Il Primo “Vero” Live Ufficiale Del Puma? John Mellencamp – Plain Spoken From The Chicago Theatre

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John Mellencamp – Plain Spoken From The Chicago Theatre – CD/DVD – CD-Blu-Ray – Eagle Rock/Universal

Il perché del titolo è presto detto: fino ad ora, nella sua lunga carriera, John Mellencamp aveva pubblicato solo due dischi dal vivo, entrambi abbastanza interlocutori, Life, Death, Live And Freedom, un mini album del 2009 con otto brani che erano una sorta di antefatto, benché pubblicato dopo, dell’album Life, Death, Love And Freedom, ed un altro disco dal vivo Trouble No More Live At Town Hall, anche questo incentrato intorno al disco di covers del 2003 Trouble No More, concerto registrato nel 2003 anche se poi il CD è stato pubblicato solo nel 2014. Quindi, esaminando i contenuti dei due dischi dal vivo, risulta che del repertorio classico del cantante dell’Indiana, quello in cui era ancora John Cougar Mellencamp, ci sono solo due brani messi in coda all’album del 2014, Paper In Fire Pink Houses, oltre a Small Town, posta a trequarti del concerto a certificare il suo status di grande performer live. Non è mai stato pubblicato, a livello ufficiale, nulla del periodo d’oro degli anni ’80 (spesso giustamente vituperati, ma sono stati anche gli anni in cui oltre a Mellencamp, anche Bob Seger, Tom Petty. gli U2, in parte Springsteen, e molti altri, che non citiamo per brevità, hanno rilasciato il meglio della loro produzione rock): come gli altri appena ricordati,Springsteen con l’E Street Band, Seger con la Silver Bullet Band, Petty con gli Heartbreakers, anche John Cougar Mellencamp, dalla metà anni ’80 in avanti, aveva un gruppo formidabile, Larry Crane Mike Wanchic alle chitarre, Kenny “Pestaduro” Aronoff alla batteria, John Cascella alle tastiere e fisarmonica, a cui si era aggiunta Lisa Germano al violino, oltre al bassista Toby Myers e alle vocalist Crystal Taliefero Pat Peterson, in pratica la formazione che aveva inciso Lonesome Jubilee e due anni prima, senza voci femminili e la Germano Scarecrow, i due album seminali della carriera del nostro. 

Il punto interrogativo del titolo nasconde in verità un altro quesito: ma dopo tutti questi anni la montagna ha alla fine partorito un topolino? Ovvero, è questo il disco dal vivo che veramente ci aspettavamo? Già il formato è bizzarro; o meglio la sua realizzazione::un CD + DVD, dove la parte video prevede il concerto, ripetuto due volte, in una versione con la “voce narrante” dello stesso Mellencamp posta sopra le immagini del concerto e nell’altra libera, ma entrambe non molto più lunghe della parte audio, che dura “solo” 72 minuti, in pratica nel DVD o Blu-ray in più ci sono i sei-sette minuti del lungo monologo introduttivo posto prima della bellissima Longest Days, proposta in versione acustica e solitaria, in cui il nostro amico ricorda in un aneddoto, in modo tenero e anche divertito, la vecchia nonna, morta a 97 anni nel 2002, e che aveva l’abitudine di non chiamarlo mai John solo Buddy, quella della Grandma’s Theme su Scarecrow. Per rispondere al mio quesito sono comunque andato a vedermi le setlist dei concerti e devo ammettere che ultimamente nei tour del 2016 e 2017 comunque Mellencamp esegue sempre sedici-diciassette brani, ma ogni tanto in passato, come testimoniamo filmati in rete e album non ufficiali, in occasioni speciali, per esempio i concerti in Indiana (penso al Live By Request del 2004, trasmesso in TV o ad un favoloso concerto del tour 1986 a Bloomington con 27 brani in scaletta, tutti e e due oltre le due ore). Forse visto che il concerto di Chicago del 25 ottobre 2016 doveva essere registrato ed inciso, si poteva pensare ad un evento speciale, ma comunque “accontentiamoci” anche se mancano alcuni brani famosi, tipo Jack And Diane, R.O.C.K. In The Usa, Jackie Brown o Crumblin’ Down, ma le altre questa volta, più o meno, ci sono tutte.

Come detto, siamo al Chicago Theatre, è il 25 ottobre del 2016, tour per la promozione di Plain Spoken, ma nel frattempo John Mellencamp ha già preparato anche il nuovo album Sad Clowns & Hillbillies che uscirà poi il 28 aprile del 2017 (e dove, per un poco di sano gossip, appare ai backing vocals la fidanzata dell’epoca, la modella Christie Brinley, ma nel frattempo il nostro, per la serie si lasciano e si ripigliano, parrebbe tornato con Meg Ryan con cui vorrebbe sposarsi se la figlia sarà d’accordo): oltre alle donne, l’altra grande passione del nostro sono le sigarette che, nonostante l’attacco di cuore dei primi anni ’90 e i consigli dei medici, non ha mai abbandonato, in quanto sostiene lo aiutino a creare e mantenere quella voce roca e vissuta tipica dei grandi cantanti di blues e di soul che sono sempre stati i suoi modelli. Ed infatti quando parte il concerto, la prima ripresa lo becca volutamente dietro le quinte mentre si sta fumando l’ennesima sigaretti prima di salire sul palco, dove la band ha già attaccato con vigore l’introduzione di Lawless Time, uno dei brani di Plain Spoken, che ha l’aria spavalda, a cavallo tra blues, country e rock, di alcune canzoni di Dylan da Blonde On Blonde, tipo Rainy Day Women per intenderci, con la sua aria campagnola da festa di paese: nel caso del pezzo di Mellencamp, violino e fisarmonica, ovvero Miriam SturmTroye Kinnett (pure alle tastiere), entrambi molto eleganti, gli uomini tutti con giacca, a parte il batterista Dane Clark, poi entra il Puma, anche lui con giacca, gilet, maglietta bianca e pochette, Fender a tracolla, mentre i due chitarristi, il fedele Mike Wanchic (l’unico della prima ora) e Andy York, entrambi vanno di Gibson, l’importante è che il suono sia solido e vibrante, e anche il bassista John Gunnell (che suona anche il contrabbasso all’occorrenza), così li abbiamo nominati tutti, pompa di gusto sullo strumento. Ottima partenza confermata subito con l’altro brano dall’album del 2014, l’eccellente Troubled Man, che segnala il ritorno alle sonorità di Lonesome Jubilee, con il guizzante violino della Sturm grande protagonista: poi partono subito i classici con un uno-due da sballo, Minutes To Memories Small Town, entrambe da Scarecrow, versioni ricche, avvolgenti e coinvolgenti, come nella migliore tradizione della musica di Cougar, che appare motivato e ben centrato.

Piccola digressione a questo punto: come sapete John Mellencamp è venuto una sola volta in Italia, a Vigevano nel 2011. Se, come me, eravate presenti a quel concerto, dimenticatevelo: per vari motivi era stato una mezza delusione, l’antefatto un filmato in bianco e nero di più di un’ora, visto in piedi nella calca, la scelta del repertorio non felicissima, lui stesso non motivatissimo, hanno fatto sì che non sia stata una serata da ricordare. Anche se, come dimostra questo concerto, poi a ben vedere la durata dei suoi concerti quella è, circa una ora e venti, quindici-sedici-brani, come nel concerto a Chicago, quello che cambia è l’intensità delle esecuzioni, che qui sicuramente non manca, oltre a messe in opera impeccabili, sound eccellente e belle riprese, spesso con primi piani sui protagonisti e stacchi sul pubblico entusiasta. Notevole la versione di Small Town (bello il tocco dell’armonica a bocca e l’immancabile finto finale con ripresa), una delle sue canzoni più importanti e significative, e tra le più eseguite negli anni, come potete andare a verificare qui https://www.setlist.fm/setlists/john-mellencamp-53d6bb81.html , dove trovate tutte le scalette dei suoi concerti, dalle origini ai giorni nostri. A questo punto John Mellencamp si presenta, ce ne fosse bisogno, e prospetta al pubblico quello che si dovranno aspettare nella serata, prima di lanciarsi in una gagliarda versione a tutta slide di Stones In My Passway, il brano di Robert Johnson tratto da Trouble No More, il disco di cover del 2003, pezzo dove John esplica tutta la sua negritudine, con una vocalità sporca e cattiva (di recente ha rivelato che tra i suoi antenati scorreva anche sangue nero). Pop Singer da Big Daddy e Check It Out da Lonesome Jubilee sono altre due perle tratte dal suo songbook, sempre sorrette da quel sound tra rock e radici che ha fatto definire il suo genere blue collar rock, grandi versioni entrambe. Poi c’è l’intermezzo citato prima e l’esecuzione in acustica di Longest Days da Life, Death, Love and Freedom, molto intensa e che precede una inconsueta The Full Catastrophe, solo voce e piano, tratta da Mr. Happy Go Lucky, non certo uno dei dischi più celebri, comunque versione intensa e notturna, tra Randy Newman e Tom Waits, poi Mellencamp (ri)chiama sul palco Carlene Carter, che era stata l’opening act del concerto, ed insieme presentano My Soul’s Got Wings, un brano all’epoca non ancora uscito, tratto da Sad Clowns And Hillbillies, un brano country molto bello, cantato a due voci all’unisono.

E siamo arrivati alla parte finale del concerto, arrivano i pezzi da novanta del repertorio,  quelli del periodo in cui si faceva chiamare John Cougar Mellencamp, tutti in serie, uno più bello dell’altro, si susseguono una potente Rain On The Scarecrow, preceduta da una Overture strumentale, solo per violino e fisarmonica, mentre poi il brano esplode in tutta la sua carica rock, canzone ed album che segnarono anche l’inizio del suo impegno con Farm Aid, batteria pestata di gusto, chitarre a manetta e un brano che non risente dell’usura del tempo e rimane fenomenale; fantastica anche una bluesata Paper In Fire, con chitarre fiammeggianti e trascinante e combattiva come sempre Authority Song, con un riff e un ritornello indimenticabili. E a proposito di riff e ritornelli, con chitarre e batteria di nuovo impazzite, un altro brano che non scherza è Pink Houses, un vero inno rock che fa cantare e ballare tutto il pubblico presente, grazie ad una frase musicale da cantare coralmente, che è una delle più riuscite dell’intera opera del cantante dell’Indiana e della storia del rock americano. Che saluta infine il pubblico con un altro dei suoi cavalli di battaglia Cherry Bomb, altro brano da manuale del rock e in cui Mellencamp lascia un verso anche al vecchio amico Mike Wanchic. Una mezz’oretta in più e sarebbe stato un disco dal vivo da antologia, ma comunque pure così, ottimo ed abbondante, uno dei migliori dischi rock dal vivo dell’anno

Bruno Conti

Il Supplemento Della Domenica: “C…o Che Bello”! John Mellencamp – Plain Spoken

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John Mellencamp – Plain Spoken – Republic/Universal – 23/09/2014

“C…o Che Bello”! Sono le prime due parole che mi sono venute in mente all’ascolto di questo nuovo, ventiduesimo, album di John Mellencamp (perché, che bello non si può dire? E’ osceno?). Facezie a parte, il nuovo album del Puma esce, assolutamente a sorpresa, a soli due mesi dall’uscita di Trouble No More Live At Town Hall: un colpo doppio al cuore dei fans, prima un disco dal vivo, atteso e mai pubblicato in passato, e poi uno nuovo di zecca, che è anche tra i più belli degli ultimi tempi e in assoluto, nella sua discografia. D’altronde, in un certo senso, lo avevano fatto intendere le parole utilizzate nell’intervista concessa a Rolling Stone sul finire dello scorso anno: la casa è vuota (parlando della mega magione vicino a Bloomington, Indiana, dove vive), nessuno risponde al richiamo “dov’è papà”, da quando non ci sono più. la moglie Elaine, da cui ha divorziato nel 2011, e anche gli ultimi due figli, Hud e Speck, ora al college, se ne sono andati; John si aggira tra le stanze dell’abitazione con aria malinconica (un brutto colpo per uno che si era autodefinito Mr. Happy Go Lucky) e quindi evidentemente ha avuto parecchio tempo per meditare e scrivere queste bellissime dieci canzoni che compongono Plain Spoken. Oddio, a voler essere cattivi, Mellencamp si era subito consolato per la separazione (o era già successo prima?), presentandosi alla data di luglio del 2011, in Italia, a Vigevano, in compagnia dell’attrice Meg Ryan, però sembra essere finita anche quella relazione (pure se la foto di copertina del CD è sua), quindi buttiamoci sul lavoro.

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Contrariamente a quanto si era letto sulla stampa, T-Bone Burnett questa volta non produce, limitandosi ad un ruolo “esecutivo” e a suonare la chitarra nel disco, lasciando il pallino della produzione allo stesso Mellencamp. Il risultato ci riporta al suono classico, dopo una serie di dischi che avevano attinto molto alle grandi tradizioni del blues, del folk e del country primigenio, con un sound volutamente scarno ed austero: comunque Life, Death, Love And Freedom e No Better Than This erano due fior di dischi (e nel frattempo è uscito il progetto Ghost Brothers Of Darkland County e John prosegue anche con la sua attività di pittore). Sarà quel che sarà, ma questo nuovo Plain Spoken ci riporta in parte alle sonorità roots e Americana di dischi come The Lonesome Jubilee Big Daddy, forse non sarà così bello, ma quasi ci siamo. L’umore è quello pensoso della ballata, forse il mezzo più adatto per rendere l’attitudine leggemente amara e risentita che aleggia in questi brani. Anche se John, vicende familiari a parte, dovrebbe essere più che ottimista, in considerazione del fatto che la Universal/Republic gli ha rinnovato il contratto discografico “a vita”, in un certo senso, finche morte non ci separi, forse un altro dei motivi per cui si è sentito in dovere di pubblicare subito un album nuovo. Circondato dai fedelissimi Mike Wanchic e Andy York alle chitarre e strumenti a corda in generale, e dalle acquisizioni più recenti, come l’ottima violinista Miriam Sturm, Troye Kinnett alle tastiere e fisa, più la sezione ritmica di John Gunnell al basso e Dane Clark alla batteria, il Coguaro dimostra ancora una volta perché è uno dei migliori cantautori americani di sempre, parte di quella pattuglia che partendo da Springsteen e Seger, e con l’aggiunta di Petty e dello stesso Mellencamp, ha regalato alcune delle pagine migliori del rock americano degli ultimi 40 anni, roots e non roots che sia la loro musica.

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Insomma, se la solitudine e l’amarezza hanno questi effetti sulla sua musica non gliene auguriamo, ma ne godiamo i risultati. I titoli delle canzoni sono esplicativi in questo senso: a partire daTroubled man, aperta da un delicato arpeggio di chitarra acustica, poi viaggia serenamente sulle note del violino della Sturm, mentre Gunnell e Clark accarezzano i loro strumenti, il nostro canta con una convinzione che non difettava certo negli ultimi dischi, ma qui è più inserita nella tradizione delle suoi migliori brani, dove la melodia regna sovrana https://www.youtube.com/watch?v=3oEquZwvG0k . Sometimes There’s God, con il suo approccio elettro-acustico, tra chitarre acustiche ed elettriche, mandolino e tocchi di pianoforte, con il violino che lavora sullo sfondo, il tutto che rinnova i fasti delle canzoni del periodo d’oro anni ’80, ci riporta a quella voce, roca ed espressiva come poche, non potentissima, ma unica e subito riconoscibile, un vecchio amico che non puoi fare a meno di amare. The Isolation Of Mister, ennesima ballata uggiosa, ma il tempo è quello, conferma questa ritrovata vena: non sembra, non me ne intendo della parte dell’autore, ma evidentemente non deve essere facile scrivere sempre delle belle canzoni, qualche volta la Musa si posa su di te, e tutto funziona, “solite” chitarre acustiche, un organo che scivola che è un piacere e  il suono dell’armonica, con un breve intervento quasi dylaniano, a suggellare il risultato. Ovviamente il nostro amico si “incazza” ancora, The Company Of Cowards è uno dei suoi brani “politici”, leggermente più mosso dei precedenti, le chitarre acustiche sono più vivaci, la sezione ritmica batte il tempo con più vigore e Mellencamp si infervora ancora una volta, estraendo nuovamente l’armonica, che irrobustisce ulteriormente il tessuto sonoro della canzone. Tears In Vain, con due twangy guitars in azione e la solita armonica, potrebbe quasi uscire da Scarecrow, un brano incalzante, si potrebbe parlare di rock? Ma sì!

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E siamo solo a metà. In The Brass Ring ci parla ancora di questo suo umore poco propenso all’ottimismo e alla positività: “Questo mondo che ho visto qui non è mai giusto, così lasciatemi con i miei dispiaceri!”, e noi lo lasciamo, però ci gustiamo questa ennesima bella canzone, sempre del filone di quelle più mosse, rock è una parola forte, però le chitarre si fanno sentire e la sezione ritmica è più in evidenza che in altri momenti. Forse manca quel piccolo quid di maggiore varietà per inserire Plain Spoken tra le sue opere più riuscite, questo lo dirà il tempo, ma al sottoscritto piace. Freedom Of Speech è una folk tune che viaggia solo sulle note del violino della Sturm, una fisarmonica appena accennata e una chitarra acustica, pochissimi elementi ma che rendono funzionale il messaggio sociale del brano. Blue Charlotte è una delle love songs del canone mellencampiano, ritornello cantabile, violino ricorrente, chitarre discrete ma incisive e una breve, deliziosa, parte centrale strumentale, con il buon John che ci rende edotti delle vicende di questa Charlotte.The Courtesy Of Kings è un bel valzerone rock che potrebbe quasi uscire dai solchi di Blonde On Blonde di Dylan, uno degli eroi di Mellencamp, che estende la sua influenza nel tempo e che ci regala una delle pagine migliori di questo disco. Che affida la sua conclusione all’altro brano espressamente politico di questa raccolta, Lawless Times, il brano più rock-blues del CD, con la slide a segnare il tempo e l’armonica che fa sentire il suo lamento per l’ultima volta https://www.youtube.com/watch?v=g6k-dOF8K5U .

Quindi? Quindi…esce martedì 23 settembre, giudicate voi, io la mia opinione ve l’ho detta e visto che è ripartito, me lo risento!

Bruno Conti

In Due Parole: Era Ora! John Mellencamp – Performs Trouble No More Live At Town Hall

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John Mellencamp – Performs Trouble No More Live At Town Hall – Mercury/Universal CD USA 08/07/2014 EUR/ITA 22/07/2014

Di tutti i cosiddetti “big” della musica internazionale, John Mellencamp era l’unico che non aveva ancora pubblicato un vero e proprio album dal vivo, a parte qualche bonus track sparsa qua e là nei singoli ed un EP (Life, Death, Live And Freedom), che però riprendeva soltanto una manciata di brani tratti dal suo disco del momento (il quasi omonimo Life, Death, Love And Freedom). Tra l’altro stiamo parlando di uno di quei musicisti che trova sul palco la sua dimensione ideale, uno che negli anni ottanta riempiva le arene e si rimpallava con Springsteen e Petty il ruolo di rocker numero uno in America (Bob Seger aveva perso un po’ di terreno negli eighties), quindi l’assenza di live albums nella sua discografia gridava ancor più vendetta. Ora finalmente anche il nostro ripara a questa grave mancanza, ma lo fa a modo suo: Trouble No More Live At Town Hall non è un live canonico, in quanto palesemente (ed anche il titolo lo indica) sbilanciato verso quello che comunque è obiettivamente uno dei migliori lavori della seconda parte della carriera dell’ex Puma, Trouble No More.

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Pubblicato nel 2003, l’album era una sorta di ripasso da parte di Mellencamp delle sue radici, un disco di pura roots-Americana che, con un feeling formato famiglia, presentava una serie di covers prese a piene mani dal ricco songbook a stelle e strisce . Brani tradizionali, cover di canzoni blues, riletture di vecchi folk tunes (ed un solo brano contemporaneo): un disco che lasciava un po’ indietro il Mellencamp rocker e ci presentava il Mellencamp musicista a tutto tondo, che proseguì con i seguenti dischi il suo discorso di brani che, anche se autografi, erano profondamente legati alla tradizione dei songwriters blues e folk più classici https://www.youtube.com/watch?v=xi3w9eduwXI .

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Trouble No More Live At Town Hall riprende (quasi) interamente quel disco, aggiungendo un omaggio a Bob Dylan e, solo nel finale, tre classici di John: registrato nel 2003 a New York con la sua touring band dell’epoca (Mike Wanchic ed Andy York alle chitarre, Miriam Sturm al violino, John Gunnell al basso, Dane Clark alla batteria e Michael Ramos alle tastiere e fisa), davanti a 1.500 persone, tra le quali anche membri della famiglia di Woody Guthrie.

Il disco è, manco a dirlo, bellissimo (mi sembra di essere il Mollicone nazionale): Mellencamp dimostra di essere un fuoriclasse sul palco, la band dietro di lui va come un treno, dipingendo le canzoni con tinte rock che le loro versioni di studio non avevano, ed i brani, va da sé, sono straordinari. L’unica piccola pecca è l’aver lasciato fuori due canzoni che quella sera (era il 31 Luglio) John suonò, e se all’assenza di The End Of The World possiamo sopravvivere. *NDB Però… https://www.youtube.com/watch?v=8GpxR2H241g , mi sarebbe invece piaciuto parecchio ascoltare la versione di Mellencamp dell’ultraclassico House Of The Risin’ Sun (non presente peraltro sul Trouble No More di studio).

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1. Stones In My Passway (Robert Johnson)

2. Death Letter (Son House)

3. To Washington (John Mellencamp/Traditional)

4. Highway 61 Revisited (Bob Dylan)

5. Baltimore Oriole (Hoagy Carmichael/Paul Francis Webster)

6. Joliet Bound (Kansas Joe McCoy)

7. Down In The Bottom (Willie Dixon)

8. Johnny Hart (Woody Guthrie)

9. Diamond Joe (John Mellencamp/Traditional)

10. John The Revelator (Traditional)

11. Small Town (John Mellencamp)

12. Lafayette (Lucinda Williams)

13. Teardrops Will Fall (Marion Smith)

14. Paper In Fire (John Mellencamp)

15. Pink Houses (John Mellencamp)

Apre Stones In My Passway, di Robert Johnson, con Wanchic (o è York?) scatenato alla slide ed il nostro subito in partita; Death Letter (Son House), ancora blues, senza un momento di respiro, ancora la slide a dominare e John che canta alla grande https://www.youtube.com/watch?v=vN2AMvDdOAk . To Washington è splendida, una folk song tradizionale alla quale John ha aggiunto delle parole nuove, non proprio carine verso l’allora presidente George W. Bush: accompagnamento rootsy, con chitarre acustiche, violino e slide, una vera goduria. Highway 61 Revisited è il già citato omaggio a Dylan, nel quale viene fuori il Mellencamp rocker: solito grande lavoro di slide (una costante per tutto il CD) ed il violino che le dà un sapore meno urbano, facendola sembrare una outtake del grande The Lonesome Jubilee (per chi scrive il miglior disco di Mellencamp).

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Baltimore Oriole è il più celebre brano scritto da Hoagy Carmichael: la versione di John è bluesata, quasi tribale, profonda, suggestiva, con strumentazione scarna ma tanta anima (il duetto tra fisarmonica e violino è da brividi). Il pubblico ascolta in rigoroso silenzio per poi esplodere in un fragoroso applauso nel finale. Joliet Bound è un antico brano reso noto da Memphis Minnie: versione frenetica, dalla ritmica spezzata, sempre con il giusto bilanciamento tra folk, blues e roots; Down In The Bottom vede Mellencamp alle prese con Howlin’ Wolf, una trascinante resa tra rock, blues ed un pizzico di swamp, tanto che non sarebbe dispiaciuta a John Fogerty: ritmo alto e solita grande slide. E’ la volta di Guthrie a venire omaggiato: Johnny Hart mantiene intatto lo spirito dell’originale, una versione splendida per purezza e sentimento, il miglior ricordo che John poteva tributare a Woody.

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Diamond Joe è un traditional rifatto da un sacco di gente (anche da Dylan): John la personalizza parecchio, suonandola full band, elettrica, ritmando e roccando, e facendola sembrare sua. Un capolavoro rifatto alla grande, uno dei momenti salienti del CD. John The Revelator è un gospel che hanno cantato in mille: ancora un intro swamp e John che si traveste da predicatore, versione intensa come al solito, manca solo il coro alle spalle. Ci avviamo alla conclusione: Small Town è uno dei tre classici di John presenti, una delle canzoni rock con il più bel riff in assoluto, anche se qui viene stravolta ed adeguata al mood della serata (tanto che il pubblico la riconosce solo quando John inizia a cantare).

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Lafayette, di Lucinda Williams, era l’unico brano contemporaneo presente su Trouble No More, e siccome io non sono un fan della Williams performer, ho gioco facile ad affermare che la versione di John è di gran lunga superiore; Teardrops Will Fall l’hanno incisa da Wilson Pickett a Ry Cooder, e Mellencamp la personalizza, grazie anche alla sua band coi fiocchi, e la fa sembrare anch’essa sua (cosa non facile quando su un brano ci ha già messo le mani Cooder) https://www.youtube.com/watch?v=JOk8kv_Tecc . La serata si chiude in crescendo con le straordinarie Paper In Fire, il pezzo che apriva col botto The Lonesome Jubilee (e qui la resa è molto più aderente all’originale, anche se manca la batteria esplosiva di Kenny Aronoff), e con Pink Houses, un manifesto roots-rock, scritta quando il movimento roots era di là da venire: leggermente più blues della versione apparsa all’epoca su Uh-Huh, resta comunque un capolavoro https://www.youtube.com/watch?v=-fDZmEW4TMs .

Grande disco questo “esordio” dal vivo di Mellencamp (anche se comunque prima o poi ci vorrà anche un live, diciamo, career-spanning): esce l’8 Luglio in America ed il 22 in Europa (anche in vinile, ma con solo 10 canzoni contro le 15 del CD).

Non lasciatevelo sfuggire.

Marco Verdi