Forse L’Unico Modo Per Fermarlo E’ Sparargli! Willie Nelson – Ride Me Back Home

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Willie Nelson – Ride Me Back Home – Legacy/Sony CD

Alla bella età di 86 anni suonati il grande texano Willie Nelson non ha la minima intenzione non solo di fermarsi, ma neppure di rallentare. Se ormai dal vivo fa fatica e si prende le sue (comprensibilissime) pause, in studio continua a viaggiare al ritmo di almeno un disco all’anno, quando non ne fa due (tipo lo scorso anno, prima con lo splendido Last Man Standing e poi con My Way, raffinato omaggio a Frank Sinatra), e sempre con una qualità piuttosto alta. Ora il barbuto countryman inaugura il suo 2019 con questo Ride Me Back Home, album in studio numero 69 per lui, un altro ottimo lavoro che, pur non raggiungendo forse i picchi creativi di Last Man Standing (che era però uno dei suoi migliori in assoluto, almeno negli ultimi venti anni https://discoclub.myblog.it/2018/05/07/non-solo-non-molla-ma-questo-e-uno-dei-suoi-dischi-piu-belli-willie-nelson-last-man-standing/ ), si posiziona tranquillamente molto in alto nella classifica qualitativa dei suoi dischi. Prodotto dall’ormai inseparabile Buddy Cannon, Ride Me Back Home è la solita prova di bravura, un lavoro decisamente raffinato e suonato con classe immensa da un gruppo di musicisti coi controfiocchi (tra i quali spiccano i formidabili Jim “Moose” Brown e Matt Rollings, entrambi al piano ed organo, James Mitchell alla chitarra, la sezione ritmica formata da Larry Paxton al basso e Fred Eltringham alla batteria, Bobby Terry alla steel e l’immancabile Mickey Raphael all’armonica) e cantato da Willie con una voce che, pur mostrando i segni dell’età, riesce ancora a dare i brividi ed a sprizzare carisma da ogni nota.

L’album, undici canzoni, si divide in maniera equilibrata tra brani originali scritti dal nostro a quattro mani con Cannon, più il rifacimento di un vecchio pezzo, un paio di canzoni nuove da parte di songwriters esterni ed una manciata di cover. I tre brani a firma Nelson-Cannon sono inaugurati da Come On Time, country song dal ritmo vivace e coinvolgente, texana al 100%, con una bella chitarrina ed un ritornello tipico del nostro; Seven Year Itch è un pezzo dal passo cadenzato ed atmosfera old-time, sembra quasi provenire dal songbook di Tennessee Ernie Ford, mentre One More Song To Write è una squisita country ballad dalla veste che richiama atmosfere sonore al confine col Messico. Stay Away From Lonely Places è un remake di un brano che Willie aveva scritto nel 1971: puro jazz d’alta classe con la band che sfiora appena gli strumenti, batteria spazzolata e Rollings che lavora di fino al piano, con Willie che si destreggia alla perfezione nel suo ambiente naturale. I due pezzi nuovi ma non scritti da Willie sono la title track (che apre l’album), bellissimo slow pianistico sfiorato dalla steel e valorizzato da una deliziosa melodia, e Nobody’s Listening, una canzone sempre dall’incedere lento ma con un arrangiamento atipico quasi più rock che country, un pianoforte liquido ed uno sviluppo fluido e rilassato.

Poi abbiamo due canzoni del grande Guy Clark, che Willie non aveva ancora omaggiato da dopo la scomparsa avvenuta nel 2016: My Favorite Picture Of You è uno dei brani più personali della carriera del grande songwriter texano (era dedicata alla moglie Susanna, mancata prima di lui), una ballatona intensa sempre con il piano in evidenza ed un arrangiamento raffinato, da brano afterhours, mentre Immigrant Eyes è davvero splendida, un pezzo toccante e superbamente eseguito, con un ispiratissimo assolo di Willie con la sua Trigger. Infine le altre cover: non ho mai amato particolarmente Just The Way You Are, una delle canzoni più popolari di Billy Joel, ma Willie la spoglia delle originali sonorità da sottofondo per un cocktail party e riesce a farla sua, anche se rimane quel retrogusto di artefatto, molto meglio It’s Hard To Be Humble (di Mac Davis) un tipico e scintillante valzerone texano cantato a tre voci da Nelson con i figli Lukas e Micah, un tipo di brano in cui il nostro è maestro indiscusso; chiude il CD Maybe I Should’ve Been Listening, un pezzo scritto da Buzz Rabin nel 1977, altro lento molto intenso e cantato in maniera toccante e profonda  Ennesimo bel disco dunque per il vecchio Willie, anche se sono sicuro che mentre noi siamo qui che lo ascoltiamo lui sta già pensando al prossimo.

Marco Verdi

Supplemento Della Domenica: Un Nuovo Tipo Di Musica “Ambient”! Neil Young & Promise Of The Real – Earth

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Neil Young & Promise Of The Real – Earth – Reprise/Warner 2CD – 3LP – Download Pono 

Non allarmatevi, non è che Neil Young si sia improvvisamente messo a seguire le orme di Brian Eno: il titolo del post è un gioco di parole riferito al fatto, già noto da tempo per via dei comunicati stampa, che questo disco sia pieno di rumori ambientali, come se fosse stato registrato in mezzo alla natura. Ed infatti sia il titolo, Earth, sia la scelta delle canzoni, tutte aventi come tema il rapporto dell’uomo con l’ambiente, portano in questa direzione: Young, come sappiamo, una ne pensa e cento ne fa, e quindi la sua ultima idea è stata quella di pubblicare una testimonianza live del tour con i Promise Of The Real (la band di Lukas e Micah Nelson, figli di Willie) come se fosse stata registrato in mezzo ad un campo, o in un bosco, quindi circondato da rumori di pioggia, vento, ma soprattutto dai versi di vari animali quali rane, cavalli, galline, grilli ed insetti vari (ci sarebbero anche i clacson delle macchine che tanto naturali non sono, ma sappiamo della passione di Neil per le automobili). Conoscendo il tipo, la mia paura principale era che questi “rumori” interrompessero le varie performances, ma per fortuna non è così: qualcosa in mezzo ogni tanto si sente, ma il più delle volte i suoni sono messi tra un brano e l’altro, e senza sostituire il pubblico (altra cosa che temevo), ma unendosi ad esso e creando un effetto all’inizio un po’ straniante, ma alla lunga non mancante di un certo fascino.

Ma la cosa che più interessa in un album dal vivo sono le canzoni, e devo dire che Neil, nonostante passino gli anni, non tradisce mai: tredici performances spalmate su due CD (la scaletta annunciata in un primo momento ne prevedeva undici, quindi meglio così), con Neil in ottima forma ed i POTR che si dimostrano, come avevano lasciato intravedere lo scorso anno in The Monsanto Years, una backing band con le contropalle, quasi una versione più giovane dei Crazy Horse, anzi, se uno non lo sa, in certi momenti sembra davvero di sentire all’opera la band di Talbot, Molina e Sampedro (ma questo è dovuto in parte anche al tipo di canzoni di Neil, ricordo che la prima volta che lo vidi dal vivo, nel 1993, era accompagnato da Booker T. & The Mg’s, ma anche in quel caso sembrava di avere di fronte il Cavallo Pazzo, con l’organo di Booker T. Jones mixato talmente basso che quasi non si sentiva).

Quello che quindi uno si aspetta di avere in un disco live di Neil Young qui c’è: canzoni lunghe, diverse jam chitarristiche, qualche oasi acustica e tanto, tanto feeling; in più, alcune performances sono davvero di quelle da ricordare, ed anche la scaletta è decisamente stimolante, con solo un paio di classici assodati e diversi interessanti ripescaggi di brani oscuri del passato, oltre a quattro pezzi da The Monsanto Years, che fa prevedibilmente la parte del leone. I fratelli Nelson sono due chitarristi che si adattano alla perfezione al suono rustico della sei corde del leader, e la sezione ritmica di Corey McCormick (basso) ed Anthony Logerfo (batteria, oltre a Tato Melger alle percussioni) non sbaglia un colpo: Neil ha poi aggiunto qua e là anche un coro di otto elementi in studio, un’addizione che in alcuni punti funziona ed in altri meno. In definitiva Earth non è un disco perfetto, né si propone come il miglior live della carriera di Young, ma, a parte due o tre episodi minori, intrattiene a dovere per un’ora e mezza e contiene anche diverse zampate d’autore che valgono da sole il prezzo di ammissione. L’inizio non è il massimo: Mother Earth è un brano lentissimo, con Neil che canta accompagnandosi solo all’armonica ed all’organo a pompa, ma la melodia è un po’ banale (a me, scusate ma lo dico, ricorda quella dello spot della Robiola Osella…) ed il brano fatica a coinvolgere. Seed Justice è un brano inedito, e qui inizia lo sballo: una tipica rock’n’roll song elettrica del nostro, grande riff di chitarra, ritmo aggressivo, Neil canta con rabbia ed un ritornello epico che ha il sapore dei classici del passato; My Country Home apriva alla grande Ragged Glory, uno dei migliori dischi del Bisonte, ed anche qua è una goduria, una sorta di country song ma prepotentemente elettrica, con un refrain coinvolgente e chitarre ruspanti al punto giusto, che macinano assoli a profusione.

The Monsanto Years è più soffusa, anche se l’accompagnamento è sempre elettrico, ma non è una grande canzone, un tantino monotona e tirata inutilmente per le lunghe, mentre Western Hero (da Sleeps With Angels) è invece una splendida ballata elettroacustica, dalla melodia classica e con  un’emozionante parte corale (qui il coro è usato molto bene), un brano degli anni novanta ma che potrebbe anche essere dei settanta, e che ci riporta il Neil Young che amiamo di più. Neil va poi a ripescare addirittura Vampire Blues da On The Beach, un bluesaccio elettrico decisamente riuscito: il nostro non è certo un bluesman, ma ci mette talmente tanta grinta, anima e, perché no, mestiere, da cancellare ogni dubbio (e poi l’intesa con i POTR è ottima); Hippie Dream era in Landing On Water, forse il disco più brutto di Young, ed il brano qui migliora un po’ se non altro perché suonato in maniera potente, ma insomma c’era ben altro in repertorio. Il primo CD si chiude con due classici assoluti: After The Gold Rush, eseguita da solo al piano, è uno dei capolavori assoluti del nostro, uno di quei pezzi che non ci si stanca mai di ascoltare (anche se qui il coro “posticcio” poteva evitarcelo), mentre anche Human Highway è una grande canzone, e questa affascinante versione full band acustica è la sua veste perfetta. Il secondo dischetto contiene solo quattro brani, tre dei quali tratti da The Monsanto Years: la bellissima Big Box, che già nell’album di un anno fa era tra i pezzi migliori, una rock song di quelle che il nostro tira fuori quando è ispirato, lunga, fluida, vibrante, People Want To Hear About Love, diretta, immediata e fruibile, mentre Wolf Moon è superiore alla versione in studio, una limpida oasi di matrice folk, perfetta da ascoltare prima del gran finale. Sì, perché il brano conclusivo è una di quelle performances attorno alle quali Neil ha costruito la propria leggenda, una versione di ben 28 minuti di Love And Only Love (terzo brano quindi che proviene da Ragged Glory), che già di per sé è una grande canzone, ma qui viene proposta nella sua rilettura definitiva, un’incredibile cavalcata elettrica di quelle che hanno reso famoso il nostro, e che da sola vale l’acquisto del doppio CD: dopo quindici minuti di pura tensione “rocknrollistica”, ne abbiamo altri dodici dove Neil e compari si sbizzarriscono, tra feedback, svisate elettriche, distorsioni, riprese vocali del ritornello ed accenni di psichedelia, un finale forse non troppo immediato ma indubbiamente affascinante.

D’altronde Neil Young è questo, con tutte le sue contraddizioni, pregi e difetti: prendere o lasciare. Ed io, tutta la vita, prendo.

Marco Verdi

Tra OGM E Grande Musica! Neil Young + Promise Of The Real – The Monsanto Years

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Neil Young + Promise Of The Real – The Monsanto Years – Reprise CD

Nel mondo musicale (e non solo) le etichette appiccicate addosso ad un determinato artista sono dure a morire, anche a distanza di decenni. Neil Young non è mai stato esattamente considerato un cantante di protesta, a differenza del collega ed amico Bob Dylan: se poi andiamo a vedere nel dettaglio, il buon Bob ha basato sulle cosiddette topical songs appena un paio di album ad inizio carriera (Freewheelin’ e The Times They Are A-Changin’, tra l’altro neppure nella loro interezza), riservando poi il privilegio a poche canzoni sparse tra anni settanta ed ottanta (a memoria ricordo George Jackson, la veemente Hurricane, Slow Train, Union Sundown e Neighborhood Bully), ma il momento era quello giusto (i primi anni sessanta, il folk revival), tanto che ancora oggi qualcuno pensa che Dylan sia uno che ha fatto successo cantando canzoni sulla guerra in Vietnam (conflitto invece mai neppure citato direttamente). Invece il rocker canadese, pur scrivendo testi di una profondità rara, non ha mai fatto della denuncia sociale il suo cavallo di battaglia, ma c’è da dire che, quando ne ha avuto l’occasione, non si è mai tirato indietro, bastonando duro e facendo quasi sempre nomi e cognomi. Il caso più celebre è senz’altro Ohio, singolo inciso nel 1971 con Crosby, Stills & Nash, nel quale incolpava direttamente Nixon dei quattro studenti uccisi dalla polizia durante i disordini alla Kent Univesity, ma in seguito (molti anni dopo) c’è stato il caso, trattato con molta più leggerezza ed ironia, di This Note’s For You, nella quale Neil se la prendeva con i colleghi che prestavano la loro voce alla pubblicità di prodotti commerciali.

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In anni più recenti clamoroso è stato il caso di Living With War, album del 2006 nel quale il nostro martellava l’amministrazione Bush Jr., in particolare la sua politica estera, fatto ancora più sorprendente dato che negli anni ottanta spesso Neil si era trovato d’accordo con le posizioni repubblicane dell’allora presidente Ronald Reagan. Dischi così corrono il rischio di risultare datati (negli argomenti, non nella musica) dopo pochi anni dalla loro uscita, ma Young chiaramente se ne fotte (come sua abitudine) ed ora torna tra noi, a pochi mesi di distanza dall’ottimo Storytone http://discoclub.myblog.it/2014/11/16/il-bisonte-sbaglia-due-volte-fila-neil-young-storytone/ , con un altro topical record, chiamato The Monsanto Years. Come suggerisce il titolo, il disco è un’invettiva lunga nove brani contro la Monsanto, multinazionale specializzata in biotecnologie agricole ed OGM, ma anche produttrice di sostanze tossiche utilizzate in guerra: in sostanza Neil (che se la prende anche con altri colossi come Starbucks, Walmart e Chevron) conduce una mini-crociata in favore dei contadini americani (da lui difesi da sempre, bisogna riconoscere) e del loro diritto di coltivare prodotti naturali, senza imposizioni esterne. Sinceramente a noi europei, cinicamente se volete, importa poco o niente di questo tipo di battaglia tutta americana (tra l’altro condotta da un cittadino canadese che neppure vota negli USA), ma come al solito ci interessa la musica che, fortunatamente, è di ottimo livello e sicuramente ispirata

L’album è stato inciso al Teatro Theater di Oxnard, in California (lo stesso luogo dove Willie Nelson e Daniel Lanois partorirono lo splendido Teatro), insieme ai Promise Of The Real, che non è altro che la band formata da uno dei figli di Willie, Lukas Nelson, assieme al bassista Corey McCormick, al batterista Anthony Logerfo ed al percussionista Tato Melgar (come chitarrista aggiunto troviamo anche Micah Nelson, fratello di Lukas, che però non fa parte del gruppo). E The Monsanto Years mostra fieramente il lato più rock, aggressivo ed “incazzato” di Young, e non solo dal punto di vista dei testi, con la sezione ritmica che pesta che è un piacere ed il nostro che fa ululare la sua old black come sui dischi con i fidi Crazy Horse, con l’aggiunta della solista di Lukas che tende a stemperare qua e là l’atmosfera irruenta data dal chitarrismo del bisonte. I brani, aldilà del contenuto polemico (che in America ha già attirato più di una critica), sono musicalmente classici, nel senso che ti danno l’idea di averli già sentiti su qualche altro disco del canadese sotto altri titoli, ma forse è proprio questo che ci si aspetta quando si mette nel lettore un CD di Neil Young, cioè niente sorprese ma un suono “amico” che, in definitiva, è il suo marchio di fabbrica.

L’album si apre con il mid-tempo molto elettrico New Day For Love, dal bel ritornello corale e la prima serie di assoli pieni di feeling tipici del nostro, anche se il suono è un po’ grezzo, tipo buona la prima (ma tutto il disco è inciso in presa diretta, altro punto in comune con i lavori più classici di Young). Wolf Moon è l’unico pezzo acustico, con la band che si sente appena, e Neil che canta in una tonalità un filo troppo alta (ma la fragilità della sua voce è sempre stata un punto quasi di forza), un brano toccante impreziosito dai cori e dalla solita armonica evocativa. People Want To Hear About Love riprende il mood elettrico, ritmo alto, voci intonate e solita tensione chitarristica molto elevata: dal vivo farà di sicuro la sua figura; Big Box è la più lunga e sia per riff, che per assoli e melodia può essere tranquillamente assimilata ai grandi classici younghiani, otto minuti di puro godimento rock, sentire per credere.

La già conosciuta (il video è online da un paio di mesi) A Rock Star Bucks A Coffee Shop (che se la prende con la nota catena americana madre del Frappuccino, il cui nome è molto poco celato nel titolo) è uno dei classici brani elettrici e cadenzati del nostro, orecchiabili sin dal primo ascolto, dal ritornello memorabile e con lo spirito del Cavallo Pazzo in ogni nota (davvero, questo album poteva essere inciso con il trio Sampedro-Talbot-Molina che non cambiava niente). Workin’ Man è ancora più roccata, quasi punk, con Neil e Lukas che duellano alla grande con le loro sei corde: anche qui il refrain è godibilissimo, ancorché tipico del suo autore. La rabbiosa Rules Of Change, distorta e un po’ stonata, precede la lunga title track, un brano lento, disteso, fluido, sullo stile di Cortez The Killer (ma non a quel livello…), nel quale la performance vocale un po’ zoppicante e la melodia non eccelsa passano in secondo piano rispetto alle splendide digressioni “chitarrustiche”!


Chiude If I Don’t Know, ancora lenta, ma con uno script nettamente migliore ed una prova vocale più convincente da parte del Bisonte: gli spunti chitarristici di Nelson Jr., più puliti di quelli di Young, le danno poi una profondità maggiore. Degna conclusione di un disco che, aldilà delle tematiche più o meno condivisibili, ci mostra un Neil Young in piena forma, arrabbiato al punto giusto, ed i Promise Of The Real come un valido surrogato dei Crazy Horse. Non siamo ai livelli eccelsi di Psychedelic Pill, né sono in grado di giudicare se The Monsanto Years saprà superare la prova del tempo (un problema che ogni tanto i dischi di Young hanno, vedi il già citato Living WIth War o anche l’album inciso con i Pearl Jam, Mirror Ball), ma per il momento mi accontento alla grande. Esce ufficialmente il 30 giugno.

Marco Verdi

*NDB A volte ritornano (anche Young), ma nel caso mi riferisco all’amico Marco che dopo un periodo di assenza riprende la sua collaborazione con il Blog: sapendo i suoi gusti gli ho riservato questa anteprima del nuovo album di Neil Young!