Tra Mancini Ci Si Intende! Eric Gales – Live

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Eric Gales – Live – Blues Bureau/Shrapnel CD/DVD

Come moltissimi altri chitarristi in circolazione, anche Eric Gales è uno degli accoliti della “parrocchia virtuale” degli adoratori della trinità rock-blues/power trio in cui, senza voler essere blasfemi, Jimi Hendrix è il “Padre”, Stevie Ray Vaughan è il “Figlio” e Albert King è lo “Spirito Santo”. Oltre a tutto Eric Gales, rispetto ad altri concorrenti nella categoria, suona pure da mancino, quindi le similitudini, spesso smentite in interviste e comunicati stampa, sono piuttosto evidenti : domanda tipica: “Ma ti ispiri a Jimi Hendrix?” risposta: “Ma quando mai, amo moltissimo Segovia!”. Peraltro non è un vizio solo suo (più delle case, devo dire), quando non ci sarebbe nulla di male nell’ammetterlo, ma bisogna distinguersi e tra le sue influenze viene citato anche Eric Johnson (che evidentemente fa figo). Eric viene da una famiglia musicale numerosa, tra i suoi fratelli, Eugene, il bassista, ha condiviso una parte della sua carriera come Gales Brothers, mentre un altro fratello, Manuel, usava lo pseudonimo di Little Jimmy King, altro mancino dalla tecnica favolosa, più legato al Blues, purtroppo scomparso per un infarto nel 2002, a soli 38 anni.

Comunque, magari Eric Gales predica male, ma razzola benissimo. I suoi dischi sono stati sempre un “conforto” per gli appassionati della chitarra dalle sonorità diciamo energiche, ma non aveva mai affrontato la prova del disco dal vivo, che è la dimensione ideale per questo tipo di musica. Tra l’altro, stranamente per un disco Live di questo tipo, non c’è neanche una cover, tutti brani originali firmati dallo stesso Gales e dal boss dell’etichetta Blues Bureau e amico, Mike Varney, che è il quinto disco che gli pubblica. Vi risparmio le solite ovvietà sul fatto che per questa formula musicale l’album dal vivo è come “un pisello nel suo baccello” e passo ad una veloce disamina dei contenuti di questo CD e DVD. I brani nelle due versioni sono gli stessi (uno in più nel DVD) e cambia leggermente la sequenza delle tracce. Il brano di apertura del disco, The Open Road, ha quella tipica andatura Hendrixiana, blues e rock miscelati in un sound vagamente futuribile, con la chitarra che costruisce veloci scale ispirate anche dall’Eric Johnson citato prima e che mette subito in chiaro la perizia tecnica di Eric e del suo trio, gli altri sono Aaron Haggerty alla batteria e Steve Evans al basso. La voce, a chi scrive, ricorda, tra tutti, vagamente, quella di Jerry Garcia, anche se il genere musicale non c’entra nulla, ma quel modo di cantare dall’aria pigra, sorniona e rilassata stimola il paragone.

Layin’ Down The Blues, non sarà una cover, ma due o tre punti in comune con il suono di SRV ce li ha tutti. The Change In Me ha un riff di partenza che è il fratello gemello separato alla nascita di La Grange degli ZZ Top, poi lo sviluppo è tra southern boogie e derive hendrixiane, sempre con ampio spazio per le evoluzioni chitarristiche di Gales, che per l’occasione innesta anche il pedale del wah-wah. Freedom From My Demons è il classico slow blues atmosferico in crescendo che permette di apprezzare nuovamente la sua tecnica, mentre Make It There accelera nuovamente i tempi nella classica scansione scat tra voce e chitarra di chiara derivazione hendrixiana. Senza stare a citarle tutte, essendo canzoni non note se non siete dei fedelissimi della sua discografia, il succo è comunque quello, il brano è solo un pretesto per introdurre il “solismo” del nostro amico e quindi i brani non sono mai particolarmente memorabili come costruzione musicale, forse fanno eccezione lo strumentale Universal Peacepipe dalla struttura più complessa e la lunga e meditativa Wings Of Rock And Roll, entrambe veicoli ideali per godersi questo vero virtuoso dello strumento. In fondo dovete tenere conto che questo tipo di musica e di formula ha, giustamente, un suo pubblico che apprezza questi musicisti e sicuramente Eric Gales è tra i migliori nel campo, una sorta di chitarrista per chitarristi, veri o presunti (davanti allo specchio!). Diciamo che in questo disco l’influenza blues di Albert King non è molto presente, proprio per porre un discrimine per gli eventuali fruitori di questo album.

Bruno Conti

Come Se Gli Anni ’70 Non Fossero Passati Take 2! Nuovamente Blindside Blues Band – Generator

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Blindside Blues Band – Generator – Shrapnel/Blues Bureau

Ne sarebbe uscito anche uno dal vivo, poco tempo fa, un CD+DVD Live At The Crossroads, registrato al Rockpalast del 2010, ma per l’occasione ci concentriamo su questo Generator, che segna il ritorno alla Shrapnel di Mike Varney, a una ventina di anni dall’esordio come Blindside Blues Band, ma Mike Onesko, il cantante, chitarrista e leader del gruppo, era già in pista da una ulteriore ventina di anni, quando diciassettenne esordiva nel 1972 nella sua prima formazione, i Sundog, casualmente un power-rock-blues trio. Cosa è cambiato da allora? Direi poco o nulla: il bassista, Kier Staeheli pompa sempre sul suo strumento, il batterista, Emery Ceo, picchia pure lui sul suo attrezzo e le chitarre (perché nel frattempo si è aggiunto anche Jay Jesse Johnson in pianta stabile), direi che schitarrano!

Come si diceva in relazione alla doppia uscita a cavallo tra 2010 e 2011, Smokehouse Sessions e Rare Tracks come-se-gli-anni-70-non-fossero-mai-passati-blindside-blues.html , per questi signori gli anni ’70 è come se non fossero mai finiti, la forma è sempre quella di un rock-blues heavy, ma molto heavy, che sconfina spesso e volentieri nell’hard rock, picchiato ma sempre di buona qualità, per gli amanti del genere e quindi delle sensazioni forti, sarà musica di grana grossa ma suonata decisamente bene. Il blues più che altro è nella ragione sociale del gruppo, ma volendo da lì, alla lontana si prende spunto per questo violente cavalcate chitarristiche: Mike Onesko, era da mesi che mi scervellavo, mi girava intorno ma non riuscivo ad afferrarlo, ha una voce che mi ricorda un ibrido tra quella di Jim Dewar, il non dimenticato cantante del gruppo di Robin Trower, musicista con cui ha più di un punto in comune musicalmente, uno in particolare, tale Jimi Hendrix e Stan Webb dei Chicken Shack, altra band che negli anni ’70 fondeva blues con un rock ad alta concentrazione chitarristica. Archelogia del rock?

Probabilmente sì, ma con questi dischi che sembrano delle “ristampe” di un genere più che di un titolo, si tratta solo di constatare un fatto assodato. E in fondo non c’è niente di male. Se molti di questi brani, tutti rigorosamente firmati da Mike Onesko, sembrano provenire da vinili d’epoca dei nomi citati ma anche, sparo a caso, Black Sabbath, Deep Purple, Led Zeppelin, Cactus, Beck,Bogert & Appice o in anni recenti, con più classe e con pari energia, i primi Gov’t Mule, quelli più selvaggi e rock o i Black Mountain, senza tastiere e spunti psichedelici, ma con una seconda chitarra solista aggiunta in questo Generator, spesso in modalità slide, dicevo se sembrano provenire da un’epoca remota ma in fondo sono ancora di moda come dimostrano anche altre formazioni “attuali” come gli Howlin Rain, si tratta di quei piaceri proibiti che si praticano davanti a uno specchio, cosa avete capito, facendo della sana air guitar!

Quando i tempi rallentano come in Wandering man le cascate di note delle chitarre di Onesko e Johnson si gustano con maggior piacere invece che colpirti con violenza tra i denti come nelle tiratissime e riffate Gravy Train e Power Of The Blues o nei ritmi più funky alla Beck di Bluesin’ con i coretti femminili della figlia di Onesko, Angelika. In fondo i titoli non sono importantissimi, sono undici brani che superano abbondantemente l’ora di musica in questo dischetto e che sono un pretesto per ascoltare due chitarristi di buon valore duettare e duellare dai canali dello stereo, gli appassionati e i fans del gruppo sanno cosa aspettarsi e la musica, violenta quanto si vuole, non scade mai nell’heavy metal più bieco, per chi non ama il genere astenersi, per gli altri un buon album nella discografia della Blinside Blues band.

Bruno Conti

Un Chitarrista Che “Fa L’Indiano”! Indigenous Featuring Mato Nanii.

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Indigenous Featuring Mato Nanji – Blues Bureau International/Shrapnel

Mato Nanji, più che “fare l’indiano” lo è proprio, pellerossa naturalmente, della tribù Sioux dei Lakota e vive ancora nella riserva del South Dakota, che fa anche rima. Il gruppo, all’origine, seconda metà anni ’90, era nato come un affare di famiglia, un fratello, una sorella e il cugino, tutti appassionati di Blues, passione nata sui dischi di B.B. King e Buddy Guy che portava a casa il babbo, grande appassionato del genere. Poi, Mato soprattutto, ha integrato questo sentimento con l’amore per chitarristi come Hendrix, Santana e soprattutto Stevie Ray Vaughan. E fino al 2006 tutto è andato bene, con una nutrita serie di album di poderoso rock-blues pubblicati per diverse etichette. A quel punto il resto della famiglia ha deciso di andarsene e Mato Nanji ha sciolto la band pubblicando un album da solista e poi nel 2010 ha ripristinato la vecchia ragione sociale per un album Acoustic Sessions, in compagnia della moglie Leah, che non (mi) aveva entusiasmato, come riportato su queste pagine virtuali indigenous-acoustic-sessions.html. Non un disco brutto, diciamo di transizione (come si dice quando non si vuole essere cattivi). Ora, sempre utilizzando il nome del gruppo, ritornano gli Indigenous con un disco che promette bene già dal sottotitolo, “All Electrified Guitar Made in Usa”, che vede a fianco del rientrante cugino American Horse alle percussioni, una solida band che sostiene la fiammeggiante e tiratissima Fender del leader, la classica line-up, basso, batteria e organo. Se aggiungiamo che la (co)produzione è affidata a quel Mike Varney, boss della Blues Bureau Int./Shrapnel che di dischi di chitarra se ne intende, direi che la missione è compiuta.

Come ciliegina sulla torta e eccellente brano di apertura, c’è anche un duetto con un altro che di rock-blues e di chitarre se ne intende, Jonny Lang (hanno fatto parte entrambi dell’Experience Tour, dedicato a Hendrix): Free Yourself, Free Your Mind è un perfetto esempio di quell’hard blues ricco di soul che entrambi frequentano da tempo, con le due chitarre e le voci che si intrecciano con perfetto tempismo, l’inizio non poteva essere migliore, grande apertura. Ma anche il resto non scherza, il disco ha quel feeling da concerto dal vivo con la chitarra di Mato Nanji libera di improvvisare ma nello stesso tempo con un bel suono da disco di studio ben prodotto, sentire Everywhere I Go che permette di apprezzare anche la bella voce del leader, finalmente un chitarrista con una voce rauca e potente, una rarità nel genere. Jealousy si getta nel Texas Blues alla Stevie Ray Vaughan, poderoso e ad alta tensione chitarristica con la solista che viaggia che è un piacere. Someone Like You con le percussioni in primo piano, ondeggia tra Santana e ZZtop, boogie latino. I Was Wrong To Leave You con l’organo a sostenere la solista di Mato è uno slow blues atmosferico tra Stevie Ray e Jimi mentre No Matter What It Takes si basa proprio su un riff hendrixiano e tempi più rock.

Anche Storm, grazie alle sue percussioni impazzite che sostengono basso e batteria in libera uscita, è uno strumentale di stampo Santaniano con il wah-wah di Nanji che raggiunge vette di virtuosismo notevoli. Find My Way rallenta i tempi ma non il fervore vocale e chitarristico. All Those Lies dimostra una volta di più che il nostro ha perfettamente fatto suo lo stile alla Vaughan, non un clone ma un ottimo discepolo ( e quindi di rimessa del grande Jimi). E infatti The way I feel è più vicino a quest’ultimo. Wake Up è una bella slow ballad ricca di melodia con percussioni e organo ancora una volta a sostenere il tessuto della canzone, a dimostrazione che anche i rockers hanno un’anima gentile (ma dalla scorza dura). By My Side è un rock-blues come potrebbero farlo i Los Lobos quando si avvicinano a tempi più bluesati e la conclusione è affidata a una torrida When Tomorrow Comes, forse la migliore del lotto, un altro slow tirato e ad alta gradazione con la chitarra che una volta di più fa i numeri e che conclude bene come era partita questa nuova fatica degli Indigenous. Powerful rock-blues. Ben tornati!

Bruno Conti   

Un “Fenomeno” Della Chitarra! Johnny Hiland -All Fired Up

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Johnny Hiland – All Fired Up – Shrapnel/Provogue

Vi risparmio la battuta sul “grosso” talento (tanto l’ho già fatta) su questo pacioso e robusto ragazzone americano che è considerato uno dei nuovi talenti della chitarra negli Stati Uniti. Scoperto da Steve Vai nel 2004 che gli ha anche pubblicato il primo album per la sua Flavored Nations lo stesso anno (ma già da metà anni ’90 aveva suonato come session-man con molti artisti country come Toby Keith, Ricky Skaggs e Hank Williams III), nel 2008 ha pubblicato un disco autogestito Loud And Proud ed ora approda alla Shrapnel/Provogue di Mike Varney che produce questo All Fired Up. Evidentemente i “metallari” ma virtuosi (nel senso dello strumento) hanno una predilezione per questo chitarrista, cieco dalla nascita, che è un iradiddio al suo strumento, una Fender Telecaster (che lo sponsorizza da un po’ di anni, caso raro per un musicista senza un contratto con una grande casa) dove è in grado di creare vere cascate di note in uno stile che sta fra country, bluegrass elettrico (se esiste) ma anche tanto rock e blues https://www.youtube.com/watch?v=AxnoyrS2TDc .

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Quando ho messo nel lettore il dischetto ed è partito il primo brano mi è venuto uno scioppone, vuoi vedere che ho inserito Hiding di Albert Lee o qualche disco degli Hellecasters per sbaglio? No, no è proprio lui, che fa tutto da solo (con un consistente aiuto dal bassista Stuart Hamm e del batterista Jeremy Colson, e nel primo disco c’era Billy Sheehan al basso) con vere e proprie cascate di note che si susseguono velocissime, una tecnica mostruosa che non ha nulla da invidiare, nel proprio ambito, a un Danny Gatton o a un Roy Buchanan, oltre al già citato Albert Lee https://www.youtube.com/watch?v=Y0n0ZEVc4lk . Anche quando si cimenta in pezzi decisamente country come la deliziosa Bakersfield Bound con un sound che vira quasi verso quello di una pedal steel, gli assoli di Hiland sono una vera miniera di trovate e ricchi di inventiva. Forse mi sono dimenticato di dirvi che è tutto rigorosamente strumentale, ma penso che si intuisse. Non mancano momenti più lirici e melodici come Forever Love dove anche il tastierista Jesse Bradman si ritaglia un suo spazio.

Johnny-Hiland-Hero-Pix_Photo-by-Bob-Seaman_WEB

Six String Swing come da titolo si avvicina a tematiche più jazzate sempre con la chitarra di Hiland in un perenne overdrive tecnico mentre la conclusiva Bluesberry Jam dai tempi decisamente rock darebbe dei punti anche allo Steve Morse più inventivo dei tempi dei Dixie Dregs, un vero fulmine di guerra, o meglio di note https://www.youtube.com/watch?v=2I625pTjii4 . E non contento di tutto ciò il nostro amico nelle due bonus vocal tracks finali si rivela anche un ottimo cantante country nelle scintillanti Breaker, Breaker 1-9 e Party Time. Se le scrive, se le suona e volendo, se le canta. Un vero mostro di tecnica, magari soprattutto per appassionati della chitarra elettrica e il giudizio molto positivo è anche mirato in quel senso ma molto piacevole da ascoltare per tutti.

Una bella sorpresa.

Bruno Conti

Uno Strano Caso di Omonimia! Stoney Curtis Band – Cosmic Conn3ction

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Stoney Curtis Band – Cosmic Conn3ction – Blues Bureau/Shrapnel

Se digitate il nome Stoney Curtis in rete il primo risultato che vi appare è “noto attore e regista porno americano”, ma , strano, vuoi dire che mi devo dare alle recensioni di materiale hard? Poi tutto si chiarisce, questa è la Stoney Curtis Band e anche lui prende il nome da un personaggio dei Flintstones perché in effetti il vero nome è Curtis Feliszak come si desume dal fatto che è l’autore di tutti i 12 brani che compongono questo Cosmic Connection. Il suo co-autore e produttore del disco è Mike Varney, fondatore della Shrapnel Records, l’etichetta indipendente americana che sempre di hard si occupa, ma hard-rock, metal persino, e anche nella Blues Bureau di power-trio blues-rock ma molto rock.

Però il Blues, ancorché energico per usare un eufemismo, non manca: se uno si ascolta When The Sweet Turns To Sour uno dei brani di questo album, uno slow blues torrenziale dove la tecnica chitarrististica del buon Stoney non è seconda a nessuno si capisce perché il nostro amico citi tra le sue influenze Hendrix, Thorogood, Steve Ray Vaughan, Clapton e Robin Trower ma anche Buddy Guy, Howlin’ Wolf e Muddy Waters. Poi non sempre predica bene e razzola male o viceversa. In effetti il modo di cantare di Curtis ( e anche gli arrangiamenti di molti brani) si ispirano anche al David Lee Roth dei Van Halen, ad esempio in Mouthful of money o nell’iniziale “manifesto” Blues & Rock’n’roll.

La fluida e torrenziale Headin’ For The City è Stevie Ray Vaughaniana fino al midollo anche nella presenza di un organista, Jesse Bradman, che aggiunge coloriture e spazialità alla solista indiavolata del nostro amico. Non mancano gli episodi psichedelici-Hendrixiani come in Soul Flower dove il wah-wah impazza dai canali dello stereo ma il ritornello e il cantato ricordano il rock FM americano, non quello più bieco ma non siamo al massimo della finezza, Van halen e dintorni.

C’è sempre questa alternanza tra hard-rock e hard blues e la voce di Stoney Curtis non sempre lo assiste, Good Lovin Done Right non è male ma l’arrangiamento non aiuta anche se l’assolo è sempre notevole. Big Beautiful Women è classico ‘70’s hard-rock non proprio originalissimo e raffinato ma la grinta, a chi piace il genere, non manca. Mary Jayne è una via di mezzo tra Hendrix e Van Halen  (un pallino di Varney che nella sua scuderia di chitarristi da sempre è alla ricerca di un suo omologo). Quando i tempi rallentano e le 12 battute prendono il sopravvento come nel melodic blues (me lo sono inventato al momento) di Infatuation Blues le cose migliorano, almeno per il sottoscritto. Ma è questione di un attimo prima del furioso hard rock di Before The Devil Knows You’re Dead e dei vaghi sentori progressivi di Rise Up. Conclude The Letter una sorta di hard ballad melodica in crescendo con ampio uso di chitarra.

Per chi ama i sapori “forti e duri” ma anche i buoni chitarristi, ma ce ne sono tanti così in giro, bravo ma basterà?

I filmati ovviamente sono dello Stoney Curtis “giusto”, con l’altro avrei incontrato il probabile plauso di molti ma rischiato l’arresto!

Bruno Conti