Dal Vivo In Canada, Mais Oui! Brandon Santini – Live & Extended

brandon santini live & extended

Brandon Santini – Live & Extended! VizzTone Label

Nuovo e terzo album per Brandon Santini, il primo per una label “importante” (almeno nel blues), dopo due CD pubblicati a livello indipendente. Il nostro amico, che è considerato uno dei migliori armonicisti emergenti (e non solo), è andato la scorsa estate in Canada, come lascia intuire il logo del Festival di Quebec in copertina e la presentazione in francese ad inizio concerto (mais oui!), per registrare quello che è il suo primo album dal vivo e che quindi gode di pregi (tanti) e difetti (inesistenti) delle prove live: molti classici nel repertorio del giovane artista di Memphis! In ogni caso ci sono anche alcuni pezzi che sono farina del suo sacco, tra cui un paio che vengono presentati come nuovi nel lancio dell’album. Il “ragazzo” (a poco più di 30 anni nel blues lo si è) è veramente bravo, ha un ottimo phrasing, potenza e varietà nel suonare l’armonica ed è pure in possesso di una bella voce, che volete di più  https://www.youtube.com/watch?v=EVslLijkURY ? La partenza è subito micidiale con una poderosa versione di One More Mile, che nel caso porta la canonica firma Mckinley Morganfield, la band, con l’eccellente Timo Arthur alla chitarra ed una sezione ritmica che pompa di gusto, nelle persone di Nick Hern al basso e Chad Wire alla batteria,e  permette a Santini di soffiare con vigore e classe inusitati nella sua armonica: è un veloce hors-d’oeuvre, per rimanere in questa ambientazione francese, ma permette di apprezzare subito la bravura di questo musicista https://www.youtube.com/watch?v=TPQSDFTZxBo .

Le cose si fanno subito serie con una lunga e turbinante versione di This Time Another Year, il brano firmato con Charlie Musselwhite, che era anche la title-track dell’ultimo album di studio (di cui naturalmente vi avevo parlato http://discoclub.myblog.it/2014/01/12/quasi-gemelli-nel-blues-brandon-santini-jeff-jensen/ e poi uno slow di quelli “importanti” come Elevate Me Mama, altri sei minuti di puro Chicago blues, a firma di uno dei maestri, Sonny Boy Williamson e nella migliore tradizione del genere, con la voce e l’armonica di Brandon che si ergono imperiose sul classico groove del brano, veramente eccellente! Evil Woman, altra lunga escursione nella maestria all’armonica di Santini, permette di gustare anche un assolo di grande trasporto da parte di Timo Arthur,  prima della conclusione da vero showman, solo voce, armonica e batteria, con il pubblico incitato a partecipare. In Have A Good Time, come da titolo, continua la festa, con un brano che unisce temi surf e rockabilly, grazie alla chitarra guizzante di Arthur, mentre l’armonica riposa e Santini delizia il pubblico con la sua voce potente ed espressiva. Ma è un attimo, il soffio della mouth harp ritorna imperioso nella vorticosa Help Me With The Blues, sempre ben coadiuvato dai guitar licks del bravo Timo, per altri sette minuti di blues dal vivo da sballo, con tutti i “trucchetti” dei grandi performers all’opera.

brandon santini 1 Brandon+Santini

E se non bastasse, dopo una breve pausa, arriva subito una versione della famosa Got Love If You Want It, il celebre brano di Slim Harpo, che una band inglese, anzi “la” rock’n’roll band per eccellenza (ce l’ho qui sulla punta della lingua, inizia per Rolling e finisce per Stones), adattando una parola, ha utilizzato come titolo per il loro primo album dal vivo, in questa versione siamo in ambito rock-blues con la chitarra di Arthur che urla e strepita in risposta alle “provocazioni” dell’ottimo Santini, vero showman sia alla voce quanto all’armonica. Con No Matter What I Do ci “riposiamo” un attimo, si fa per dire, nelle braccia di un caldo Chicago Blues, prima di rituffarci in uno dei brani migliori del repertorio di Santini, What You Doing To Me, una raffinata New Orleans song composta insieme a Victor Wainwright e Jeff Jensen, compagni d’avventura nell’album di studio, e ottimi bluesmen in proprio. A seguire, il tour de force della lunghissima, oltre otto minuti, My Backscratcher, un brano di Frank Frost,  che parte forte e poi accelera ancora, sembra quasi di sentire la mitica J Geils Band dei tempi d’oro, tra rock e blues, come se loro vita dipendesse da questo. I Wanna Boogie With You, un titolo, un programma, è uno dei brani nuovi di Santini, con la band ancora in overdrive, fuoco e fiamme che covano nei classici ritmi del blues e del R&R, grandissimi, prima di lasciarci ancora con un esempio da manuale del miglior blues urbano offerto in una pimpante Come On Everybody che conclude in gloria un concerto che sancisce la gran classe di questo combo e del suo leader, il bravissimo Brandon Santini!

Bruno Conti

Vecchia Scuola Blues – Willie Buck – Cell Phone Man

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Willie Buck with the Rockin’ Johnny Band – Cell Phone Man – Delmark

Un disco ogni trenta anni non è propriamente una media da scudetto, ma nel Blues succede: Willie Buck è uno degli ultimi veterani della scena di Chicago, un cantante dalla voce ancora poderosa e pimpante, diretta discendente di quella di Muddy Waters (di cui quest’anno si ricordano,rispettivamente, i 30 dalla morte e il centenario della nascita, 1913) del quale ricorda moltissimo la voce, fin nelle inflessioni più particolari. Ma non è imitazione, è proprio sincera ammirazione, per questo musicista, in pista dagli anni ’50, ma che a livello professionale ha pubblicato solo due dischi, The Life I Love (uscito in origine a livello locale, con un altro titolo, nel 1982 e recentemente ristampato dalla Delmark) e ora questo Cell Phone Man.

Questo signore è uno degli ultimi baluardi di quel tipo di suono fifties e ha trovato nella Rockin’ Johnny Band, band di bianchi ma dallo spirito “nero”, anche loro innamorati di quello stile, un gruppo di accompagnatori molto affidabile: Buck lamenta la sempre maggiore difficoltà nel trovare musicisti in grado di riprodurre questo tipo di sound, sanguigno ed elettrico, ma tradizionale al tempo stesso, senza scadere (a suo parere) nel blues-rock. In questo senso le canzoni e la musica di Waters la conoscono tutti, quindi se i suoi contemporanei sono sempre meno, nuove generazioni pronte a scandire le 12 battute in modo classico si trovano sempre. E allora vai con la chitarra elettrica di Rick Kreher (il solista della band di Rockin’ Johnny, che in qualità di leader appare come seconda chitarra e all’acustica in due brani), la sezione ritmica di John Sefner al basso e Steve Bass (?!?) alla batteria, più gli ospiti Barrelhouse Chuck al piano (e qui con nome e soprannome ci siamo) e, doppia razione di armonicisti, Bharath Rajakumar e Martin Lang che si dividono lo strumento (spesso elettrificato, nella migliore tradizione) a seconda dei brani. Di quelli a firma Muddy Waters o McKinley Morganfield (spiegare la differenza) ce ne sono ben cinque, più tre PD (non quello che pensate anche se siamo in periodo elettorale, sta per Pubblico Dominio), un paio di cover e nove brani a nome Willie Buck.

Ma il risultato è sempre quello, innestato il drive che fu delle band varie del grande Muddy negli anni ’50 e ’60, Buck provvede a “rinfrescare” e riproporre il repertorio del classico Chicago sound di quegli anni, imparato a memoria quando nel corso degli anni, durante i weekend (perché prudentemente si era tenuto, per vivere, il suo mestiere di meccanico), suonava nei vari club della Windy City e quindi a lui, rock and roll, soul, funky e disco gli fanno un baffo, per il nostro amico c’è solo il blues, elettrico, ma nel solco della tradizione, basato sull’interazione tra la sua bella voce e l’interscambio tra i vari solisti, piano, armonica e chitarra elettrica. Qualche concessione ad un suono acustico, come in una bellissima versione di Two Trains Running di Mastro Muddy, solo voce e chitarra, e I wanna Talk with My baby, nuovamente in questo formato intimo, sono le uniche variazioni sul tema principale.

Per il resto l’unica concessione di Buck alla tecnologia è il cellulare che lo riprende in azione sulla copertina del CD. Dal Mississippi della sua adolescenza a Chicago il tragitto è stato relativamente breve e da lì non si più mosso. In questo caso non vi sto a nominare i nomi dei vari brani che compongono questo album, non ce n’è bisogno, il livello è medio alto e la passione che fuoriesce dai solchi (ok, dai bytes) è chiaramente palpabile e, il che non guasta, il disco non è caratterizzato da quella filologia sonora ricercata a tutti i costi che spesso rende noiosi e pallosi molti dei dischi di blues tradizionale che escono di questi tempi. Meglio, piuttosto, del sano rock-blues, duro o chitarristico o dischi di sani principi come questo Cell Phone Man, disco che potrebbe essere uscito, che so, anche nel 1957, ma visto che vede la luce oggi, lo segnalo all’attenzione degli appassionati del buon Blues d’annata!

Bruno Conti