Il Puma E Le “Pantere”. John Mellencamp – Sad Clowns & Hillbillies

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John Mellencamp featuring Carlene Carter – Sad Clowns & Hillbillies – Republic Records/Universal

Finita l’era di T-Bone Burnett come produttore (e già nel precedente Plain Spoken http://discoclub.myblog.it/2014/09/21/il-supplemento-della-domenica-c-o-che-bello-john-mellencamp-plain-spoken/ era indicato solo come produttore esecutivo) John Mellencamp accentua ulteriormente questo ritorno del sound verso atmosfere vicine a quelle del suo periodo Roots-Americana, iniziato con l’album Lonesome Jubilee e poi proseguito con Big Daddy, i dischi in cui la presenza del violino di Lisa Germano e della fisarmonica di John Cascella era tra gli elementi principali della musica del nostro, come pure le due voci femminili di supporto, quelle di Pat Peterson Crystal Taliefero. A questo si riferisce il titolo del Post: nel nuovo album Sad Clowns & Hillbillies, le “pantere”, ovvero soprattutto Carlene Carter, ma anche Martina McBride, Lily & Madeleine, e in maniera consistente pure la violinista Miriam Sturm, mi pare siano fondamentali nella costruzione del suono, a fronte comunque del capo “purma” Mellencamp e dei suoi degni accoliti nella band, dove spiccano, al solito, più in funzione di ricordo anche le chitarre di Mike Wanchic Andy York, oltre alle tastiere e, soprattutto fisarmonica e armonica di Troye Kinnett, che segnala, per certi versi, questo ritorno allo stile “rurale” dei suoi album di metà anni ’80. Non guasta sicuramente il fatto che le canzoni siano molto belle, benché non tutte nuove: due provengono da Ghost Brothers Of The Darkland (il “musical” firmato con Stephen King), una è una collaborazione postuma con Woody Guthrie, e due sono cover, un brano di Mickey Newbury, una di un oscuro folksinger degli anni ’70 (o così lo ricorda John, ma in effetti sarebbe un chitarrista e cantante jazz, tuttora in attività), tale Jerry Hahn, che Mellencamp vide aprire all’epoca un concerto di Zappa, e di cui esegue da parecchio tempo dal vivo questo brano, Early Bird Cafe, senza averlo mai inciso, sino ad oggi. C’è anche un brano di inizio anni ’90, Grandview, scritto dal cugino di John, Bobby Clark.

Oltre naturalmente ai brani firmati da Carlene Carter, uno da sola e uno con Mellencamp, e che è quasi protagonista alla pari del disco, tanto da meritarsi sulla copertina un featuring, che ne certifica la fattiva collaborazione, anche se lei in alcune interviste ha poi precisato che non si tratta di un disco di duetti nel senso stretto del genere, per quanto i due appaiano, insieme o da soli, in parecchie canzoni, tra cui Mobile Blue, la canzone di Newbury che apre l’album. Il brano in origine appariva su Frisco Mabel Joy, il bellissimo album di Mickey Newbury del 1971 (inserito nel cofanetto quadruplo di ristampe in CD An American Trilogy, che sarebbe da avere, un piccolo capolavoro): la versione di Mellencamp, cantata con la voce attuale, sempre più roca e vissuta ma non priva della proverbiale grinta, del vecchio “Coguaro”, è una ballata folk-rock che parte sulle note di una chitarra acustica e del violino, ma entrano subito l’organo e la sezione ritmica e poi la splendida voce di Carlene Carter, un mandolino e le chitarre elettriche per un brano bellissimo, dal suono pieno e corposo. Battle Of Angels è un brano di quelli tipici di John, tra rock e tradizione popolare, raccolto ma espansivo al tempo stesso, con ricami delle chitarre e del violino, belle armonie vocali, penso anche di Lily & Madeleine, che faranno parte del tour americano, in partenza a giugno (con Emmylou Harris ad aprire i concerti). Il primo pezzo rock, deciso e tirato, è la potente Grandview, forse già “sentita”, ma è il sound specifico e peculiare del miglior Mellencamp elettrico, e la voce di Martina McBride nella parte centrale aggiunge ulteriore fascino ad un pezzo che cresce ascolto dopo ascolto. Indigo Sunset è firmata in coppia con Carlene Carter (la “figliastra” di Johnny Cash, brutto termine ma la parentela è quella), che canta, alternandosi con Mellencamp, con la sua voce melodiosa e suadente, una delle più belle in circolazione (che ricordavo giusto recentemente in paragone con la newcomer Dori Freeman http://discoclub.myblog.it/2017/04/20/meglio-tardi-che-mai-quando-meritano-dori-freeman-dori-freeman/ ): eccellente, come in tutto il disco, il lavoro del violino di Miriam Sturm, per un’altra ballata di sopraffina qualità.

What Kind Of Man Am I è una delle due canzoni che apparivano su Ghost Brothers Of The Darkland, un’altra delle collaborazioni con Carlene Carter, un brano che inizia solo con la voce di John, una chitarra acustica e piccoli tocchi di piano, poi prende vita lentamente con il resto della band che entra nel vivo della melodia, soprattutto l’immancabile violino, anche se il sound rimane acustico fino a metà del brano, quando entrano il resto della band e la voce di Carlene a dare ulteriore vigore ad un pezzo che mi pare molto più bello di quanto appariva nel disco originale, anche grazie alle armonie vocali di Lily e Madeleine nel finale. Uno struggente violino introduce All Night Talk Radio, uno dei brani che più mi ricorda il mood sonoro di un disco come Lonesome Jubilee, dove roots music e rock andavano splendidamente a braccetto, e gli intrecci tra la voce ruvida di Mellencamp e quella femminile è sempre di sicuro effetto, mentre un’armonica (o è la fisa?) lavora sullo sfondo, insieme all’organo. Sugar Hill Mountain era stata scritta per la colonna sonora di Ithaca, film uscito nel 2015 dove lavorava la compagna dell’epoca di Mellencamp, ovvero Meg Ryan, che ne era anche la regista, una storia ambientata nell’America degli anni ’40, di cui John aveva scritto tutto lo score, oltre a due canzoni, quella in oggetto già cantata anche nella soundtrack da Carlene Carter, che qui la canta di nuovo, un brano molto influenzato dal country paesano e quasi old time, con una strumentazione ricca ma non invadente, con Mellencamp che fa da seconda voce per l’occasione, deliziosa. You Are Blind viene nuovamente da Ghost Brothers, e illustra il lato più dylaniano della musica del nostro (sarà il break di armonica?), una sorta di valzerone rock molto coinvolgente, sempre con la voce della Carter “secondo violino”, oltre a quello vero della Sturm. Damascus Road è il brano firmato dalla sola Carlene Carter, un pezzo di chiara impronta blues, elettrico e vibrante, quasi dark, con le continue rullate di batteria che ne evidenziano un aspetto quasi marziale, mentre l’armonica di Kinnett e il violino si dividono gli spazi solisti, e gli intrecci vocali della Carter e di Mellencamp sono sempre affascinanti.

Ci avviamo alla conclusione: Early Bird Cafe è la canzone dal disco omonimo del Jerry Hahn Brotherood, pubblicato nel 1970, la traccia porta la firma di Lane Tietgen, che era il “vero” folksinger, autore di ben sette brani tratti da quel LP, tra cui questa, che diventa per l’occasione un classico brano à la Mellencamp, anche se l’intro con mandolino (poi reiterato) ricorda moltissimo una Losing My Religion più elettrica, comunque bella e non mancano le “solite” armonie della Carter. Sad Clowns è un brano quasi western swing, molto country vecchio stile comunque, strascicato e delizioso, con il nostro che, non so perché (o forse sì) mi ricorda moltissimo come timbro vocale il Dylan crooner degli ultimi dischi, canta meglio, per quanto… My Soul’s Got Wings è la “collaborazione” tra Woody Guthrie John Mellencamp, lo spirito folk è quello del primo, ma l’abbrivio quasi rock della canzone forse potrebbe ricordare certi duetti di Johnny Cash con June Carter, la mamma di Carlene, che giustamente rievoca nel brano anche un certo afflato gospel che si respirava nei duetti della coppia, e che viene evidenziata in questa versione. La conclusiva Easy Target che a livello di testi potrebbe essere una sorta di diario, uno “State of The Union 2017” firmato da Mellencamp, che musicalmente, e a livello vocale, in questo pezzo mi ricorda moltissimo il Tom Waits balladeer, quello più struggente ed appassionato. Degna conclusione per un album che si candida autorevolmente fin d’ora tra i migliori dischi dell’anno. Esce venerdì 28 aprile.

Bruno Conti

Il Supplemento Della Domenica: “C…o Che Bello”! John Mellencamp – Plain Spoken

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John Mellencamp – Plain Spoken – Republic/Universal – 23/09/2014

“C…o Che Bello”! Sono le prime due parole che mi sono venute in mente all’ascolto di questo nuovo, ventiduesimo, album di John Mellencamp (perché, che bello non si può dire? E’ osceno?). Facezie a parte, il nuovo album del Puma esce, assolutamente a sorpresa, a soli due mesi dall’uscita di Trouble No More Live At Town Hall: un colpo doppio al cuore dei fans, prima un disco dal vivo, atteso e mai pubblicato in passato, e poi uno nuovo di zecca, che è anche tra i più belli degli ultimi tempi e in assoluto, nella sua discografia. D’altronde, in un certo senso, lo avevano fatto intendere le parole utilizzate nell’intervista concessa a Rolling Stone sul finire dello scorso anno: la casa è vuota (parlando della mega magione vicino a Bloomington, Indiana, dove vive), nessuno risponde al richiamo “dov’è papà”, da quando non ci sono più. la moglie Elaine, da cui ha divorziato nel 2011, e anche gli ultimi due figli, Hud e Speck, ora al college, se ne sono andati; John si aggira tra le stanze dell’abitazione con aria malinconica (un brutto colpo per uno che si era autodefinito Mr. Happy Go Lucky) e quindi evidentemente ha avuto parecchio tempo per meditare e scrivere queste bellissime dieci canzoni che compongono Plain Spoken. Oddio, a voler essere cattivi, Mellencamp si era subito consolato per la separazione (o era già successo prima?), presentandosi alla data di luglio del 2011, in Italia, a Vigevano, in compagnia dell’attrice Meg Ryan, però sembra essere finita anche quella relazione (pure se la foto di copertina del CD è sua), quindi buttiamoci sul lavoro.

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Contrariamente a quanto si era letto sulla stampa, T-Bone Burnett questa volta non produce, limitandosi ad un ruolo “esecutivo” e a suonare la chitarra nel disco, lasciando il pallino della produzione allo stesso Mellencamp. Il risultato ci riporta al suono classico, dopo una serie di dischi che avevano attinto molto alle grandi tradizioni del blues, del folk e del country primigenio, con un sound volutamente scarno ed austero: comunque Life, Death, Love And Freedom e No Better Than This erano due fior di dischi (e nel frattempo è uscito il progetto Ghost Brothers Of Darkland County e John prosegue anche con la sua attività di pittore). Sarà quel che sarà, ma questo nuovo Plain Spoken ci riporta in parte alle sonorità roots e Americana di dischi come The Lonesome Jubilee Big Daddy, forse non sarà così bello, ma quasi ci siamo. L’umore è quello pensoso della ballata, forse il mezzo più adatto per rendere l’attitudine leggemente amara e risentita che aleggia in questi brani. Anche se John, vicende familiari a parte, dovrebbe essere più che ottimista, in considerazione del fatto che la Universal/Republic gli ha rinnovato il contratto discografico “a vita”, in un certo senso, finche morte non ci separi, forse un altro dei motivi per cui si è sentito in dovere di pubblicare subito un album nuovo. Circondato dai fedelissimi Mike Wanchic e Andy York alle chitarre e strumenti a corda in generale, e dalle acquisizioni più recenti, come l’ottima violinista Miriam Sturm, Troye Kinnett alle tastiere e fisa, più la sezione ritmica di John Gunnell al basso e Dane Clark alla batteria, il Coguaro dimostra ancora una volta perché è uno dei migliori cantautori americani di sempre, parte di quella pattuglia che partendo da Springsteen e Seger, e con l’aggiunta di Petty e dello stesso Mellencamp, ha regalato alcune delle pagine migliori del rock americano degli ultimi 40 anni, roots e non roots che sia la loro musica.

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Insomma, se la solitudine e l’amarezza hanno questi effetti sulla sua musica non gliene auguriamo, ma ne godiamo i risultati. I titoli delle canzoni sono esplicativi in questo senso: a partire daTroubled man, aperta da un delicato arpeggio di chitarra acustica, poi viaggia serenamente sulle note del violino della Sturm, mentre Gunnell e Clark accarezzano i loro strumenti, il nostro canta con una convinzione che non difettava certo negli ultimi dischi, ma qui è più inserita nella tradizione delle suoi migliori brani, dove la melodia regna sovrana https://www.youtube.com/watch?v=3oEquZwvG0k . Sometimes There’s God, con il suo approccio elettro-acustico, tra chitarre acustiche ed elettriche, mandolino e tocchi di pianoforte, con il violino che lavora sullo sfondo, il tutto che rinnova i fasti delle canzoni del periodo d’oro anni ’80, ci riporta a quella voce, roca ed espressiva come poche, non potentissima, ma unica e subito riconoscibile, un vecchio amico che non puoi fare a meno di amare. The Isolation Of Mister, ennesima ballata uggiosa, ma il tempo è quello, conferma questa ritrovata vena: non sembra, non me ne intendo della parte dell’autore, ma evidentemente non deve essere facile scrivere sempre delle belle canzoni, qualche volta la Musa si posa su di te, e tutto funziona, “solite” chitarre acustiche, un organo che scivola che è un piacere e  il suono dell’armonica, con un breve intervento quasi dylaniano, a suggellare il risultato. Ovviamente il nostro amico si “incazza” ancora, The Company Of Cowards è uno dei suoi brani “politici”, leggermente più mosso dei precedenti, le chitarre acustiche sono più vivaci, la sezione ritmica batte il tempo con più vigore e Mellencamp si infervora ancora una volta, estraendo nuovamente l’armonica, che irrobustisce ulteriormente il tessuto sonoro della canzone. Tears In Vain, con due twangy guitars in azione e la solita armonica, potrebbe quasi uscire da Scarecrow, un brano incalzante, si potrebbe parlare di rock? Ma sì!

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E siamo solo a metà. In The Brass Ring ci parla ancora di questo suo umore poco propenso all’ottimismo e alla positività: “Questo mondo che ho visto qui non è mai giusto, così lasciatemi con i miei dispiaceri!”, e noi lo lasciamo, però ci gustiamo questa ennesima bella canzone, sempre del filone di quelle più mosse, rock è una parola forte, però le chitarre si fanno sentire e la sezione ritmica è più in evidenza che in altri momenti. Forse manca quel piccolo quid di maggiore varietà per inserire Plain Spoken tra le sue opere più riuscite, questo lo dirà il tempo, ma al sottoscritto piace. Freedom Of Speech è una folk tune che viaggia solo sulle note del violino della Sturm, una fisarmonica appena accennata e una chitarra acustica, pochissimi elementi ma che rendono funzionale il messaggio sociale del brano. Blue Charlotte è una delle love songs del canone mellencampiano, ritornello cantabile, violino ricorrente, chitarre discrete ma incisive e una breve, deliziosa, parte centrale strumentale, con il buon John che ci rende edotti delle vicende di questa Charlotte.The Courtesy Of Kings è un bel valzerone rock che potrebbe quasi uscire dai solchi di Blonde On Blonde di Dylan, uno degli eroi di Mellencamp, che estende la sua influenza nel tempo e che ci regala una delle pagine migliori di questo disco. Che affida la sua conclusione all’altro brano espressamente politico di questa raccolta, Lawless Times, il brano più rock-blues del CD, con la slide a segnare il tempo e l’armonica che fa sentire il suo lamento per l’ultima volta https://www.youtube.com/watch?v=g6k-dOF8K5U .

Quindi? Quindi…esce martedì 23 settembre, giudicate voi, io la mia opinione ve l’ho detta e visto che è ripartito, me lo risento!

Bruno Conti