Molto Meglio Di Quanto Ci Si Potesse Aspettare, Un Ottimo Live. Molly Hatchet – Battleground

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Molly Hatchet – Battleground – 2 CD SPV/Steamhammer

Li avevamo lasciati nel 2012 con il loro ultimo album in studio Regrinding The Axes : (nel frattempo è uscito anche un bel cofanetto https://discoclub.myblog.it/2018/09/01/per-rivalutare-in-parte-un-gruppo-spesso-bistrattato-molly-hatchet-fall-of-the-peacemakers-1980-1985/ ), a causa della ulteriore morte di altri due componenti della band, praticamente dei vecchi Molly Hatchet è rimasto solo il nome, e le canzoni, visto che questo Battleground è un doppio CD dal vivo che ancora una volta rivisita il repertorio classico del gruppo, attraverso un ripasso delle canzoni più celebri del loro passato più o meno remoto e qualcosa di più recente. Dei musicisti che suonavano nella formazione migliore, quella dal 1978 al 1984 (più l’appendice del doppio Double Trouble Live), praticamente non c’è più nessuno, a parte il tastierista John Galvin, arrivato nel 1984, e l’altro membro “storico” è il chitarrista Bobby Ingram, presente dal 1986. Questo per la cronaca: anzi aggiungiamo che il nuovo vocalist Jimmy Elkins è con loro solo dal 2019, in sostituzione di Jimmy Farrar, scomparso nel 2018, e per completare lo stato di famiglia disastrato, nel 2019 è morto anche uno dei vecchi cantanti Phil McCormack.

Tutto ciò fa sì che per la prima volta da tempo immemorabile i Molly Hatchet hanno una sola chitarra solista, rispetto alle due o tre dei loro tempi d’oro, e quindi il loro southern rock, che comunque era stato sempre nella fascia più “duretta” delle band sudiste vira ulteriormente verso l’hard rock, un po’ come è successo per i Blackfoot, ma con risultati decisamente migliori. Quindi gli irriducibili del genere troveranno di che gioire, a tratti anche per chi ama il southern più raffinato e vario del passato, in quanto non mancano, come detto, le canzoni più celebri e una cover di pregio. I brani sono stati registrati nel tour americano per il 40° Anniversario e in due date europee  in Svizzera e Germania, dove sono sempre molto popolari: Bounty Hunter è una buona partenza, il classico sound della band in evidenza, le soliste sembrano più di una grazie ad un device elettronico chiamato eventide harmonizer che raddoppia il suono della chitarra, Jimmy Elkins  devo ammettere che è un vocalist di buona caratura, non a livello di Danny Joe Brown, ma se la cava egregiamente, Galvin è un buon tastierista e la sezione ritmica fa il proprio dovere; Whiskey Man è un altro dei cavalli di battaglia del primo periodo, ritmo galoppante, e come recitava un vecchio album non si “prendono prigionieri”, Elkins all’armonica e Galvin al piano aggiungono tocchi interessanti al suono.

Why Won’t You Take Me Home fa parte del repertorio anni 2000, ma sembra un pezzo (buono) dei Lynyrd Skynyrd, Son Of the South del 2005, è un po’ più legnosa e scontata, come pure la successiva American Pride. Ovviamente le parti migliori del concerto coincidono con le riprese delle canzoni più celebri: la bella hard ballad Fall Of the Peacemakers da No Guts…No Glory , sempre molto à la Lynyrd,  Edge Of Sundown dal vecchio Double Trouble Live, altra ballata epica, One Man’s Pleasure dove Ingram va di slide alla grande, la solida The Creeper, dal primo omonimo album, nuovamente puro southern .E ancora, nel secondo CD, tra i pezzi più recenti, una lunga ed atmosferica Justice, sempre con un ottimo lavoro della slide e il vocione minaccioso di Elkins, un altro super classico come Beatin’ The Odds, l’unica cover, da sempre presente nel repertorio live dei Molly Hatchet , è una robusta versione di Dreams I’ll Never See degli Allman Brothers, e per concludere in bellezza una straripante Flirtin’ With Disaster. Sarà per l’atmosfera live, e nonostante qualche critica contrastante, ma in definitiva questo Battleground  alla fine non dispiace per nulla.

Bruno Conti

Per Rivalutare (In Parte) Un Gruppo Spesso Bistrattato. Molly Hatchet – Fall Of The Peacemakers 1980-1985

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Molly Hatchet – Fall Of The Peacemakers – Cherry Red/Sony 4CD Box Set

Nel panorama dei gruppi southern rock degli anni settanta, a parte la sacra triade formata da Allman Brothers Band, Lynyrd Skynyrd e Marshall Tucker Band, una delle band più popolari, ma negli anni più maltrattate dalla critica sono stati (esistono ancora, seppur senza membri originali al suo interno) i Molly Hatchet, provenienti da Jacksonville, Florida, la vera culla del southern, e fondati nel 1971 dai chitarristi Dave Hlubek (scomparso nel 2017) e Steve Holland, ai quali si sono aggiunti negli anni seguenti (il loro esordio discografico avverrà solo nel 1978) il terzo chitarrista Duane Roland, il cantante solista Danny Joe Brown e la sezione ritmica formata da Banner Thomas e Bruce Crump. Considerati da sempre fautori di un southern rock grezzo e destinato a palati non proprio raffinatissimi, con sconfinamenti anche nell’hard rock, i MH nella seconda metà dei seventies hanno invece pubblicato tre album di buona fattura, di certo inferiori a quelli dei tre gruppi da me citati all’inizio, ma con una loro logica all’interno del calderone southern: Molly Hatchet (1978), Flirtin’ With Disaster (1979, il loro migliore per il sottoscritto, contiene la strepitosa Boogie No More) e Beatin’ The Odds (1980, con Jimmy Farrar alla voce al posto di Brown) sono tre album che non sfigurerebbero nella collezione di qualsiasi amante della buona musica, ed ebbero anche un buon successo di vendite, forse grazie anche alle iconiche copertine in stile medievale-fantasy ad opera di Frank Frazetta.

In genere si pensa che da lì in poi i MH abbiano indurito il loro sound, adattandolo ai gusti dell’epoca ed allontanandosi dunque dai territori southern, e se questo può essere condivisibile quando parliamo del periodo che va dalla seconda metà degli anni ottanta fino più o meno ad oggi, l’inizio degli eighties non è poi così disastroso, e questo boxettino di quattro CD, intitolato Fall Of The Peacemakers 1980-1985 (il titolo secondo me è fuorviante, in quanto Beatin’ The Odds non c’è ed il primo album contenuto è del 1981), appena uscito, è qui per ricordarcelo. Quattro CD, tre in studio più uno dal vivo, che dimostrano che i nostri erano ancora in grado di fare musica coinvolgente e sanguigna, una miscela molto tonica di rock, southern e boogie, e solo nel terzo dischetto si nota qualche cedimento verso un genere più “levigato”. La confezione non è spartana come altre di questo tipo, ma contiene un bel libretto di più di trenta pagine con note e crediti, ed i dischetti hanno anche delle bonus tracks (tranne quello dal vivo). Take No Prisoners (1981), ancora con Farrar alla voce solista (e come cantante lo preferisco a Brown) è un ottimo dischetto di energico southern rock, forse con i primi accenni di toni più hard, ma comunque piacevole, a partire dalla trascinante Bloody Reunion, un rock’n’roll chitarristico di grande presa, potenziato dalla sezione fiati dei Tower Of Power (presente anche nell’accattivante Lady Luck, un perfetto esempio di rock sudista radiofonico ma con un suono non ancora compromesso).

Altri brani degni di nota sono lo scatenato boogie Respect Me In The Morning, con la gran voce di Joyce Kennedy dei Mother’s Finest in duetto con Farrar, una granitica versione di Long Tall Sally di Little Richard (notevole la performance chitarristica), l’ottima Power Play, potente rock song alla Skynyrd, ricca di feeling e suonata alla grande, l’orecchiabile Don’t Leave Me Lonely ed il coinvolgente boogie Dead Giveaway. Ma anche i pezzi più normali, come Loss Of Control e All Mine, hanno delle parti di chitarra di livello egregio. Questo primo dischetto è anche quello con le bonus tracks più interessanti: a parte un paio di single versions, abbiamo una grintosa ancorché breve Mississippi Queen dei Mountain, suonata dal vivo con Ted Nugent, e, per la prima volta su CD, un raro promo EP live uscito sempre nell’81, sei canzoni, tra cui due scintillanti riletture di Few And Far Between e Dead And Gone ed una cover tostissima di Penthouse Pauper dei Creedence. No Guts, No Glory (1983) vede il ritorno di Brown alla voce ed il cambio della sezione ritmica, con l’arrivo di Riff West al basso e Barry Borden alla batteria, ed è l’unico album in studio della loro discografia ad avere in copertina una foto del gruppo invece dei famosi disegni. Lo stile però non cambia: si inizia con la possente What Does It Matter?, tra hard e southern, e si prosegue con il rock’n’roll sotto steroidi di Ain’t Even Close ed il travolgente boogie Sweet Dixie. Ma il centerpiece del disco è la straordinaria Fall Of The Peacemakers, un tour de force epico che è considerata una delle loro signature songs, la loro Freebird, una lunga ed evocativa ballata che si trasforma in un infuocato inno rock di quelli che non vorresti finissero mai, otto minuti di grande musica.

Una breve menzione anche per la diretta What’s It Gonna Take?, dal ritornello vincente, la squisita Kinda Like Love, singolo portante del disco e brano quasi country, e Both Sides, gustoso strumentale dall’approccio molto Skynyrd (il riff somiglia parecchio a quello di Sweet Home Alabama). Come bonus, solo due “radio edit” di brani dell’album. The Deed Is Done (1984) vede l’ingresso nella band di John Galvin alle tastiere (in sella ancora oggi) e soprattutto il cambio di produttore: da Tom Werman, presente in tutti i dischi fino a quel momento, si passa a Terry Manning, che garantisce una svolta più radiofonica nel suono con elementi quasi AOR (era l’uomo dietro Eliminator degli ZZ Top, ed è per questo che gli Hatchet lo hanno ingaggiato), un suono che però con i MH non c’entra una mazza. E proprio una outtake degli ZZ Top di quel periodo sembra Satisfied Man (così come Good Smoke And Whiskey): chitarre dure, synth, big drum sound tipico degli anni ottanta e refrain corale, un abisso rispetto agli Hatchet conosciuti fino a questo punto. Backstabber sembra opera di uno dei mille gruppi “hair metal” di scena a Los Angeles all’epoca, She Does She Does ricorda il Glenn Frey di The Heat Is On, Stone In Your Heart non sarebbe male ma è piena zeppa di sintetizzatori, Man On The Run è brutta e basta. Si salvano Heartbreak Radio, una cover di Frankie Miller che mantiene lo spirito rock’n’roll dei primi dischi (ma Roy Orbison la rifarà in modo migliore), e lo strumentale acustico Song For The Children. Nei bonus i soliti due singoli e due canzoni dal vivo (Walk On The Wild Side Of Angels e Walk With You) tratte da Double Trouble Live ma omesse dalla prima stampa in CD per motivi di durata.

E proprio Double Trouble Live (1985, registrato tra Jacksonville e Dallas con Crump che riprende il suo posto alla batteria) è il quarto dischetto di questo box, un album uscito fuori tempo massimo per essere inserito nella categoria “doppio dal vivo degli anni settanta”, tappa obbligatoria per qualsiasi gruppo di quella decade. Ma l’album funziona lo stesso, e mostra i nostri al massimo della loro potenza e feeling, ed anche i brani di The Deed Is Done (Stone In Your Heart, Satisfied Man) ne escono migliorati, nonostante Galvin non rinunci del tutto ad usare il synth. Non mancano i brani più noti dei primi tre album (Whiskey Man, Gator Country, Bounty Hunter, Beatin’ The Odds) ed anche un pezzo dall’unico disco solista di Brown (Edge Of Sundown), ma il meglio i nostri lo danno con le trascinanti Flirtin’ With Disaster e Bloody Reunion e soprattutto con le strepitose Boogie No More e Fall Of The Peacemakers, dimostrando che il palco è la dimensione naturale per canzoni come queste. Ci sono anche due cover di lusso come Freebird degli Skynyrd e Dreams I’ll Never See degli Allman (che poi sarebbe semplicemente Dreams), non al livello delle originali ma più che dignitose. Da questo momento in poi la carriera dei Molly Hatchet si arenerà decisamente, ed i nostri non riusciranno più a tornare sulla retta via, ma questo box set, se non possedete già i dischi al suo interno, è un acquisto che mi sento di consigliare sia per il costo contenuto, sia perché per almeno tre quarti è composto da musica di buon livello.

Marco Verdi

Southern O Non Southern, Questo E’ Sempre Stato Il Problema…Point Blank – Volume 9

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Point Blank – Volume 9 – Fairway Records/Grooveyard

Devo confessare che dopo l’ascolto del primo pezzo volevo togliere il dischetto dal lettore e passare ad altro: nulla da dire per chi è un appassionato di heavy metal, ma non è il mio genere, ho pensato all’ascolto del primo brano, uno strumentale violentissimo, e anche ben suonato, per onestà, Blast, che fin dal titolo rievoca il sound di vecchi gruppi tipo Iron Maiden o Judas Priest, nulla di male, basta saperlo. Anche i Point Blank, texani, scoperti da Bill Ham, il primo manager e produttore degli ZZ Top (vedere anche la barba di Burns), sono in pista dal lontano 1974 e tra il 1976, anno del primo disco omonimo uscito per la Arista https://www.youtube.com/watch?v=P4qTdJNYTlw e On A Roll del 1982, hanno pubblicato una seie di 6 album, affidati all’accoppiata Ham/Terry Manning, che hanno man mano spostato l’energico southern rock dei primi due album, i migliori, verso un hard rock tinto di boogie, ma anche di AOR, cosa che non li ha resi tra i più fedeli interpreti della musica sudista.

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Però diciamo che, pur facendo parte del filone più duretto del southern, per intenderci quello frequentato anche da Blackfoot e Molly Hatchet, il quintetto texano, anche dopo la virata hard, era tra i “portatori sani” del virus sudista e quindi, in questo Volume 9 (che esplicita fin dal titolo la sua collocazione nella discografia della band e che è stato finanziato dai fans con il solito sistema della Kickstarter Campaign), il secondo dopo la reunion del 2007 che ha prodotto pure un live https://www.youtube.com/watch?v=kVNUqbTHH1E  e un disco di studio, mi aspettavo qualcosa di simile al passato. Dopo lo “spavento” del primo brano (anche se in passato il gruppo aveva registrato una cover di Highway Star dei Deep Purple https://www.youtube.com/watch?v=594gS0DliGI , nel loro passaggio da un sound alla ZZ Top ad uno alla Toto), il resto dell’album, brano dopo brano, si avvicina agli stilemi classici della musica sudista, sia pure più commerciale, con concessioni al country e in minima parte ad un rock quasi roots, senza dimenticare le asprezze rock del loro sound classico.

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Della formazione originale rimangono il leader e primo chitarrista (anche a banjo e slide) Rusty Burns e il cantante John O’Daniel, alcuni degli altri se sono andati nel corso degli anni o sono morti, ma tra i sostituti spicca l’ottimo Michael “Mouse” Mayes, alla seconda solista, dobro, mandolino, banjo e voce, anche con Buddy Whittington, e di rimbalzo con i Dr.Wu http://discoclub.myblog.it/2014/01/10/due-vecchietti-terribili-parlare-degli-altri-dr-wu-and-friends-texas-blues-project-vol-4-hangin-with-dr-wu/ , spalla ideale per le cavalcate chitarristiche con Burns, che proseguono in una Howling Wolf che, più che di celebri bluesmen tratta di lupi veri, con dispiego di slide e chitarre varie https://www.youtube.com/watch?v=uQFNbRJw6Es , nei limiti di un rock roccioso ma “sano” o nella bella ballata elettroacustica Where I Belong, dal classico sound southern, con la grintosa voce di O’Daniel che si gusta appieno, sempre tra slide ed acustiche ben piazzate. Quando fa capolino qualche tastiera, Larry Telford, il suono si sposta verso quel rock radiofonico anni ’80 tipico anche degli ZZ Top dell’epoca, come nella peraltro piacevole Automobile, le chitarre comunque ruggiscono sempre.

POINTBLANKBANDPoint Blank - Volume 9 (back)

Lies Like Hell dell’accoppiata Boyd/Kostas (pare che quest’ultimo abbia scritto oltre 800 brani per la Nashville country più commerciale, e pensate, non ne ricordo uno, neppure questo penso) non migliora di molto il tono, mentre Johnny Dallas, sempre riffatissima, si rifà di più al sound del passato, quello alla Lynyrd Skynyrd, oltre che ai Blackfoot e Molly Hatchet citati e grazie al lavoro delle chitarre e alla voce sempre in spolvero di O’ Daniel, non è malvagia. Amigos è una bella ballata tra country e canzone di frontiera (con il Messico), molto piacevole, mentre Start The Car, con le sue chitarre fumanti e fischianti riporta il sound verso coordinate tipiche Point Blank, duro insomma, ma ben suonato. It Ain’t Right, con le twin guitars di Burns e Mayes, una hard ballad un po’ di maniera, si lascia ascoltare, anche se quelle tastiere…Heart Of A Fool, che affianca alla firma O’Daniel/Williams quella di Gregg Allman, è una sorta di blues-soul-southern ballad, con l’ottima voce dell’autore (O’Daniel) in evidenza, anche se l’assolo di sax di Bill Eden sconcerta un poco. Conclude To Be A Man, un altro rock senza infamia e senza lode che conferma peraltro una risicata sufficienza per l’album tutto: temevo il peggio, ma non è che ci siano comunque da fare salti di gioia.

Bruno Conti

Li Ho Già Visti Da Qualche Parte?!? Tributi a Lynyrd Snynyrd e ZZ Top

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Pride of The South – All-Star Tribute To Lynyrd Skynyrd

Four Flat Tires On A Muddy Road – All-Star Tribute To ZZ Top

Rokkarola Records/Music Avenue

Una Premessa: sono quasi più lunghi i titoli, delle recensioni di questi tributi. Perché? Va bene la moda del tributo, ad un artista o a un disco, ma obiettivamente mi pareva strano che fossero usciti due ennesimi dischetti dedicati alla musica di Lynyrd Skynyrd e ZZ Top. La materia trattata è ampia ma, soprattutto la band di Jacksonville, ha avuto moltissimi album dedicati alla propria musica nel corso degli anni. Uno degli ultimi, uscito in origine nel 2008, se togliete il Pride Of The South dal titolo, cambiate la copertina e l’ordine dei pezzi, è esattamente lo stesso disco uscito per la Cleopatra Records alcuni anni fa. Invece l’altro pure. Quindi uomo avvisato, se li avete già presi, non è il caso di ripetersi. Se viceversa mancano all’appello, un pensierino lo potete anche fare per i Lynyrd Skynyrd, evitare quello agli ZZ Top.

Una volta tanto i nomi impegnati in questa operazione sono congrui (per il primo dischetto) con i soggetti trattati e se nessuno può migliorare gli originali in alcuni casi ci vanno vicino, essendo fatti decisamente bene. Superato il disappunto della riproposizione “mascherata” alcune versioni sono veramente gagliarde: dall’iniziale Sweet Home Alabama ripresa dagli Outlaws con una resa vocale e strumentale quasi pari all’originale, con il basso che pompa, le chitarre tirate al punto giusto, il piano perfetto e una notevole interpretazione vocale; bene anche Double Trouble nella versione di Artimus Pyle e Ed King, due che conoscono l’argomento alla perfezione. La versione bluesata di That Smell dei Canned Heat ricorda il boogie del passato e anche gli Atlanta Rhythm Section rendono onore a Call Me The Breeze. Rick Derringer, Pat Travers e Great White vanno giù duretti ma le loro versioni non sono male. La Gimme Three Steps di Walter Trout è decisamente buona. Addirittura ottima The Seasons che compariva in First…And Last, scritta e cantata ai tempi (‘71/’72) da Rickey Medlocke, ora ripresa dai “suoi” Blackfoot. Black Oak Arkansas, Jason McMaster e Sky Saxon (l’ex Seeds è scomparso nel 2009, ed era una dei motivi per cui non mi “tornava” questo tributo del 2013!) non c’entrano moltissimo, mentre la versione di Free Bird di Molly Hatchet e Charlie Daniels, uniti per la causa sudista, ha un suo “vigoroso” perché.

Four Flat Tires… è meno valida, per usare un eufemismo, come compilation, alcuni dei nomi sono gli stessi, ma qui l’argomento più che il southern è un boogie rock-blues che spesso sconfina nell’hard rock di maniera: si parte bene con Gimme All Your Lovin’ di Walter Trout e Sharp Dressed Man dei Molly Hatchet e anche Pat Travers rende giustizia a Waitin’ For The Bus e al bluesaccio di Jesus Just Left Chicago mentre tutta la parte centrale e finale con Mick Moody, Lea Hart (un uomo nonostante il nome), Steve Overland sfocia in un heavy AOR veramente scarso e anche la versione di La Grange, nonostante il vocione di Jim Dandy dei Black Oak Arkansas non è proprio memorabile e pure i National Dust picchiano a vuoto, un filo meglio Legs di Artimus Pyle ma tale Ray Calcutt riesce a peggiorare Planet Of Women che già non era bella in originale, il periodo “sintetico” anni ’80 e fino al finale, anche con un Fee Waybill dei Tubes che c’entra come i cavoli a merenda, si va sempre peggiorando, fino alla ripresa in medley dei primi due brani del tributo fatta dalla Atlanta Rhythm Section,  appena decente, e posta in coda al progetto. In definitiva, mi ripeto, nonostante trattasi di CD già usciti, il primo è un buon tributo, l’altro da evitare, bello il titolo ma il contenuto…

Bruno Conti

Sempre A Proposito Di Southern Rock, Vecchio e “Nuovo”! Molly Hatchet & Atlanta Rhythm Section Dal Vivo.

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Molly Hatchet – Live At Rockpalast 1996 – MIG Made In Germany CD o DVD

Atlanta Rhythm Section – Are You Ready? – BGO

Due formazioni classiche di southern rock alle prese con degli album “storici” o d’archivio. Si tratta di CD o DVD dal vivo, registrati in epoche differenti, ma entrambi interessanti,  procediamo per gradi comunque.

Nei Molly Hatchet, quando partecipano al famoso Rockpalast estivo alla roccia di Loreley, nel giugno del 1996, non c’è più nessun componente della formazione originale: il grande Danny Joe Brown, il”cantante” per antonomasia della formazione, entrava ed usciva dal gruppo per problemi di salute (morto nel 2005), ma in quel periodo non era presente, Dave Hlubek, il chitarrista e membro fondatore, se ne era andato nel 1987 e sarebbe rientrato in formazione nel 2005, Duane Roland, l’altro chitarrista originale, non c’era del più dal 1990 ed è morto nel 2006, il terzo ed ultimo chitarrista Steve Holland mancava dal 1984, praticamente un disastro? E invece no, a giudicare da quello che si può sentire (o vedere nel DVD, ma noi siamo “poveri” e “tradizionalisti”, quindi la recensione riguarda il CD) la formazione è ancora gagliarda, in buona salute, almeno per questo concerto pomeridiano di metà anni ’90, nel quale il pubblico tedesco e quello televisivo in Europa ebbe l’occasione di assistere anche ai concerti di Lynyrd Skynyrd e Allman Brothers che si dividevano il palco in quell’occasione e probabilmente, per spirito di emulazione, tutti diedero il meglio. Formazione con due chitarre e tastiere, oltre al nuovo cantante Phil McCormack, arrivato di fresco e che devo dire non fa rimpiangere troppo Danny Joe Brown (appena un poco), ci sono i chitarristi Bobby Ingram e Bryan Bassett, e un paio di voci femminili da Memphis, Tennesse, Leslie Hawkins e Therisa McCoy, per rafforzare le analogie con i Lynyrd, di cui sono sempre stati considerati gli eredi, impressione rafforzata anche dal fatto che Ronnie Van Zant, in un certo senso il loro padre putativo, avrebbe dovuto essere il produttore del primo album della band, poi, in seguito alla scomparsa di Van Zant nell’incidente aereo del 1977, affidata a Tom Werman, un produttore più abituato a lavorare con formazioni più hard come Mother’s Finest, Cheap Trick, Ted Nugent e degenerato in seguito nel metal di Poison, Motley Crue, Stryper.

L’altra grande affinità elettiva tra Hatchet e Skynyrd era il fatto che entrambe le formazioni provenivano da Jacksonville, Florida e come dichiararono ai tempi, la dissoluzione dei Lynyrd Skynyrd, l’appannamento degli Allman, per usare un eufemismo e la fase calante della Marshall Tucker, favorirono sicuramente l’ascesa dei Molly Hatchet, che pur essendo decisamente più hard e boogie, con la loro tripla chitarra solista, un cantante poderoso e una sezione ritmica rocciosa, realizzarono due signori album, come l’esordio omonimo e Flirtin’ With Disaster, dove le chitarre ruggivano e si intrecciavano, spesso all’unisono, spronate dal classico fischio che dava il via a selve di assolo vibranti e tecnicamente validi, fino al live Double Trouble del 1985, dove pur se in fase calante, non ce n’era per nessuno. In questo Live At Rockpalast gli ingredienti ci sono tutti: i brani classici, Bounty Hunter, Gator Country, Whiskey Man, Flirtin’ With Disaster, qualche cover ben piazzata, It’s All Over Now e una versione monstre, molto tirata, di oltre dodici minuti, ben posizionata, verso la fine del concerto, di Dreams di Gregg Allman, il nuovo cantante, con la voce roca e “sporca” di whisky al punto giusto, le chitarre cattive, pronte a scattare all’unisono al primo segno di fischio, le accelerazioni improvvise, il buon lavoro del tastierista John Galvin, hard quanto si vuole ma la qualità non manca mai in questo concerto.

Altro concerto, storico, è quello ripreso in questa edizione rimasterizzata del celeberrimo Are You Ready?, vecchio doppio vinile dal vivo (anche se molte parti venivano presentate come live in studio, più rifinite,  ma in quegli anni, 1978/79, usava anche così) ora riproposto dalla BGO (che ha già ripubblicato praticamente tutta la discografia), per gli Atlanta Rhythm Section, altra grande formazione del southern rock storico, ma non solo: gli ARS nascevano, nel 1970,  dalle ceneri dei Candymen prima, la band di Roy Orbison,  e dei Classics IV dopo, quelli di Spooky, Traces e Stormy, entrambe le formazioni costruite intorno alle capacità dell’autore e produttore Buddy Buie. Barry Bailey e J.R Cobb erano i due formidabili chitarristi, che con l’ottimo tastierista Dean Daughtry e il batterista Robert Nix diedero vita al nucleo originale della formazione. Che nel secondo album raggiunse la sua completezza con l’ingresso del cantante di Macon, Ronnie Hammond, che Ronnie Van Zant considerava il miglior cantante del genere southern (tra Ronnie ci si intende).

Proprio a Hammond, “Mr. Georgia Rhythm”, con uno stile vocale che poteva ricordare Paul Rodgers, scomparso nel 2011, è dedicata questa ristampa: un album che ripercorre la loro carriera, e ne esalta i pregi, che erano quelli di riunire in un solo gruppo le varie anime del southern rock, il boogie rock tosto e chitarristico di Lynyrd Skynyrd, Outlaws o Blackfoot (senza la componente country), sostituita da costruzioni rock più raffinate alla Little Feat o perfino Steely Dan e dalle improvvisazioni più blues e jazz di Allman Brothers e Marshall Tucker, unite inoltre alla capacità, ereditata dalle precedenti formazioni, di saper scrivere e suonare brani con un maggiore appeal  pop, più commerciali ma mai scontati, canzoni come Imaginary Lover, Doraville, Champagne Jam, So Into You che si affiancavano alle cavalcate chitarristiche di Cobb e Bailey in brani come Angel (What In The World’s Come Over Us) o la lunga parte lasciata alla improvvisazione della solista in So Into You che nella parte finale del disco sfocia nel R&R puro di Long Tall Sally, ma già prima in Another Man’s Woman c’è una lunghissima parte strumentale dedicata a tutta la band, assolo di basso compreso e il tributo ai Lynyrd Skynyrd nella vigorosa Large Time, dove il suono si fa duro, quasi hard rock, a smentire la fama di band un po’ troppo leccata, che spesso sembrava risultare nei dischi di studio, dove però il rock era sempre presente, anche se non così tirato come in questo notevole live, uno dei dischi dal vivo classici del decennio 70’s, finalmente disponibile in una edizione CD degna della sua fama.

Bruno Conti       

Novità Di Febbraio Parte IIb. Clannad, Mark Kozelek, Slide Brothers, Charlie Daniels, Ronnie Lane, Heidi Talbot, Molly Hatchet, Atoms For Peace, Emmylou Harris & Rodney Crowell, Black Twig Pickers

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Seconda parte delle uscite di martedì 19 febbraio, con qualche recupero di uscite precedenti e due o tre anticipazioni di quelle del 26 febbraio.

Per esempio il disco dal vivo dei Clannad Live At Christ Church Cathedral è gia disponibile da qualche tempo sul loro sito, su etichetta Arc Music, ma avrà una distribuzione più regolare a partire dalla prossima settimana. Si tratta della reunion, che doveva essere una tantum, ma ora è partito un tour europeo (anche in Italia a Firenze, Rimini e Rezzato tra il 18 e il 20 febbraio), della formazione originale, concerto tenutosi il 29 gennaio del 2011 in quella cattedrale di Dublino. Per l’occasione erano presenti tutti i fratelli Brennan, Pol, Ciaran e Maire (ma non Enya, che ha fatto parte brevemente della formazione a inizio anni ’80, e si dice stia lavorando al nuovo album, che visti i suoi tempi, sarà pronto per il 2020), oltre ai due zii Noel e Padraig Duggan, alle chitarre. Per semplicità non ho usato le grafiche gaeliche dei componenti della band, ma sono i soliti, quelli insieme dal 1970. Il CD è il terzo dal vivo della loro discografia, ma se la memoria non mi inganna, è il primo ad uscire anche in DVD. Nella versione audio sono 19 brani per circa 75 minuti di musica, mentre il DVD ne dura circa 95 e ha 4 canzoni in più. Pare che stiano registrando, o abbiano già registrato, anche un nuovo disco di studio.

La “Sacred Steel Music”, da non confondere con i metallari tedeschi Sacred Steel, è quel genere che fonde pedal steel e slide guitars a go-go, funky, soul, blues, gospel e bella musica, per intenderci Lee Boys, di cui ho parlato nel Blog recentemente, Campbell Brothers e, soprattutto, Robert Randolph and The Family Band. Proprio Randolph “presenta” gli Slide Brothers, che esordiscono in questi giorni (ma ad Aprile in Europa) con il loro primo album omonimo.

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Seguire tutte le pubblicazioni discografiche di Mark Kozelek, l’ex dei Red House Painters, ora con i Sun Kil Moon, ma anche con una copiosa produzione da solista, è impresa ardua. Considerando che se li pubblica sulla sua etichetta, la Caldo Verde: questa settimana escono due album nuovi, Like Rats, un disco di studio, tutto di cover, registrate in solitaria versione acustica e Live At Phoenix Public House Melbourne, un disco dal vivo registrato l’11 giugno del 2012. Chi compra entrambi i titoli direttamente dal sito riceverà in omaggio un ulteriore compact dal vivo Live At Mao Livehouse Shanghai & Bejing, registrato in Cina, sempre nel tour dello scorso anno. Per usare un eufemismo, reperibilità difficoltosa.

Una idea geniale e soprattutto nuova, quella della Charlie Daniels Band, pubblicare per la Megaforce un bel CD intitolato Hits Of The South, dove reinterpretano vecchi successi sudisti (e non solo, non sapevo che Signed, Sealed, Delivered I’m Yours di Stevie Wonder veniva dal Sud). Comunque, contro le mie previsioni, il dischetto mi sembra bello, fresco e pimpante, con brani come The Night They Drove Old Dixie Down, Can’t You See, Statesboro Blues, Freebird, The Devil Went Down To Georgia, Sharp Dressed Man, Elizabeth Reed (in una versione più concisa, quindi si è perso In Memory Of per strada) suonati tutti con grinta e passione, a sorpresa uno dei migliori dischi di southern rock dell’ultimo periodo. Anche se, per essere onesti, una buona parte dei brani era già uscita nel 1999 come Tailgate Party, non sono sicuro se nelle stesse versioni, gagliardo comunque.

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Due titoli nuovi della serie Live At Rockpalast della MIG (Made In Germany) Records. Ronnie Lane (il George Harrison dei Faces), dal vivo nel 1980 e una delle varie reunion dei Molly Hatchet, dal vivo nel 1996, entrambi disponibili anche in DVD.

Nuovo disco anche per il trio acustico old-time bluegrass dei Black Twig Pickers, si chiama Rough Carpenters, esce su Thrill Jockey, e per l’occasione il gruppo si amplia con l’aggiunta della violinista Sally Anne Morgan.

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Questi due, in teoria, escono la prossima settimana, anzi quello di Emmylou Harris & Rodney Crowell, Old Yellow Moon, etichetta Nonesuch, addirittura in Europa il 5 marzo, ma forse potrebbe giungere sul continente in anticipo. Si tratta del disco che vede riunita Emmylou con i vecchi componenti della Hot Band, Crowell in primis, oltre al produttore Brian Ahern, Vince Gill, Stuart Duncan e Bill Payne. E il repertorio torna ad essere, per l’occasione, quello dei dischi classici e bellissimi degli anni ’70.

Molto sapranno già chi sono gli Atoms For Peace. Ma per quelli che non sanno, si tratta del nuovo gruppo messo insieme da Thom Yorke con il produttore dei Radiohead. Nigel Godrich, il bassista dei Red Hot Chili Peppers Flea, il batterista di Beck, Joey Waronker e il percussionista braziliano Mauro Refosco. Tre giorni di jam sessions e vari mesi di materiale scambiato via internet e questo AMOK è il risultato che verrà pubblicato dalla XL Recordings la prossima settimana, 26 febbraio, anche in versione deluxe, quella che vedete effigiata qui sopra, senza bonus a livello musicale ma con quella confezione definita “debossed 12-panel concertina wallet”, per fortuna che c’è l’immagine.

Non mi pronuncio, voglio sentirlo bene.

Anche per oggi è tutto.

Bruno Conti

Ancora “Sudisti”, Ma Di Quelli Bravi! Skinny Molly – Haywire Riot

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Skinny Molly – Haywire Riot – Ruf Records –

Le tedesca Ruf Records, un tempo dedita solo a Blues e Blues-rock, negli ultimi anni ha iniziato a costruirsi un piccolo “roster” di artisti che gravitano intorno all’area southern, i più recenti sono i Royal Southern Brotherhood e Devon Allman da solista. Questi, per esempio, hanno presentato recentemente dei buoni risultati per il filone, insieme a Dixie Tabernacle, Brothers Of The Southland, Blackberry Smoke e vari altri, tenendo alta la bandiera del genere. Quasi tutti questi gruppi vedono nelle loro fila dei veterani che provengono anche dalle vecchie band storiche che hanno dato lustro all’area sudista nel passato. Senza dimenticare che molti dei gruppi originali sono tuttora in pista: Outlaws, Blackfoot, Molly Hatchet, i capostipiti Lynyrd Skynyrd (che però con gli ultimi album in studio stanno deludendo fortemente).

Proprio dall’ultimo album valido in studio degli Skynyrd, l’unplugged Endangeres Species, viene il chitarrista e cantante Mike Estes, che in quell’unico disco aveva contribuito con alcuni brani nuovi da affiancare alla rivisitazione dei classici. Estes, dopo avere pubblicato un paio di album da solista nella seconda metà degli anni ’90, con l’inizio del nuovo secolo, ha fondato questa nuova formazione, gli Skinny Molly, inizialmente con Dave Hlubek che era la chitarra solista e il primo vocalist dei Molly Hatchet, fino all’arrivo di Danny Joe Brown. Questa prima versione degli Skinny Molly nasceva come band per un tour europeo nel 2004, ma non ha mai inciso nulla perché Hlubek venne richiamato nel suo gruppo originale lasciandosi un altro “Skinny” alle spalle. Il batterista Kurt Pietro e il bassista Luke Bradshaw sono rimasti la sezione ritmica del gruppo, mentre il nuovo chitarrista è Jay Johnson già con Southern Rock Allstars e Blackfoot, e qui il cerchio si chiude, ma bene. Perché il risultato, già anticipato dal buon Good Deed del 2008, è assolutamente all’altezza delle attese: dell’eccellente southern rock, con tutti gli elementi al loro posto, doppia chitarra solista, una bella voce potente nella  tradizione dei grandi del genere (Ronnie e Danny Joe, in primis), ma soprattutto buone canzoni e niente derive hard commerciali, come nell’ultimo Lynyrd Skynyrd.

Si capisce sin dall’iniziale If You Don’t Care che siamo sulle coordinate giuste, le chitarre ruggiscono di gusto dai canali dallo stereo, Mike Estes (che scrive tutti i brani di questo Haywire Riot) canta con una convinzione e una varietà di toni che i suoi vecchi compagni di avventura non sembrano più avere. La versione di Devil In The Bottle che Estes aveva firmato con Dale Krantz, Gary Rossington e Johnny Van Zant, ha il gusto sapido dei migliori episodi del gruppo madre, con l’organo Hammond B-3 di Josh Foster ad aggiungere autenticità al suono degli Skinny Molly che non è solo una mera ripetizione degli stilemi del genere, e se lo è, prende solo il meglio dal passato. Come dimostra l’ottima Two Good Wheels che aggiunge la giusta quota di country (elemento fondante e imprescindibile, “sparito” dagli ultimi Lynyrd Skynyrd) con il mandolino e l’acustica di Estes che sovrappongono quella patina “campagnola” che è sempre stato uno degli ingredienti immancabili del southern, una bella ballatona con le palle, come il genere esige. Ma quando c’è da picchiare come fabbri e fare fischiare le chitarre come in Too Bad To Be True, si esegue con classe ed energia, senza mai cadere nel cattivo gusto, la band è in assoluto controllo del suono, rock ma se “sudista” deve essere, facciamolo bene.

Anche in quelle saghe senza tempo del vecchio West, come in Judge Parker, l’intreccio tra acustiche ed elettriche rende assolutamente l’atmosfera cercata, subito pronti all’assolo ma senza mai esagerare (nessun brano supera i 4 minuti), le cavalcate chitarristiche le riservano per i concerti dal vivo. Bitin’ The Dog, molto riffata e tirata e Lie To Me, un lento scandito dalla voce e dall’acustica di Estes illustrano bene le due anime del gruppo. Shut Up And Rock e ancora di più, After You, che ad un inizio attendista e country con il vocione minaccioso di Mike, fa seguire una bella parte centrale e finale dove alla slide del leader e alla chitarra di Johnson si aggiunge anche una terza chitarra solista, Derek Parnell, sono perfetti esempi di buon southern rock, sentito mille volte, ma sempre gradito, se è così ben eseguito. None Of Me No More forse è un po’ ripetitiva (Ok, più delle altre!) ma Dodgin’ Bullets, di nuovo con una modalità elettroacustica e le classiche improvvise accelerazioni chitarristiche, che sono il pane degli appassionati del genere, confermano il valore di questa formazione, gli Skinny Molly, attualmente una delle migliori in circolazione.               

Bruno Conti