Gli Inizi Di Una Delle Band Fondamentali Del Folk-Rock Britannico. Steeleye Span – All Things Are Quite Silent: Complete Recordings 1970-71

Steeleye Span box 1970-1971 All tings are quiet

Steeleye Span – All Things Are Quite Silent: Complete Recordings 1970-71 – Cherry Tree/Cherry Red 3CD Box Set

Nonostante i Fairport Convention nel 1969 avessero raggiunto l’apice della loro carriera con il capolavoro Liege & Lief, il bassista e membro fondatore del gruppo Ashley Hutchings non era del tutto soddisfatto della direzione intrapresa, e quindi se ne andò per cercare di sviluppare un discorso più legato alla tradizione (anche Sandy Denny lasciò la band nello stesso periodo, ma questa è un’altra storia). Hutchings così si unì a Tim Hart e Maddy Prior, che erano già un affermato duo nei circuiti folk, e completò il nuovo quintetto con i coniugi Terry e Gay Woods, chiamando la nuova creatura Steeleye Span, proprio per riuscire a suonare quel tipo di musica che con i Fairport non riusciva più a fare, e cioè prendendo canzoni dallo sterminato songbook tradizionale inglese e scozzese (incluse molte delle cosiddette “Child Ballads”), e rivestendole con un arrangiamento che strizzava l’occhio a sonorità rock, con grande uso quindi di chitarre elettriche ed una sezione ritmica sempre presente: il risultato furono tre album di grande bellezza, dei quali almeno i primi due (Hark! The Village Wait e Please To See The King) sono considerati dei classici del folk-rock inglese. Oggi la Cherry Red riunisce quei tre album in questo bel boxettino intitolato All Things Are Quite Silent, corredato da un esauriente libretto con interessanti liner notes biografiche a cura di David Wells: i tre dischetti sono presentati così come sono usciti all’epoca, senza bonus tracks, con l’eccezione del terzo (Ten Man Mop, Or Mr. Reservoir Butler Rides Again, bel titolo corto e facilmente memorizzabile) che offre quattro tracce in più già uscite su una precedente ristampa del 2006. E’ chiaro che se già possedete questi album l’acquisto è superfluo, ma se viceversa conoscete gli Span più “commerciali” degli anni settanta (o non li conoscete affatto) direi che il box in questione diventa quasi indispensabile. Ma veniamo ad una disamina dettagliata dei tre album.

Hark! The Village Wait (1970). Inizio col botto da parte del gruppo, che aveva la particolarità all’epoca unica di presentare due voci soliste femminili: qui la line-up è completata da due batteristi che si alternano, entrambi con i Fairport nel destino, e cioè Dave Mattacks e Gerry Conway. I dodici brani presenti sono tutti tradizionali, con le eccezioni dell’introduttiva A Calling-On Song, un coro a cappella a cui partecipano tutti i componenti del gruppo, e l’intensa ballata che presta il titolo a questo box triplo, che ha comunque uno stile tipico delle canzoni di secoli prima. Il resto, come già detto, sono bellissime interpretazioni del songbook della tradizione britannica, a partire da una emozionante The Blacksmith, con la squillante voce della Prior a dominare ed un arrangiamento folk elettrificato, per proseguire con la drammatica Fisherman’s Wife, che vede il banjo cadenzare il tempo insieme alla sezione ritmica, Blackleg Miner, che fonde una melodia tipicamente British folk con un accompagnamento quasi “americano”, o Dark-Eyed Sailor, splendida e rockeggiante ballata dal motivo delizioso. Altri highlights di un disco comunque senza sbavature sono la squisita The Hills Of Greenmore, folk-rock di notevole impatto con un eccellente background sonoro per chitarre elettriche e concertina, la strepitosa Lowlands Of Holland, sei minuti di sontuoso folk elettrico dalla bella introduzione chitarristica, e la corale Twa Corbies (conosciuta anche come The Three Ravens), ricca di pathos.

Please To See The King (1971). Al secondo album la line-up cambia, in quanto le crescenti tensioni tra il duo Hart-Prior da una parte ed i coniugi Woods dall’altra, porta questi ultimi a lasciare la band, rimpiazzati dal grande cantante e chitarrista Martin Carthy, già molto conosciuto, e dal bravissimo violinista Peter Knight, che diventerà una colonna portante del suono degli Span. Please To See The King rinuncia alla batteria (come anche il suo successore), ma nonostante tutto preme ancora di più l’acceleratore su sonorità elettriche, diventando così l’album più popolare tra i tre, con versioni scintillanti di Cold Haily Windy Night, Prince Charlie Stuart, False Knight On The Road, Lovely On The Water (magnifica dal punto di vista strumentale), oltre ad una roboante Female Drummer, con la voce cristallina della Prior accompagnata in maniera pressante da violino e chitarra elettrica. Troviamo poi una diversa ripresa di The Blacksmith dal primo album, con Maddy circondata dalle chitarre e con un suggestivo coro, la bella giga strumentale Bryan O’Lynn/The Hag With The Money ed una versione di un pezzo che era già un classico per i Fairport, cioè The Lark In The Morning, molto più lenta e cantata anziché solo strumentale.

Ten Man Mop Or Mr. Reservoir Butles Rides Again (1971). Terzo ed ultimo lavoro con Hutchings alla guida del gruppo, questo album è meno cupo e più fruibile del precedente, anche se non allo stesso livello artistico (ma ci si avvicina molto), e “sconfina” fino a spingersi anche in Irlanda, cosa che non piacerà molto ad Ashley che, da buon purista, avrebbe voluto solo ballate di origine britannica. Ci sono due strepitosi medley strumentali, Paddy Clancey’s Jig/Willie Clancy’s Fancy e Dowd’s Favourite/£10 Float/The Morning Dew, ed altre ottime cose come la lunga Gower Wassail, con la voce solista declamatoria di Hart ed un bel coro alle spalle, la saltellante Four Nights Drunk, per sola voce (Carthy) e violino, con l’aggiunta della chitarra acustica nel finale, un’emozionante When I Was On Horseback, da brividi, la pimpante Marrowbones, che sembra quasi un canto marinaresco, e la vibrante Captain Coulston, tra le più intense dei tre dischetti. Come bonus abbiamo l’outtake General Taylor, un brano a cappella caratterizzato da eccellenti armonie vocali, e ben tre versioni del classico di Buddy Holly Rave On (anch’esse senza accompagnamento strumentale), la prima delle quali era uscita all’epoca solo su singolo. Dopo questo terzo album gli Span cambieranno manager, ingaggiando Jo Lustig che però vorrà spostare le sonorità del gruppo verso lidi più commerciali, cosa che causerà l’abbandono da parte di Hutchings (che fonderà la Albion Band) e Carthy, ma che aprirà nuovi orizzonti con album di grande successo come Parcel Of Rogues, Now We Are Six e All Around My Hat, lavori comunque molto belli che inaugureranno un nuovo capitolo di una storia che continua ancora oggi.

Marco Verdi

La Classe Non Manca: Una Piacevole Sorpresa “Acustica”! Eric Johnson – ej

eric johnson EJ

Eric Johnson – EJ – Mascot/Provogue

Nel 2014 erano usciti Europe Live http://discoclub.myblog.it/2014/06/17/prossimo-disco-dal-vivo-eric-johnson-europe-live/  e Eclectic, il disco registrato in coppia con Mike Stern http://discoclub.myblog.it/2015/02/11/rock-blues-jazz-eric-johnson-and-mike-stern-eclectic/ , ora, quasi a smentire le voci di scarsa prolificità che sono sempre state accostate a Eric Johnson (anche da chi scrive), esce già un nuovo album, EJ, il primo completamente acustico della sua carriera, diciamo meglio unplugged, perché non tutti i brani sono stati realizzati in solitaria. E volete sapere una cosa? Mi sembra decisamente bello, uno dei migliori della sua discografia, forse alla pari con Tones, con  Eric che si divide tra diversi tipi di chitarra acustica e il pianoforte: nove composizioni originali e quattro cover. Se vogliamo ulteriormente approfondire, contrariamente alle sue abitudini, il disco è stato registrato in presa diretta, con pochissime sovraincisioni, nel suo studio Texas Saucer Sound di Austin, con l’aiuto di alcuni musicisti, l’altro chitarrista Doyle Dykes, la violinista Molly Emerman, John Hagen al cello, e gli abituali accompagnatori di Johnson, la doppia sezione ritmica, a seconda dei pezzi, Tommy Taylor e Wayne Salzmann alla batteria e Roscoe Beck e Chris Maresh al contrabbasso.

Partiamo dalle cover: Mrs. Robinson di Simon And Garfunkel è la prima, una versione strumentale per sola chitarra acustica, molto bella, con un approccio sonoro che ricorda molto quello dei dischi della Windham Hill, pensate a William Ackermann, Alex De Grassi, ma anche Michael Hedges, tra fingerpicking e quei tocchi più moderni che hanno caratterizzato l’etichetta fondata da Ackermann. Eric Johnson è da sempre considerato un vero virtuoso della chitarra elettrica (tra i suoi fans più insospettabili c’era anche il conterraneo Stevie Ray Vaughan che lo considerava uno dei solisti più eclettici in circolazione e ne ammirava la tecnica e la dedizione allo strumento). Tutti elementi che risaltano in questo EJ, proprio a partire dalla appena citata rilettura del classico di Simon, un vero turbine di corde acustiche, accarezzate, pizzicate e percosse con vigore dal nostro amico, che pare quasi moltiplicarsi in questa dimostrazione di tecnica, ma anche di gusto squisito, al pari con i grandi virtuosi del passato. La seconda cover, sorprendente, è l’omaggio a Jimi Hendrix (da sempre tra i  miti di Johnson) qui ripreso con una versione di One Rainy Wish, uno dei brani di Axis: Bold As Love che secondo gli appassionati del mancino di Seattle evidenziava le influenze di chitarristi jazz come Jim Hall e Wes Montgomery (altri punti fermi di Johnson) rivisti nell’ottica unica di Hendrix, e pure nella rilettura del texano ritornano e si evidenziano quegli elementi jazz, tra chitarre acustiche, piano, una sezione ritmica agile ed inventiva e il cantato caldo e partecipe del nostro amico, non sempre vocalist di grande pregio, che però nel brano in questione e in generale in tutto l’album dimostra di essere a proprio agio in questa atmosfera più intima e raccolta.

Il terzo brano non originale è una vorticosa cover, accelerata allo spasimo, quasi a tempo tra bluegrass e ragtime, del classico di Les Paul e Mary Ford (ma era nata come canzone popolare americana degli anni ’20, la facevano anche Stanlio e Olio), The Word Is Waiting For The Sunrise, un duetto con Doyle Dykes che rievoca quelli dei virtuosi della chitarra degli anni ’70. Ancora Simon & Garfunkel per Scarborough Fair, anche se la canzone è in effetti  un traditional imparato da Simon da Martin Carthy, che include la famosa lirica Parsley, Sage, Rosemary And Thyme, titolo di uno dei loro dischi più belli: nell’interpretazione di Eric Johnson diviene una fluente ballata per solo piano e voce dove vengono alla luce anche i lati più melodici del musicista di Austin.

Il resto del disco è tutto farina del suo sacco: dalla delicata e deliziosa canzone Water Under The Bridge, ancora solo piano e voce, passando per Wonder, altro esempio di approccio folk che potrebbe ricordare musicisti inglesi come Carthy, Jansch e Renbourn, e ancora Wrapped In A Cloud, splendido esempio di brano soft-rock (un termine forse desueto ma efficace) con piano, cello, sezione ritmica e voce femminile di supporto, che rimanda ai migliori brani di Elton John, ma anche di vecchi datori di lavoro di Johnson come Carole King e Cat Stevens. Once Upon A Time In Texas è un eccellente strumentale che si rifà a gente come Leo Kottke, con le corde d’acciaio della chitarra di Eric sollecitate al meglio, e anche Serinidad è uno splendido strumentale, questa volta più malinconico, con le mani che scivolano delicate sul nylon delle corde. In Fatherly Downs si accompagna con una Martin D-45 in un’altra bella ballata cantata di stampo folk e svolazzi virtuosistici di chitarra. Mentre November, dove appare anche uno struggente violino, è una ulteriore bella ballata pianistica con tutto il gruppo che lo accompagna e All The Things You Are, solo voce e acustica, se non fosse per la voce più sottile di Johnson, potrebbe rimandare di nuovo ai brani in fingerpicking di Leo Kottke. A chiudere Song For Irene, altro complesso strumentale dove suona la steel string guitar. Veramente tutto bello!

Bruno Conti

Questa Volta E’ Morto Davvero, Purtroppo! A 75 Anni, Oggi Ci Ha Lasciati Anche Dave Swarbrick, Una Leggenda Del Folk Britannico.

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Il 29 aprile del 1999 il Daily Telegraph (quindi non un giornaluccio qualsiasi) aveva pubblicato un prematuro necrologio sulla morte di Dave Swarbrick a causa di una infezione polmonare dovuta all’enfisema di cui il violinista britannico soffriva da parecchi anni (e che è stata purtroppo la causa della morte, questa volta effettiva avvenuta oggi 3 giugno 2016): ai tempi Swarbrick con vero humour inglese aveva commentato “Non è la prima volta che sono morto a Coventry”, presunto luogo della sua dipartita. Poi gli amici di una vita, Dave Christine Pegg, avevano lanciato lo stesso anno uno “SwarbAid” per raccogliere fondi per le cure dovute alla sua salute declinante e nel 2004 uno SwarbAid II, che poi alla fine di quell’anno, con i i fondi raccolti, gli aveva permesso di essere sottoposto ad un doppio trapianto di polmone, grazie al quale aveva potuto riprendere la sua carriera musicale, ancora ricca di concerti e collaborazioni e di qualche disco. Andando a ritroso da oggi i fatti salienti degli ultimi anni: al 2014 risale il suo ultimo tour britannico e l’ultima collaborazione discografica con l’artista reggae canadese Jason Wilson nell’album Lion Rampant, al 2013 l’ultimo tour con Martin Carthy, insieme al quale ha realizzato moltissimi album e calcato i palcoscenici di tutto il mondo, anche nel 2011 e 2010. Nel 2010 l’ultima apparizione con la sua band, i Fairport Convention e lo stesso anno l’ultimo album solista Raison D’étre. L’ultima pubblicazione discografica però è nell’album Live In Finland 1971 dei Fairport Covention, un CD con un concerto inedito, pubblicato in questi giorni dalla Real Gone Music e di cui leggerete la recensione completa ed approfondita la prossima settimana a cura di Marco Verdi.

Comunque per tracciare la sua lunghissima e ricchissima carriera discografica bisogna risalire ai primi anni ’60 quando Dave Swarbrick fa il suo esordio nello Ian Campbell Folk Group (assieme ai quali apparirà in una decina tra album ed EP, pubblicati da Topic e Transatlantic, e i cui estratti si possono trovare anche nelle due bellissime antologie Electric Muse I e II). Poi, appunto con Martin Carthy, forma un duo folk, forse il più conosciuto e popolare in Gran Bretagna negli anni ’60, ma che ha proseguito la sua attività fino al 2006, pubblicando una decina di album in diversi periodi delle loro carriere. “Swarb”. come era conosciuto da tutti, ha pubblicato anche una decina di album solisti, sparsi in tre diverse decadi, e ha collaborato con tutto il gotha del folk-rock britannico, soprattutto con gli ex compagni di avventura dn quella che è stata la più grande band inglese del genere, i Fairport Convention, dove ha militato dal 1969 al 1979, registrando gli album più belli del gruppo.

Da Unhalfbricking dove c’era un brano epico come A Sailor’s Life dove il violino di Dave duetta con la chitarra di Richard Thompson in modo sublime (cosa ripetuta nella leggendaria Sloth che potete ascoltare a fine Post), affiancando la stupenda voce di Sandy Denny,  passando per il seminale e leggendario Liege And Lief dove mette il suo marchio in un indiavolato medley di quattro gighe e reels. Ma anche nei furori rock ed elettrici dello splendido Full House dove appare la deliziosa Sir Patrick Spens, uno dei brani dove il folk e il rock si sono incontrati con risultati direi perfetti.

E poi ancora nel periodo più “gentile” di Angel Delight, Babbacombe Lee, Rosie Nine, quando diviene la voce solista ed il principale autore della band, prima del ritorno di Sandy Denny nel 1975, con la quale aveva comunque collaborato nello splendido album solista Sandy del 1972, come pure ai dischi di John Renbourn, Julie Felix, Al Stewart (il fantastico Past, Present and Future), Richard Thompson, Peter Bellamy, Simon Nicol, Whippersnapper, John Kirkpatrick, Steve Ashley, Bert Jansch e decine di altri, soprattutto al violino, sia acustico che elettrico (di cui era un vero maestro), ma anche viola, mandolino e chitarra acustica, oltre alla sua inconfondibile voce.

Se per caso vi capita di rintracciarlo ancora sarebbe da avere lo splendido box di 4 CD Swarb, pubblicato dalla Free Reed, che raccoglie il meglio della sua produzione e che vedete effigiato qui sotto.

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Direi che questo basta e avanza per assicurargli un posto nella Hall Of Fame virtuale dei più grandi musicisti del cosiddetto British Folk e credo che Davy Graham, Bert Jansch, John Renbourn, Sandy Denny e pochi selezionati altri lo attendano in cielo per qualche leggendaria jam session a tempo di giga, reel o aria lenta. Tipo questa sotto che è straordinaria.

Comunque un Riposa In Pace è ben meritato anche per lui!

Bruno Conti

Sprazzi Di Gran Classe! Linda Thompson – Won’t Be Long Now

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Linda Thompson – Won’t Be Long Now – Pettifer Sounds/Topic

Linda Thompson non è mai stata una artista prolifica, quattro album in trenta anni di carriera solista (più due raccolte di materiale inedito, sublimi) lo stanno a testimoniare. Ma la qualità della sua produzione è sempre stata elevatissima, in grado di rivaleggiare con quella realizzata in coppia con l’ex marito Richard, alcuni dischi veramente superbi, tra i migliori della storia del rock (e del folk) d’autore, il primo e l’ultimo in particolare, I Want To See The Brights Lights Tonight e Shoot Out The Lights, dove cala il sipario sulla loro vita sentimentale ed artistica, il divorce album per eccellenza: ma tutta la discografia è, direi indispensabile, con qualche alto e basso, ma s’ha da avere, anche i Live postumi usciti nelle decadi successive.

Nata Linda Pettifer (da qui il nome dell’etichetta del nuovo disco), poi con il nome d’arte Linda Peters ha iniziato a collaborare con il giro folk-rock inglese dei primi anni ’70, in particolare nell’album Rock On attribuito a The Bunch, dove duetta con Sandy Denny in una bellissima cover di When I Will be Loved? degli Everly Brothers (e proprio di Sandy Denny, Linda Thompson dovrebbe essere considerata la sodale ed anche erede, per quanto discontinua). Nello stesso anno, 1972, partecipa come corista al primo album solista di Richard Thompson, Henry The Human Fly, e da lì in avanti inizia il loro sodalizio artistico ed umano, che durerà una decina di anni, la scoperta della filosofia Sufi e poi la fine brusca nel 1982, con l’appendice di un tour americano completato per problemi contrattuali, quando i due già erano praticamente divisi.

Se aggiungiamo che nel corso degli anni Linda è sempre stata perseguitata dalla “disfonia isterica”, un disturbo psicologico che spesso la lasciava senza voce per lunghi periodi, non certo l’ideale per una cantante, che, unita alla sua indole riservata, ha fatto sì che la sua carriera non sia stata quella che avrebbe potuto essere, ma accontentiamoci, meglio pochi ma buoni, Kate Bush, Peter Gabriel e lo Springsteen dell’epoca d’oro le facevano un baffo (se l’avesse avuto) quanto a prolificità. Ma questa è un’altra storia.

Veniamo a questo Won’t Be Long Now, il primo album di materiale inedito dopo Versatile Heart del 2007 (siamo nella media temporale della sua produzione) e il primo disco dall’approccio decisamente folk, inteso come British Folk, quello della grande tradizione inglese degli anni ’70, che ancora oggi è in grado di soprassalti di gran classe. E questo è uno dei casi. Disco ricchissimo di ospiti, che vedremo brano per brano e con gran parte della famiglia Thompson impegnata, figli, nipoti, cognati, ex mariti, oltre agli “amici” di una vita.

Si parte con una stupenda collaborazione con l’ex Richard, evidentemente il tempo guarisce tutte le ferite ( i due erano già apparsi insieme nel recente tributo a Kate McGarrigle): si tratta di una canzone, Love’s For Babies And Fools, scritta proprio per il figlio scavezzacollo, e preferito, di Kate McGarrigle, quel Rufus Wainwright che è uno dei grandi talenti, non totalmente espressi, della scena musicale attuale. Un brano, che proprio Kate poco prima di morire l’aveva incoraggiata a completare, un ritratto poco complimentoso, anche sferzante, ma ricco di affetto, con una splendida melodia sottolineata dalle sempre geniali fioriture dell’acustica di Richard Thompson e con Linda che si doppia anche alle armonie vocali e ci permette di gustare la sua straordinaria voce, ancora ricca e corposa a dispetto dell’età che avanza. Grande inizio. Never Put To Sea Boys è un’altra folk song, anzi una di quelle che si chiamano sea shanties, scritta con l’ex Solas John Doyle, che suona l’acustica, si avvale anche di un “programming umano”, se esiste una cotale guisa, che ricrea il sound del migliore folk tradizionale d’aria celtica in maniera egregia.

Secondo molti If I Were A Bluebird è uno dei momenti topici dell’album: scritta da Linda Thompson in coppia con Ron Sexsmith (che la nostra amica invidia proprio per quella prolificità che a lei è sempre mancata, in una iperbole dice che “scrive un milione di canzoni alla settimana” e tutte belle). L’esecuzione poi è straordinaria, David Mansfield alla Weissenborn guitar, l’ottimo cantautore Sam Amidon all’acustica e al banjo e le struggenti armonie vocali di Amy Helm. Dura quasi 7 minuti, ma potrebbe durare anche mezz’ora tanto è bella. E non scherza un c….neppure As Fast As My Feet una canzone dal repertorio delle McGarrigles, scritta in questo caso da Anna con l’aiuto di Chain Tannenbaum. E’ uno dei brani “elettrici” del disco, vicino allo stile caratteristico della vecchia produzione di Linda, ma è anche una canzone di “famiglia”, ci sono quasi tutti i Thompson: i figli, Kami, che è la voce solista (e ci fa ben sperare per la prosecuzione della tradizione familiare, bella voce, calda e vivida), Muna, alle armonie vocali, con la mamma, Teddy, chitarra acustica e armonie, Jack Thompson, il figlio di Richard al basso, il nipote Zac Hobbs alla chitarra solista e al mandolino, dal passato dei Fairport torna Gerry Conway alla batteria e Glenn Patscha degli Ollabelle alle tastiere. E il risultato è una delizia folk-rock di stampo angloamericano.

Decisamente folk tradizionale la sontuosa Father Son Ballad scritta da Teddy Thompson, con John Doyle ancora alla acustica, Glenn Patscha alle tastiere, compreso un pump organ dei tempi che furono e il grande Dave Swarbrick, che ancora una volta presta il suo magico violino alle operazioni. Nursery Rhyme Of Innocence & Experience è uno standard della canzone popolare inglese, eseguito con l’accompagnamento della chitarra acustica di Martin Carthy (ci sono proprio tutti!) e del cello di Garo Yellin (non conosco, ammetto, però il nome l’ho visto in parecchi dischi). Mr. Tams è un’altra bellissima canzone di stampo folk, scritta con il figlio Teddy, e con l’accompagnamento strumentale della coppia Swarbrick-Carthy, le voci, assieme a Linda, sono quelle di Eliza Carthy, che suona anche il melodeon, Susan McKeown e di nuovo la figlia Kami. Paddy’s Lamentation era nella colonna sonora di Gangs Of New York. Linda Thompson ricorda nelle note che quando Scorsese seppe che nella colonna sonora c’era una sua canzone disse “Ma è ancora viva?”. Un onore, perché il regista appassionato di musica, sapeva chi fosse, ma rispondiamo con un “Ma certo”, toccandoci. Il brano, solo Linda, supportata dalla chitarra acustica e dalla seconda voce del figlio Teddy, che l’ha scritta con lei, ha un piglio tradizionale classico.

Never The Bride, ancora scritta dall’accoppiata mamma/figlio, è una stupenda ballata elettrica, di quelle che sapevano fare solo lei e Sandy Denny. Ironica nel testo (perché la nostra amica dice di essere praticamente sempre stata sposata, nel corso della sua esistenza, con diversi mariti ovviamente): ad aggingersi alla famiglia, in questo brano, alla chitarra elettrica solista slide, c’è James Walbourne, che ha suonato, tra gli altri, con Pernice Brothers e Son Volt e si è sposato la figlia della Thompson, Kami (quindi è il cognato, ci mancava). Ma protagonista della canzone, oltre alla voce, malinconica ed evocativa di Linda, è la fisarmonica (o button accordion come direbbero quelli che sanno) di John Kirkpatrick, un altro dei grandi “vecchi” del movimento folk britannico, magnifico brano con un ritornello da accendini (o telefonini, ora) accesi. Blue Bleezin’ Blind Drunk è un piccolo intermezzo vocale, un traditional cantato accapella, registrato dal vivo al Bottom Line di New York in uno dei rarissimi tour della cantante inglese.

Si conclude con la title-track, It Won’t Be Long Now, scritta ancora da Teddy Thompson (che è un ottimo cantautore, ma si deve misurare con due mostri sacri come Richard & Linda Thompson): è il brano più americano dell’album, una canzone country-bluegrass deliziosa, registrata con un paio dei migliori musicisti nel genere, Tony Trischka al banjo e David Mansfield al mandolino, oltre alle armonie vocali, ancora una volta, di Kami Thompson ed Amy Helm.

Uno dei migliori dischi dell’anno nel genere folk, ma che se la batte anche in assoluto tra i migliori dischi del 2013, per esempio con Electric dell’ex consorte Richard, piccoli, grandi dischi, sconosciuti alle masse, ma da non lasciarsi sfuggire.

P.S. E’ venuta lunga? Meglio, c’è di più da leggere!

Bruno Conti    

Un Affare Di Famiglia. Eliza Carthy & Norma Waterson – Gift

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Eliza Carthy & Norma Waterson – Gift – Topic Records

Eliza Carthy e Norma Waterson sono figlia e madre, hanno fatto molti dischi insieme ad altri componenti della famiglia (la Waterson Family, Waterson:Carthy) ma mai come duo. Questo disco colma la lacuna e si candida autorevolmente a miglior disco folk tradizionale dell’anno.

A questo punto sapete di che argomento si tratta ( e sapete che a me, e quindi in questo blog, piace spaziare in tutti generi) e quindi chi non è interessato all’argomento se ne può andare!

Siamo rimasti in pochi? Spero di no, comunque aggiungiamo qualche altro elemento: il babbo di Eliza e quindi marito di Norma è il grande Martin Carthy, membro fondatore degli Steeleye Span e poi autore di una gloriosa carriera solista, ma spesso in coppia (Dave Swarbrick) o in gruppo (i Brass Monkey, Blue Murder) con altri artisti del folk tradizionale e quindi spesso anche con i Watersons, ma in questo caso svolge, in modo impeccabile, il ruolo di comprimario e collaboratore, con lui ci sono Oliver Knight, cugino di Eliza, chitarrista e polistrumentista, che cura con la stessa Carthy la produzion del disco, Danny Thompson, magnifico come sempre al contrabasso e Marry Waterson, la sorella di Oliver Knight a confermare che trattasi di “Affare di Famiglia”. In effetti ci sarebbero anche Martin Simpson e Aidan Curran, ma diciamolo!

Il risultato è strepitoso: spesso si usa il termine Grande Vecchio per indicare un personaggio fondamentale nell’ambito di un genere musicale, ma trattandosi di una signora, Norma Waterson userei il più rispettoso Gran Dama del folk britannico (Sandy Denny non c’è più ma operava in un ambito diverso e secondo me è fuori concorso, Shirley Collins si è ritirata da molti anni, Maddy Prior e Jacqui McShee operano in un ambito più elettrificato e possono competere più con Eliza Carthy). Alla tenera età di 71 anni (oltre un certo limite si può dire anche l’età di una signora) è ancora in possesso di una voce straordinaria, potente ed espressiva come poche e la pur brava figlia, se si può dire, non gli fa un baffo, ma è soprattutto quando cantano insieme che diventano straordinarie.

Si capisce fin dall’iniziale strepitosa rilettura del tradizionale Poor Wayfaring Stranger dove le voci di Norma e Eliza con il contributo non indifferente di Marry si alternano e si intrecciano con incredibile naturalezza con la chitarra di Curran e il contrabbasso di Thompson, ma è subito chiaro che l’assoluta protagonista è Norma Waterson che l’autorevole rivista Mojo ha definito la più squisita voce del panorama musicale inglese, così, senza distinzione di sesso e genere.

La figlia Eliza Carthy, anche eccellente violinista e mandolinista, ha provato anche varie escursioni in un genere più mainstream anche cantautorale (lo so, l’ho detto ancora!) con una decina di album a nome proprio e innumerevoli collaborazioni, familiari e non: in Little Grey Hawk conduce lei le danze, con la sua voce caratterizzata da una leggera raucedine, meno potente della mamma ma sempre rispettabile ed espressiva, il suo violino e il banjo di Martin Simpson accompagnano le operazioni.

Ma vediamo quelli che sono i brani fondamentali di un album tutto di alto livello ma che raggiunge i suoi picchi oltre che nel brano iniziale, nell’ottima e trascinante Bonaparte’s Lament, con anche un consistente lavoro strumentale di tutto l’ensemble di musicisti. The Rose And Lily è fantastica, un brano tradizionale che condivide un’atmosfera rarefatta e sospesa con la conosciutissima (anche dai profani del folk visto che l’hanno suonata un po’ tutti) John Barleycorn: l’interpretazione, in questo caso di Eliza Carthy, è magistrale, accompagnata da un violino, dal piano e dalla chitarra elettrica di Oliver Knight, oltre naturalmente alla mamma Norma, ci regala oltre 6 minuti di grande musica. watch?v=w_CxR3rkoZs

Ottima anche Bunch of Thyme con la voce senza tempo di Norma Waterson che intona uno dei brani tradizionali più affascinanti del canone folk britannico, ben coadiuvata dalle armonizzazioni della figlia Eliza, alle prese anche con viola e violino.

Interludio.

Se volete approfondire la grande tradizione di questa musica, nel 2009 la Topic Records ha pubblicato un fondamentale Box di 7 CD intitolato Three Score & Ten – A Voice To The People, con annesso libro formato LP di oltre 100 pagine, cofanetto che traccia i 70 anni di storia di questa etichetta che ha fatto la storia della musica popolare in Gran Bretagna (il prezzo è abbordabile).

Torniamo al CD: a questo punto c’è un delizioso medley tra Ukulele Lady e (If Paradise Is) Half As Nice), devo dire che Battisti/Mogol in chiave folk tradizionale inglese non li avevo mai sentiti ma escono vincenti anche da questa prova. Per gli inglesi il brano è famosissimo, è stato un numero 1 in Inghilterra nel 1969 per gli Amen Corner ma non sanno che, scritta originariamente per Ambra Borelli/La Ragazza 77 come il Paradiso della vita, un flop incredibile, è poi rimbalzata di ritorno dal Regno Unito ed è diventata Il paradiso di Patty Pravo. Ebbene la versione che ne fa il duo Carthy/Waterson in medley con l’old time jazz di Ukulele Lady è assolutamente imperdibile, in quanto i due brani prima eseguiti separatamente, nel finale si combinano, verso dopo verso fino a diventare un tutt’uno indivisibile. Una pausa di lievità in un disco altrimenti molto “serio”, ma il genere lo richiede.

L’ultimo brano che vorrei citare (ma, ripeto, è tutto di ottima fattura) è la conclusiva Shallow Brown, dove le famiglie Waterson e Carthy uniscono le loro voci (sette in tutto perché ci sono anche gli zii, Anne & Mike Waterson) in una versione corale e trascinante di questa ulteriore gemma della tradizione folk inglese.

Per molti ma non tutti, ma provate e potreste essere piacevolmente sorpresi anche già sapendo cosa vi aspetta.

Bruno Conti