Per La Serie: Il Nuovo Che Avanza! Kris Kristofferson – Feeling Mortal

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Kris Kristofferson – Feeling Mortal – KK/Proper CD

Il titolo di questo post è volutamente ironico, avrei potuto usarlo anche per le fatiche recenti di Bob Dylan, Ian Hunter, Paul Simon o Neil Young, tanto per citare artisti di cui mi sono occupato ultimamente: si sa che ormai (purtroppo, nel senso che il futuro non è certo il loro) per sentire della buona musica bisogna (quasi) sempre rivolgersi a gente che ha già passato i sessanta, se non addirittura i settanta. A dire il vero, il titolo che avevo pensato all’inizio era “Ancora Un Bel Disco…Ma C’è Da Toccarsi!”, dove con toccarsi intendevo proprio fare gli scongiuri, visto il titolo dell’album, la copertina e confezione interna un po’ tetri, uniti al fatto che i brani di Kris Kristofferson non vengono usati di solito per rallegrare le feste.

Feeling Mortal è il diciassettesimo album di studio per il grande cantautore/attore texano (esclusi quelli con l’ex moglie Rita Coolidge), un disco che prosegue con la positiva tendenza di rinascita artistica già manifestata con gli ultimi This Old Road e Closer To The Bone. C’è da dire che Kristofferson appartiene a quella ristretta cerchia di cantanti (termine che mi è sempre sembrato un po’ riduttivo) che non ha mai veramente sbagliato un disco, anche in momenti nei quali la sua popolarità era ai minimi termini (cioè gli anni ottanta e parte dei novanta, nei quali si manteneva recitando in diversi film, non sempre di qualità eccelsa), conservando sempre una certa integrità artistica, con sporadiche concessioni al mainstream, come il duetto con Barbra Streisand in Watch Closely Now per la colonna sonora di A Star Is Born.

Feeling Mortal è un album breve (poco più di mezz’ora), ma decisamente intenso: presenta dieci canzoni nel più tipico stile di Kris, con la sua grande voce in primo piano e pochi, dosati strumenti in sottofondo, il tutto nobilitato dalla produzione asciutta ed essenziale di Don Was (per la terza volta di fila) e dalla presenza di sessionman di lusso come Mark Goldenberg, Greg Leisz ed il grande pianista Matt Rollings, già nelle band di Lyle Lovett e Mark Knopfler ed ottimo produttore a sua volta (chiedere a Mary Chapin Carpenter).

Niente di nuovo, musica cantautorale/texana pura ed incontaminata, zero fronzoli e tanta intensità, chi ama il genere troverà di che allietarsi.

*(NDM: una curiosità: l’ordine dei brani riportato sul retro di copertina e sul foglietto interno non corrispondono, il giusto è quello esterno, ma controllare prima di pubblicare no?)

Il CD si apre con la title track, una ballata tipica, passo lento, voce profonda e melodia in primo piano: un ottimo inizio, un brano che ci rimanda direttamente alle migliori canzoni del nostro. Mama Stewart è ancora più lenta, Kris quasi sillaba le parole, ma il pathos che ci mette non è secondo a nessuno, e poi la voce, seppur invecchiata, è ancora vibrante. Bread For The Body è più tonica, una sorta di valzer elettrico venato di country, un brano nel quale si evidenziano le radici texane di Kris; You Don’t Tell Me What To Do, che vede Kris soffiare nell’armonica, è di nuovo lenta, con un passo quasi da marcia funebre (tanto per stare in allegria), anche se il mandolino e la voce vissuta dell’autore danno un po’ di luce.

La gradevole Stairway To The Bottom è un honky-tonk texano, un tipo di brani che se compri un disco di Kris ti danno di serie, mentre Just Suppose è una splendida country song cantata dal nostro con il cuore in mano, una bellissima melodia ed un arrangiamento scintillante, con Rollings superlativo al piano. Castaway è una canzone di stampo folk che racconta di un naufragio del protagonista (e ti pareva), un brano breve ma di grande intensità, My Heart Was The Last One To Know è una cowboy song lenta e meditata, la saltellante The One You Chose porta alla conclusiva Ramblin’ Jack, una delle migliori del disco, con un Kris più pimpante e la band al completo che non perde un colpo. Si sentirà anche mortale, ma Kris Kristofferson dimostra a 76 anni di essere più vivo che mai.

Marco Verdi

Un Gusto Acquisito. Mary Chapin Carpenter – Ashes And Roses

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Mary Chapin Carpenter – Ashes and Roses – Zoe/Rounder/Uiversal 

La cantautrice americana, Mary Chapin Carpenter, nativa di Princeton, New Jersey ma da sempre legata all’area geografica che gravita intorno a Washington, DC, non per nulla il suo concerto al Wolf Trap, una sorta di anfitetatro naturale sito nella zona, è una specie di evento annuale ricorrente. Come ricorrente, rassicurante, direi costante è la sua musica; come dicevo, parlando sul Blog del disco precedente mary-chapin-carpenter-the-age-of-miracles.html, la sua musica è una certezza, forse ultimamente ripetitiva, ma di qualità elevata; in quel caso, con espressione forse non felice l’ho paragonata a un paio di vecchie ciabatte (in riferimento alla musica, ovviamente), questa volta il titolo vuole essere una sorta di richiamo ai “gusti” che ti accompagnano nel corso della vita: vuoi mettere un bel gelato con un gusto classico, chessò la nocciola nel mio caso, alla sperimentazione di nuovi sapori? Certo la “maracuja” o la “nigritella” ti danno il brivido del diverso ma un bel genere classico (siamo tornati alla musica) come il country e il folk, o il country-folk soprattutto nella forma della ballata per la Carpenter, spesso sono più soddisfacenti anche se meno avventurosi: l’ideale sarebbe una combinazione delle due cose ma questo è riservato agli artisti “geniali” mentre Mary Chapin è forse più, una onesta, anzi spesso ottima, “artigiana”.

Quindi dopo averla paragonata a un paio di vecchie ciabatte questa volta siamo passati alla metafora del gelato, spero che non me ne vorrà. Anche se la sua musica, soprattutto per la critica, non è legata al country non si può negare che il successo di pubblico negli anni ’90 fosse dovuto proprio al country, anzi al country-rock: un disco come Come On Come On e brani come I Feel Lucky, la cover di Passionate Kisses di Lucinda Williams, He Thinks He’ll Keep Her, erano attraversati dal suono delle chitarre di John Jennings, John Jorgenson e la pedal steel di Paul Franklin, che spesso avevano il sopravvento sul suono delle tastiere di Jon Carroll e degli ospiti Benmont Tench e Matt Rollings. Negli anni successivi, nella formazione è entrato anche Duke Levine, con un suono di chitarra più “aggressivo” che ben si sposava con quello di Jennings. Quest’ultimo, oltre che co-autore e direttore musicale, è stato anche compagno nella vita per la Chapin Carpenter, generando quell’effetto, come scherzando, a storia finita, raccontavano nei concerti: alla Fleetwood Mac, fisicamente tra Fleetwood e Nicks, lui alto e allampanato, lei piccola, bionda e rotondetta, musicalmente alla Buckingham/Nicks. Dal penultimo album il sodalizio musicale tra Carpenter e Jennings, durato oltre vent’anni, è finito e sono tornati Levine e Matt Rollings, che cura insieme a lei anche la produzione del disco. La formazione è completata dai veterani Glen Worf e Russ Kunkel, per un sound molto basato proprio sul piano di Rollings e con la forma della ballata quieta che evidentemente ben si accompagna agli umori della Carpenter, che ha avuto delle recenti annate a livello personale, segnate da malattie quali depressioni varie o l’embolia polmonare che qualche anno quasi l’aveva uccisa. La vita sentimentale non va molto meglio visto che si è lasciata anche con l’ultimo compagno, per cui almeno la musica, “ispirata” dalle vicende personali, rimane una sorta di valvola di sfogo e fonte di ispirazione per le sue canzoni. Si dice sempre che le canzoni più belle si scrivono quando non si è felici, per cui quelle di Mary dovrebbero essere bellissime.

Forse la patina intimista di malinconia ed introspezione è un po’ troppo accentuata ma non si può negare che lei sia molto brava, in possesso di una voce profonda ed evocativa e quindi questo Ashes and Roses è un ennesimo bel disco, anche se non posso fare a meno di rimpiangere la produzione Columbia degli anni ’90 quando, come dicevo all’inizio, il country-rock aveva la meglio sul country-folk. Per sentire un bel assolo vibrante di chitarra elettrica di Duke Levine o una serie di rullate più energiche di Russ Kunkel bisogna arrivare al settimo brano, I Tried Going West, (caratterizzato anche dall’ottima fisarmonica di Rollings), poi gli altri brani sono comunque molto buoni, con in evidenza il piano di Matt Rollings (il tastierista di Lyle Lovett, per i due o tre che non lo sanno) ma anche le chitarre acustiche ed elettriche di Levine come nell’iniziale, delicata Transcendental Reunion. Molto bella anche What To Keep And What To Throw Away con l’arpeggio delle chitarre che sottolinea il lento crescere delle tastiere fino alla piacevole coda strumentale. Sempre il suono folk e malinconico prevale in The Swords We Carried con le belle armonie vocali di Mac McAnally e Kim Keys e un “solo” delicato di Rollings.

Another Home è una canzone che racconta le sue impressioni sul ritorno a casa alla fine di un tour in una casa che, finito un matrimonio, non è più la stessa. Per aggiungere quella tristezza che si percepisce nel brano, la Carpenter racconta che ha terminato di scriverlo proprio nei giorni in cui moriva suo padre. Nostalgia e tristezza che si reiterano anche nella successiva Chasin’ What’s Already Gone, musicalmente una delle più belle dell’album, con un arrangiamento avvolgente e i musicisti che suonano alla grande, un mandolino in sottofondo, nuovamente eccellenti armonie vocali e il piano di Rollings ancora una volta protagonista. Per essere sincero qualche rullatina di Kunkel ci scappa anche in questo brano. Learning The World è nuovamente molto folk ed intimista mentre di I Tried Going West ho già detto. Don’t Need Much To Be Happy è un brano interlocutorio mentre Soul Companion è il famoso duetto con James Taylor, un brano che gli si adatta perfettamente, oserei dire nuovamente “come un vecchio calzino”, le due voci si alternano e si amalgamano alla perfezione regalando un maggiore brio alla canzone, veramente molto bella!

Old Love è un altro momento molto quieto ed introspettivo, con gli strumenti a corda di Duke Levine in primo piano a duettare nuovamente con il piano di Rollings. New Year’s Day è una poetica e sentita trascrizione di un incontro avvenuto in sogno con un vecchio amico e contiene anche una citazione di Emily Dickinson come ricorda la stessa Carpenter nelle note dell’album e che ci dice anche che questo è l’ultimo brano scritto per il disco stesso. Visto che le abbiamo citate tutte mancano ancora Fading Away e la conclusiva, dal titolo biblico, Jericho, un duetto solo tra il piano di Matt Rollings e la voce di Mary Chapin Carpenter che porta a termine, in perfetto stile cantautorale, questo nuova tredicesima fatica della sua carriera.

Bruno Conti

Mary Chapin Carpenter – The Age Of Miracles

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Mary Chapin Carpenter – The Age Of Miracles – Zoe/Rounder/Universal

Esce domani sul mercato italiano (è uscito la settimana scorsa negli States) il nuovo album di Mary Chapin Carpenter, il dodicesimo, raccolte escluse e disco natalizio e Party Doll inclusi. Non molti, considerando che l’esordio era avvenuto con Hometown Girl nel lontano 1987 alla non più tenera età di 29 anni. Gli anni dei grandi successi e della “cosiddetta country music” sono lontani: Come On Come On, il suo disco di maggior successo negli anni ’90 ha venduto oltre quattro milioni di copie senza arrivare più in là del 31° posto nelle classifiche americane. Pensate come è cambiato il mercato discografico (e il mondo) in poco più di quindici anni, e dicendo questo so di intristire più di un discografico, il disco precedente della Chapin Carpenter, The Calling, del 2007, pur giungendo ad un rispettabile 59esimo posto nelle charts americane ha venduto poco più di centomila copie.

Ma bando alle tristezze, veniamo a questo nuovo The Age Of Miracles, il terzo per la nuova etichetta Zoe/Rounder, dopo il citato The Calling e il cosiddetto “disco stagionale”, Come Darkness, Come Light: questo album ha avuto una lunga gestazione causata dalla grave malattia contratta dalla Mary Chapin Carpenter nel corso del tour promozionale di The Calling, una embolia polmonare che ha rischiato di ucciderla e che, forse, tra le altre cose, ha generato il titolo di questo nuovo album.

Comunque niente paura per i fans della bionda cantautrice americana, questo nuovo album non ha spostato di una virgola la sua musica, lo stile è rimasto quel country-folk-rock di impianto “tranquillo”, preferibilmente ballate, raramente si avventura in qualche midtempo e quei brani vagamente Country-rock che apparivano nei dischi degli anni ’90 sono un lontano ricordo. La qualità di musica e testi è sempre molto elevata, la voce è rimasta bellissima, calda ed espressiva, dolce, senza voler essere offensivo, anzi, i dischi della Carpenter sono come un vecchio paio di ciabatte, sapete quelle vecchie, le preferite, che vi calzano alla perfezione e vi tengono i piedi comodi e al calduccio.

Contribuisce alla riuscita del tutto l’elevata qualità dei collaboratori, il meglio che la Nashvile meno commerciale può offrire: il tastierista (soprattutto piano, ma ottimoanche all’organo) e co-produttore Matt Rollings, reduce da anni di collaborazioni con Lyle Lovett, il chitarrista Duke Levine, fine cesellatore della 6 corde (non c’è più John Jennings) e la sezione ritmica composta dal bassista Glen Worf e dal batterista Russ Kunkel, leggendario musicista che ha suonato con chiunque vi possa venire in mente sulla scena musicale americana e contende a Jim Keltner il titolo di Batterista. Con tutto sto po’ po’ di roba a disposizione, naturalmente, se hai un filo di talento è difficile fare un disco brutto, se di talento ne hai parecchio è probabile che il disco sia sopra la media, come in questo caso. Avviso per rocker impenitenti e amanti di blues e generi alternativi: astenersi!

Dalla prima pennata di chitarra acustica del primo brano We Traveled So far, come dicevo prima, sapete già cosa aspettarvi, ma il viaggio è comunque piacevole e proficuo, con quella voce malinconica ma confortante, calda senza essere troppo espansiva o sofferta (non è Lucinda Williams o Mary Gauthier), i musicisti con l’aggiunta di Dan Dugmore alla 12 corde e steel guitar e di Mac McAnally alle armonie vocali cominciano a macinare ottima musica. Il successivo Zephyr reitera questa formula vincente e la bella voce della Carpenter comunque ti acchiappa. Put My Ring Back On è uno di quei rari brani mediamente movimentati a cui accennavo prima, non parliamo di rock ma le chitarre di Levine e l’organo di Rollings provano a dettare il tempo, l’ottimo Vince Gill duetta da par suo con Mary e il risultato è molto piacevole. Holding Up The Sky, in punta di strumenti e con una voce quasi sussurrata fa parte di questo nuovo filone più folkeggiante inaugurato nell’ultimo decennio.

Mary Chapin Carpenter non è certo il primo nome che vi viene in mente quando pensate ad una cantante di protesta o dedita a temi sociali ma le sue canzoni hanno sempre testi di ottimo livello letterario e nascosti tra le righe questi temi ricorrono; di tanto in tanto si palesano in modo evidente, è il caso di 4 June 1989 dedicata alla storia di piazza Tienammen vista attraverso gli occhi di uno dei protagonisti, un brano malinconico e compassionevole caratterizzato anche dalla presenza di un cello. Una delle più belle voci della canzone americana, Alison Krauss aggiunge le sue armonie alla evocativa I was A Bird e devo dire che le due voci si fondono alla perfezione. Mrs. Hemingway, una bellissima ballata pianistica con Matt Rollings che regala emozioni con il suo strumento, racconta la storia della prima moglie di Ernest Hemingway e gli anni di Parigi.

I have a need for solitude con la National di Levine in evidenza è piacevole ma non memorabile mentre per What You Look For Kunkel rispolvera quel sound di batteria che ha graziato decine di dischi negli anni ’70, da Linda Ronstadt a Neil Young, da Joni Mitchell a Carole King (sempre lui era) e la chitarra di Duke Levine abbandona l’incessante coloritura dei brani e si avventura in uno dei rari assoli del disco, tutto molto bello, chi conosce la Carpenter avrà modo di apprezzare, gli altri pure. Iceland è un brano lento e riflessivo (strano!) di impostazione quasi new age, con una strumentazione quasi accarezzata. The Age of Miracles con una chitarra vagamente jingle-jangle è un’altra bella ballata molto romantica di ampio respiro di quelle che la Carpenter sforna quasi a comando. La conclusione è affidata al country-rock di The Way I Feel e capisci che Mary Chapin Carpenter è una dei nostri quando nel testo ti dice “quando sono tutta sola su un’autostrada di notte, non c’è niente come due mani sul volante e la radio che suona I Want Back Down” e la chitarra di Levine che viaggia con te. Certo lì sono avvantaggiati, non fa lo stesso effetto su una tangenziale ascoltando Tiziano Ferro.

Bruno Conti