon, Gord Maxwell e Lee Warden alla chitarra, il repertorio del nuovo album si apre con una ballata atmosferica come Doney Gal, un vecchio traditional, dove delle tastiere suggestive introducono il tema del brano, prima dell’ingresso dei musicisti appena citati https://www.youtube.com/watch?v=kZdqVBgaMvM , per un tipico suono western che viene ribadito in una Colorado Horses, scritta da Will Dudley, che sembra provenire dal repertorio di Joe Ely, Tom Russell, ma anche del miglior Johnny Cash, una western song incalzante e dal ritmo quasi a tempo di valzer, inconfondibile. Will James è un brano più discorsivo, sempre una storia tipica che viaggia sulle ali di una ritmica discreta ma ben presente, belle armonie vocali e fraseggi di chitarra, sia elettrica che acustica, semplici ma ben eseguiti, qualche tocco ben piazzato di pianoforte, affidato alle sapienti mani di Catherine Marx, che è la tastierista dell’album, oltre ad occuparsi della fisarmonica, altro ingrediente immancabile nel genere, in un brano mosso come Jughound Ronnie, una delle due canzoni scritte da Ian Tyson in coppia con Kris Demeanor, giovane artista canadese.

Darcy Farrow, uno dei brani non firmati dal nostro, viene dal passato, una canzone scritta da un giovane Steve Gillette, che fu uno dei primi successi di Ian & Sylvia (ma forse la ricordate anche nelle versioni di John Denver e Nanci Griffith), con la voce di Tyson che mostra lo scorrere del tempo, malinconica e leggermente spezzata, con le tastiere che comunque aggiungono un pizzico di modernità a questa evocativa folk song. Molto bella anche The Flood, l’altra canzone scritta con Demeanor, una ballata avvolgente che stilisticamente forse c’entra poco con le western songs, ma si ascolta con piacere, grazie alla classe innata di Tyson. Shawnie, il brano più lungo del disco, dopo un inizio in sordina si trasforma in un pezzo elettrico, quasi alla Mark Knopfler, ritmo incalzante, una bella chitarra elettrica a caratterizzarne il sound https://www.youtube.com/watch?v=UuJ9ef-mXzw , e pure la lenta e sognante Chantell, forse sembra più un brano del Willie Nelson melodico che una cowboy song; molto piacevole ed epica anche Wolves No Longer Sing, la canzone scritta con Tom Russell (come in passato fu per Navajo Rug), con florilegi del piano della Marx ad impreziosirla. Chiude Cottonwood Canyon dove il violino di Scott Duncan, altro giovane musicista canadese, è il valore aggiunto di una canzone, che suona proprio come una perfetta country song vecchia maniera https://www.youtube.com/watch?v=8PXe7XkBy6g . L’età avanza ma la classe non demorde.

Bruno Conti     

Un Chitarrista Per Chitarristi (Non Solo)! Mike Henderson Band – If You Think It’s Hot Here

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The Mike Henderson Band – If You Think It’s Hot Here – Eller Soul Records

Questo signore, partito dal natio Missouri per recarsi a Nashville, dove sarebbe diventato uno stimato sessionman, prima come mandolinista e chitarrista slide, poi anche armonicista (e se serve, violinista), nel corso degli anni ha sviluppato una carriera solista parallela che lo ho portato ad essere uno degli artisti “indipendenti”  più amato dai colleghi. Mark Knopfler, che ha firmato le note per il suo album del 1996 First Blood (uno dei migliori di Mike, il secondo album uscito per la Dead Reckoning, etichetta fondata insieme a Kieran Kane, Kevin Welch, Tammy Rogers) gli valse poi, anni dopo, la chiamata a far parte della Band di Knopfler nel Sailing to Philadelphia Tour. Recentemente lo si è visto e sentito, come armonicista, nel fantastico Muddy Wolf At Red Rocks di Bonamassa e il chitarrista newyorkese, nello scrivere le brevi note di questo nuovo If You Think it’s Hot Here, si è chiesto perché non gli abbia chiesto di cantare almeno un brano in quella serata (e di suonare la chitarra, magari slide, aggiungiamo noi, infatti attualmente fa parte della touring band di Joe). Ma Mike Henderson, anche se non incideva un disco solista dal 1999, è veramente un uomo per tutte le stagioni, country, blues e rock sono stati il suo pane quotidiano, è un ottimo autore, tanto che Adele ha interpretato la sua If It Hadn’t Been For Love per il Live At The Royal Albert Hall; con la band bluegrass Steeldrivers di cui fu uno dei membri fondatori nel 2008, insieme all’amica Tammy Rogers, ha inciso due album, anche se nel nuovo CD firma solo tre brani, insieme ad un paio di rivisitazioni di classici e alcune cover di stampo decisamente blues.

Perché, in effetti, pur con tutte le influenze musicali citate, stiamo parlando di un gagliardo disco di blues elettrico. I Bluebloods, con cui ha firmato l’ultimo Thicker Than Water nel 1999, non ci sono più (e parliamo di gente del calibro di Reese Wynans e Glen Worf), e neppure Kingsnakes e Bel Airs, con cui pure ha suonato, ma nella nuova formazione troviamo Kevin McKendree, uno dei migliori tastieristi attualmente in azione, al basso c’è Michael Rhodes e alla batteria Pat O’Connor, meno conosciuto, già vecchio socio di Mike dai tempi dei Bel Airs, che a giudicare dal disco ha comunque un bel drive. Se aggiungiamo che Henderson ha pure una bella voce, era quasi inevitabile che il risultato sarebbe stato ottimo. Si passa dall’iniziale I Wanta Know Why, un solido rockin’ blues dove Henderson scalda subito voce e chitarra slide, ben coadiuvato dal piano di McKendree, anche produttore dell’album, subito grintoso e dal ritmo scandito https://www.youtube.com/watch?v=BnDECpKNVbk , poi seguito da ben due cover estratte dal songbook di Hound Dog Taylor, una vorticosa Send You Back To Georgia, dove il classico boogie blues di Taylor è ben segnato dalla batteria di O’Connor, mentre Henderson, dopo un intermezzo travolgente del pianino di McKendree, continua ad esplorare il fretboard della sua Fender, con un’altra sventagliata di bottleneck guitar devastante https://www.youtube.com/watch?v=KWT0GJMNuJs  e poi raddoppia con le classiche 12 battute di una It’s Alright dove il blues è ancora il padrone assoluto, sempre con la slide in evidenza. R.S. Field, recente produttore del Terraplane di Steve Earle, gli dà una mano a livello compositivo, per una title-track che ha profumi soul e gospel, anche grazie alla presenza di due vocalist aggiunti, bella ballata di stampo sudista questa If You Think It’s Hot Here, mentre McKendree si divide tra piano e organo Hammond con risultati eccellenti.

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Un altro brano notevole di  Henderson è Weepin’ And Moanin’, slow blues di quelli torridi con la chitarra sugli scudi, e anche la voce non scherza https://www.youtube.com/watch?v=yGAtjuxUzHQ , pezzo che non ha nulla da invidiare alla ripresa di Mean Red Spider, un Muddy Waters “minore”, se mai ne ha fatti, dove il ritmo funky della batteria ben si sposa con l’intensità della traccia, per non parlare della versione di If I Had Possession di Robert Johnson, che parte sulle ali di una slide acustica e poi diventa un fantastico blues elettrico in crescendo con gli altri strumenti che entrano a canzone già sviluppata e la rendono travolgente https://www.youtube.com/watch?v=6k1KEkcErqk . Notevole anche Unseen Eye, dal repertorio di Sonny Boy Williamson, dove Henderson inchioda uno dei soli più fluidi e passionali del disco, prima di dedicarsi al puro R&R, via blues, di una Matchbox nuovamente travolgente anche grazie al piano di McKendree https://www.youtube.com/watch?v=lPMXQCgQ0LA  e Gamblin’ Blues ci spinge più a Sud, verso il Texas, sulle note di un poco noto brano di Melvin Jackson, con Mike Henderson di nuovo sugli scudi, istigato dal groove eccellente della sua sezione ritmica deluxe. Conclude Rock House Blues, l’unico brano dove il nostro si esibisce all’armonica, accompagnato solo dal piano di McKendree. Degna conclusione di un ottimo album di uno dei migliori gregari in circolazione, per una volta ancora protagonista assoluto.

Bruno Conti

Ma E’ Ancora Vivo, Eccome! Van Morrison – Duets: Re-Working The Catalogue, La Recensione.

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Van Morrison – Duets: Re-Working The Catalogue – Yada/Yasca – RCA/Sony – 24-03-2015 “Ma è ancora vivo!”: circa un mesetto fa così titolavo il post dove vi annunciavo l’uscita del nuovo disco di “Van The Man”, ora l’attesa è finita e il nostro amico è vivo e vegeto, pronto anche a lui a compiere i 70 anni alla fine di agosto, e li festeggia con un bel disco di duetti, andando a pescare nel suo enorme catalogo passato di canzoni, lasciando per una volta da parte i classici per rivisitare episodi cosiddetti minori, che parlando però di uno come Van Morrison , tali non sono, diciamo meno conosciuti. Inutile dire che l’album suona un gran bene e lui ha ancora una voce strepitosa, non sempre, forse, i suoi partners sono all’altezza, ma nel complesso il disco pare destinato a diventare un piccolo classico del suo catalogo, per rimanere in tema con il titolo e in ogni caso l’arte del duetto è sempre stata insita nella natura di Morrison. Quindi andiamo a vedere, brano per brano, cosa succede in questo Duets. Per l’occasione si è preso come collaboratori per completare l’album, registrato lo scorso anno tra Belfast e Londra, non uno ma addirittura due produttori, Don Was e Bob Rock, e dall’aria che si respira nel disco sembra che si sia divertito parecchio a farlo, a giudicare dalle risate di compiacimento tra i due alla fine di How Can A Poor Boy?, il duetto dal vivo con Taj Mahal, o la complicità che traspare nello scambio di battute musicali tra lui e Chris Farlowe nella rilettura di Born To Sing, il brano più recente, apparso nel disco omonimo del 2012.

1. Some Peace Of Mind – Van Morrison & Bobby Womack Il brano che apre questa raccolta era stato in origine pubblicato nel doppio album (l’unico in studio dell’irlandese) del 1991, Hymns To The Silence. E Morrison in un’intervista recente https://www.youtube.com/watch?v=1mYkDbmJ8S8 dice che non era a conoscenza delle cattive condizioni di salute di Womack che sarebbe morto a fine giugno del 2014, anzi, gli pareva in buona forma, almeno esteriormente. Il brano viene proposto in una versione più grintosa rispetto a quella del 1991, con Van e Bobby che si alternano alla voce solista e poi armonizzano nel finale, mentre un bel arrangiamento di archi e fiati irrobustisce il sound della canzone, con due soli di sax e trombone che lo impreziosiscono. Un classico esempio di soul alla Van Morrison, tanto per aprire alla grande.

2. If I Ever Needed Someone – Van Morrison & Mavis Staples La voce di Mavis Staples ha combattuto mille battaglie sonore nel corso degli anni e risente, con una certa raucedine, del passare del tempo, ma è ancora animata dal fuoco del gospel e del soul e in questa versione di un brano che appariva su His Band And The Street Choir, un disco del 1970, è assolutamente paritaria con il “vecchio” Van, per un risultato che emoziona non poco, grande musica.

3. Higher Than The World – Van Morrison & George Benson

Questo brano viene da Inarticulate Speech Of The Heart, uno degli album più spirituali della discografia del rosso irlandese, che in questo caso appoggia il suo stile al jazz-soul di Benson, con una versione ritmata e mid-tempo dove l’artista americano ha modo di mettere in evidenza il suo vellutato stile chitarristico e anche accenni del suo tipico scat vocale, piacevole senza essere memorabile, bello l’assolo di sax nel finale, ma a memoria l’originale mi sembrava più bello.

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4. Wild Honey – Van Morrison & Joss Stone

Wild Honey era su Common One, un altro dei dischi del periodo soul celtico degli anni ’80 e Joss Stone se la cava alla grande, mettendo a disposizione del suo ospite quella bella voce che la conferma come uno dei migliori giovani talenti del soul contemporaneo https://www.youtube.com/watch?v=10lpglxnM0I , l’interscambio tra le due voci è perfetto, e per una volta entrambi possono duettare tra pari, su uno sfondo quasi jazzato di gran classe. Il tono della voce di Van pare essere quasi compiaciuto e deliziato nello splendido finale con i due in assoluta libertà.

5. Whatever Happened To P.J. Proby – Van Morrison & P.J. Proby P.J. Proby ormai veleggia verso i 77 anni, ma già nel 2002 il nostro Van si chiedeva cosa gli fosse successo, in questo piccolo divertissement che all’origine si trovava su Down To Road. Il vecchio texano (ma tutti sono convinti che sia inglese, perché lì si è svolta la sua carriera), una dozzina di anni dopo gli fa sapere che tutto va bene e dimostra di essere ancora in grado di fare un bel duetto tra leggende, anche se il brano obiettivamente era e rimane, in questo caso, “minore”!

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6. Carrying A Torch – Van Morrison & Clare Teal

Clare Teal è considerata una delle più grandi cantanti jazz inglesi contemporanee (sentire per credere https://www.youtube.com/watch?v=0ppqwywWias), quella che ha avuto in tempi recenti il contratto più sostanzioso da una etichetta discografica. La voce è in effetti deliziosa e contribuisce non poco alla bellezza di una ballata sentimentale come Carrying A Torch, sempre tratta da Hymns To The Silence, dove gli archi e il piano sono gli altri elementi portanti di questo intenso brano.

7. The Eternal Kansas City – Van Morrison & Gregory Porter

The Eternal Kansas City era su A Period of Transition, forse a ragione considerato il disco “più brutto” del primo periodo di Van Morrison, anche se non si direbbe, a giudicare da questa versione registrata con Gregory Porter, una delle stelle del nuovo jazz americano https://www.youtube.com/watch?v=zbBbI8N2qJc , vincitore del Grammy 2014 di categoria ed in possesso di una voce in grado di spaziare con estrema facilità tra jazz e soul, come dimostra in questa canzone, anche grazie all’intermezzo strumentale che è jazz puro e all’incrociarsi libidinoso delle due voci https://www.youtube.com/watch?v=r5iS336UiDw .

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8. Streets Of Arklow – Van Morrison & Mick Hucknall Veedon Fleece è uno dei miei album preferiti in assoluto di Van Morrison, uno dei più complessi ed intensi della sua discografia e Streets Of Arklow una delle canzoni più belle del disco. Questa versione che segna l’incontro tra i due “rossi” mantiene la magia mistica dell’originale ed è uno dei punti più alti di questo album di duetti, anche grazie a “Mister Simply Red” Mick Hucknall che realizza una delle migliori interpretazioni vocali della sua carriera. Perfetta. 9. These Are The Days – Van Morrison & Natalie Cole La canzone era una delle più belle in Avalon Sunset, uno degli album di maggior successo della carriera di Morrison, quello per intenderci che conteneva anche Whenever God Shines His Light e Have I Told You Lately. Si tratta di una ballata mid-tempo, leggera e scorrevole, che si attaglia perfettamente alla voce di Natalie Cole. van morrison 4

10. Get On With The Show – Van Morrison & Georgie Fame

Georgie Fame è stato l’organista della band di Morrison dal 1989 al 1997, ma è stato anche uno degli artisti di maggior successo nelle classifiche inglesi degli anni ’60 con ben tre brani al numero uno, poi si è ritagliato una carriera R&B e Jazz che prosegue a tutt’oggi: i due vanno a nozze con questa canzone tratta da What’s Wrong With This Picture?, un disco dei primi anni 2000 uscito per la Blue Note, qui ripreso in una divertente versione a tempo di cha-cha-cha.

11. Rough God Goes Riding – Van Morrison & Shana Morrison

La figlia di Van, Shana, ha già duettato parecchie volte con il babbo, sia nei suoi dischi come in quelli del padre e fa la sua porca figura (nel senso che canta veramente bene) in questa bellissima riscrittura di un brano che appariva in origine su The healing game, il disco del 1997 che è uno dei migliori del Morrison dell’ultimo periodo. Classico celtic soul con Van che però viene interrotto e sfumato quando cominciava ad infervorarsi da par suo nel finale della canzone, che rimane comunque tra le più soddisfacenti dell’album.

12. Fire In The Belly – Van Morrison & Steve Winwood

L’incontro tra due delle più belle voci della musica britannica avviene sulle note della bluesata Fire In The Belly, sempre tratta da The healing game, e i due cantano, cazzo che se cantano, scusate, mi è scappato, ma ci voleva.Oggigiorno, in una pletora di dischi inutili dove ci vengono magnificati e propinati improbabili cantanti provenienti da talent show e gare sonore varie, presentati come fenomenti, sentire due che cantano (e suonano, sentire l’assolo di organo di Steve Winwood) così è un vero piacere per le orecchie https://www.youtube.com/watch?v=aH9R0KN7y5s

13. Born To Sing – Van Morrison & Chris Farlowe A proposito di gente nata per cantare, come recita il titolo del brano, Born To Sing, che era anche il titolo dell’ultimo album di Van Morrison sino ad oggi (in effetti era No Plan B), pure il duetto con Chris Farlowe,  uno che a livello di talenti canterini non scherza, è notevole. Tra Sam Cooke e Ray Charles i due si sfidano in un brano fiatistico di grande appeal, musica “semplice”, in fondo stanno “cantando il blues”, ma lo fanno con un impegno ed una passione sempre ammirevoli, non scalfita dal passare degli anni e senza quell’aria di deja vu o se preferite, “già sentito”, che ogni tanto percorre stancamente certi dischi dell’irlandese, ma per il sottoscritto, che è assolutamente imparziale, ci mancherebbe, potrebbe anche cantare l’elenco del telefono e andrebbe sempre bene, ma non è il caso di questo disco. La rivista Mojo che ultimamente non sempre era stata tenera con i dischi di George Ivan Morrison gli ha assegnato le canoniche quattro stellette che spettano ai dischi “importanti”!

14. Irish Heartbeat – Van Morrison & Mark Knopfler Irish Heartbeat era il titolo della title-track del disco registrato da Morrison con i Chieftains nel 1988, un brano bellissimo nella versione originale, ma se è possibile questa registrata con Mark Knopfler nel suo studio è ancora più bella, a conferma dello stato di grazia raggiunto dall’ex Dire Strait con l’ultimo Tracker e che viene ribadita in questo brano dove nel finale Van vocalizza e duetta nel suo modo inconfondibile con la chitarra di Knopfler. Stupenda versione. Il brano era stato inciso per la prima volta su Inarticulate Speech Of The Heart. https://www.youtube.com/watch?v=_oPb2Ma9z2M.

15. Real Real Gone – Van Morrison & Michael Bublé Nell’anticipazione sul Blog del nuovo album ipotizzavo, sulla base dell’ascolto di questo solo brano, che se perfino il brano cantato con Michael Bublé era bello, l’intero album si preannunciava, come poi è stato, un successo a livello creativo e di idee; la canzone Real Real Gone, è una delle tipiche composizioni gioiose di Morrison, di quelle da cantare a voce spiegata, orecchiabili e radiofoniche, ma sempre a livello sublime in confronto a quello che si ascolta abitualmente on the radio.

16. How Can A Poor Boy? – Van Morrison & Taj Mahal Si finisce a tempo di Blues, John Lee Hooker e Jimmy Witherspoon che erano due dei partner abituali di Morrison, quando voleva cantare il blues, non ci sono più, ma Taj Mahal è ancora in grado di infiammare le dodici battute con la sua classe immensa e i due, come dicevo all’inizio del Post si divertono davvero tra loro e divertono l’ascoltatore con questa versione incandescente di How Can A Poor Boy?, un brano che si trovava su Keep It Simple, ma in questo nuovo duetto è infinitamente superiore. Chi paventava la ciofega o la patacca non tema, questo Duets è un grande disco, con due o tre brani non dico scarsi, ma “normali”, e il resto decisamente sopra la media, esce martedì 24 marzo.

Bruno Conti