Due Vispi Giovanotti! Willie Nelson & Merle Haggard – Django And Jimmie

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Willie Nelson & Merle Haggard – Django And Jimmie – Sony CD

Non è la prima volta che Willie Nelson e Merle Haggard (texano di Abbott il primo, californiano di Bakersfield il secondo, 160 anni in due) fanno un disco in coppia. Il loro “esordio” insieme è datato 1983, con il famoso Pancho & Lefty, seguito quattro anni dopo dal meno riuscito Seashores Of Old Mexico (ma gli anni ottanta sono stati un periodo gramo per entrambi), mentre, in anni più recenti, i due hanno dato alle stampe il discreto Last Of The Breed in trio con Ray Price, seguito a ruota dalla sua controparte dal vivo. Ora ho tra le mani il nuovo lavoro delle due leggende viventi della musica country, intitolato Django And Jimmie (dedicato a Django Reinhardt e Jimmie Rodgers, due delle maggiori influenze rispettivamente di Nelson e Haggard) e, con tutto il rispetto per gli album che ho citato prima, qui siamo su un altro pianeta. Intanto i due sono in forma strepitosa, cosa ancora più incredibile data l’età avanzata, poi ci sono una serie di canzoni che nulla hanno da invidiare a quelle più note dei rispettivi songbook, ed il tutto è prodotto ottimamente dall’esperto Buddy Cannon, cioè uno dei migliori produttori in circolazione in ambito country https://www.youtube.com/watch?v=LFaJL5X7cu8  . Django And Jimmie è un disco di canzoni classiche, come uno ci si può aspettare dai due, ma cantato alla grande, suonato ancora meglio (tra i soliti noti abbiamo Mickey Raphael all’armonica, Dan Dugmore alla steel, Ben Haggard, figlio di Merle, alla chitarra solista, Mike Johnson a slide e dobro, persino Alison Krauss alle backing vocals), e griffato dalla produzione limpida di Cannon, che dà ai brani un suono splendido. Non mi stupisco di Nelson, che negli ultimi anni sembra vivere una seconda giovinezza, ma un Haggard così tirato a lucido non lo sentivo da anni.

La title track apre il CD, ed è una classica ballata dei nostri, suonata in punta di dita e con una melodia profonda e toccante, resa ancora più bella dalle voci vissute dei due https://www.youtube.com/watch?v=BZRrg8rorns . It’s All Going To Pot vede la gradita partecipazione di Jamey Johnson (che è anche co-autore del pezzo), ed è un vivace brano country-rock, dal ritmo alto e con un refrain decisamente trascinante (e Willie inizia a farci sentire la sua Trigger); la lenta Unfair Weather Friend sa toccare le corde giuste, e la voce di Willie, più di quella seppur bella di Merle, regala autentici brividi https://www.youtube.com/watch?v=tsjOiY1pNz8 . Missing Ol’ Johnny Cash è uno dei brani centrali del disco, un sentito omaggio all’Uomo in Nero, con tanto di boom-chicka-boom ed il talkin’ tipico di Johnny, con in più la presenza vocale di Bobby Bare, altra leggenda vivente; Live This Long è invece una ballata fluida, del tipo che i nostri hanno sfornato a centinaia nel corso della carriera, grande classe e suono superbo; Alice In Hualand è un valzerone texano scritto da Willie e Cannon, godibilissimo come d’altronde il resto del disco finora. Don’t Think Twice, It’s All Right, proprio quella di Bob Dylan, è un altro degli highlights: prendete una grande canzone, datela in mano a due fuoriclasse e ad un produttore con tutti i crismi e l’esito non potrà che essere eccellente: la versione dei due è limpida e spedita, con un sapore folk che rimanda all’originale del grande Bob; Family Bible (l’ha fatta anche Cash) è un bellissimo honky-tonk pianistico che più classico non si può e rimanda al periodo in cui Haggard (qui canta solo lui) andava costantemente al numero uno. Splendida e commovente.

It’s Only Money è tra country e rockabilly, gran ritmo e le due voci che si alternano alla perfezione (e la band li segue come un treno) https://www.youtube.com/watch?v=uFT1ZLGU6Lc ; ancora honky-tonk deluxe con Swinging Doors, una vera goduria per le orecchie, cantano e suonano tutti da Dio, mentre l’intensa Where Dreams Come To Die è un tipico slow di Willie (quindi bello). Chiudono l’album la languida Somewhere Between, ancora con una prestazione vocale di Nelson da pelle d’oca, la vivace Driving The Herd, con il solito gran lavoro all’armonica da parte di Raphael, e The Only Man Wilder Than Me, che sembra una outtake del mitico Waylon & Willie, solo con Haggard al posto di Jennings. Uno dei migliori country records del 2015: in giro ci saranno anche tante nuove leve di ottimo livello, ma quando i “vecchietti” si mettono in moto danno ancora dei punti a tutti.

Marco Verdi

L’Altra Metà Della Famiglia? O Non Più! Pegi Young & The Survivors – Lonely In A Crowded Room

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Pegi Young & The Survivors – Lonely In A Crowded Room – New West

Come sapete di solito non ci occupiamo di gossip, pettegolezzi e/o vicende familiari, ma visto che il personaggio lo richiede facciamo una eccezione per l’occasione. Come forse avrete letto, assolutamente a sorpresa, Neil Young a luglio di quest’anno ha presentato istanza di divorzio da Pegi, dopo ben 36 anni di matrimonio. Che cosa è successo? Chi lo sa! David Crosby che ha estrinsecato dei commenti negativi, soprattutto sulla nuova compagna di Neil, di cui tra un attimo, ha provocato una risposta piccata da parte del canadese, che ha annunciato che CSNY non suoneranno mai più insieme, con Graham Nash che sta cercando di fare da pompiere e paciere, e a sua volta annuncia, per il prossimo anno, un tour di CSN da soli. Nel frattempo la situazione procede, Young si è fatto vedere con la nuova fidanzata, Daryl Hannah (apperò! Pero poi se uno ci pensa, non è che si sia messo con una teenager, la biondona ormai ha anche lei i suoi 53 anni), Pegi non si è presentata al Farm Aid, ma poi tutti e due, ognuno con la propria sezione di concerto, a fine ottobre hanno partecipato al Bridge School Benefit. Vedremo gli sviluppi futuri, evidentemente a 68 anni non gli bastava più “giocare” con il Pono, i marchingegni di Jack White e le orchestre dell’ultimo Storytone http://discoclub.myblog.it/2014/11/16/il-bisonte-sbaglia-due-volte-fila-neil-young-storytone/ , dove peraltro ci sono anche brani dedicati alla sua nuova situazione amorosa.

Ma veniamo a questo Lonely In A Crowded Room, quarto album da solista di Pegi Young, dove comunque in un brano, Don’t Let Me Be Lonely (!). appare anche Neil Young, debitamente ringraziato nelle note con un “Wishing You Peace Of Mind”. Probabilmente, anzi sicuramente, la registrazione è avvenuta prima della rottura, visto che il disco è stato creato, in parte, al Broken Arrow Ranch, con la produzione di Niko Bolas, e la presenza al basso di Rick Rosas, prestato dai Survivors ai Crazy Horse nell’ultimo tour, per sostituire Billy Talbot che aveva avuto dei problemi di salute: solo che nel frattempo, inopinatamente, il 6 novembre, Rosas è morto improvvisamente, lasciandomi basito, alla faccia della sfiga! Chiusa parentesi. Nel disco, alle tastiere, nonché eminenza grigia del progetto, troviamo il grande Spooner Oldham, oltre al bravo chitarrista Kelvin Holly, Phil Jones alla batteria e in un paio di brani, ad esempio quello più country, Lonely Women Make Good Lovers, l’ottimo Mickey Raphael all’armonica . Il disco è piacevole e si lascia ascoltare anche se l’abbrivio faceva sperare in cose migliori: I be weary, posta in apertura, sembra una bella ballata mossa con il marchio di fabbrica della famiglia Young, acustiche e una bella elettrica in evidenza, le tastiere di Oldham a fare da collante al sound e lei che canta decisamente bene, meglio che in passato https://www.youtube.com/watch?v=82oT2krXYCI . Anche Obsession ha un bel piglio rock, energica e decisa, con le voci di supporto di Paula & Charlene Holloway a dare spessore al brano, ben sostenuto dal piano elettrico di Spooner e dalla chitarra tagliente di Holly https://www.youtube.com/watch?v=J6Abm8Q0aEI . Che partenza! Tutti i due brani scritti da Pegi, come la successiva Better Livin’ Through The Chemicals, brano felpato e jazzato, con la presenza dei fiati, ma anche piuttosto raffinato.

Appena meglio la cover di Ruler My Heart, un vecchio brano di stampo soul a firma Naomi Neville, che però evidenzia che Pegi non è poi questa gran cantante, se la cava con onestà, senza brillare troppo https://www.youtube.com/watch?v=_erWT_16_Bk . Il pezzo country già citato porta la firma di Spooner Oldham ed è piacevole, mentre Don’t Let Me Be Lonely, è un altro pezzo vecchio soul del 1964, scritto da Jerry Ragovoy, con qualche pennellata chitarristica del vecchio Neil, niente da strapparsi i capelli, sempre piacevole comunque. Non male invece Feel Just Like A memory, un’altra bella cavalcata younghiana con la chitarra ben presente e le voci di supporto che danno grinta anche al cantato di Pegi https://www.youtube.com/watch?v=dhG2kydge9I . In My dreams, jazzata e nuovamente sulle ali del piano elettrico di Oldham, però non decolla, rimane irrisolta, ci sono milioni di cantanti in giro che fanno queste canzoni, meglio. Walking On the Tightrope, nuovamente con l’armonica di Raphael a colorare il suono, a fianco di chitarra e tastiere, è invece un buon brano, con una discreta melodia e la giusta grinta, niente male. Chiude la breve Blame It On Me, una canzoncina leggera che non aggiunge particolari meriti all’album, ma d’altronde quello bravo in famiglia era ( ed è sempre stato) l’altro.

Diciamo una sufficienza risicata per i quattro/cinque brani sopra la media e per il buon sound d’assieme, comunque non malvagio, c’è di peggio in giro, dischi spesso salutati come fossero dei capolavori assoluti!

Bruno Conti

Altri Ripassi Per L’Estate: Dal Texas L’Ultimo “Troubadour”? Matt Harlan – Raven Hotel

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Matt Harlan – Raven Hotel – Berkalin Records

Con questo nuovo lavoro Raven Hotel (uscito la scorsa primavera), ritorna uno dei migliori e, purtroppo, più sconosciuti talenti della nuova canzone d’autore texana, quel Matt Harlan che con l’esordio con Tips & Compliments (10) è stato in lizza una prima volta per la vittoria finale ai “famosi” Texas Music Awards (premio poi ricevuto nel 2013 come miglior songwriter), un disco prodotto da quella vecchia volpe di Rich Brotherton (Robert Earl Keen), successo di critica bissato dal successivo Bow And Be Simple (12) registrato con il gruppo danese dei Sentimentals, sempre di ottima fattura. Matt Harlan è un interessante personaggio, proveniente da Houston, che sfoggia la capacità di coniugare testi piuttosto personali con una costruzione melodica di tutto rilievo, scrivendo belle canzoni che lasciano il segno https://www.youtube.com/watch?v=tzf1-5P9vzc . La band che accompagna Matt negli studi di Austin, Tx, dove è stato registrato il CD, comprende, oltre al fidato produttore e polistrumentista Rich Brotherton alle chitarre, lap steel, dobro, banjo e sinth, il grande Bukka Allen all’organo, fisarmonica e piano, Mickey Raphael all’armonica (compagno d’avventura fisso nei dischi di Willie Nelson), Glenn Fukunaga al basso (visto e sentito spesso con Joe Ely), John Green alla batteria, Floyd Domino anche lui alle tastiere, John Mills al sassofono, la brava Maddy Brotherton al violino (una delle figlie di Rich), e l’indispensabile contributo come “vocalist” di supporto della moglie Rachel Jones, per un viaggio nel tempo nelle dodici stanze del Raven Hotel.

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La prima stanza è quella caratterizzata dal violino e dal banjo della delicata Old Spanish Moss https://www.youtube.com/watch?v=iYffTyrdkvk , poi ci sono le atmosfere country bluegrass di Half Developed Song, i toni caldi di una ballata tipicamente texana come Second Gear https://www.youtube.com/watch?v=tpwsbp_HscE , mentre il piano e la splendida voce di Rachel Jones disegnano una melodia cristallina in Riding With The Wind. Salendo al secondo piano dell’hotel, troviamo il sentimentalismo nostalgico di We Never Met (Time Machine) https://www.youtube.com/watch?v=CmjzAGkv7sk , le chitarre elettriche spianate di una Rock & Roll (qui in versione acustica https://www.youtube.com/watch?v=D7BuXsjKuZw )molto alla Mellencamp , le soffuse percussioni della title track Raven Hotel, passando per la dolce fisarmonica di Bukka Allen nella splendida Old Allen Road (da cantare sotto un cielo di stelle del Texas). Salendo ancora le scale si arriva alle suite, con le note ovattate di Burgundy & Blue, una malinconica canzone d’amore fatta come una ballata jazz, sostenuta dal sax fumoso di John Mills, alla quale si aggiunge Slow Moving Train, cantata in duetto dai coniugi Harlan, con l’armonica di Mickey Raphael ad illuminare la scena, mentre The Optimist si sviluppa su lap-steel e chitarre elettriche, andando a chiudere il portone del Raven Hotel con il folk delizioso e acustico di Rearview Display https://www.youtube.com/watch?v=lDSlg_ViS5Q .

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Matt Harlan, per chi scrive, possiede la liricità che soltanto gli “storytellers” di razza hanno avuto in passato (maestri quali Guy Clark e Robert Earl Keen, per citarne un paio), e pare inseguire la stessa lezione di quella generazione di “songwriters” che hanno raccontato e cantato l’altra faccia dell’America in chiave elettro-acustica (Chris Knight, Chris Smither e Slaid Cleaves, per citarne altri), e un disco come questo Raven Hotel è uno di quelli (ne sono certo) che finirà per piacere a tutti gli innamorati di un certo “songwriting” made in Texas, perché Harlan è un narratore, i racconti di Matt sono vere storie di vita reale, come i personaggi che occupano le dodici stanze del Raven. Matt Harlan è uno dei regali più belli, e meno conosciuti, usciti negli ultimi anni nel panorama del cantautorato americano.

Tino Montanari

Un Disco Bello E Meritorio! Neal McCoy – Pride: A Tribute To Charley Pride

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Neal McCoy – Pride: A Tribute To Charley Pride – Smith Entertainment CD

Charley Pride, nonostante abbia venduto in carriera tra album, singoli ed antologie più di settanta milioni di dischi, è oggi una figura piuttosto dimenticata, oltre che molto poco conosciuto al di fuori dell’America. Pride (ancora vivo ed attivo, il suo ultimo album, Choices, è di due anni fa) è sicuramente stato il più popolare nella ristretta cerchia di country singers di colore, e ha avuto il suo periodo di massimo splendore a cavallo tra gli anni sessanta e settanta, mettendo in fila una serie impressionante di numeri uno nelle classifiche country dei 45 giri (ben ventotto dal 1969 al 1983).

Pride non era uno scrittore, cantava perlopiù brani di altri, ma tra i suoi successi ci sono vari classici del songbook americano, alcuni dei quali ritroviamo in questo Pride, ad opera del countryman di origine irlandese-filippina Neal McCoy. McCoy (nato McGaughey) è un musicista sulla scena da più di vent’anni, con già una dozzina di dischi alle spalle, che non ha mai conosciuto il successo da superstar (solo un paio di singoli al numero uno all’inizio degli anni novanta, ma il suo album meglio piazzato è arrivato “soltanto” al settimo posto), ma si è ritagliato comunque il suo spazio nel panorama country americano.

Pride è dunque il suo atto d’amore verso Charley Pride, e Neal dimostra il grande rispetto per l’artista afroamericano consegnandoci un ottimo tributo, un disco di classico country suonato e cantato come Dio comanda, senza concessioni al commerciale e con qualche ospite di vaglia a cantare con lui.

E le canzoni, inutile dirlo, sono molto belle.

Apre la notissima Is Anybody Goin’ To San Antone (conosciuta anche per le versioni di Doug Sahm da solo e con i Texas Tornados, ma Pride l’ha incisa prima di Doug): McCoy le toglie il sapore tex-mex ma le aggiunge un ritmo rock’n’roll, dandole nuova linfa e mettendo subito il disco sui binari giusti. It’s Just Me è una veloce country song alla quale la fisarmonica dà un sapore cajun, un brano molto gradevole impreziosito tra l’altro dal duetto con Raul Malo, che riesce a far suo il brano al punto da farlo sembrare opera dei Mavericks. Kiss An Angel Good Mornin’ vede Neal dividere il microfono con Darius Rucker, l’ex leader degli Hootie & The Blowfish ormai convertitosi al country: il brano è uno dei più belli del repertorio di Pride, e questa scintillante versione gli rende giustizia.

Kaw-Liga di Hank Williams la conosciamo tutti (Pride ha spesso inciso brani del grande Hank), una grande canzone qui resa con un arrangiamento quasi southern; You’re So Good When You’re Bad è un’elegante slow ballad, molto sofisticata e dal sapore soul: grande classe, non me l’aspettavo da McCoy. La pimpante It’s Gonna Take A Little Bit Longer sembra invece un classico brano alla Willie Nelson, grazie anche alla presenza dell’inconfondibile armonica di Mickey Raphael; Trace Adkins affianca Neal col suo vocione per una bella resa della toccante Roll On Mississippi, cantata dai due con il cuore in mano (e quindi, come direbbe Bergonzoni, con i polsini insanguinati). Just Between You And Me (di Jack Clement) è un godibilissimo honky tonk che più classico non si può; Mountain Of Love l’hanno fatta un po’ tutti (ricordo una bella versione di Johnny Rivers), e Neal la rifà in maniera grintosa, suonata e cantata da manuale.

L’album si chiude con la languida Someone Loves You Honey, forse un po’ troppo leccata, e con la viceversa solare e godibilissima You’re My Jamaica, tra country e Caraibi, un brano che anche Jimmy Buffett potrebbe fare suo senza difficoltà.

Bravo Neal: un bel disco, che ha anche il merito di farci riscoprire un artista di cui ci si ricorda di rado (per non dire mai).

Marco Verdi

Good News From Louisiana! Honey Island Swamp Band – Cane Sugar

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Honey Island Swamp Band – Cane Sugar – Louisiana Red Hot CD

Ecco un disco che mantiene quello che promette. Gli Honey Island Swamp Band (HISB da qui in poi) sono un quintetto fondato all’inizio della scorsa decade da Aaron Wilkinson e Chris Mulé (che sono anche i due leader del gruppo), originari di New Orleans ma conosciutisi a San Francisco, dove si erano trasferiti a seguito dell’uragano Katrina. Nella metropoli californiana hanno fatto comunella con quelli che poi completeranno la attuale formazione della band, cioè Sam Price, Garland Paul e Trevor Brooks, anche loro fuggiti dalla capitale della Louisiana in seguito al disastro del 2005, e dopo una lunga serie di concerti hanno inciso il loro primo disco, un EP, oggi molto difficile da reperire, ai famosi Record Plant Studios di Sausalito.

Ad esso sono seguiti altri due album, nel 2009 e 2010 (nel frattempo hanno fatto ritorno nella loro città natale), ma è soltanto con Cane Sugar, il loro nuovo lavoro, che hanno trovato una distribuzione a carattere nazionale. Gli HISB sono stati definiti una band di Bayou Americana, e se vi aspettate una miscela di country, rock e puro New Orleans sound…è esattamente quello che avrete! Cane Sugar è infatti uno stimolante e riuscito cocktail di suoni e colori, con sonorità che ricordano un mix di Little Feat, The Band, Dr. John, rock sudista, un pizzico di country ed un filo di blues, dodici brani che si ascoltano tutti d’un fiato, senza cadute di tono o riempitivi. Wilkinson e Mulé si alternano al canto, ma quello che più impressiona è il suono, solido e compatto come se stessimo parlando di una band che suona insieme da almeno trent’anni: la ciliegina sulla torta sono i sessionmen, oscuri (tranne Mickey Raphael, armonicista di Willie Nelson) ma bravissimi, con un plauso particolare per l’ottima sezione fiati, quasi indispensabile per un gruppo della “Big Easy”.

Change My Ways apre il disco con uno swamp-rock paludoso, dominato dalla slide di Mulé, con un suono tra John Fogerty, la Band ed i Feat, un brano pulsante e perfetto per iniziare il nostro viaggio nel Bayou. Black And Blue è più mossa, ha il sapore del Sud in ogni nota, un miscuglio ancora di Band con Zac Brown o, se vogliamo, i Gov’t Mule più leggeri: sentite il piano di Brooks, sembra quasi Allen Toussaint.  Cast The First Stone è bluesata, ma sempre ricca di suoni e di ritmo, e se chiudete gli occhi potrete immaginare di essere in mezzo ai vicoli di New Orleans; One Shot è annerita e meno immediata, ma l’accompagnamento è sempre molto fluido, mentre Cane Sugar è scorrevole, limpida, solare, con elementi country ad insaporire ulteriormente il piatto.

Miss What I Got è invece puro country: il mandolino è lo strumento guida e la melodia fuoriesce limpida e pura, con un bel botta e risposta tra solista e coro. Prodigal Son torna al Sud, con la voce roca di Wilkinson che prende subito possesso del brano, mentre la slide ricama puntuale sullo sfondo; la cadenzata Just Another Fool, elettroacustica e con fisa alle spalle, è forse un po’ risaputa ma si ascolta con grande piacere.Johnny Come Home è puro Feat-sound, con elementi funky fin qui assenti, Pills è solare e bucolica, ancora country di grande spessore, che dimostra che i nostri sono a loro agio anche con sonorità non propriamente della Louisiana (anche se un tocco di cajun da qualche parte lo avrei gradito). L’elettroacustica Never Saw It Comin’ e la fluida Strangers, puro southern sound, chiudono in bellezza un disco fresco ed inatteso, da parte di una band da tenere d’occhio.

Potrebbero essere i nuovi Subdudes.

Marco Verdi

Finalmente Degno Di Tanto Padre! Shooter Jennings – The Other Life

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Shooter Jennings – The Other Life – Black Country Rock/Entertainment One/Blue Rose

Come disse un tempo Jannacci Enzo da Milano, ogni tanto, “l’importante è esagerare”, e in questo caso mi sentirei di dire, finalmente Shooter è degno di tanto padre (e pure la mamma, Jessi Colter, sarà orgogliosa),  anche se, ad essere sinceri, Shooter Jennings di dischi belli ne ha già fatti parecchi, con Black Ribbons aveva messo a dura prova la pazienza dei suoi fans, con un disco che era un incrocio tra i Nine Inch Nails, detto da lui (e fin lì nulla di male) e il country-southern-rock, due mondi che difficilmente coincidono, più che altro collidono. Ma già il precedente Family Man, per dirla con il titolo del suo primo disco, aveva Put The O Back In Country, ed ora questo The Other Life completa l’opera, rivelandosi forse il suo migliore in assoluto. Il nostro amico Shooter, vero nome Waylon Albright Jennings, in onore del babbo, il fisico dell’outlaw ce l’ha, e anche la classe del musicista e la voce non si discutono, probabilmente non sarà mai un n.1 come il padre Waylon, che già alla fine degli anni ’50 era nella band di Buddy Holly e schivò l’incidente aereo del “The Day The Music Died” (dove oltre a Holly persero la vita anche Ritchie “Bamba”Valens e Big Bopper) per un pelo, diventando poi uno fondatori del movimento outlaw che ha rivoluzionato la musica country fino alle sue fondamenta. Il figlio ha il DNA dell’augusto genitore nelle sue cellule e questo nuovo album lo testimonia.

Essendo un figlio degli anni ’70 (1979 per la precisione) e quindi cresciuto negli anni ’90, Jennings jr. è stato influenzato anche da altri tipi di musica e questo ogni tanto traspare nelle sue canzoni, finché si tratta di rock e ancora meglio di southern rock, nulla di male, ma quando si lancia nell’alternative o nel pseudo psichedelico lo si capisce meno. Prendete ad esempio una canzone come l’iniziale Flying Saucer Song,che era uno dei brani che appariva in Pussy Cats (come bonus), il disco di Harry Nilsson prodotto da John Lennon, ma qui, in apertura di CD, sembra una outtake da qualche disco di Mike Oldfield, tastiere ovunque, suonate dallo stesso Shooter e da Erik Deutsche, piano, organo, wurlitzer, synth vari, voci trattate, vuoi vedere che ci è ricascato? Anche se poi un certo fascino si percepisce comunque, molto meglio il rock deciso e chitarristico di A Hard Lesson To Learn dove la pedal steel di Jon Graboff, co-autore del brano, comincia a spargere buona musica nei solchi digitali del disco, le tastiere ci sono, rappresentate da un gagliardo organo Hammond.

Quando però si decide di entrare a piedi uniti nel country di famiglia le cose si fanno serie: il galletto e gli uccellini che ci accolgono all’inizio di The White Trash Song (scritta da Steve Young) fanno da preludio ad un tripudio di pedal steel, violini, piano e alla follia sonora del “fuori di testa” di Austin, Texas, Scott H. Biram, che mette la testa a posto per un travolgente duetto con Jennings che più outlaw non si può. Il duetto con Patty Griffin in Wild and Lonesome è una ballata country di quelle che ormai si ascoltano raramente, del tutto degna delle migliori collaborazioni tra Gram Parsons ed Emmylou dei tempi che furono, ma anche di Waylon & Jessi, una piccola perla. Outlaw You che già dal titolo, e poi nel testo, cita e ricorda personaggi come Johnny Cash e babbo Waylon, si regge su un violino insinuante (suonato nel disco, di volta in volta, da Eleanor Whitmore, Stephanie Coleman e dal veterano Kenny Kosek), sul banjo di Bailey Cook e sulle chitarre del già citato Graboff e dei due chitarristi solisti , Jeff Hill e Steve Elliot, Steve Earle non gli fa un baffo, grande brano! La title-track, The Other Life, è un’altra ballatona di quelle struggenti, sorretta nuovamente da piano, pedal steel e chitarre, presenta i “soliti ingredienti”, ma se sono usati bene la loro porca figura la fanno sempre, soprattutto se chi canta ci mette il giusto impegno.

The Low Road è nuovamente del sano outlaw country-rock, che mescola banjo e steel con il suono rock delle chitarre, l’andamento pigro ma deciso della ritmica e la grinta del cantato, che è lontana anni luce dalla melassa di Nashville. Mama, It’s Just My Medicine è un country & roll di quelli ruspanti, con un assolo di synth che, stranamente, si inserisce perfettamente nel tessuto più moderno del brano, forse destinato alle radio, commerciale, ma averne di brani così sulle onde radio. The Outsider è un altro perfetto esempio di country song pura e dura, con l’aggiunta dell’armonica di Mickey Raphael che potrebbe proporla al suo datore di lavore Willie Nelson. 15 Million Light-Years Away presenta una accoppiata inconsueta, Jim Dandy (il cantante dei Black Oak Arkansas) con il suo vocione inconfondibile si adatta “come un pisello nel suo baccello” al mood della canzone e questo mid-tempo elettrico è un altro highlight del CD, permettendo ai due chitarristi di dare libero sfogo al loro solismo, poi reiterato nella lunga e tiratissima ode di progressive southern rock, The Gunslinger, dove chitarre, tastiere e un sax inconsueto si fanno largo tra i “motherf**ers” che nel testo si sprecano, inizio misurato e crescendo micidiale. Ben fatto, Shooter Jennings!                                        

Bruno Conti

Vi Mancano Gli Stones? Beccatevi Questi! Deadstring Brothers – Cannery Row

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Deadstring Brothers – Cannery Row – Bloodshot CD 02-04-2013

Se avessero dovuto bendarmi e farmi ascoltare questo disco senza dirmi nulla, avrei pensato ad una oscura session dei primi anni settanta dei Rolling Stones, rimasta poi nei cassetti. I Deadstring Brothers sono un gruppo di Detroit cresciuto veramente a pane e Stones, ma non gli Stones classici (quelli più rock’n’roll per intenderci), ma quelli appunto del periodo 70/72, che flirtavano con la California e con il cosmic country di Gram Parsons e dei suoi Flying Burrito Brothers. Cannery Row è già il loro quinto album (non conosco i precedenti, tutti usciti per la Bloodshot), ed è un godibilissimo excursus in un sound d’altri tempi, ma sempre attuale (basti pensare all’ultimo album di Ryan Adams, Ashes & Fire) ed affascinante: il leader e deus ex machina del gruppo è Kurt Marschke, che in effetti tratta la band come una sua creatura, cambiando spesso i componenti (la versione attuale comprende JD Mack al basso, Brad Pemberton alla batteria, Mike Webb al piano ed organo, tra l’altro bravissimo, e Pete Finney a steel e dobro, molto valido anche lui, mentre Kurt si occupa delle chitarre).

Una band di elementi esperti, gente che ha suonato con Poco, Dixie Chicks, Hank Williams Jr. e lo stesso Ryan Adams, ai quali si aggiunge come special guest Mickey Raphael, armonicista storico della Willie Nelson Family Band. Gente che sa il fatto suo, e pure Marshke, cognome impronunciabile a parte, non è certo un pivello: il suo suono dipende sì dalle Pietre Rotolanti, ma in alcuni casi riesce a smarcarsi brillantemente da questa dipendenza e dimostra di saper camminare anche con le sue gambe. Cannery Row è, considerazioni a parte, un signor disco, e nei suoi quaranta minuti non c’è un solo secondo da buttare. Si parte davvero alla grande con Like A California Wildfire, classica ballata alla Jagger & Co., sembra una outtake incisa il giorno dopo la registrazione di Wild Horses, molto bella anche se derivativa. It’s Morning Irene inizia come una ballata folk, poi entra la band ed il brano si tramuta in un gustoso cocktail di country e cajun, con un’atmosfera nostalgica di fondo: un brano più personale questo. Oh Me, Oh My palesa altre influenze, come il periodo bucolico di Van Morrison (Tupelo Honey e dintorni, sempre di early seventies parliamo), ma anche The Band per l’uso dell’organo. The Lonely Ride è puro Stones sound, tra country e rock’n’roll (splendido l’uso del piano), grandissima canzone, molto coinvolgente: ricorda molto (ma molto) Dead Flowers e quindi sono di parte, perché lo considero il brano più bello di sempre dei Rolling. 

Cannery Row è un’intensa ballata, fluida e distesa, con un bel solo di organo, mentre Lucille’s Honky Tonk è un country-blues acustico, che si stacca un po’ dall’ombra degli Stones ma rimane ben dentro la grande musica (ottimi piano, slide e steel): musica suonata col cuore, e si sente. The Mansion, ancora acustica, è emozionante e ricca di pathos: quasi quasi mi viene da scomodare gli ultimi Black Crowes (*NDB Tra qualche giorno a proposito dei fratelli Robinso, bella sorpresa sul Blog, così costringo Marco a lavorare) quelli che alternano le loro classiche jam elettriche a splendide digressioni acustiche. Just A Deck Of Cards è guidata da un’ottima slide e dalla voce alla Jagger di Kurt; Talkin’ With A Man In Montana è un’altra grande canzone, una slow ballad pianistica e scintillante, un pezzo così Jagger e Richards non lo scrivono da una vita.  L’album si chiude, come era iniziato, cioè con una languida ballad figlia del binomio Stones/Parsons (Song For Bobbie Jo). Davvero un’ottima band questi Deadstring Brothers (o dovrei dire Kurt Marschke & The Deadstring Brothers), un po’ derivativa ma non sempre: se vi mancano gli Stones più roots e bucolici, questo dischetto fa al caso vostro.

Marco Verdi