E Ora Qualcosa Di Completamente Diverso! The Alan Parsons Project – Ammonia Avenue

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The Alan Parsons Project – Ammonia Avenue Super Deluxe – Esoteric/Cherry Red 3CD/BluRay/2LP Box Set

Il titolo del post odierno l’ho rubato al primo film del gruppo comico inglese Monty Phyton, in quanto la recensione che segue è frutto della prolungata quarantena e del rinvio delle uscite discografiche più interessanti (oltre chiaramente al benestare concessomi dal titolare del blog). Infatti oggi mi occupo dell’ultima uscita di uno dei miei “piaceri proibiti”, vale a dire The Alan Parsons Project, band inglese in attività dal 1976 fino alla fine degli anni ottanta, titolare di una decina di album di gradevole pop-rock (con giusto una spruzzatina di prog specie nei primi lavori), dei quali almeno quelli degli anni settanta a mio parere farebbero la loro discreta figura nella discoteca di chiunque. Gli APP in realtà più che un gruppo vero e proprio era una sorta di progetto di studio (infatti non si esibiranno mai dal vivo) che girava intorno al tecnico del suono Alan Parsons, noto nell’ambiente per aver lavorato ad Abbey Road dei Beatles e a The Dark Side Of The Moon dei Pink Floyd (ma anche per aver prodotto il famoso Year Of The Cat di Al Stewart) ed al paroliere e cantante Eric Woolfson, ai quali di volta in volta si aggiungevano una serie variabile di sessionmen dalle indubbie capacità.

I nostri iniziarono quasi per gioco nel 1976 con Tales Of Mystery And Imagination Edgar Allan Poe, ispirato appunto ai racconti del leggendario scrittore americano, un album che ebbe un grande successo di pubblico e critica (ancora oggi è considerato da molti il capolavoro del duo) e che li spronò a proseguire con una serie di lavori tutti sottoforma di concept albums: per esempio I Robot (1977) era influenzato dagli scritti futuristici di Isaac Asimov, Eve (1979) dall’universo femminile, The Turn Of A Friendly Card (1980) dal gioco d’azzardo e così via. Fino ad oggi sono stati ristampati come “super deluxe box set” due album degli APP, senza seguire un ordine cronologico ma privilegiando il già citato esordio del 1976 ed Eye In The Sky del 1982 che è il loro lavoro più famoso e di maggior successo. Quest’anno mi sarei aspettato un’edizione deluxe di The Turn Of A Friendly Card (tra l’altro il mio preferito insieme a quello dedicato a Poe), sia perché ne ricorre il quarantennale sia perché Parsons (da anni non più Project, cosa ancora più impossibile dopo la scomparsa di Woolfson avvenuta nel 2009) aveva in programma prima del coronavirus una tournée celebrativa di quel disco: invece Alan ha deciso un po’ a sorpresa di omaggiare Ammonia Avenue, album del 1984 che fu comunque uno dei più grandi successi del Project anche perché veniva subito dopo Eye In The Sky.

Ammonia Avenue, ispirato al tema dell’eccessiva industrializzazione (il disco prende il nome da una strada realmente esistente, che costeggiava una gigantesca industria chimica vicino a Middlesborough ora chiusa), era ancora un discreto album di pop-rock, con un ricorso tutto sommato blando alle sonorità tipiche degli anni ottanta, e che rappresentò forse l’ultimo lavoro di un certo valore degli APP prima del lento declino che porterà Parsons e Woolfson a separarsi nel 1990. Il cofanetto, oltre ad un poster e ad un bel libro dalla copertina dura e ricco di foto e testi, comprende tre CD, un BluRay per audiofili con il disco originale sia in 5.1 surround che in stereo HD ed un inutile doppio LP sempre con l’album uscito nel 1984 (in modalità 45 giri!). Il disco è dotato come al solito di un suono perfetto, ed è suonato da musicisti di indubbio valore, tra i quali gli habitué per gli APP Lenny Zakatek, Chris Rainbow e Colin Blunstone (ex Zombies), che si alternano con Woolfson alle parti vocali, il chitarrista Ian Bairnson, la sezione ritmica di David Paton e Stuart Elliott e le orchestrazioni di Andrew Powell, mentre come ospite in un paio di pezzi c’è il sassofonista Mel Collins, già con King Crimson, Dire Straits, Eric Clapton e Rolling Stones.

Il primo CD del box è occupato dall’album originale (e qualche bonus), nove brani dei quali i due più noti sono l’opening track Prime Time, piacevole e sufficientemente trascinante brano dal ritmo mosso che richiama penso volutamente Eye In The Sky (la canzone), con un ritornello molto “catchy”, e la deliziosa Don’t Answer Me, brano dichiaratamente ispirato alle produzioni di Phil Spector (e si sente). Non manca un buon pezzo rockeggiante come la cadenzata Let Me Go Home, una raffinata pop ballad (Since The Last Goodbye), l’orecchiabile Dancing On A Highwire, l’avvolgente strumentale Pipeline ed un’elaborata mini-suite come la canzone che intitola il disco, dotata di un bel crescendo orchestrale; ci sono però anche un paio di riempitivi come One Good Reason e You Don’t Believe, quest’ultima la più anni ottanta come suono. Le otto bonus tracks sono le stesse della ristampa del 2008, una serie di demo, basic tracks e rough mix di brani finiti poi sul disco, ed una versione alternata strumentale di You Don’t Believe con la chitarra di Bairnson che scimmiotta volutamente il suono di Hank Marvin degli Shadows.

Il secondo dischetto, intitolato Eric’s Songwriting Diaries, è una serie di demo casalinghi voce e piano nei quali Woolfson costruisce a poco a poco le melodie delle varie canzoni, un work in progress interessante ma riservato agli “hardcore fans” del gruppo, con anche l’accenno a brani rimasti inediti (Don’t Take Chances On Me, You’ll Be Surprised, Wish I Was Miles Away, Toby’s Theme, mentre Amelie’s Theme si evolverà in Limelight sull’album Stereotomy). Per fans è anche il contenuto del terzo CD, 17 tracce inedite che sono una sorta di prolungamento delle bonus tracks del primo dischetto, con basi senza voce, guide vocali (tra cui una, non imperdibile, dello stesso Parsons sempre su You Don’t Believe), versioni strumentali ed esperimenti vari. Da lì in poi gli APP pubblicheranno ancora tre album non imperdibili (Vulture Culture, Stereotomy – il migliore dei tre – e Gaudi, mentre il doppio Freudiana del 1990 non fu accreditato a loro nonostante lo fosse al 100%, pare a causa di divergenze creative tra i due mastermind del Progetto), e Parsons continuerà da solo dal 1993 fino ad oggi con lavori via via sempre più trascurabili, ma iniziando finalmente ad esibirsi dal vivo.

Marco Verdi

Un Box Per Pinkfloydiani Incalliti E “Completisti”! Nick Mason – Unattended Luggage

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Nick Mason – Unattended Luggage – Parlophone/Warner 3CD – 3 LP Box Set

Quando si parla di discografie soliste dei membri dei Pink Floyd il pensiero va subito a Roger Waters e David Gilmour (o, per i cultori, a Syd Barrett): già se si parla di Richard Wright, cioè uno che comunque nel gruppo di canzoni ne ha scritte ed anche cantate diverse, la nebbia comincia ad infittirsi. Ancora meno noto è il fatto che anche il batterista Nick Mason abbia avuto un percorso al di fuori del gruppo, con tre album usciti tutti negli anni ottanta (Fictitious Sports, 1981, Profiles, 1985, White Of The Eye, 1987): oggi quei lavori, da lungo tempo introvabili, vengono riuniti in un piccolo box intitolato Unattended Luggage, uscito sia in CD che in LP (e per White Of The Eye è la prima volta come supporto digitale) in una confezione un po’ spartana: box di cartone duro con all’interno i tre dischetti infilati nella riproduzione del vinile dell’epoca, ma nemmeno un libretto con qualche nota, cosa strana dato che i Floyd hanno sempre curato molto anche la confezione. Se però siete dei fans della storica band britannica, difficilmente troverete tracce del vostro gruppo preferito in questi dischi: Mason è sempre stato indubbiamente un grandissimo batterista, ma come autore all’interno dei Floyd ha scritto una sola canzone in solitario (The Grand Vizier’s Garden Party su Ummagumma, un pezzo tutt’altro che indimenticabile) e poche altre le ha firmate collettivamente con gli altri (per esempio A Saucerful Of Secrets, che è anche il nome della band con la quale Nick sta girando l’Inghilterra, proponendo solo brani del primo periodo dei PF).

Ascoltando questi dischetti, viene dunque il dubbio che il nome di Mason fosse stato messo in copertina per richiamare più attenzione ed aumentare le vendite, proposito comunque fallito in quanto i tre lavori non sono stati certo un successo. Prendiamo Fictitious Sports, tra l’altro l’unico dei tre accreditato al solo Mason: in realtà è un album della pianista jazz californiana Carla Bley, che suona le tastiere, produce il lavoro e scrive tutte le canzoni. Mason si limita (si fa per dire) a suonare la batteria, ed il gruppo è formato da altri musicisti dal background jazz, come il bassista Steve Swallow ed una sezione fiati di quattro elementi: ma non è un disco di puro jazz, semmai di jazz-rock, con sconfinamenti nel prog, e questo grazie alla presenza della chitarra di Chris Spedding (uno che ha suonato con John Cale, Brian Eno, Roxy Music ma anche Paul McCartney) e soprattutto alla voce solista dell’ex leader dei Soft Machine, Robert Wyatt (tranne nel primo pezzo, cantato da tale Karen Kraft). Fictitious Sports è dunque un buon disco, non ostico, anzi abbastanza fruibile, anche se distante dalle atmosfere floydiane, che si possono solo intuire qua e là per il modo di suonare di Mason ed in qualche passaggio chitarristico.

Can’t Get My Motor To Start è un brano tra jazz e rock, pieno di idee, improvvisazioni e momenti anche bizzarri (come l’uso delle voci), ma potente dal punto di vista strumentale. I Was Wrong è già più normale, un jazz-rock-funky abbastanza godibile e leggero, suonato benissimo e guidato dalla voce arrochita di Wyatt, Siam è ripetitiva nella parte cantata, con il suo tempo da bolero, ma ha un intermezzo strumentale notevole (grande assolo di sax), mentre Hot River è un’ottima rock song, pura, semplice e senza contaminazioni, con la slide “gilmouriana” di Spedding (ed infatti è il pezzo più Floyd del disco). Boo To You Too è frenetica e nervosa, e ricorda un po’ gli Steely Dan, Do Ya? non è quella della ELO, bensì una ballata quasi d’atmosfera ancora d’impianto jazz, dominato da un caldo assolo di tromba, Wervin’ è funky, annerita ed anche piuttosto “free”, mentre I’m A Mineralist chiude il disco con uno slow pianistico dai toni prog ed un finale ancora tra jazz e rock, con la chiara influenza di Miles Davis.

Profiles, uscito quattro anni dopo, è invece un album accreditato a Mason insieme a Rick Fenn, ex chitarrista dei 10cc, ed è un lavoro che con il nostro batterista non c’entra molto, in quanto trattasi di puro synth-pop anni ottanta, infarcito di tastiere elettroniche e sonorità fasulle (e nonostante la presenza di Fenn, di chitarra ce n’è poca), un album vicino allo stile degli OMD, è non è esattamente un complimento. Il disco è strumentale all’80%, e suonato tutto da Fenn con l’ausilio di Mason ai tamburi (e Mel Collins, ex King Crimson, al sax in quattro pezzi), ma ci sono anche due brani cantati: il principale è senza dubbio Lie For A Lie, dato che vede David Gilmour alla voce solista (con Maggie Reilly, all’epoca nota per essere la cantante femminile di Mike Oldfield, ai cori), un brano pop orecchiabile e leggero che aveva anche delle potenzialità commerciali (ma non se lo filò nessuno lo stesso), mentre Israel, cantata dall’ex tastierista degli UFO Danny Peyronel, è abbastanza trascurabile. Il resto, come ho già detto, è pop elettronico che se negli anni ottanta aveva il suo mercato, oggi suona decisamente datato, ed è strano che un musicista dello spessore di Mason sia stato coinvolto in questa roba: si salvano, ma devo proprio far fatica, la languida Rhoda, la solare Mumbo Jumbo e At The End Of The Day, dove finalmente si sente un po’ di chitarra (per contro, Zip Code fa davvero schifo).

White Of The Eye è il disco più raro e meno conosciuto del Mason solista, essendo stato in commercio molto poco e mai pubblicato in CD fino ad oggi: si tratta della colonna sonora di un oscuro film del 1987, ed è ancora condiviso con Fenn. E’ un lavoro stavolta totalmente strumentale, ma è un po’ meglio di Profiles (ci voleva poco, direte voi), più rock e con molte più chitarre. In effetti ricorda molto da vicino le soundtracks di quel periodo ad opera di Ry Cooder, anche per l’uso insistito da parte di Fenn della slide acustica, come in Where Are You Joany? e nella bluesata Anne Mason. Non male anche Globe, quasi un bluegrass elettrico (c’è anche un banjo in evidenza) e la roccata e grintosa Dry Junk: stiamo però parlando di un disco solista di Fenn, con Mason alla batteria, piuttosto che di un lavoro in cui la presenza dell’ex Floyd è caratterizzante.

Quindi un box da avere solo se siete dei maniaci completisti (costa come un singolo CD), ma da tenere presente anche se foste interessati almeno a Fictitious Sports, che nel suo genere è comunque un buon disco.

Marco Verdi