I Figli “Illegittimi” Di Frank Proliferano: Dopo Bob, Ecco Willie Sinatra! Willie Nelson – My Way

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Willie Nelson – My Way – Legacy/Sony CD

Sembra che, nonostante veleggi ormai verso gli ottant’anni di età, Bob Dylan non abbia smesso, anche involontariamente, di creare tendenze: infatti dopo i tre album (o cinque, dato che Triplicate era, appunto, un triplo) dedicati dal vate di Duluth alle canzoni del leggendario Frank Sinatra, ora anche Willie Nelson ha deciso di celebrare la musica di “Ol’ Blue Eyes” con questo nuovissimo My Way. C’è da dire che, a differenza di Dylan, Nelson non è la prima volta che si cimenta con gli standard della musica americana: a parte il famoso Stardust del 1978, negli anni il texano ha pubblicato diversi album a tema “Great American Songbook”, come What A Wondeful World, Moonlight Becomes You, parte di Healing Hands Of Time, American Classic, Summertime. E con My Way Willie ci regala uno dei suoi album migliori, e non solo del genere standard, un lavoro splendido che fa il paio con l’altrettanto bellissimo Last Man Standing uscito pochi mesi fa. E’ incredibile infatti come il nostro riesca a coniugare quantità e qualità con una tale nonchalance: se dal vivo, per vari problemi fisici, qualche colpo ultimamente lo ha perso, in studio è ancora una sentenza.

In My Way Willie ha usato lo stesso approccio di Bob, cioè non prendendo solo le canzoni più famose di Sinatra, ma rivolgendosi a standard che anche Frank ha cantato nella sua carriera: così a veri e propri classici associati principalmente al cantante italo-americano (Fly Me To The Moon, One For My Baby, la stessa My Way) si alternano pezzi dei quali la versione di Sinatra non è magari neanche la più nota (A Foggy Day, Night And Day). Quello che più conta però è il risultato finale, che come dicevo poc’anzi è davvero splendido: Willie canta e swinga con classe immensa, e con una voce che è ancora più che mai in grado di dare i brividi, ed i suoni sono nelle mani sicure del fido Buddy Cannon e del grande pianista ed organista Matt Rollings (Lyle Lovett, Mark Knopfler, Mary Chapin Carpenter), che è anche il leader e direttore musicale di un gruppo da sogno: Jay Bellerose alla batteria, Dean Parks alla chitarra, Paul Franklin alla steel, l’inseparabile Mickey Raphael all’armonica, il notevole bassista David Piltch ed una sezione fiati nella quale spicca un trio di sassofonisti formato da Jeff Coffin, Denis Solee e Doug Moffet. Un disco raffinato ma pieno di feeling, che sprizza classe da ogni nota, suonato in maniera sicura e rilassata nello stesso tempo. L’album si apre con la celeberrima Fly Me To The Moon, con Willie che inizia subito a swingare che è un piacere, seguito dai fiati che accompagnano in maniera calorosa, la sezione ritmica che punteggia alla grande ed un doppio delizioso assolo chitarristico, prima del nostro con la sua Trigger e poi di Parks.

Summer Wind è una pura jazz ballad, che vede Nelson cantare in perfetto relax, il gruppo suonare in punta di dita (con il piano di Rollings in evidenza) e l’armonica dare il tocco country; ancora piano ed armonica introducono la nota One For My Baby (And One More For The Road), dall’accompagnamento soffuso, atmosfera afterhours, una sezione d’archi non invasiva e la consueta classe sopraffina. A Foggy Day è un brano di George ed Ira Gershwin, e come tutti i pezzi scritti dal duo di compositori di Brooklyn ha avuto negli anni varie versioni, delle quali quella di Sinatra non è necessariamente la più famosa: la rilettura di Willie è nuovamente ricca di swing, ed è punteggiata dal solito splendido pianoforte di Rollings e dai fiati al gran completo; It Was A Very Good Year è intensa e maestosa, Willie la canta come se fosse una western tune e gli archi aggiungono pathos e drammaticità, mentre Blue Moon è uno dei pezzi più famosi di tutti i tempi, con il texano che la rifà in maniera raffinata e godibile, mettendoci una bella dose di verve: piano, steel e Trigger completano il quadro. La lenta I’ll Be Around (che era uno degli highlights del mitico In The Wee Small Hours) è limpida e tranquilla, con Willie che canta come se avesse un bicchiere di whisky in una mano ed un sigaro nell’altra, e con la strumentazione al solito superba (ottima la steel):

Ecco a questo punto due canzoni di Cole Porter: Night And Day è conosciutissima anche in versioni alternative a Sinatra (per esempio è molto popolare quella di Fred Astaire, e pure Nelson l’aveva già incisa, ma solo in veste strumentale) ed è ancora eseguita ottimamente, con grande gusto e swing, mentre What Is This Thing Called Love?, calda, vivace e guidata magistralmente dal piano, vede il nostro duettare con la brava Norah Jones, un’altra che in queste sonorità ci sguazza. La piacevolissima e jazzata Young At Heart, brano che Sinatra fu il primo ad incidere, precede la conclusiva My Way, materia pericolosa in quanto uno degli evergreen assoluti del cantante di Hoboken, un pezzo di Paul Anka che The Voice ha eletto a manifesto di un certo stile di vita: Willie la canta intelligentemente alla sua maniera, solo voce e pochi strumenti, arrangiandola in modo molto vicino al suo stile abituale, riuscendo a provocare più di un brivido in chi ascolta. In mancanza, pare, di un nuovo disco di Van Morrison nelle prossime settimane (anche perché ne ha fatti tre in meno di un anno), questo My Way è il classico album perfetto per allietare le serate autunnali che ci attendono.

Marco Verdi

Non Solo Non Molla, Ma Questo E’ Uno Dei Suoi Dischi Più Belli! Willie Nelson – Last Man Standing

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Willie Nelson – Last Man Standing – Legacy/Sony CD

Alla tenera età di 85 anni, Willie Nelson ha ancora voglia di fare musica con la costanza di un ragazzino. E’ di giusto un anno fa la pubblicazione dell’ottimo God’s Problem Child  https://discoclub.myblog.it/2017/05/14/alla-sua-veneranda-eta-e-ancora-al-top-willie-nelson-gods-problem-child/ (senza contare il disco d’archivio insieme ai suoi due figli Willie & The Boys e la ristampa deluxe del capolavoro Teatro https://discoclub.myblog.it/2017/11/29/era-gia-bellissimo-ora-lo-e-ancor-di-piu-willie-nelson-teatro/ ), ma il grande texano non si ferma un attimo ed ora dà alle stampe un nuovo lavoro, Last Man Standing, un disco davvero splendido, che a mio avviso si posiziona addirittura nella Top Ten dei suoi album migliori (e ne ha fatti veramente tanti, molti dei quali imperdibili). Il titolo è un chiaro riferimento a sé stesso, ed al fatto che, con le scomparse di giganti del calibro di Johnny Cash, Waylon Jennings e Merle Haggard (senza dimenticare George Jones e Ray Price), Willie è rimasto l’ultimo baluardo di un certo tipo di country artist: certo, sia Kris Kristofferson che Billy Joe Shaver sono ancora tra noi, ma la loro attività è decisamente meno frenetica di quella di Nelson, il quale riesce a coniugare la quantità di album pubblicati con una qualità sempre elevatissima.

E Last Man Standing credo si possa definire il più bel disco del nostro da Teatro in poi. La formula non è cambiata, il nostro si appoggia all’ormai inseparabile Buddy Cannon sia in sede di scrittura che di produzione, e si circonda di musicisti fidati ed esperti (tra i quali il solito Mickey Raphael all’armonica, Alison Krauss al violino ed armonie vocali, Jim “Moose” Brown a piano ed organo, Fred Eltringham alla batteria ed ai chitarristi James Mitchell e Bobby Terry), ma in queste undici canzoni c’è un feeling, una grinta ed una perfezione stilistica che è difficile riscontrare in lavori di gente che ha anche cinquant’anni di meno. Non che negli album recenti questo venisse a mancare, ma Last Man Standing è davvero superiore in tutto, dalla qualità delle canzoni (e ad 85 anni Willie ha ancora voglia di scrivere) alla voce del leader, che se ultimamente dal vivo perde qualche colpo, in questo album è praticamente perfetta. Inizio pimpante con la title track, un brano elettrico e dallo spirito più sudista che texano, un suono caldo caratterizzato da chitarre ed organo e ritmo vivace. E la voce del nostro non ha bisogno di introduzioni, è un vero e proprio strumento aggiunto nonostante l’età. Ottima anche Don’t Tell Noah, altro pezzo dal ritmo sostenuto, quasi un rockabilly, con deliziose parti chitarristiche e Willie che da la sensazione di divertirsi come un giovincello. Bad Breath è una ballatona elettrica tipica del suo stile, quasi un valzerone che ricorda i brani con Waylon degli anni settanta, con un motivo di prim’ordine ed una strumentazione perfetta, sicuramente tra gli highlights del CD.

Me And You è una country song limpida, spedita e diretta, cantata alla grande e con le chitarre in primo piano, compresa l’inseparabile Trigger del nostro. Something You Get Through è la prima oasi, uno slow raffinato e di gran classe, con un retrogusto southern soul ed una voce da pelle d’oca; Ready To Roar è uno squisito western swing dal ritmo contagioso e ritornello immediato, suonato con maestria ed eleganza, mentre Heaven Is Closed è un’altra splendida ballatona texana cadenzata, un genere in cui Willie è ancora il numero uno, con il suono inimitabile della sua chitarra doppiato da quello dell’armonica di Raphael. Che dire di I Ain’t Got Nothin’, un honky-tonk’n’roll (si può dire?) dal ritmo irresistibile e con notevole uso di chitarra, piano e steel, o di She Made My Day, altro pezzo ricco di swing, texano al 100% e tutto da godere? Il CD si chiude (anche se esiste una versione con tre canzoni in più, ma in vendita solo in America nei ristoranti della catena a tema country Cracker Barrel) con I’ll Try To Do Better Next Time, altra western ballad cristallina, e con la robusta Very Far To Crawl, un pezzo grintoso che profuma di Sud.

Pur facendo praticamente solo dischi belli, sono anni che Willie Nelson non figura nelle mie Top Ten di fine anno con un suo album: Last Man Standing potrebbe essere quello buono.

Marco Verdi

Rockin’ Country O Country-Rock Texano? Mike And The Moonpies – Steak Night At The Prairie Rose

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Mike And The Moonpies – Steak Night At The Prairie Rose – Mike And The Moonpies LLC  

Sono in sei, vengono dal Texas, dai pressi di Austin, dove è anche stato registrato questo nuovo album Steak Night At The Prairie Rose. Sono un sestetto guidato dal cantante Mike Harmeier, che scrive anche più o meno tutte le canzoni, e direi si possa affermare che fanno Texas country. A questo punto si apre il dibattito, breve: ma è rockin’ country, o country-rock, come dice una famosa battuta, è via Giuseppe Garibaldi vista da sinistra e via Garibaldi Giuseppe vista da destra, quindi solo una questione di prospettiva? Oppure c’è veramente differenza tra i due stili? Ho chiesto un parere al collega Marco Verdi che recensisce spesso dischi di questo filone e secondo lui:” Country-rock è una musica di base country, ma con i classici strumenti rock (tipo le chitarre elettriche) che si prendono la scena a scapito di banjo, violini, steel eccetera. Mentre il rockin’ country sono canzoni rock ma influenzate dal country, soprattutto nelle linee melodiche e nelle tematiche”. In effetti il confine è molto labile, visto che i Mike And The Moonpies annoverano due chitarristi (uno è lo stesso Mike), una steel guitar, un tastierista e la sezione ritmica, ma il loro genere è definito ugualmente rockin’ country, e quindi?

E quindi sorvoliamo e passiamo ai contenuti: questo è il loro quarto album di studio (più un live uscito nel 2017), tutti rigorosamente autodistribuiti e di difficile reperibilità, però il nuovo disco ha attirato anche l’attenzione della rivista Rolling Stone, e pertanto si è acceso l’interesse per la band, che comunque fa quasi 200 date all’anno in giro per gli Stati Uniti e quindi sono particolarmente rodati come gruppo; per l’occasione il disco ruota intorno a dieci brani, per un totale di circa 37 minuti di musica, e raccoglie un po’ tutte le sfumature della country music (come certifica anche la presenza dell’unico ospite Mickey Raphael, all’armonica in The Worst Thing). La partenza è sparatissima con Roadcrew, un rockin’ country (aaah!) vorticoso e a tutta pedal steel (il bravissimo Zachary Moulton) e chitarre (Catlin Rutherford), che però è apparentato anche con lo western swing e il boogie, qualche analogia con il sound di Commander Cody e soci (ma senza violino e con un organo vintage, suonato da John Carbone, nel ruolo del piano), comunque piacevolissimo; Might Be Wrong è più elettrica, più orientata verso il R&R, un misto di Asleep At The Wheel e Marshall Tucker Band, quindi pure elementi southern, con le chitarre che viaggiano sempre che è un piacere, Carbone passa al piano, Mike Harmeier canta sempre con ardore e bello stile, se fosse blues potremmo definirlo uno shuffle. Ma i nostri non sono estranei all’arte della ballata country, la title track Steak Night At The Prairie Night, ne è un ottimo esempio, direi più mid-tempo che ballad, comunque estremamente gradevole e decisamente ben suonata e cantata, tra le influenze possiamo citare George Strait, Clint Black, Dub Miller, ma anche il country-rock (aah aah!) anni ’70, forse più la Nitty Gritty che gli Eagles o i Poco, magari i primi Amazing Rhythm Aces.

Gettin’ High At Home ha un sound più tradizionale, anche se le chitarre vanno a tratti di riff come fossero gli ZZ Top per poi calmarsi subito, ma in generale siamo in prevalenza dalle parti di Nashville, con qualche capatina appena accennata, nel Bakesfield sound. The Last Time, scritta da Jonathan Terrell, ha perfino un piano elettrico in evidenza, qualche analogia con Loggins And Messina per gli elementi  pop anni ’70, una melodia orecchiabile e radiofonica, mentre Beaches On Biloxi, uno dei brani migliori, è tipica Texas music, molto cantabile, con belle armonie vocali, la pedal steel che torna a farsi sentire, anche un bel ritmo, Rolling Stone lo ha paragonato a Elvis del periodo Vegas (bah). In Things Ain’t LikeThey Used To Be la voce è quella del “bravo cantante country”, ma il ritmo è decisamente più mosso, c’è persino una chitarra con wah-wah e degli accenni funky misti a R&R, tra piano elettrico e organo che irrobustiscono il suono con decisione. The Worst Thing, vista la presenza di Rapahel all’armonica e una weeping pedal steel, potrebbe passare per una delle ballatone in cui Willie Nelson è maestro, bella; Wedding Band è una classica honky tonky song in puro stile texano, molto avvolgente, con la conclusiva We’re Gone che riprende a viaggiare tra boogie, western swing e organetti vintage all’impronta, e chiude su una nota ottimista un disco che magari non entrerà negli annali della musica, ma piacerà agli estimatori del genere: già, ma quale?

Bruno Conti

Era Già Bellissimo, Ora Lo E’ Ancor Di Più! Willie Nelson – Teatro

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Willie Nelson – Teatro – Light In The Attic/Universal CD/DVD

Il 2017 è stato un bell’anno per i fans di Willie Nelson, dato che hanno potuto godere dell’ottimo God’s Problem Child, uscito ad Aprile, del recente Willie & The Boys, ed ora della ristampa potenziata dello splendido album del 1998, Teatro (che quindi “festeggia” i 19 anni, ma che anniversario è?), all’unanimità uno dei lavori più belli della carriera del texano. Per il sottoscritto questo disco potrebbe addirittura rientrare nella Top 3 di Willie, insieme a Red Headed Stranger e Across The Borderline, ma rispetto a questi due titoli, che propongono il classico suono del nostro, Teatro è un episodio particolare ed unico nel suo genere. Infatti l’album vide l’incontro tra Nelson ed il grande produttore Daniel Lanois, un connubio difficile da immaginare negli anni ottanta, allorquando il canadese era dietro ai dischi di U2 e Peter Gabriel, oltre ad essere impegnato a rilanciare la carriera di Bob Dylan con Oh, Mercy! (operazione ripetuta nel 1997 con Time Out Of Mind), ma non così strano in quel periodo, dato che Lanois veniva dalla riuscita esperienza con Emmylou Harris, il cui bellissimo Wrecking Ball aveva riportato la cantante dai capelli d’argento agli onori della cronaca.

E Teatro, inciso in un vecchio cinema di Oxnard in California (lo stesso nel quale Neil Young ha registrato The Monsanto Years), è un disco splendido ancora oggi, con lo stile tipico di Willie che si sposa alla perfezione con le atmosfere rarefatte di Lanois, grazie anche ad una serie di musicisti da sogno: oltre agli habitué nei dischi di Nelson (la sorella Bobbie, l’armonicista Mickey Raphael), abbiamo lo stesso Lanois al basso e alle chitarre, Cyril Neville alle percussioni (strumento fondamentale nell’economia del suono del produttore canadese),Jeffrey Green, Victor Indrizzo Tony Mangurian alla batteria,Tony Hall al basso, Malcolm Burn all’organo, Brian Griffiths alla chitarra, slide e mandolino, il noto pianista jazz Brad Meldhau anche al vibrafono e, dulcis in fundo, la stessa Emmylou Harris alla seconda voce praticamente in tutti i brani (dieci su quattordici), una partecipazione talmente importante al punto che anche in copertina troviamo una foto della cantante. L’album è incentrato più che altro su vecchi classici di Willie, alcuni molto noti ed altri meno (ci sono solo tre canzoni nuove, più tre cover), che vengono completamente rivoluzionati dai nuovi arrangiamenti: la presenza di Lanois è inoltre di ulteriore stimolo per il nostro, che si trova a suonare la chitarra ancora meglio del solito, donando un feeling messicano a molte canzoni, che contrasta con il mood quasi jazzato della sezione ritmica e del pianoforte, al punto che sarebbe parecchio riduttivo definire country questo disco, talmente tante sono le sfaccettature del suono.

Il capolavoro dell’album è sicuramente The Maker, cover di un brano di Lanois tratto dal suo primo disco come solista, Acadie, una canzone straordinaria, impreziosita da un arrangiamento caldo, vibrante, decisamente musicale e cantata alla perfezione da Willie: anche meglio dell’originale di Daniel. Di alto livello anche lo strumentale che apre l’album, Ou Est-Tu, Mon Amour? (dal repertorio di Django Reinhardt), solo Willie alla chitarra e Bobbie al vibrafono, ma dall’intensità incredibile, o la classica I Never Cared For You, che da brano western diventa quasi una bossa nova, o Everywhere I Go, dall’intro rarefatto e tipico di Lanois, ma che Willie riesce a far sua non appena apre bocca (questa sì degna di stare in un western moderno), o ancora la struggente My Own Peculiar Way, che Nelson negli anni ha inciso più volte ma mai con questa intensità, centellinando ogni nota ed ogni parola. Ma poi ci sono anche la vivace These Lonely Nights, quasi caraibica, l’intensa Home Motel, solo voce e piano (Meldhau), classe pura, la strepitosa I’ve Just Destroyed The World, un honky-tonk che il “trattamento Lanois” rende ancora più scintillante, e l’emozionante Somebody Pick Up My Pieces, con Emmylou protagonista alla pari di Willie.

In questa nuova ristampa deluxe, oltre ad una nuova intervista a Nelson e Lanois inclusa nel booklet ed un DVD allegato con il film-concerto live in studio uscito all’epoca e diretto da Wim Wenders (che non ho ancora visto), abbiamo sette canzoni inedite tratte dalle stesse sessions: il bellissimo valzer lento It Should Be Easier Now, la saltellante One Step Beyond, molto bella (perché era stata esclusa all’epoca?), la dolce Send Me The Pillow You Dream On (di Hank Locklin, Willie l’ha ripresa anche sul recentissimo Willie & The Boys), o la superba Have I Told You Lately That I Love You (non è quella di Van Morrison, bensì di Scott Wiseman), malinconica ma tra le più belle del CD. Per finire con il classico di Rodney Crowell ‘Til I Gain Control Again, la toccante Lonely Little Mansion e la tonica Things To Remember, in bilico tra jazz e musica d’autore.

Ricordo che nel 1998 avevo votato Teatro come disco dell’anno, ed anche a distanza di quasi vent’anni non posso che confermare la mia scelta.

Marco Verdi

Ma Lo Sapete Che E’ Pure Brava?!? Carla Bruni – French Touch

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*NDB Una breve premessa del titolare del Blog: come dice Marco alla fine della recensione, il “personaggio” non gode delle simpatie musicali del sottoscritto (per il resto nulla da dire, anche se il suo appoggio, più volte espresso, per Cesare Battisti, non me la rende ancora più attraente anche sul lato umano). Comunque come diceva, non Voltaire, a cui è stata attribuita la frase, ma una delle sue biografe, tale Evelyn Beatrice Hall: “Non sono d’accordo con quello che dici, ma darei la vita perché tu lo possa dire”. Oddio, magari proprio la vita no, ma una pagina del Blog sì, e aggiungo che non condivido quasi nulla di quanto detto nel Post anche sui contenuti musicali, ma concludo con una seconda citazione colta “de gustibus non disputandum est”, quindi buona lettura (ammetto di avere aggiunto un punto di domanda ed uno esclamativo al titolo).

Carla Bruni – Franch Touch – Verve/Universal CD – CD/DVD

Quel “pure” nel titolo del post è riferito al fatto che ci troviamo di fronte indiscutibilmente ad una delle donne più belle del mondo, e che per qualche anno, cioè quando l’attuale marito Nicolas Sarkozy era presidente della repubblica francese, anche delle più potenti. Carla Bruni (nata Bruni Tedeschi) era già famosissima prima di sposare l’ormai ex presidente transalpino, non tanto per la sua carriera di musicista, quanto per il fatto che è stata per anni una delle più importanti modelle in circolazione, ed anche in secondo luogo per aver frequentato di sfuggita il mondo del rock sotto forma di flirt amorosi, si dice, con Eric Clapton e Mick Jagger. Nel nostro paese non riscuote molte simpatie, più che altro per il fatto di aver preferito la nazionalità francese a quella italiana (è infatti originaria di Torino), ma chi lo dice forse non sa che Carla vive in Francia da quando ha sette anni, e quindi ha tutto il diritto di sentirsi appartenente al paese d’oltralpe (e, bisogna riconoscerlo, non ha mai rinnegato le sue radici italiche). Appassionata di musica, la Bruni ha esordito nel 2002 con Quelqu’Un M’A Dit, un album che ha avuto un buon successo, soprattutto nei paesi francofoni, anche se l’attenzione su di sé come cantante (anche del sottoscritto) l’ha attirata cinque anni dopo con No Promises, un bel disco in lingua inglese con una serie di adattamenti in musica di testi di vari poeti (Yeats, Emily Dickinson, ecc.) in uno stile pacato, raffinato e melodico che qua e là poteva ricordare anche Leonard Cohen.

Dopo altri due dischi meno interessanti ed ancora in lingua francese, Carla torna tra noi con questo French Touch, nel quale reinterpreta alcuni famosissimi brani contemporanei di stampo pop, country ed anche rock, ma arrangiando il tutto con uno stile ancora raffinato, quasi jazz, e decisamente piacevole. Quando ho visto che il produttore era David Foster ho avuto qualche brivido di paura, dato che stiamo parlando di uno che è abituato a lavorare con Celine Dion, Whitney Houston, Madonna, Mariah Carey ed anche i nostri Andrea Bocelli e Laura Pausini, quindi uno che di solito ha la mano pesante: in French Touch però è tutto il contrario, e riveste le canzoni con lo stretto necessario, una chitarra acustica, percussioni, pianoforte, fiati ed archi quanto basta, ed al centro la voce di Carla, che è uno strumento a sé. Infatti non stiamo parlando di una voce bella nel senso puro del termine, non è Janis JoplinLiza Minnelli né tantomeno Edith Piaf (per restare in Francia), a volte è più un sussurro che un canto vero e proprio, ma l’intonazione c’è e poi, cosa che a noi maschietti suscita scosse telluriche nelle parti intime, una bella dose di sensualità. Alcuni pezzi di French Touch sono stati incisi a Parigi con musicisti locali, ma altri ai Capitol Studios di Hollywood e con dentro vere e proprie icone come il grande Jim Keltner alla batteria e il formidabile chitarrista Dean Parks. L’album dura solo 34 minuti, ma c’è anche una versione con DVD allegato, con dentro un paio di videoclip ed alcune canzoni suonate in acustico durante uno special televisivo francese.

Apre il disco Enjoy The Silence, uno dei brani più noti dei Depeche Mode: la melodia è molto conosciuta, e qua l’attacco è dato da una chitarra acustica e da malinconici rintocchi di piano, poi entra la voce sexy di Carla ed il resto della band che avvolge il brano in maniera emozionante, con archi non invadenti ed un breve assolo di slide. Un ottimo avvio. Jimmy Jazz è proprio quella dei Clash (nel booklet interno Carla spiega canzone per canzone le sue scelte), e qui l’arrangiamento la fa diventare un delizioso pop afterhours di classe, jazzato come da titolo e godibilissimo, con uno splendido pianoforte ed uno squisito intervento di fiati in puro stile dixieland. Love Letters (l’ha fatta anche Elvis) ricorda certe cose di Rickie Lee Jones quando vuole jazzare, altra bella versione, fluida e distesa, con una chitarrina che fa capolino ogni tanto; Miss You è la prima sorpresa, con la Bruni che spoglia il brano degli Stones del ritmo da discoteca lasciando intatta la melodia, e trasformandolo in una bossa nova davvero raffinatissima e con un feeling ispanico (*NDB Scusate se mi intrometto ancora, ma a proposito di voci femminili, Etta James ai tempi ne aveva fatta una versione leggerissamente migliore, a mio parere https://www.youtube.com/watch?v=ZMT4mwvAIWQ), mentre The Winner Takes It All, proprio il successo degli ABBA, è in versione rallentata, con la voce particolare di Carla in primo piano, una chitarra arpeggiata ed un violoncello, un pezzo che, spogliato delle frequenti sonorità pacchiane del quartetto svedese, risulta malinconico e struggente.

Crazy era già raffinata nella versione del suo autore Willie Nelson (o di Patsy Cline, che fu colei che la portò al successo), qui Carla la movimenta un pochino, ancora con un leggero tocco pop-jazz e, sorpresa sorpresa, compare anche Willie in persona a duettare con lei (portandosi dietro anche Mickey Raphael all’armonica), e la temperatura sale ulteriormente; che dire di Highway To Hell degli AC/DC ripresa in versione jazz-lounge, con il riff di chitarra di Angus Young sostituito da una sezione fiati? Un po’ spiazzante a dire il vero, e qui forse è l’unico caso in cui si sfiora l’effetto-parodia (vi ricordate i Big Daddy?). Ma Carla riprende subito in mano il gioco con la splendida Perfect Day di Lou Reed, rifatta come un valzerone francese, una situazione che si addice alla perfezione a Madame Sarkozy (anche se nel ritornello il brano riprende la sua forma conosciuta, e Carla canta benissimo). Sembra strano ma Stand By Your Man, uno dei brani country al femminile più famosi di sempre (immortale la versione di Tammy Wynette) è rifatta con buona aderenza all’originale, con tanto di piano honky-tonk e dobro: una delle più riuscite. Please Don’t Kiss Me era interpretata da Rita Hayworth nel film La Signora Di Shanghai, e la Bruni la rifà in maniera giustamente vintage, con una strumentazione simile a quella di Bob “Sinatra” Dylan; chiude il CD la famosissima Moon River, scritta da Johnny Mercer con Henry Mancini per il film Colazione Da Tiffany, un pezzo che hanno rifatto sia lo stesso Sinatra che Sarah Vaughan, ma Carla non si lascia intimorire e la rifà alla sua maniera, voce in primo piano e poco altro.

Sono perfettamente conscio del fatto che la figura di Carla Bruni  possa non godere delle simpatie del titolare di questo blog e dei suoi abituali lettori, ma credetemi se vi dico che nel trasporto con cui ho giudicato questo French Touch il mio indiscutibile debole per il fascino femminile c’entra fino ad un certo punto.

Marco Verdi

Un Quasi Veterano Ed Un Quasi Esordiente, Con La Regia Di Dave Cobb: Che Bravi Entrambi! Chris Stapleton – From A Room, Vol.1/Colter Wall – Colter Wall

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Chris Stapleton – From A Room, Vol. 1 – Mercury/Universal CD

Colter Wall – Colter Wall – Young Mary’s Record Co./Thirty Tigers CD

Oggi vi parlo di due dischi nuovi di zecca, due album solo apparentemente simili, che hanno come comune denominatore il fatto di avere entrambi l’ormai onnipresente (ma bravissimo) Dave Cobb alla produzione. Ho definito Chris Stapleton un quasi veterano dato che, malgrado abbia alle spalle un solo disco, lo splendido Traveller, era già conosciuto da qualche anno nel mondo di Nashville come apprezzato songwriter per conto terzi: il grande successo di Traveller, che dimostra che a volte la musica di qualità riesce ancora a vendere, ha poi fatto balzare Chris in cima a tutte le classifiche di gradimento, facendolo diventare richiestissimo sia come autore che come ospite nei dischi dei suoi colleghi, ed oggi è uno dei maggiori esponenti di un certo country-rock classico, ed ammirato anche da vere e proprie leggende come Willie Nelson. From A Room, Vol. 1 è il suo nuovo lavoro, nove canzoni di puro rockin’ country, forse ancora più rock che in Traveller, un disco che, nei suoi 32 minuti, appare ancora più immediato del suo predecessore e, per certi versi, anche più compatto (ed il secondo volume pare sia già pronto ed in uscita entro fine anno). Stapleton è accompagnato da un gruppo ristretto ma decisamente valido di musicisti, che comprende, oltre allo stesso Cobb, il grande armonicista Mickey Raphael, l’ottimo Robbie Turner alla steel, la sezione ritmica di J.T. Cure al basso e Derek Mixon alla batteria, oltre al bravissimo Mike Webb al piano ed organo ed alla moglie di Chris, Morgane Stapleton, alle armonie vocali in quasi tutti i pezzi.

Nove brani, di cui otto originali ed una cover, una versione deliziosa e soulful di Last Thing I Needed, First Thing This Morning, un vecchio brano di Gary P. Nunn reso popolare proprio da Willie Nelson. L’album parte alla grande con Broken Halos, splendida ballata dall’incedere classico e suono potente, perfetto per la grande voce di Chris, un brano superlativo sotto ogni punto di vista. Second One To Know è una gran bella rock’n’roll song, robusta, elettrica, dal sapore sudista, un tipo di canzone che i Lynyrd Skynyrd non scrivono più da molto tempo, Up To No Good Livin’ è una country ballad fulgida e cristallina, mentre l’intensa Either Way vede il nostro in perfetta solitudine e capace di una performance vocale da brividi. Poi ci sono anche la sontuosa rock song I Was Wrong, decisamente anni settanta, la fluida Without Your Love, ancora molto southern (e molto bella), il saltellante e trascinante country-boogie chitarristico Them Stems e Death Row, sinuosa, annerita, bluesy e quasi nello stile swamp di Tony Joe White, che conclude un disco splendido, esemplare per qualità e sintesi.

Colter Wall è un giovane canadese di appena 21 anni, ma che dalla voce, talmente baritonale ed adulta da far pensare quasi ad un discepolo di Johnny Cash (anche se il timbro è diverso) e dallo stile, sembra un americano con già alle spalle una carriera trentennale. Colter Wall, il suo disco omonimo, non è il suo esordio assoluto, in quanto il nostro ha debuttato nel 2015 con un EP di sette canzoni intitolato Imaginary Appalachia, ma è con questo disco che Colter conta di farsi notare su scala più larga. E Colter Wall è un gran bel disco, un album di canzoni vere ed intense, scritte dal nostro con un piglio davvero da veterano, un sound abbastanza scarno e più folk che country, con Cobb solito abile dosatore di suoni ed un gruppo ancora più ristretto che nell’album di Stapleton: alcuni nomi sono in comune (Turner e Webb), mentre al basso e batteria troviamo rispettivamente Jason Simpson e Chris Powell; rispetto al disco di Stapleton, poi, manca totalmente la componente rock, le chitarre sono rigorosamente acustiche e le atmosfere decisamente più intime, ma il livello qualitativo è senza dubbio lo stesso. Il lavoro si apre con Thirteen Silver Dollars, una folk tune splendida, pura e deliziosa, con inizialmente solo Colter voce e chitarra, ma con una spettacolare entrata della sezione ritmica dopo quasi due minuti (e che voce il ragazzo, sembra impossibile che sia, per la legge americana, da poco maggiorenne); bella anche Codeine Dream, toccante brano dall’atmosfera spoglia e malinconica (solo chitarra e dobro sono presenti), ma dal pathos altissimo, un pezzo degno di Townes Van Zandt.

E proprio il grande texano, una delle sue principali influenze, è omaggiato con una cover di Snake Mountain Blues, intensa come solo Townes sapeva fare, ma poi abbiamo altre notevoli canzoni scritte da Wall, come la western ballad Me And Big Dave, che risente invece della lezione di Waylon Jennings, lo squisito country-folk Motorcycle, con Colter che riesce a coinvolgere anche con tre strumenti in croce, o la strepitosa Kate McCannon, un drammatico racconto tra West e folk dall’impatto straordinario, ancora con Van Zandt nei cromosomi. Chiudono questo album sorprendente You Look To Yours, un honky-tonk purissimo, la fulgida e breve Fraulein, un traditional poco noto ed interpretato in duetto con Tyler Childers (altro musicista misconosciuto), e le profonde Trascendent Ramblin’ Railroad Blues e Bald Butte, che confermano la statura di autore del nostro. Due dischi bellissimi, uno forse più immediato (Chris Stapleton), l’altro più intenso (Colter Wall), ma comunque due lavori che quest’anno ascolteremo parecchio: non so indicarvi quale mi piace di più e quindi, nel dubbio, accaparrateveli entrambi.

Marco Verdi

 

Alla Sua Veneranda Età E’ Ancora Al Top. Willie Nelson – God’s Problem Child

wilie nelson god's problem child

Willie Nelson – God’s Problem Child – Legacy/Sony CD

A 84 anni suonati Willie Nelson non ha assolutamente voglia di appendere la sua chitarra Trigger al chiodo, né di rallentare il ritmo: un disco all’anno è il minimo, quando non sono due. Dal vivo ormai fa un po’ fatica, come dimostra la sua recente partecipazione al concerto tributo a Waylon Jennings (ed anche, evento del quale sono stato fortunato testimone, la sua comparsata allo splendido concerto di Neil Young & Promise Of The Real lo scorso anno a Milano, in cui non ha cantato benissimo ma è bastata la sua presenza per illuminare il palco di un’aura particolare), ma in studio ha ancora diverse frecce al proprio arco; tra l’altro Willie potrebbe vivere di rendita continuando ad incidere standard della musica americana, come ha fatto più volte, ed invece ama ancora mettersi in gioco scrivendo nuove canzoni. Infatti nel suo ultimo lavoro, God’s Problem Child, ben sette brani su tredici portano la firma di Nelson, insieme al produttore Buddy Cannon (a suo fianco da diversi anni ormai), e questo dimostra chiaramente la voglia di non sedersi sugli allori. Ma, a parte queste considerazioni, God’s Problem Child è un disco bellissimo, uno dei migliori tra gli ultimi di Willie, con un suono straordinario (Cannon è un fuoriclasse di un certo tipo di produzione) ed una serie di canzoni di prim’ordine, suonate con smisurata classe dalla solita combriccola di musicisti coi fiocchi, tra i quali il fido Mickey Raphael all’armonica, Bobby Terry alla steel, James Mitchell alla chitarra elettrica, Fred Eltringham alla batteria e, a sorpresa, Alison Krauss alle armonie vocali in un paio di brani, oltre a tre ospiti che vedremo dopo nella title track.

Willie chiaramente non inventa nulla, nessuno credo si aspettasse un cambiamento nel suo modo di fare musica, ma in questo ambito è ancora uno dei numeri uno, nonostante le molte primavere alle spalle: Little House On The Hill apre l’album, una guizzante country song scritta da Lyndel Rhodes, che altri non è che la madre di Cannon, una canzone molto classica, del tipo che Willie ha cantato un milione di volte (anche se ogni volta sembra la prima), con un bel botta e risposta voce-coro che fa molto gospel, anzi noto una certa somiglianza con la famosa Uncloudy Day. Old Timer è un pezzo di Donnie Fritts, una sontuosa ballata pianistica, splendida nella melodia e nell’arrangiamento soulful, con la voce segnata dagli anni di Nelson che provoca diversi brividi. True Love è un’altra intensa slow song, tutta incentrata sulla voce carismatica del nostro, con una strumentazione parca ma calibrata al millimetro ed una melodia fluida: classe pura; Delete And Fast Forward, ispirata dall’esito delle elezioni presidenziali americane, è tipica di Willie, con il suo classico suono texano e qualche elemento rock garantito dalla chitarra di Mitchell, mentre A Woman’s Love, che è anche il primo singolo, è un delizioso western tune dal motivo diretto ed un leggerissimo sapore messicano. Your Memory Has A Mind On Its Own è un puro honky-tonk, niente di nuovo, ma Willie riesce a dare un tocco personale a qualunque cosa, e sono poi i dettagli a fare la differenza (qui, per esempio, la chitarra del texano e l’armonica sempre presente di Raphael).

Butterfly è una limpida country song dalla melodia tersa ed armoniosa, con un ottimo pianoforte e la voce che emoziona come sempre, la vivace Still Not Dead (ironico pezzo ispirato dalla notizia falsa circolata qualche tempo fa della morte di Nelson) porta un po’ di brio nel disco, e Willie mostra di avere ancora il ritmo nel sangue: il brano, poi, è davvero piacevole e cantato con la solita attitudine rilassata e misurata. God’s Problem Child, oltre a dare il titolo al CD, è anche il brano centrale, una canzone scritta da Jamey Johnson con Tony Joe White, con i due che partecipano anche vocalmente, e White pure con la sua chitarra, entrambi raggiunti per l’occasione da Leon Russell, qui nella sua ultima incisione prima della scomparsa: il brano ha il mood swamp annerito tipico di Tony Joe, ma con l’upgrade della voce e chitarra di Willie (e che brividi quando tocca a Russell), grandissima musica davvero; ancora tre pezzi scritti dalla coppia Nelson/Cannon (la cristallina e folkie It Gets Easier, Lady Luck, altra Texas cowboy song al 100% e l’ottimo valzerone I Made A Mistake) e chiusura con He Won’t Ever Be Gone, uno splendido e toccante omaggio all’amico di una vita Merle Haggard (scritto da Gary Nicholson) ed altra prova di grande classe da parte del nostro. Willie Nelson è uno dei pochi artisti che riescono a coniugare quantità e qualità, e se la salute lo assisterà avremo ancora parecchi bei dischi da ascoltare in futuro.

Marco Verdi

Ma Sbagliare Un Disco Ogni Tanto No? Willie Nelson – Summertime

willie nelson summertime

Willie Nelson – Summertime: Willie Nelson Sings Gershwin – Sony Legacy CD

A pochi mesi di distanza dall’eccellente disco in duo con Merle Haggard (Django & Jimmie) http://discoclub.myblog.it/2015/07/07/due-vispi-giovanotti-willie-nelson-merle-haggard-django-and-jimmie/  torna il grande Willie Nelson, 83 anni fra poco più di un mese e nessuna voglia di rallentare il ritmo (e la qualità) delle pubblicazioni. Nella sua ormai quasi sessantennale carriera, Willie ha inciso diversi album composti da evergreen della musica americana: proprio un suo LP di standard (Stardust, 1978) fu un enorme successo, ed ancora oggi è uno dei suoi lavori più venduti, e da allora periodicamente il nostro ne ha pubblicati altri, tutti molto belli anche se con risultati commerciali inferiori (qualche titolo sparso: Somewhere Over The Rainbow, What A Wonderful World, Moonlight Becomes You, American Classic); inoltre, Nelson ha anche al suo attivo più di un disco interamente dedicato ai brani di un singolo artista (Lefty Frizell, Kris Kristofferson, Cindy Walker) e quindi, fondendo assieme le due cose, non è una sorpresa la decisione del barbuto texano di pubblicare un intero album di classici di George Gershwin, uno dei più grandi compositori del secolo scorso, che insieme al fratello Ira ha scritto un’incredibile serie di canzoni che sono poi diventate degli standard assoluti, quasi alla stregua di brani tradizionali, un songbook inarrivabile che è stato (ed è ancora) un punto di riferimento per molti artisti, ponendo le basi per la nascita della musica moderna: uno insomma per cui la parola “genio” non è assolutamente fuori luogo.

Summertime (sul titolo forse Willie poteva spremersi un po’ di più) è composto da undici pezzi, e vede il nostro accompagnato non da un’orchestra (ci poteva stare, ma è meglio così) ma da una super band, che vede, oltre ai fidi Mickey Raphael all’armonica e a Bobbie Nelson (sua sorella) al piano, lo straordinario pianista Matt Rollings (già con Lyle Lovett e Mark Knopfler, ed anche il produttore del CD insieme allo specialista Buddy Cannon), il chitarrista Dean Parks (presente su almeno, sparo, 1.200 album di gente che conta), il batterista Jay Bellerose (idem come per Parks, è anche il drummer preferito di T-Bone Burnett e Joe Henry), il leggendario steel guitarist Paul Franklin, oltre ai due bassisti David Piltch e Kevin Smith. Il disco è, manco a dirlo, bellissimo (come direbbe il Mollicone nazionale): innanzitutto ha un suono stellare (e qui la coppia Cannon-Rollings dice la sua) e poi è suonato in modo strepitoso dalla band presente in studio, con una miscela di sonorità jazzate (la base di partenza dello stile di Gershwin) e texane (Willie) che rende Summertime l’ennesima perla di una collana che sembra non avere fine. E, last but not least, c’è la voce del leader, che più passano gli anni e più fa venire la pelle d’oca: secondo me la sua ugola in America andrebbe dichiarata patrimonio nazionale, e non esagero.

But Not For Me apre il CD alla grande, uno slow caldo e jazzato che ricorda non poco lo stile dell’ultimo disco di Bob Dylan dedicato a Sinatra, con la voce di Willie ben centrale ed il gruppo che lo segue con sicurezza. Anche Somebody Loves Me è un esercizio di classe, con tempo swingato ed il piano di Rollings assoluto protagonista: grandissima musica; Someone To Watch Over Me è ancora lenta e raffinata, ma, grazie ad un feeling formato famiglia, non è solo un mero esempio di stile (e Willie fa sembrare canzoni che hanno più della sua età come se le avesse scritte lui il giorno prima). Let’s Call The Whole Things Off vede la presenza in duetto di Cyndy Lauper (che dopo il disco blues sta per pubblicarne a maggio uno country, Detour), e la strana coppia funziona, malgrado un testo non proprio da dolce stil novo ed un’atmosfera un po’ da cabaret (ma la band suona davvero alla grande) https://www.youtube.com/watch?v=tJq1NCCvICU .

It Ain’t Necessarily So è finora quella con il suono più texano, sembra davvero una (bella) western ballad tipica di Willie, mentre I Got Rhythm, che conoscono anche i sassi, viene proposta in una strepitosa versione western swing, una cover da manuale che dimostra come Nelson possa veramente far sua qualunque canzone. Love Is Here To Stay è ancora leggermente jazzata, con la batteria spazzolata e la steel che si insinua tra i solchi; splendida anche They All Laughed, ancora con il piano sugli scudi e l’ormai abituale mood country-jazz, e Willie che appare perfettamente rilassato ed a suo agio.

Anche Sheryl Crow di recente è rimasta folgorata sulla via del country, e qui presta la sua ugola a Embraceable You, altra ballad raffinatissima https://www.youtube.com/watch?v=8wwlW8h0wD8 : Sheryl è brava, ma in quanto a carisma Willie vince a mani basse; chiudono il disco, in tutto trentasei minuti praticamente perfetti, la fluida They Can’t Take That Away From Me, di nuovo con parti strumentali di grande godimento, e la superclassica Summertime, forse il brano più noto dei fratelli Gershwin, un pezzo che ha avuto decine di interpretazioni (alcune imperdibili, ad opera di gente del calibro di Billie Holiday, Ella Fitzgerald, Sam Cooke e Janis Joplin), ed anche Willie centra il bersaglio con una rilettura che mette il piano (splendido) in evidenza e con lui che tira fuori la solita voce da brividi.

Grandi canzoni, due produttori straordinari, una grande band e Willie Nelson con la sua chitarra: devo aggiungere altro?

Marco Verdi

Il Disco Dell’Estate! E Dell’Autunno, Dell’Inverno… Warren Haynes featuring Railroad Earth – Ashes And Dust

warren haynes ashes and dust

Warren Haynes featuring Railroad Earth – Ashes And Dust – Provogue CD/Deluxe 2CD

Sono dell’opinione che Warren Haynes sia il miglior musicista emerso in America negli ultimi trent’anni. Un’affermazione importante lo so, ma trovatemelo voi un altro che viene chiamato nella riformata Allman Brothers Band a sostituire Duane Allman (cioè uno dei più grandi chitarristi di tutti i tempi), forma una band da dopolavoro (i Gov’t Mule) trasformandola in uno degli acts più importanti della Terra, gira con i Grateful Dead orfani di Jerry Garcia (ribattezzati opportunamente The Dead) sostituendo proprio il barbuto leader dello storico gruppo californiano, e viene chiamato da Phil Lesh per suonare la solista e cantare nella sua band (anche perché Lesh meno canta e meglio è, per tutti). In mezzo, riesce anche a pubblicare un paio di dischi da solista (Tales Of Ordinary Madness e soprattutto il bellissimo e soul-oriented Man In Motion) oltre a girare con la sua band e stampare anche due live (Bonnaroo, acustico, e il formidabile Live At The Moody Theatre). Se a tutto ciò aggiungiamo la sua tecnica chitarristica sopraffina, la sua voce espressiva e “negroide”, la sua indubbia abilità come songwriter e la sua creatività e versatilità, che lo portano a suonare con disinvoltura qualsiasi tipo di musica (gli ultimi live con i Mule ne sono la prova), è chiaro che abbiamo davanti un fuoriclasse assoluto. Nonostante tutto ciò, mai mi sarei aspettato da Haynes un disco come Ashes And Dust, non perché non abbia fiducia in lui (anzi…), ma non pensavo che un album di roots rock e di Americana di questo livello fosse nelle sue corde, dato che nelle sue vene scorre comunque principalmente sangue southern e blues.

Eppure Warren è uno tosto, e per far funzionare al meglio le cose ha pensato bene di chiamare i Railroad Earth, uno dei più noti e validi gruppi del filone roots, e li ha utilizzati come backing band, regalandoci non solo un disco strepitoso, ma anche uno dei più belli del genere negli ultimi anni. La band guidata da Todd Sheaffer è ormai in giro da tre lustri, ha maturato un suo stile ed un suo suono, e quando c’è da jammare non si tira certo indietro: insomma, Haynes non poteva fare scelta più felice. Tanto rock, qualche ballata (ed è qui che Haynes stupisce di più), massicce dosi di folk ed una spruzzata di old time music fanno di Ashes And Dust un disco da accaparrarsi assolutamente. Il CD è molto lungo (quasi ottanta minuti), in quanto il più delle volte Warren ed il sestetto proveniente da Stillwater lasciano correre gli strumenti in jam sessions  (poste il più delle volte in coda alle canzoni) che sono una vera goduria per le orecchie, senza annoiare neppure per un minuto. Come ciliegina, Warren porta anche qualche ospite di prestigio, che interviene in un brano a testa: Grace Potter e Shawn Colvin alle voci, Mickey Raphael all’armonica e gli ex Allman Oteil Burbridge e Marc Quinones.

Si comincia alla grande con la sontuosa Is It Me Or You, una ballata che ha una base acustica, ma dove Warren entra spesso e volentieri con decisi riff elettrici, una melodia di grande bellezza e suggestione ed un suono limpido e potente (il produttore del CD, manco a dirlo, è Haynes stesso), cantata benissimo e con la prima coda strumentale del disco. Inizio formidabile. Anche Coal Tattoo è splendida, cadenzata, con sonorità tra folk e rock ed un altro motivo centrale di grande effetto: è la prima volta che sento il leader dei Mule alle prese con brani di questo tipo, ma sembra che non abbia fatto altro in carriera https://www.youtube.com/watch?v=KtUH4ybNZ6o . Come pure i Railroad Earth si confermano una band coi fiocchi. Blue Maiden’s Tale è una ballata fluida e distesa, che il violino di Tim Carbone, tra i protagonisti del disco, fa somigliare quasi ad un brano dei Fairport Convention più rootsy; Company Man è un folk-rock scintillante, con Sheaffer e soci in gran spolvero ed il solito Haynes gigantesco alla chitarra https://www.youtube.com/watch?v=LX6JyyW0baI ; New Year’s Eve ha un motivo toccante ed una resa sonora superba. Warren Haynes balladeer, una piacevole sorpresa.

Stranded In Self-Pity è ancora un gran pezzo, un brano saltellante tra rock e folk, con il piano in evidenza ed un sapore d’altri tempi (c’è perfino un assolo di clarinetto, opera del polistrumentista degli Earth Andy Goessling): minchia se suonano! Glory Road è l’ennesima canzone di grande impatto emotivo, una ballata suonata con grande classe ed una melodia di prim’ordine. Gold Dust Woman è proprio il famoso brano che Stevie Nicks ha scritto per i Fleetwood Mac (era sul multiplatino Rumours), ma Warren, qui in duetto con Grace Potter, gli toglie la patina californiana e gli dà un sapore paludoso, da blues del Mississippi, e la bionda (e bella) cantante del Vermont si dimostra una partner perfetta; Beat Down the Dust è un’altra roots ballad solida e ben costruita, mentre molto bella è anche Wanderlust, intensa, emozionante, suonata alla grande (con la Colvin alle armonie) https://www.youtube.com/watch?v=Vpuu2lERYj0  ed una struttura molto classica, anni settanta. Spots Of Time con i suoi otto minuti e mezzo è la più lunga del CD, ma è anche una delle più riuscite, con stacchi strumentali spettacolari ed uno sviluppo che per fluidità ricorda molto i Dead (e Warren è un marziano) https://www.youtube.com/watch?v=mBkhu_Ressw ; chiudono l’intensa e cantautorale Hallelujah Boulevard e la sudista (e sudata) Word On The Wind, unico pezzo della raccolta scritto in collaborazione con Sheaffer.

L’edizione doppia dell’album contiene anche un mini CD con quattro brani del disco originale in versione demo, più Hallelujah Boulevard suonata dal vivo sempre con gli Earth, ma direi che il dischetto principale basta ed avanza.

Lo ritroveremo certamente a fine anno nelle liste dei migliori: per me, al momento, è il disco del 2015.

Marco Verdi

Good News From Dave Cobb Productions! Chris Stapleton – Traveller + Christian Lopez Band – Onward

chris stapleton traveller christian lopez band onward

Chris Stapleton – Traveller – Mercury/Universal CD +  Christian Lopez Band – Onward – Blaster CD

Se dovessi fin d’ora indicare il nome del produttore del 2015, uno dei candidati più agguerriti sarebbe senz’altro Dave Cobb! Basato a Nashville, Cobb è già attivo da diversi anni (circa una decina), ed è responsabile tra gli altri della produzione in dischi di Shooter Jennings, The Secret Sisters, Jamey Johnson e Sturgill Simpson, oltre a lavori recenti di band più lontane dalle tematiche trattate abitualmente su questo blog (gli ultimi CD di Rival Sons, California Breed – la band estemporanea guidata da Glenn Hughes con Jason Bonham, orfani di Bonamassa– e degli Europe vedono lui dietro la consolle): un bel panorama eterogeneo quindi, dove la musica country, nonostante il quartier generale sia situato nella capitale del Tennessee, è molto spesso irrobustita da decise dosi di rock (sia Jennings che Johnson che Simpson non sono propriamente dei countrymen tipici). Quest’anno poi Cobb si è letteralmente scatenato, essendo responsabile degli ultimi lavori di Jason Isbell (come anche del precedente, Southeastern), degli Houndmouth, degli A Thousand Horses (di cui si è occupato da poco Bruno http://discoclub.myblog.it/2015/07/05/addirittura-mille-bravi-pero-thousand-horses-southernality/ ) e sta ultimando i nuovi dischi ancora di Sturgill Simpson, dei Lake Street Dive e di Corb Lund.

dave cobb

Nel mezzo, Dave ha prodotto altri due ottimi album, di cui mi accingo a parlare: Traveller dell’esordiente Chris Stapleton ed Onward della Christian Lopez Band, che invece ha debuttato lo scorso anno con l’EP Pilot. Inizio dal primo, cioè Stapleton: nativo del Kentucky ma basato anch’egli a Nashville, Chris è sì esordiente a suo nome, ma nella Mecca della country music è già parecchio noto, essendo responsabile del songwriting per diversi artisti, ed avendo all’attivo anche brani andati al numero uno per gente come Kenny Chesney, George Strait e Darius Rucker, in aggiunta a canzoni apparse su dischi di Adele, Brad Paisley e Dierks Bentley.

Attenzione però: se Chris per vivere scrive per gente che difficilmente incontra i gusti del sottoscritto (anche se Paisley è bravo ed il disco di Adele mi piace), quando si tratta di fare il musicista in proprio è tutta un’altra storia. Stapleton è un songwriter coi fiocchi, ma è anche un musicista di prim’ordine, ha il senso del ritmo e della melodia, suona ottimamente la chitarra (anche le parti soliste) ed è anche dotato di una grande voce, roca e potente, da vero rocker, ma con intense sfumature soul. I suoi brani hanno una spiccata vena rock, qualche nota bluesata ed un grande respiro, uno stile che potrebbe avvicinarlo al John Mellencamp più rurale. Traveller è quindi un grande disco, suonato da Chris con una band piuttosto ridotta (nella quale spiccano lo steel guitarist Robby Turner, l’armonica inconfondibile di Mickey Raphael, in vacanza temporanea da Willie Nelson, e la moglie Morgane Stapleton alle armonie vocali) ed al quale Cobb conferisce un suono potente e di chiara impronta rock, privilegiando le chitarre e mettendo la voce del nostro in primo piano. Un disco anche lungo (63 minuti), ma che non annoia neppure per un secondo.

La title track apre l’album subito con la voce forte di Chris in evidenza: il brano è una potente ballad tra country e rock, impreziosito dalla doppia voce femminile, un suono deciso ed una melodia fluida. Fire Away è lenta e piena di pathos, ricorda le ballate polverose del miglior Ryan Bingham (uno che prodotto da Cobb farebbe la sua figura), Tennessee Whiskey è la cover di un brano portato al successo da George Jones, e l’uso della voce annerita del nostro (performance strepitosa, tra l’altro) le dona un irresistibile sapore country-got-soul, mentre l’arrangiamento “caldo” fa il resto: un mezzo capolavoro; Parachute è decisamente più rock (ma che voce!), un brano trascinante, impossibile stare fermi.

Whiskey And You è completamente diversa, solo voce e chitarra, ma con un pathos eccezionale; Nobody To Blame, maschia ed elettrica, ricorda molto le sonorità di Waylon Jennings, mentre More Of You, guidata dal mandolino, è il pezzo più bucolico del disco. Non sto a citarle tutte, anche se lo meriterebbero, per non togliere spazio a Lopez (e per non farmi cazziare dal Bruno) (*NDB. Non succederà mai, ma visto il consistente numero di Chris presenti nella recensione, in questo caso era giustificato!) ma non posso tralasciare la splendida When the Stars Come Out, una melodia classica, molto anni settanta, eseguita in maniera superba, l’emozionante Daddy Doesn’t Pray Anymore, un lento da pelle d’oca, due note e tre strumenti in croce ma che feeling, la vibrante The Devil Named Music, una rock song dall’atmosfera western ed un bell’assolo chitarristico anche se breve, la roccata Outlaw State Of Mind, non la migliore dal punto di vista del songwriting ma con un tiro micidiale.

Christian Lopez è un giovane musicista della Virginia, appena diciannovenne, dotato anch’egli di una bella voce ma più gentile e limpida di quella di Stapleton (ricorda vagamente il timbro di Jackson Browne https://www.youtube.com/watch?v=lRVLH049sb4 ), ma quello che più impressiona è il livello delle canzoni, che sembrano scritte da un veterano e non da uno che per la legge americana non è nemmeno maggiorenne. Onward è più country del disco di Stapleton, ma non è un disco country, il suo background è rock, ma con un piglio da cantautore, e Cobb fornisce il classico suono forte e deciso che è ormai il suo marchio di fabbrica. Insieme a Lopez (e Cobb), nel disco suonano Chelsea McBee (seconda voce e banjo), Chris Powell (batteria), Mike Webb (piano, bravissimo), Joe Stack e Adam Gardner (entrambi al basso).

Il CD inizia con Take You Away, una ballata dall’andamento lento ma dal grande impatto emotivo, suono potente ed uso classico degli strumenti (chitarra e piano su tutti), un antipasto nel quale Christian ci fa sentire subito di che pasta è fatto https://www.youtube.com/watch?v=MXRx-VMB3rw . Don’t Know How è spedita, fluida, ariosa, mentre l’elettroacustica Morning Rise ha un retrogusto country https://www.youtube.com/watch?v=bf_ua_o8XiE , una melodia deliziosa (qui di Browne c’è anche lo stile) ed un uso spettacolare del dobro (tale Ben Kitterman). La tenue e folkie Stay With You, dal mood quasi irish, precede la splendida Will I See You Again (già incisa su Pilot), un country-rock scintillante sostenuto da un motivo di prim’ordine e suonato alla grande: una goduria. Anche la delicata Seven Years è molto bella (ed il suono è uno spettacolo), come d’altronde Pick Me Up, con il piano a dettare legge, altra solida prova di cantautorato rock. Incredibile pensare che il suo autore non ha neppure vent’anni. L’album si chiude con la formidabile Oh Those Tombs, irresistibile versione rockin’ country di un traditional inciso a suo tempo anche da Hank Williams, la bellissima The Man I Was Before, anch’essa molto classica e lineare, la potente Leavin’ It Out e la bucolica Goodbye.

Due dischi uno più bello dell’altro quindi, entrambi pieni di bellissime canzoni e con un suono straordinario: sono appena usciti e già non vedo l’ora di ascoltare il loro seguito.

Marco Verdi