Una Riscoperta Quantomeno Opportuna! Roy Orbison – The MGM Years 1965-1973 & One Of The Lonely Ones

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Roy Orbison – The MGM Years 1965-1973 – Universal 13CD (14LP) Box Set 

Roy Orbison – One Of The Lonely Ones – Universal CD

Quando si parla di Roy Orbison, una delle più grandi voci rock di sempre, si tende a considerare principalmente la fase iniziale della sua carriera, quando cioè incidendo per la Monument pubblicò tutti i suoi maggiori successi, da Oh, Pretty Woman a Only The Lonely passando per Running Scared, Crying e In Dreams (solo per citare alcune tra le più note), oppure gli ultimi anni prima dell’improvviso decesso, quando era finalmente riuscito a riassaporare il piacere della popolarità, o perché no i suoi esordi presso la Sun Records, ma spesso ci si dimentica che, tra la seconda metà degli anni sessanta ed i primi anni settanta Roy si era accasato presso la MGM ed aveva continuato ad incidere con grande regolarità. Anni difficili per The Big O, sia professionalmente (i tempi e le mode stavano cambiando con rapidità, e c’era poco spazio nelle classifiche per le canzoni romantiche del nostro) sia dal punto di vista della vita privata, in quanto nel giro di poco tempo Roy perse in tragiche circostanze sia la prima moglie Claudette che due dei suoi tre figli (rispettivamente in un incidente stradale ed in un incendio casalingo). Ma Orbison non si diede per vinto, e si rifugiò nella musica più che mai, anche se con esiti commerciali incerti: la qualità delle sue incisioni si manteneva comunque su livelli medio-alti, come testimonia questo prezioso box che riunisce tutti i dischi incisi in quel periodo, aggiungendo una compilation di b-sides e brani apparsi solo su singolo, a cura dei tre figli superstiti di Roy (Wesley, Roy Jr. ed Alex), che si occupano degli archivi del padre dopo la scomparsa nel 2011 di Barbara, seconda moglie ed anche manager del cantante texano. Oltre al box The MGM Years (molto ben fatto e con un esauriente libretto di 65 pagine, anche se non a buon mercato – ma i vari CD sono stati ristampati anche singolarmente) i Roy’s Boys, così si fanno chiamare i tre figli, hanno pubblicato separatamente una vera chicca, cioè un intero disco inciso da Roy nel 1969 e mai messo in commercio, intitolato One Of The Lonely Ones, un album inciso di getto in risposta ai tragici eventi della sua vita. Ma andiamo con ordine.

roy orbison mgm years

 

The MGM Years: come già detto sono presenti gli undici album pubblicati da Roy in quel periodo (There Is Only One Roy Orbison, The Orbison Way, The Classic Roy Orbison, Sings Don Gibson, Cry Softly Lonely One, Roy Orbison’s Many Moods, Hank Williams The Orbison Way, The Big O, Roy Orbison Sings (titoli molto fantasiosi), Memphis e Milestones), rimasterizzati ad arte e presentati in pratiche confezioni simil-LP, una colonna sonora mai realizzata su CD (The Fastest Guitar Alive) ed il già citato B-Sides And Singles. Come già accennato, i dischetti presenti nel box (tutti molto corti e senza bonus tracks, si va da un minimo di 24 minuti ad un massimo di poco più di mezz’ora, a parte la compilation di singoli) sono decisamente godibili, senza particolari differenze di suono e stile tra uno e l’altro: la classe di Roy non la scopriamo certo oggi, ed in più in quegli anni aveva raggiunto una tale potenza e maturità vocale da consentirgli di affrontare con disinvoltura qualsiasi tipo di canzone, un po’ come Elvis negli anni settanta. Roy alterna le sue tipiche canzoni ricche di melodia (molte scritte con i partner abituali Bill Dees e Joe Melson) con altri pezzi più rock’n’roll, un uso degli archi misurato e non pesante e soprattutto la sua formidabile voce a rendere degne di nota anche le canzoni più normali. Qualche titolo sparso (ma potrei citarne il quadruplo): la nota Claudette, dedicata alla moglie quando era ancora in vita https://www.youtube.com/watch?v=tUZBijp0En0 , l’emozionante Crawling Back, Ride Away, la fluida Ain’t No Big Thing, la scintillante Go Away, la trascinante City Life, la drammatica Amy, l’insolita Southbound Jericho Parkway, una mini-suite di sette minuti con elementi psichedelici, non proprio il pane quotidiano per Roy.

Oppure interi album di alto livello, come Cry Softly Lonely One (che ha punte di eccellenza nella romantica She, la fulgida Communication Breakdown https://www.youtube.com/watch?v=5CHygiovJD8 , la classica title track, puro Orbison al massimo della sua espressività vocale, o il gioiellino pop Only Alive), o i tre album di cover (gli omaggi a due leggende della musica country come Don Gibson e Hank Williams, due dischi coi fiocchi, o Memphis, composto interamente di brani rock e country contemporanei). Per non parlare di The Big O, forse il migliore in assoluto tra tutti, un disco roccato e diretto, con un suono elettrico che ricorda le prime incisioni con la Sun, dove spiccano Break My Mind, con un ritornello corale irresistibile, il rifacimento di Down The Line (periodo Sun), dove Roy assomiglia più a Jerry Lee Lewis che a sé stesso https://www.youtube.com/watch?v=_TxtofIPdFg , la magnifica Loving Touch e la gioiosa Penny Arcade.

E poi ci sono le cover sparse, e Roy con la voce che si ritrovava riusciva a far sua qualsiasi canzone: Unchained Melody (da pelle d’oca), Help Me, Rhonda (Beach Boys), I Fought The Law (sempre bellissima), Sweet Caroline (Neil Diamond), Only You (Platters), Land Of 1000 Dances, Words (Bee Gees) solo per citarne alcune https://www.youtube.com/watch?v=RFIKES6yC1Y . Buon ultimo, The Fastest Guitar Alive, colonna sonora di uno strano western interpretato da Roy stesso, in cui il protagonista girava con una chitarra che all’occorrenza si tramutava in fucile: un dischetto curioso, non il migliore di quelli presenti, ma che contiene almeno due perle come la spedita Rollin’ On e la discreta Best Friend, ma anche cose un po’ ingenue come la stereotipata Pistolero, che sentita oggi fa un po’ sorridere.

roy orbison one of the lonely ones

One Of The Lonely Ones: un disco abbastanza in linea con gli standard del periodo, che vede il nostro in ottima forma nonostante i dolorosi fatti privati, anche se con un comprensibile aumento degli elementi malinconici. Dopo un’emozionante rilettura del classico di Rodgers & Hammerstein You’ll Never Walk Alone (un successo per Gerry & The Pacemakers e da sempre inno dei tifosi del Liverpool), con il tipico crescendo di Roy https://www.youtube.com/watch?v=DN9Na5KzRhw , abbiamo una bella serie di ballate ricche di pathos, canzoni mai sentite che finalmente ci vengono svelate, come la tesa Say No More, la deliziosa Laurie (uno come Chris Isaak godrà come un riccio ad ascoltare questi pezzi), la fluida title track, la soul-oriented Little Girl (che voce) o il valzerone countreggiante After Tonight, mentre The Defector è “solo” un buon riempitivo. Ma Roy non tralascia il rock, come la vibrante Child Woman, Woman Child, dal ritmo sostenuto e con diversi punti in comune con Oh, Pretty Woman (poteva diventare un classico) o la mossa Give Up, un rock’n’roll con interessanti cambi di tempo e similitudini con il suono di Buddy Holly. Infine, tre cover, due delle quali di Mickey Newbury (una rilettura pop, ma di gran classe, di Leaving Makes The Rain Come Down e Sweet Memories, che Roy fa sua al 100%) ed una toccante I Will Always ancora di Don Gibson. Peccato per la copertina, una delle più brutte mai viste.

Dopo la fine del contratto con la MGM Roy piomberà nel dimenticatoio per tutto il resto degli anni settanta e la prima metà degli ottanta (solo tre dischi: I’m Still In Love With You, discreto, Regeneration e Laminar Flow, trascurabili), per poi tornare clamorosamente in auge dal 1987 in poi, prima con la compilation di successi reincisi ex novo In Dreams, ma soprattutto con il fantastico A Black And White Night, uno dei migliori live degli anni ottanta (e non solo) https://www.youtube.com/watch?v=_PLq0_7k1jk  e con l’album Volume One ad opera dei Traveling Wilburys. Poi la morte per infarto, improvvisa, nel Novembre del 1988, che non gli ha permesso di vivere il grande successo del suo vero e proprio comeback record Mystery Girl e del singolo You Got It. Ma questa è un’altra storia: intanto godiamoci questi 14 dischetti, ricordandoci che, per parafrasare il titolo del primo CD del box, “di Roy Orbison ce n’è soltanto uno”.

Marco Verdi

P.S: se proprio non volete accaparrarvi il box al completo (in CD, quello in LP ha un costo ridicolmente alto), mi permetto di consigliare i seguenti titoli: The Orbison Way, Crw Softly Lonely One, Hank Williams The Orbison Way, The Big O, Memphis e Milestones. Oltre, ovviamente, a One Of The Lonely Ones.

Anche In Fondo Al Barile C’è Roba Buona! Ultimate Spinach – Live At The Unicorn, July 1967

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Ultimate Spinach – Live At The Unicorn, July 1967 – Keyhole Records

Ormai abbiamo quasi raschiato il fondo del barile, nell’ambito delle ristampe, quasi. In questi anni siamo arrivati alle ristampe dei vecchi bootleg, prima la Cleopatra Records, ora questa Keyhole, stanno pubblicando alcuni concerti della era psichedelica, artefatti che erano in versione pirata ed ora acquisiscono una versione “ufficiale”. I Quicksilver escono a decine, ma anche altri gruppi, come la Steve Miller Band, la band di Boz Scaggs, gli It’s A Beautiful Day, tutti a cura della stessa Keyhole, anche qualche titolo dei Velvet Underground e di Lou Reed. Pure questo CD degli Ultimate Spinach, band psichedelica di Boston, in azione sul finire degli anni ’60, è corredato da un bel libretto di una decina di pagine, ricco di informazioni e di pensieri forniti dal fondatore della band, Ian Bruce-Douglas, all’epoca dei fatti un ventenne ingenuo e poco avvezzo al mondo della musica, almeno a giudicare dalle sue parole e dalle reminiscenze sull’excursus del suo gruppo.

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Stando a quanto si dice nel libretto pare che i componenti degli Spinach non fossero un ensemble di amici, ma un gruppetto di personaggi intenti a farsi del male tra di loro, con manager e produttori che erano impegnati a cercare di fregarli nell’un caso e fare dei dischi esattamente opposti alle attese del buon Ian, nell’altro. Che, volendo, era un po’ la situazione tipica a quei tempi, con l’eccezione delle band di grande successo, gli altri improvvisavano molto, oltre che nella loro musica, anche nel gestire la propria carriera. La registrazione di questo concerto avviene nel luglio del 1967, in un piccolo locale di Boston, dove la band era stata ingaggiata, ancora priva di un concerto discografico, per una serie di sei settimane di concerti serali, più una matinée alla domenica: il nome completo del locale era Unicorn Coffee Shop, quindi si possono immaginare le dimensioni della “sala da concerto”.

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Addirittura la band, forse, era nella sua fase di passaggio da Underground Cinema a Ultimate Spinach, e non aveva registrato ancora nulla a livello discografico, quindi il repertorio era molto basato sulle cover, con alcuni brani originali, (tra cui (Ballad Of The) Hip Death Goddess e Mind Flowers, che sono quelli per cui sono ricordati ancora oggi), una psichedelia abbastanza ricercata che poteva ricordare per certi versi quella di gruppi come i Jefferson Airplane, anche perché i componenti del gruppo cantavano tutti, meno il bassista Richard Nese, e in formazione c’era la bella voce femminile della diciottenne Barbara Hudson, a cui si sarebbe aggiunta Priscilla Di Donato nel gennaio del 1968. Gli altri erano Geoffrey Winthrop alla chitarra solista e sitar, Keith Lahteinen alla batteria e il già citato Ian Bruce-Douglas al piano elettrico e 12 corde. Tra pasticche misteriose, LSD corretto alla stricnina e scontri interni doveva essere proprio un bel ambientino, comunque il primo album omonimo, pubblicato dalla MGM, la stessa dei Velvet, arrivò fino al 34° posto delle classifiche americane https://www.youtube.com/watch?v=_AdFvJ9iUDQ , anche se fu distrutto a livello critico da un certo Jon Landau, cosa che ancora oggi fa inc…re Bruce-Douglas non poco, anche se lui stesso è critico verso quel disco, dicendo che sperava di pubblicare un disco dalle sonorità corpose alla Jimi Hendrix, mentre per colpa del produttore Alan Lorber, finirono per avere un disco di bubblegum music.

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Probabilmente la verità sta nel mezzo, infatti il disco è stato poi rivalutato e la versione in CD della Big Beat fa la sua bella figura. La qualità sonora di Live At The Unicorn è quella di un buon bootleg, persino ottimo, rimasterizzato nei limiti del possibile, e si apprezza la grinta dell’iniziale chitarristica Hey Joe, un must dell’epoca https://www.youtube.com/watch?v=kGho-mLO_co , il gentile folk-rock psych di Get Together https://www.youtube.com/watch?v=ZC5WG9dqRIw , con le sue piacevoli armonie vocali, il mid-tempo pianistico di I Don’t Know Your Name, Funny Freak Parade con un improbabile “assolo” di kazoo di Barbara Hudson. Don’t Let These Years Go By addirittura non è riportata sulla copertina del CD, ma giuro che c’è, una leggiadra ballata vagamente folk con un liquido piano elettrico. Anche Don’t Cry For Me e Follow Me, cantata dalla Hudson hanno quest’aria folkeggiante per niente disprezzabile tipica dei tempi https://www.youtube.com/watch?v=dTxiVvczzCM , ma sono i brani conclusivi quelli che danno concretezza al gruppo e al concerto, Hip Death Goddess, ancora con la voce da soprano di Barbara, vagamente alla Nico, in evidenza, poi diventa una cavalcata acida e psichedelica con gli strumenti in libertà, alla Big Brother o Country Joe https://www.youtube.com/watch?v=VYWI7FzME3I  e la lunghissima, oltre 12 minuti, Mind Flowers, viaggia addirittura sui territori dei Quicksilver o dei Jefferson più improvvisativi e francamente smentisce l’asserzione di Bill Graham, che disse che il gruppo era il peggiore che avesse mai suonato al Fillmore https://www.youtube.com/watch?v=N60iusteLCU . Tutti possono sbagliare, e questo buon Live lo testimonia.                                                                 

Bruno Conti