Il Grande Rock Abita Anche In Italia, E Da Molto Tempo! Cheap Wine – Beggar Town Album E Concerto

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Cheap Wine – Beggar Town – Cheap Wine/Distr. IRD

Piccola premessa. Sabato scorso, 4 ottobre, sono andato allo Spazio Teatro 89 di Milano per la presentazione ufficiale del nuovo album dei Cheap Wine Beggar Town, da oggi disponibile ufficialmente in vendita, in rete per il download e nei negozi specializzati: concerto bellissimo, con una prima parte dove è stato eseguito il disco nella sua interezza e, senza soluzione di continuità, una cavalcata nel vecchio repertorio della band pesarese. Solito quintetto, o meglio, rispetto al nuovo disco, dove appariva ancora il vecchio bassista, Alessandro Grazioli, che ha lasciato dopo 18 anni di presenza nella band, c’era il nuovo bassista Andrea Giaro, che diminuisce drasticamente la quota bulbo pilifera del gruppo, ma non la competenza e la qualità del sound (era già presente al Buscadero Day). Per il resto, Alan Giannini, la solita macchina da guerra inarrestabile e raffinata al contempo alla batteria, l’ottimo Alessio Raffaelli alle tastiere (presente anche nei Miami And The Groovers) e i fratelli Diamantini, Marco, voce solista, occasionale chitarra e armonica, nonché autore dei testi e di quasi tutte le musiche della band, e alle chitarre elettriche, slide e con wah-wah, Michele Diamantini; nell’insieme, una eccellente esibizione anche grazie all’ottima acustica del Teatro milanese (un posto da scoprire ed usare in una “poverissima”  metropoli meneghina a livello di luoghi concertistici per il rock). Vi risparmio la lista dei brani eseguiti, visto che fra poco parliamo del nuovo disco, posso aggiungere che per motivi vari a livello personale, ammessi dallo stesso Marco, è stata una serata ad alto contenuto emozionale e la conferma del loro valore di Live Band che non scopro certo io.

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Venendo al nuovo Beggar Town, si tratta di un disco buio, cupo e tempestoso, dai testi crudi e pessimisti all’ennesima potenza, però la musica, quasi a compensare, è ricca, vibrante e di grande spessore, senza nulla da invidiare alle grandi produzioni internazionali anche a livello di suono, brillante e ben delineato. Questo decimo album dei Cheap Wine, in 18 anni di attività, ma già da inizio anni ’90 qualcosa si muoveva in quel di Pesaro, è l’ennesima conferma che siamo di fronte ad una delle formazioni più interessanti del panorama musicale rock italiano: anche loro, come mi piace ricordare, fanno parte di quella piccola ma agguerrita pattuglia di “italiani per caso”, da sempre proiettati verso un tipo di suono che si abbevera alle radici della musica americana (e anche di quella anglosassone), il tutto visto attraverso l’ottica della provincia italiana, dal loro quartier generale di Pesaro la “conquista” del mondo si spera idealmente sia sempre possibile. Se un brano dei Green On Red è stato quello che ha dato il nome al gruppo, la musica del Paisley Underground, il punk più raffinato (anche se il termine è un po’ un ossimoro) inglese, il rock classico inglese, Jimmy Page nelle chitarre di Michele Diamantini, ma anche Mott The Hoople nelle loro derive più R&R, qualcosa del Gilmour più lancinante e blues, tanto rock americano, da Petty a Springsteen, i citati Green On Red e i Dream Syndicate, Dylan Neil Young, quello più tosto, tra i cantautori, questo sono alcune delle cose che sento io nella loro musica, ma potete aggiungere quello che volete, anche perché il risultato finale è poi un suono molto personale che si inserisce d’autorità, ed in modo indipendente e onesto, nel grande fiume della buona musica tout court.

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Una bella confezione digipack apribile, con copertina, illustrazioni e artwork curate da Serena Riglietti, già all’opera per il precedente Based On Lies, e nota per essere l’autrice delle copertine dei libri della saga di Harry Potter, nonché insegnante all’Accademia di Belle Arti di Urbino, che notoriamente è a due passi da Pesaro. Non è tutto, il libretto comprende i testi completi, da ponderare, con relativa traduzione in italiano. E soprattutto, dodici nuove canzoni che si ascoltano tutte di un fiato, anche se l’approccio globale è forse meno immediato e rock che nei dischi passati (nel senso di “rawk and roll”), a parte il crescendo finale, siamo in ogni caso di fronte ad un signor disco. La partenza è affidata ad una intensa Fog On The Highway, con il piano Bittaniano di Raffaelli ad intrecciarsi con la chitarra di Michele Diamantini in modalità slide più wah-wah che inanella una serie di assoli acidissimi che ti torcono le budelle con delle scosse poderose mentre il fratello Marco, con voce piana da narratore esterno inizia a raccontarci cosa non funziona nel mondo, e purtroppo la lista è lunga. Altro brano eccellente è Muddy Hopes, una sorta di valzerone noir sempre incentrato sul dualismo chitarra-tastiere, con il cantato di Marco che ricorda moltissimo le atmosfere (e la voce). quasi sussurrata di Leonard Cohen, con l’atout di una chitarra risonante che ha tratti western, salvo poi nel finale scatenare tutta la sua inquietante potenza e pigiare di nuovo a fondo sul pedale del wah-wah, mentre il corpo della melodia è lasciato ai florilegi di un piano acustico quasi jazzistico nel suo divenire.

La title-track Beggar Town, con la musica di Raffaelli e ancora con una chitarra circolare e tagliente come una sega elettrica cerca di dividerci in due prima di consegnarci al “Re dei mendicanti”, il tutto su un drumming ossessivo e con il wah-wah che sparge ancora una volta velenosi accordi. Lifeboat, un altro lentone minaccioso e ciondolante, con la solita chitarra acida ed un piano elettrico che intessono traiettorie blues notturne e sospese è un’altra perla di preziosi equlibri sonori, con il solito Diamantini jr a disegnare sonorità liquide in un brano che a tratti ricorda le atmosfere e le sonorità di una Riders On The Storm per i giorni nostri. Qualche pennata di chitarra acustica ingentilisce il mood di Your Time Is Right Now, una costruzione sonora, dove il cantato corale ricorda la “vecchia” West Coast (anche se loro tecnicamente vengono dalla East Coast) o il “nuovo” Jonathan Wilson, tra Pink Floyd; Yes (lo Steve Howe di Yes Album era un gran solista, sentitevi Yours Is No Disgrace) e cavalcate psichedeliche che poi sfociano in una bella jam strumentale, dove le chitarre soliste raddoppiate e le tastiere trascinano l’ascoltatore verso lidi di pura libidine aurale, veramente un brano corale che dimostra la maturità eccellente raggiunta dal gruppo anche al di fuori delle vecchie sfuriate rock. Keep On Playing chissà perché mi ricorda il buon prog, con un inizio quasi vicino all’incipit del Il Banchetto della PFM o ancora i Led Zeppelin più pastorali, quando la batteria fa il suo trionfale ingresso sulle improvvisazioni del piano che poi lascia spazio ad un assolo di chitarra in crescendo. nella versione dal vivo si è dimostrato quasi inarrestabile nella sua magica fluidità, tra Page e il Bonamassa più legato ai 70’s, ma sempre con quei sottotoni springsteeniani che non guastano, come il cantato, sempre essenziale e mai sopra le righe di un ispirato Marco Diamantini.

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Claim The Sun è una ballatona ariosa, sulle ali di una slide ricorrente e di un piano elettrico essenziale, potrebbe ricordare anche nel timbro vocale di Diamantini Sr. certe cose più meditate dello Steve Wynn della maturità o il meglio della produzione dei Cheap Wine stessi, quelli più riflessivi. Utrillo’s Wine, basata su un aneddoto o una storia vera, un “piccolo tradimento” tra due amici sfigatissimi a Parigi, Modigliani e Utrillo, con il secondo che si vende i pochi stracci del primo per comprarsi due bottiglie di vino e berle alla sua salute, una sorta di parabola della serie non c’è limite al peggio, ridiamo per non piangere, un brano solo piano e voce, che nella melodia iniziale mi ha ricordato, non so se solo a me, il vecchio Cat Stevens (Father And Son?), per poi diventare una umbratile canzone tra Springsteen e il Waits più melodico. Di nuovo chitarre choppate e con il wah-wah innestato, ma accelerano i tempi, il suono si fa più funky-rock ed incalzante in una Destination Nowhere sempre poderosa anche nella sua incarnazione concertistica, con la solista che disegna ghirigori elettrici tra Zappa e Page, ma anche ricordando i “vecchi maestri” Green On Red, che fanno capolino pure nelle violente sventagliate rock’n’roll di una incattivita ode all’Uomo Nero, una Black Man dove anche le cascate pianistiche di Alessio Raffelli hanno un brio e una violenza tipiche del miglior R&,prima di lasciare spazio ad un altro assolo di chitarra di quelli che ti tagliano in tanti pezzettini.

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La minacciosa, nel tempo e nella musica, I Am The Scar, si situa in quel crocevia rock che sta tra i vecchi inni garage-psych di Nuggets, il Petty più rock, il Paisley Underground più cattivo di Wynn e Stuart, con i loro degni compari Karl Precoda e Chuck Prophet. Mentre la conclusione è affidata ad un brano The Fairy Has Your Wings (For Valeria), scritta in memoria di qualcuno che non c’è più ,ma la cui voce, fattezze e ricordi sono sempre vivi nella mente di Diamantini che vuole immortarli per sempre in questa bella canzone, complessa e dal bellissimo crescendo, un inizio malinconico e soffuso, una parte centrale, dove il suono è più ricercato e melodico e una lunga coda pianistica, che nella versione live vista alla presentazione, si chiude con una ulteriore coda strumentale d’assieme, una sorta di catarsi sonora che rende il brano quasi trionfale, peccato non sia presente nella pur bella versione di studio, già oltre i sei minuti e quindi forse siamo extra time, ma ci sarebbe stata veramente bene (questi recensori mai contenti!). Sarà per i prossimi concerti dell’imminente tour che tra ottobre, novembre e dicembre li vedrà in giro per l’Italia a spargere la buona novella (in alcune date anche in versione acustica) di questo nuovo, eccellente disco, e di tutto il loro passato catalogo sonoro http://www.cheapwine.net/concerti.htm. Il giudizio è uno: grande Rock, ma le parole d’ordine sono tre, comprate, comprate, comprate! Soldi spesi bene!

Bruno Conti