Brava, Ma Non Sempre Chi Fa Da Sé Fa Per Tre! Ghalia Volt – One Woman Band

ghalia volt one woman band

Ghalia Volt – One Woman Band – Ruf Records

Questa ci mancava, una blueswoman che viene dal Belgio: a seconda dei dischi si presenta come Ghalia & Mama’s Boys, semplicemente Ghalia, ed ora Ghalia Volt, ma il suo vero nome all’anagrafe è Ghalia Vauthier e viene da Bruxelles, non esattamente la capitale del mondo per le 12 battute. Ovviamente poteva metterla sotto contratto solo la Ruf, che ha un roster di artiste femminili che gravitano intorno al blues, provenienti da tutte le latitudini (e anche le longitudini) del mondo: come certo saprete ci sono americane, inglesi, canadesi, finlandesi, serbe, italiane (la Cargnelutti), austriache, croate, alcune non incidono più per l’etichetta tedesca, ma ne arrivano sempre di nuove, non tutte sono allo stesso livello, ma quasi tutte interessanti. Ghalia ha un passato, ad inizio carriera, magari anche prima, da busker, tra Europa ed America, poi una passione per R&B e R&R con forti venature punk ed infine è arrivato il blues. Dopo due album full band questa volta la signorina, come da titolo One Woman Band, ha deciso di fare tutto da sola, anche se nel disco, registrato ai famosi Royal Sound Studios di Memphis, con la produzione di Boo Mitchell (degno nipote di Willie, quello dei dischi da Al Green) , sono apparsi come ospiti Dean Zucchero al basso e “Monster” Mike Welch alla chitarra.

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L’intento, in risposta alla crisi da Covid, era quello di creare una sorta di resilienza, con un disco, dove canta, suona la chitarra slide, e con i due piedi contemporaneamente kick drum, snare drum, tamburino e piatti https://www.youtube.com/watch?v=q8A2dlDo0-o . Naturalmente il risultato è molto ruspante, a tratti fin troppo. L’energia e la grinta ogni tanto debordano oltre il limite, e quindi il disco non mi ha convinto del tutto, ma è un parere personale, va bene il DIY, ma non sempre ci siamo: l’iniziale Last Minute Packer è un boogie/rock’n’roll con ritmo scandito, voce pimpante, chitarra leggermente distorta e qualche eco di juke joint blues https://www.youtube.com/watch?v=qQX6XvzK0zc , Esperitu Papago, con bottleneck in bella vista e Zucchero al basso, ritmi ripetuti alla John Lee Hooker, qualche tocco di leggero psych-garage rock con la voce trattata nel finale, non sempre decolla, Can’t Escape vira decisamente sul rock, grintoso e tirato, minimale ma deciso e vibrante. Evil Thoughts è uno shuffle quasi classico, divertente e divertito, anche se al solito un filo irrisolto, benché questa volta la chitarra è più in evidenza, ma sarà perché è quella di Mike Welch https://www.youtube.com/watch?v=WDud4wN6T9k ? Meet Me In My Dreams è più convinta ed immersa nelle paludi blues del Mississippi, ma quello che pare essere il suo modello come sound, ovvero RL Burnside, è pur sempre di un’altra categoria https://www.youtube.com/watch?v=343lZp98kyI .

ghalia volt one woman band 1

Reap What You Saw è una delle canzoni più riuscite, slide ascendente e discendente che mulina di gusto, influenzata dalla opera omnia di Elmore James, cantato partecipe e convinto e omaggio riuscito al re del bottleneck, poi ci si sposta verso le traiettorie sonore del Chicago Blues di Muddy Waters, con una sanguigna e scandita Loving Me Is A Full Time Job, che poi accelera nel corso del brano, anche se alcune immaginifiche recensioni mi paiono un filo esagerate nel tessere le lodi di Ghalia. It Hurts Me Too, di nuovo Elmore James, è un sapido lentone con uso bottleneck, che dimostra che volendo la stoffa c’è https://www.youtube.com/watch?v=-Hvkzl-GE0Q , non manca pure del sano R&R come nella divertente It’ Ain’t Bad https://www.youtube.com/watch?v=VWQyzVGscsc  e un’altra cavalcata slide, che dimostra la sua buona tecnica, nella tirata e “lavorata” Bad Apple, prima della chiusura affidata alla cover di un vecchissimo brano anni ‘50 di Ike Turner Just One More Time dove tornano per aiutarla Zucchero e Welch, tra swing e piacevole rockabilly https://www.youtube.com/watch?v=-S74GoKuEZ4 . Alla fine un disco godibile, vediamo per il futuro.

Bruno Conti

La Conferma Di Uno Dei Nuovi Talenti Emergenti Del Blues. Breezy Rodio – If It Ain’t Broke Don’t Fix It

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Breezy Rodio – If It Ain’t Broke Don’t Fix It – Delmark Records

Secondo album su Delmark https://discoclub.myblog.it/2018/06/12/e-ora-riesportiamo-anche-il-blues-a-chicago-da-roma-alla-windy-city-con-classe-breezy-rodio-sometimes-the-blues-got-me/ , e quinto complessivamente, per Fabrizio “Breezy “ Rodio, chitarrista e cantante italiano (è nato a Roma), ma da anni una dei più interessanti nuovi prospetti della scena musicale di Chicago, dove è diventato uno dei più rispettati difensori della grande tradizione delle 12 battute classiche, quindi blues elettrico, ma interpretato in modo eclettico e diversificato, con elementi anche della grande tradizione dei crooners, come per esempio l’utilizzo di una sezione fiati di tre elementi che aggiunge anche un retrogusto soul e jazz alle procedure. Gli anni di gavetta con la band di Lynsey Alexander, in studio e dal vivo, come testimoniamo le assai positive note firmate da Billy Branch (che però non appare nel nuovo disco, a differenza del precedente Sometimes The Blues Got Me, dove suonava l’armonica in due brani), confermano quanto detto dalla critica (anche modestamente dal sottoscritto) pure per questo If It Ain’t Broke Don’t Fix It.

Accompagnato da una band di ben sette elementi, l’eccellente Sumito “Ariyo” Ariyoshi al piano, Dan Tabion organo, gli altri due italiani Light Palone basso e Lorenzo Francocci batteria, più la sezione fiati, Constantine Alexander tromba, Ian Letts sax alto e tenore e Ian “The Chief” McGarrie al sax baritono, che rende il sound corposo e variegato, a cui si aggiungono alcuni ospiti tra cui spiccano Monster Mike Welch, Kid Andersen e Corey Dennison alle chitarre e Quique Gomez e Simone “Harp” Nobile all’armonica, Rodio ci regala un album di notevole spessore, dove gran parte del materiale porta la firma del titolare, ma ci sono anche alcune cover scelte con cura: due pezzi di B.B. King, A Woman Don’t Care, uno slow di grande intensità con i fiati in bella evidenza, mentre Breezy canta con grande passione e il suono pungente della sua chitarra ricorda quello del grande Riley, come ribadisce I’ll Survive, un brano più jazzato e romantico, cantato in modo suadente e che ricorda certe ballate del periodo di There Must Be a Better World Somewhere, Desperate Lover è un brano del reggaeman Bob Andy (altra grande passione del nostro) che la trasforma in una fremente canzone di grande fascino, “trucchetto” ripetuto anche per la dolcissima I Need Your Love, una canzone dal repertorio di Toots & The Maytals, cantata splendidamente da Rodio che ci regala anche un assolo di rara finezza.

Gli altri dodici brani sono tutte composizioni originali, tra cui spiccano l’iniziale title track, una funky tune che all’inizio sembra uscire da qualche vecchio vinile del grande James Brown, con fiati sincopati, organo e l’armonica che caratterizzano poi i continui cambi di tempo del pezzo , lo shuffle grintoso di From Downtown Chicago To Biloxi Bay con Corey Dennison alle armonie vocali, Dennison che canta e suona la seconda chitarra anche in Led To A Better Life, sentito omaggio a tempo di gospel allo scomparso Michael Ledbetter, con il danzante piano di Ariyoshi e i fiati di nuovo in bella evidenza, e l’assolo finale, splendido, affidato a un ispirato Monster Mike Welch e pure Kid Andersen è impegnato alla chitarra. A conferma della ecletticità degli stili utilizzati nell’album segnalerei anche la deliziosa I’m A Shufflin’ Fool che coniuga Sam Cooke e blues in modo impeccabile e raffinato, A Minutes Of My Kissing un forsennato R&R alla Chuck Berry, e ancora lo swing pimpante della fiatistica Look Me In The Eyes e l’autobiografica Los Cristianos che ricorda i suoi trascorsi in quel di Copenaghen sotto la forma di une bellissima blues ballad.

Mentre la lunga Green And Unsatisfied ci permette di gustare a fondo la sua squisita tecnica chitarristica e l’accoppiata Pick Up Blues, con armonica di nuovo in evidenza , e il tour de force chitarristico di Dear Blues illustrano al meglio lo spirito delle 12 battute tipico della sua etichetta. Insomma, per concludere, questo Breezy Rodio è veramente bravo e If It Ain’t Broke Fix It è sicuramente uno dei migliori dischi di blues classico uscito negli ultimi mesi.

Bruno Conti

Un Trio Di Delizie Blues Alligator Per L’Estate 3. Nick Moss Band – Lucky Guy

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Nick Moss Band – Lucky Guy! – Alligator Records/Ird

Per molti anni la Nick Moss Band è stata una delle migliori realtà della scena blues di Chicago (tra il 2010 e il 2016 hanno registrato cinque album, l’ultimo dei quali l’ottimo doppio https://discoclub.myblog.it/2016/07/13/breve-gustosa-storia-del-blues-rock-due-dischi-nick-moss-band-from-the-root-to-the-fruit/ ), ma in precedenza Nick aveva registrato vari dischi solisti oppure come Nick Moss And The Flip Tops, e prima ancora aveva fatto una lunga gavetta nelle band di Buddy Scott, Jimmy Dawkins, la Legendary Blues Band Jimmy Rogers, proponendo un blues elettrico e vibrante ma di stampo classico. Mentre nella Nick Moss Band lo stile del gruppo aveva iniziato ad incorporare elementi rock-blues, psych e jam, grazie anche alla presenza del formidabile vocalist Mike Ledbetter, che poi appunto nel 2016 aveva lasciato per formare un proprio gruppo insieme a Monster Mike Welch, autori di un eccellente disco nell’estate del 2017, https://discoclub.myblog.it/2017/06/09/sempre-piu-un-mostro-della-chitarra-monster-mike-welch-and-mike-ledbetter-right-place-right-time/, ma purtroppo all’inizio del 2019, a soli 33 anni Ledbetter ci ha lasciati per le complicazioni dovute ad un attacco di epilessia. Tornando a Moss, il “grosso” chitarrista nel frattempo aveva deciso di tornare ad un suono più classico tra electric e jump blues, formando un sodalizio con l’armonicista Dennis Gruenling (a sua volta autore di nove album solisti), e firmando per la Alligator Records, affidandosi alla produzione di Kid Andersen che lo scorso anno ha pubblicato l’eccellente  https://discoclub.myblog.it/2018/03/19/un-grande-bluesman-di-peso-ma-anche-di-spessore-the-nick-moss-band-featuring-dennis-gruenling-the-high-cost-of-low-living/.

Poco più di un anno e mezzo dopo ecco il secondo disco per la Alligator Lucky Guy, altro fulgido esempio dello scintillante ed eclettico stile di Moss e della sua band. Come si usa dire, squadra vincente non si cambia, e quindi il produttore è nuovamente Kid Andersen (insieme a Nick), all’armonica e autore di due brani che canta anche, Dennis Gruenling: l’ ottimoTaylor Streiff è sempre alle tastiere, Patrick Seals alla batteria, l’unica variazione è il nuovo bassista Rodrigo Mantovani che ha sostituito Nick Fane. Ancora una volta il nostro amico, pur rimanendo ancorato ad uno stile molto legato alla tradizione, lo fa proponendo un repertorio originale con ben undici brani a firma propria. che comunque vanno a toccare le varie sfumature del Chicago blues e non solo. Moss non ha forse la voce fantastica di Ledbetter, ma è comunque più che adeguata alla bisogna e peraltro compensata dalla sua travolgente tecnica chitarristica. Non sarà un caso se ai Blues Music Awards di maggio 2019 Michael Ledbetter ha vinto come miglior vocalist e B.B. King Entertainer, la Welch-Leadbetter Band miglior gruppo e Monster Mike Welch miglior chitarrista. Dennis Gruenling miglior armonicista e Nick Moss miglior musicista Blues tradizionale uomo dell’anno.

Il disco si apre con 312 Blood (si tratta del numero del prefisso telefonico dell’area di Chicago), un brillante shuffle mid-tempo dove Nick canta con voce declamatoria e partecipe della sua città natia e la sua band suona con impeto, il piano elettrico di Streiff, l’armonica di Gruenling e la stessa chitarra di Moss intervengono con brevi ma efficaci assoli; Ugly Woman è l’unica oscura cover, di tale Johnny O’Neal Johnson, un corposo jump blues à la Louis Jordan, con aggiunta di fiati e divertente call on response con il resto del gruppo, un brano mosso e contagioso, con il pianino scatenato di Streiff e la voce del nostro che mi ha ricordato vagamente quella di Peter Green nella sua trasferta nella Windy City, e anche la solista non scherza con un intervento pungente. La title track prevede una parte cantata molto raffinata di Moss, mentre chitarra ed armonica si lasciano andare a continui ficcanti assoli sul groove swingante del brano, per poi “raccogliersi” in un lentone d’atmosfera come Sanctified, Holy, And Hateful, solenne e scandito dalle volute del piano di Streiff, cantato veramente bene da Nick Moss, con l’armonica di contrappunto di Griuenling che fa quasi la parte dei fiati, prima di un assolo mozzafiato della Gibson del nostro.

Il primo dei due brani composti da Dennis Gruenling è una travolgente e pimpante Moving On My Way, di nuovo con tutta la band a rispondere a livello vocale al canto ruvido di Dennis, mentre all’assolo di Moss se ne aggiunge uno anche di Kid Andersen, con i due chitarristi che si rispondono dai canali dello stereo, per poi lasciare spazio nel finale all’armonica. Tell Me There’s Nothing Wrong, con Andersen alla baritone guitar è un Chicago blues diciamo più “normale”, buono senza essere memorabile, anche se i vari solisti sono sempre efficaci ai loro strumenti, stesso discorso anche per Full Moon Ache, che però in più ha un frenetico tempo che è spesso sull’orlo di trasformarsi in un rockabilly che ricorda certe cose dei Blasters più tradizionalisti, con un paio di divertenti “ululati” di Moss nel finale. Me And My Friends va di R&B alla grande, canzone appunto ritmata e molto coinvolgente, con il “solito” assolo sferzante della chitarra del nostro amico. Non manca un omaggio allo stile unico di Booker T. & The Mg’s con il fantastico strumentale Hot Zucchini, ancorati da un colossale groove del basso di Mantovani, l’organo di Streiff e la chitarra di Moss ripropongono i vecchi duelli di Jones e Cropper con classe cristallina, pure con fiati d’ordinanza sullo sfondo.

Simple Minded è un altro pezzo in puro Chicago style con piano, chitarra e il mandolino di Andersen a ricreare le atmosfere classiche delle 12 battute,  sulle quali si adagia l’armonica di Gruenling, che poi propone il suo secondo brano, Wait And See, altro limpido esempio del miglior blues che esce dalle strade della città dell’Illinois, ruvido e corposo, come prevede lo stile di Dennis, che comunque lascia spazio anche ad un ficcante assolo di Nick. Ci avviciniamo al finale con As Good It Gets un breve boogie semiacustico solo con armonica, chitarra, il contrabbasso slappato di Mantovani e la voce implorante di Moss, che poi lascia spazio alla notturna e jazzata Cutting The Monkey’s Tail, uno strumentale swingante e filante che è una ennesima occasione per ascoltare in azione i magnifici solisti di questa band, che poi si fanno più pensosi nell’ultimo brano. Una sentita The Comet ,dedicata all’amico scomparso Mike Ledbetter, cantata splendidamente da Moss, la canzone si avvale di un finissimo lavoro della chitarra solista di Monster Mike Welch, mentre Nick si limita ad accompagnare alla acustica in questo brano che rievoca le atmosfere del blues primigenio in arrivo dalle sponde del Delta del Mississippi https://www.youtube.com/watch?v=dN0iUMWDNwU  e che chiude in gloria questo ulteriore ottimo lavoro della Alligator, una etichetta, una garanzia di qualità.

Bruno Conti

Con I Fratelli Nei Trampled Under Foot Era Una Potenza, Ma Anche Da Sola Con Alcuni “Amici” Non Scherza. Danielle Nicole – Cry No More

danielle nicole cry no more

Danielle Nicole – Cry No More – Concord Records

Danielle Nicole Schnebelen (per darle il suo nome e cognome completi) viene da Kansas City, per parecchi anni ha fatto parte della band di famiglia, i Trampled Under Foot, con i fratelli Kris, alla batteria, e Nick Schnebelen, alla chitarra e seconda voce, autori una apprezzabile carriera culminata con  Wrong Side Of The Blues e soprattutto Badlands, uscito nel 2013 http://discoclub.myblog.it/2013/08/01/sempre-piu-bravi-trampled-und-5546876/ . Nel gruppo la stella era Danielle, cantante e bassista (strumento imparato per necessità, ma poi rimasto nel suo DNA, visto che lo suona ancora oggi alla grande), ma anche Nick era (ed è) chitarrista ed interprete raffinato http://discoclub.myblog.it/2017/07/14/forse-il-nome-vi-dice-qualcosa-anzi-il-cognome-nick-schnebelen-live-in-kansas-city/ . La Nicole ha esordito con un EP omonimo nel 2015, poi ha pubblicato il suo primo album solo Wolf Den nel 2015, prodotto da Anders Osborne e quindi con consistenti “sapori” New Orleans, a fianco del “solito” blues e del soul. Ed ora con questo Cry No More realizza quello che probabilmente è il suo disco migliore: con Tony Braunagel, che produce e suona la batteria, la brava Danielle è affiancata da Johnny Lee Schell (a lungo con Bonnie Raitt), alla chitarra e da alcuni ospiti di pregio presenti in alcuni brani, che vediamo di volta in volta.

Lei firma, da sola o in compagnia, ben 9 delle canzoni presenti nel CD, ma quello che impressiona ancora una volta è la sua estensione vocale, che di volta in volta è stata avvicinata a Janis Joplin e Bonnie Raitt, ma che comunque ha un suo timbro ben definito, di grande fascino ed espressività: sin dall’iniziale Crawl, dove alla chitarra appare il fratello Nick, si apprezza la varietà dei temi musicali utilizzati, in questo brano il rock vibrante e grintoso, fattore che era tra gli atout del periodo con i Trampled Under Foot, che non a caso prendevano il loro nome da un brano dei Led Zeppelin, grande grinta e il suono dell’organo di Mike Sedovic che allarga lo spetto sonoro del brano, con le chitarre di Schell e Schnebelen (pare incredibile ma nel libretto sono riusciti a “ciccarne” il cognome) a duettare in un mood non lontano dai brani più rock di Beth Hart, la successiva I’m Going Home, con Mike Finnigan all’organo, e la presenza, spesso reiterata, di un paio di voci femminili di supporto, vede la presenza del grande Sonny Landreth magnifico alla slide, per un pezzo dall’ambientazione sonora sospesa e minacciosa all’inizio e poi ritmata e tirata, mentre la nostra amica imperversa ancora con la sua voce splendida. Hot Spell è un brano inedito di Bill Withers, da lungo ritirato dalle scene, che però ha voluto regalare questa canzone alla Nicole, senza peraltro apparirvi, in questo pezzo tra soul e blues, molto sensuale e di grande fascino, con il basso funky di Danielle che ancora il suono in modo deciso. Burnn’ For You, di nuovo con l’organo di Finnigan e le voci femminili in bella evidenza, è un altro pezzo di impostazione rock-blues con la chitarra di Walter Trout a disegnare le sue linee soliste eleganti e vibranti, mentre la title track Cry No More è una deliziosa ballata soul che ricorda le cose migliori di Bonnie Raitt ( o Susan Tedeschi), insinuante e scandita con grande classe.

Poison The Well rimane in questo stile elegante tra pop e canzone d’autore, mentre si apprezza l’ottimo interscambio ritmico tra Braunagel e la Schneleben. Che poi scrive una delle canzoni più emozionanti del CD Bobby, dedicata al padre, scomparso ormai da tempo, ma per cui rimane un affetto sconfinato, la traccia ha un tocco quasi country delicato ed intimo, con il cigar box fiddle suonato da Johnny Lee  Schell, mentre la nostra amica azzecca un timbro malinconico che ben si adatta allo spirito del brano. Con Save Me, dove appare Kenny Wayne Shepherd alla solista, si torna ad un rock-blues grintoso e tirato, ma sempre illuminato da sprazzi di grande classe, e pure How Come U Don’t Call Anymore, una cover di un pezzo poco noto di Prince, si avvale di un “manico” dalla grande tecnica e gusto come Moster Mike Welch, mentre Mike Sedovic passa al Wurlitzer e il brano è dolce ed avvolgente, di squisita fattura, sempre cantato deliziosamente. Baby Eyes vede la presenza di Brandon Miller, che è il chitarrista della touring band della Nicole (dal vivo sono una forza della natura, tra cover dei Led Zeppelin https://www.youtube.com/watch?v=OYzbfn2o6B4 , di Etta James https://www.youtube.com/watch?v=lk-pL6FVmssDolly Parton, Prince https://www.youtube.com/watch?v=5qTTWWL5MZg , e di qualsiasi altra cosa gli passa per la testa), un brano quasi old fashioned, con un tocco barrelhouse del piano e la voce birichina della nostra amica. Kelly Finnigan è la figlia di Mike, anche lei organista, e appare nel funky-soul-rock della mossa Pusher Man, mentre Welch ritorna con Schell nella blues ballad My Heart Remains, di nuovo in territori cari a Bonnie Raitt, con un brano romantico ed avvolgente di grande fascino. La Finnigan si rivela anche cantante intrigante nel duetto imbastito nella bluesata Someday You Might Change Your Mind. Chiude un eccellente album l’unico tuffo nel blues “puro”, offerto con la sinuosa Lord I Just Can’t  Keep From Crying firmata da Blind Willie Johnson, ma impreziosita dal grande lavoro alla slide di Luther Dickinson, in un brano che ricorda nelle sue sonorità il miglior Ry Cooder degli anni ’70, splendido https://www.youtube.com/watch?v=9b0VIPUxgW0 .

Bruno Conti  

Electric Blues Di Classe: Con Un Piccolo Aiuto Dai Loro Amici. Kilborn Alley Blues Band Presents The Tolono Tapes

kilborn alley blues band tolono tapes

Kilborn Alley Blues Band Presents The Tolono Tapes – Run It Back Records            

Secondo logica se il precedente album di questa band si chiamava Four, il nuovo Tolono Tapes dovrebbe essere il quinto album di studio del gruppo di Champaign, Illinois. E invece esiste un primo album, inciso nel 2003 a livello indipendente (o meglio ancora più indipendente dei successivi) che scombina la carte. Quello che è certo è che la Kilborn Alley Blues Band è sulle scene dal 2000, quindi 17 anni di onorata carriera, nell’ambito soprattutto del Chicago Blues elettrico (visto anche lo stato da cui provengono e la dichiarata presenza delle 12 battute nel loro moniker): al momento un quartetto, ma a lungo hanno avuto anche un armonicista in formazione, nel loro stile confluiscono comunque pure elementi soul, funky e R&B naturalmente, per quanto nel nuovo disco, grazie alla presenza di numerosi ospiti che si sono alternati in tre serie di sessions, tra il febbraio 2015 e il settembre 2016, all’Earth Analog Sudio, appunto di Tolono, nei pressi di Champaign, per l’occasione facendo pendere la bilancia del sound decisamente ancor più verso il blues.

Andrew Duncanson, in qualità di voce solista e chitarrista, è il leader della band, ma i brani vengono firmati collettivamente da tutto il gruppo, Josh Rasner-Stimmel alla seconda chitarra, Chris Breen al basso e Aaron “atrain” Wilson, batteria; il loro vecchio armonicista Joe Asselin è presente in qualità di “ospite” in un brano. Come si diceva i brani se li firmano in proprio, o al limite in collaborazione con i molti ospiti presenti in queste sessions registrate in presa diretta, e che vediamo ora brano per brano. I nomi sono tutti piuttosto conosciuti (e ricorrenti) in ambito blues: in effetti anche in altri dischi del genere in oggetto, recensiti di recente dal sottoscritto, appaiono di frequente. A partire da Monster Mike Welch, seconda chitarra aggiunta nella potente Fire With Fire che apre l’album, e si avvale anche del piano di Antony Geraci, Duncanson, che ha pure una bella voce, in questo pezzo, un solido shuffle, canta soltanto, mentre nella successiva Going Hard si produce anche ottimamente alla chitarra, per un intenso slow blues, dove si apprezza l’armonica Ronnie Shellist e Andrew si conferma cantante di vaglia. Molto buona anche Misti, firmata collettivamente con Gerry Hundt  e con l’artista Delmark Corey Dennison, rispettivamente alla chitarra e seconda voce solista, per un brano che vira verso dell’errebì di eccellente fattura;: Jackie Scott, che firma Been Trying To Figure Out, è una di quelle grandi e “sconosciute” voci femminili che costellano la musica nera, tra blues e soul e fa veramente un gran lavoro in questo pezzo, notevole anche l’interplay tra le due chitarre.

Di nuovo Ronnie Shellist all’armonica, per il classico blues di una poderosa Terre Haute, mentre in Christmas In County tornano Welch e Geraci, per un altro super slow di quelli torridi, con Duncanson che canta sempre alla grande e Welch strepitoso alla solista. Vi pareva che in un disco di Chicago Blues (ma non solo) non fosse prevista anche la presenza di Bob Corritore all’armonica e Henry Gray al piano? Certo che no, e infatti ci sono entrambi in un vorticoso shuffle intitolato Home To My Baby; in Town Saint ritorna Shellist all’armonica per un delizioso funky-soul-blues di pregevole fattura, sempre ben cantato da Duncanson che, insieme a Stimmel, titilla dolcemente anche le chitarre. Avendo a disposizione un grande come Henry Gray perché non fargli cantare almeno un brano? Missione compiuta in Cold Chills, firmata dallo stesso, e che prevede di nuovo la presenza di Corritore all’armonica, la voce è vissuta, ma sempre vibrante in questo lento d’atmosfera. Per Easy To Love  torna di nuovo la bravissima Jackie Scott, nell’unico brano che prevede la presenza del loro vecchio armonicista Assselin, un blues pimpante che conferma il valore della Kilborn Alley Blues Band. E splendida anche Sure is Hot, una magnifica soul ballad, dove appare anche tale Cerbo, che nonostante la sua “rappata”, non riesce a rovinare questo brano cantato con grande intensità da Duncanson. Per concludere in bellezza una “strana” Night Creeper, un funky blues che prevede del talking da parte dei protagonisti e rievoca certe cose di Rufus Thomas del periodo Stax. Direi complessivamente un ottimo disco, tra i migliori in ambito electric blues di questo 2017.

Bruno Conti

Sempre Più Un “Mostro” (Della Chitarra). Monster Mike Welch And Mike Ledbetter – Right Place, Right Time

monster mike welch & mike ledbetter - right place, right time

Monster Mike Welch And Mike Ledbetter – Right Place, Right Time – Delta Groove Music/Ird

Mike Welch ha avuto il suo nomignolo di Monster, da Dan Aykroyd, circa 25 anni fa, quando era un ragazzino di 13, ma era già un “mostro” alla chitarra. Ora che di anni ne ha 37 è diventato uno dei più rispettati chitarristi di blues, il cui nome ricorre in moltissimi album del genere: con Sugar Ray & The Bluetones, con i Mannish Boys, di recente nei Knickerbocker All-Stars, insieme a Jimmie Vaughan e Duke Robillard, oltre ad avere pubblicato sei album a proprio nome (ma erano dieci anni che non usciva un disco a nome suo). In passato mi è capitato di recensire spesso album dove appare il chitarrista nato ad Austin, ma attivo soprattutto nell’area di Boston, oltre che a Chicago e in California, dove si trova la Delta Groove, l’etichetta che pubblica questo disco. Welch, che non è un gran cantante, saggiamente ha evitato, quando è stato possibile, di occuparsi del lato vocale dei dischi dove appariva, e anche in questa occasione si appoggia ad uno che invece ha una voce strepitosa, Mike Ledbetter. Anche lui un “habitué” negli album che ruotano intorno al blues, ma anche nel soul, nel gospel, nel r&b, nel rock, persino nell’opera, calcando i teatri dell’area di Chicago, e, soprattutto, collaborando per otto anni nella band del suo mentore Nick Moss http://discoclub.myblog.it/2016/07/13/breve-gustosa-storia-del-blues-rock-due-dischi-nick-moss-band-from-the-root-to-the-fruit/ , altro grande chitarrista (ma lo ricordo anche con Ronnie Earl e Anson Funderburgh, altri due chitarristi che non cantano). Lui comunque se la cava anche alla chitarra, ma nel nuovo album in coppia con Welch, la suona solo in un pezzo, “ubi major, minor cessat”, ovvero, ad ognuno il proprio mestiere.

E i due insieme il loro mestiere lo sanno fare alla grande in questo Right Place, Right Time, dove sono aiutati da una band con i controfiocchi, dove brillano le tastiere di Anthony Geraci, altro veterano della scena blues, che lo scorso anno ha pubblicato un album sempre per la Delta Groove e suona al momento nella band di Sugar Ray, ma in passato anche con Ronnie Earl e Debbie Davies, tra i tanti. A completare la formazione Ronnie James Weber al basso e Marty Richards, alla batteria. Sarò didascalico, ma i nomi contano, e quindi aggiungiamo anche quelli degli ospiti Laura Chavez (ex chitarrista di Candye Kane e di recente anche con Vanessa Collier e Ina Forsman), nonché la sezione fiati di Sax Gordon e Doug James, in quattro brani. Ledbetter firma tre brani e Welch un paio, quindi non manca il materiale originale, ma neppure alcune ottime cover di brani non celeberrimi: a partire dalla ottima Cry For Me Baby, un brano di Melvin London che faceva parte del repertorio di Elmore James, cantata con la consueta voce stentorea (una delle migliori attualmente in circolazione) da Mike Ledbetter e con Mike Welch e Anthony Geraci subito brillantissimi ai rispettivi strumenti, blues puro. Quando si aggiungono i fiati, come nella successiva cover di I Can’t Please You, si sfiora il soul e l’errebì, se non fosse per la chitarra del Monster che inizia a fare mirabilie, confermando i lusinghieri paragoni che ai tempi lo avevano indicato come uno dei possibili eredi di Stevie Ray Vaughan,  e di altri grandi delle 12 battute. Kay Marie, porta la firma di Ledbetter, che canta sempre splendidamente, ma è anche l’occasione per un duello di chitarre fluidissimo tra Welch e Laura Chavez a tempo di shuflle https://www.youtube.com/watch?v=Xub4cUwJ77A .

E il blues domina anche in I Can’t Stop Baby un brano di Willie Dixon scritto per Otis Rush, un lento torrido con uso di fiati dove entrambi i protagonisti sono assolutamente in evidenza, soprattutto Welch che strapazza la sua solista con libidine. Ancora stessa formula con fiati anche per la cover di Down Home Girl, che forse qualcuno ricorda su The Rolling Stones No. 2, in una versione più cruda, mentre qui prevale il R&B cadenzato ma lancinante. Torna Laura Chavez per un altro duetto di 6 corde in How Long Can This Go On un brano minore di Little Junior Parker che è un’altra occasione per ascoltare in azione Mike, una vera iradiddio alla chitarra, ma anche la Chavez si difende, canzone fantastica comunque. Ottima anche la seconda composizione di Ledbetter, Big Mama, altro Chicago Blues di grande intensità, di nuovo con la Chavez in formazione; e poi Monster Mike Welch si scatena di nuovo in I’m Gonna Move To Another Country, uno slow blues che ricorda il miglior Bloomfield. Ed eccellente anche l’ultimo contributo di Ledbetter Can’t Sit Down, ma non ci sono brani deboli in questo album, uno meglio dell’altro, qui fantastico pure Geraci. Anche nell’omaggio a B.B. King Cryng Won’t Help You, di nuovo con fiati d’ordinanza, la band non scherza un c…o.  Come pure in un altro splendido lento di Elmore James come Goodbye Baby e nella conclusione affidata ad uno strumentale vibrante di Welch, Brewster Avenue Bump, dove Mike e la Chavez si sfidano ancora a colpi di chitarra, ben coadiuvati da Geraci e con Ledbetter che tiene pure lui il colpo, alla fine vince solo l’ascoltatore.

Bruno Conti

Texas O Rhode Island Che Sia, Questi Comunque Non Scherzano! Knickerbocker All-Stars Featuring Jimmie Vaughan And Duke Robillard – Texas Rhody Blues

knickerbocker all-stars featuring jimmie vaughan & duke robillard texas rhody blues

Knickerbocker All-Stars Featuring Jimmie Vaughan And Duke Robillard – Texas Rhody Blues – JP Cadillac Records

Come direbbero quelli che parlano (e scrivono) bene, questa più che una band vera e propria è un “progetto”! Ovvero, un gruppo di musicisti che suonano nel disco ovviamente c’è, ma sempre quello di prima direbbe che si tratta di una formazione aperta, e assai numerosa aggiungo io: nel disco infatti si alternano ed appaiono, non tutti insieme, la bellezza di 16 musicisti. Intanto vediamo chi sono, sempre per il famoso assunto che i nomi non saranno importanti, ma noi che non ci crediamo ve li scioriniamo tutti: gli unici due fissi, presenti in tutti i brani, sono Marc Teixeira, batteria e Brad Hallen, contrabbasso e basso elettrico, vale a dire la sezione ritmica della band di Duke Robillard, anche lui presente come special guest in tre brani, e anche Bruce Bears appare al piano in tre pezzi. Potremmo dire quindi che è un disco della Duke Robillard Band con ospiti? Direi di no: il famoso “progetto” parte molto indietro nel tempo, quando alcuni musicisti bianchi scoprono, attraverso le varie edizioni dei Festival di Newport, molti dei grandi del Blues e si innamorano della loro musica.

Tra i tanti, oltre a Bloomfield, Kooper, Butterfield, Goldberg e molti altri, c’è anche un giovane chitarrista del Rhode Island, Robillard appunto, che decide che questa musica sarà quella della sua vita; qualche anno dopo dal Rhode Island arriva anche Johnny Nicholas, il cantante degli Asleep At The Wheel, e pure Fran Christina, il batterista dei Fabulous Thunderbirds veniva dal RI, mentre lo stesso Duke suonerà sia con i Fabulous e prima ancora con i Roomful Of Blues, creando questo intreccio di stili che dà il nome al disco Texas Rhody Blues, quindi blues texano suonato (e registrato) da musicisti del Rhode Island, misti a quelli texani. Perché nel disco l’altro ospite importante è Jimmie Vaughan, anche lui impiegato in tre brani, con il chitarrista principale dell’album che è Monster Mike Welch, nato a Austin, ma cresciuto musicalmente a Boston; in questo intreccio ecumenico di artisti, provenienti da tutti gli States, ci sono anche gli eccellenti cantanti Sugaray Rayford, Brian Templeton e Willie J Laws, che si dividono le parti vocali con Robillard, una sezione fiati di quattro elementi guidata da Doug James, utilizzata nella quasi totalità dei brani del CD, e ancora Matt McCabe e Al Copley che si alternano con Bears al piano. Il tutto è stato registrato al Lakewest Recording Studio di West Greenwich, RI appunto, ed esce per la JP Cadillac Records, con reperibilità molto scarsa, come i due precedenti dischi a nome Knickerbocker All-Stars.

Ma voi fregatevene e cercate di recuperarlo perché merita: un bel disco di blues elettrico tradizionale infarcito di brani classici (vecchi e “nuovi”), tutte cover, che si apre con la poderosa Texas Cadillac, una canzone di Smokin’ Joe Kubek che ci permette di apprezzare la voce di Sugaray Rayford (cantante dei Mannish Boys) e la chitarra di Mike Welch, un blues texano pungente, sincopato e vivace, punteggiato dai fiati, che indica subito quale sarà il contenuto dell’album, mentre You’ve Got Me Licked, scritta da Jimmy McCracklin, è il classico slow blues, sempre con uso di fiati, ed era nel repertorio di Freddie King e John Mayall, la canta Willie J Laws, altro texano Doc dall’ottima voce, ma il protagonista è Mike Welch con la sua chitarra. Altro blues lento e lancinante è Respirator Blues, un pezzo della Phillip Walker Band, ancora con Rayford e Welch sugli scudi; poi a seguire due dei tre brani dove opera l’accoppiata Robillard/Vaughan, prima un classico swing blues a firma Dave Bartholomew (l’autore dei brani di Fats Domino) Going To The Country, cantato da Duke e con i due solisti che si titillano a vicenda, poi I Have News For You di Roy Milton, uno dei pionieri del jump blues e R&B anni ’40-’50.

I Still Love You Baby di Lowell Fulson, di nuovo con Rayford, rimane sempre in territori texani, ma la voce di Sugaray fa la differenza, e, quasi stesso titolo, I Got News For You, cantata da Laws e con la tromba di Doc Chanonhouse che se la vede con la chitarra di Welch, poi I Trusted You Baby, uno dei due brani cantati da Brian Templeton, più “jazzy” e raffinata; l’altro della coppia Vaughan e Robillard è un blues primevo come l’intenso Blood Stains On The Wall. E non mancano neppure gli omaggi a Clarence “Gatemouth” Brown con lo strumentale Ain’t That Dandy e a Guitar Slim con Reap What You Sow, altro lentone dove si esaltano Laws e Welch. Infine breve intermezzo parlato di T-Bone Walker, prima della ripresa di uno dei suoi classici, Tell Me What’s The Reason, a completare un disco di blues, magari non indispensabile, ma solido e ben fatto.

Bruno Conti

Piovono Chitarristi 2. The Duke Robillard Band – Independently Blue

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The Duke Robillard Band – Independently Blue – DixieFrog/Stony Plain

Come dimostra l’articolo determinativo posto prima del nome, anche questa volta siamo di fronte ad un disco della Duke Robillard Band, come nel caso del precedente Low Down And Tore Up, la differenza per l’occasione la fa la presenza di Monster Mike Welch, aggiunto come secondo chitarrista solista (a parte un paio di branoi dove appaiono anche i fiati): quindi il suono è più grintoso del solito (almeno rispetto agli ultimi dischi, perché nel passato, e, occasionalmente anche nelle prove più recenti, il buon Duke è sempre in grado di strapazzare la sua chitarra, quando vuole). Il problema è che Michael John, da Woonsocket, Rhode Island, ultimamente non vuole troppo spesso, preferendo un suono più jazzato, swingante, persino da locali after hours, sempre con una gran classe e una tecnica raffinata, ci mancherebbe, ma con una certa ripetitività che di tanto in tanto ci stufa, per essere dialettali e chiari! E’ una critica magari un po’ forzata, perché dischi come questo si ascoltano sempre volentieri, soprattutto se si ama il Blues, ma da uno come Robillard ci aspettiamo qualcosa di più.

In effetti lo dice anche lo stesso Duke, nelle note del libretto, che ultimamente tende a privilegiare un tipo di sound e materiale più adatto ad un signore nel “settembre dei suoi anni” (è del 1948, quindi 65 quest’anno, ma non ditelo a Springsteen). Forse all’aria “old fashioned” contribuisce anche il fatto che alcuni brani sono firmati da Al Basile, cornettista e amico, che privilegia un suono abitualmente più rilassato, ma per l’occasione, nell’iniziale I Wouldn’t-a Done That, dove Robillard e l’ottimo Mike Welch si scambiano assolo di gusto su un ritmo blues “cattivo” alla giusta temperatura e nella successiva Below Zero, un bel blues roccato come ai vecchi tempi, con il basso che pompa e le due chitarre ancora infoiate come si conviene, sembra esserci una inversione di tendenza. Anche lo strumentale Stapled To the Chicken’s back portato in dote da Welch, è un bell’esempio di Texas Shuffle, con le chitarre “limpide” dei due solisti che si dividono democraticamente gli spazi anche con l’organo di Bruce Bears, mentre Brad Hallen che nel disco precedente suonava quasi sempre il contrabbasso in questo album si cimenta spesso e volentieri al basso elettrico dando una fondazione più solida alle improvvisazioni dei due, che sono dei “manici” notevoli e questo non si discute, anche Welch inquadrato in una formazione meno volatile dimostra una gran classe.

Però (o per fortuna, per chi apprezza lo stile) Robillard ha sempre questa passionaccia per il jazz, magari New Orleans, anni ’20, come nella fiatistica Patrol Wagon Blues, che nella prima parte potrebbe uscire da qualche Cotton Club o da un disco di Ellington o Al Jolson dei tempi di Minnie The Moocher e qui il pianino dell’ottimo Bears ci sta a pennello, con banjo e clarinetto a dividersi gli spazi, e poi nel finale i due solisti pennellano una performance di gran classe alle chitarre elettriche. Laurene è uno di quei R&R alla Chuck Berry che ogni tanto escono dalla penna del buon Duke e Moongate è uno dei rari slow blues d’atmosfera del CD, molto raffinato e con le due chitarre libere di improvvisare anche notevoli tessiture sonore, seguite da un altro blues classico a firma Al Basile I’m Still Laughing cantato con piglio autorevole da un Robillard in buona forma vocale, mentre il suono delle chitarre, anche slide, è molto Chicago Blues.

Un altro strumentale a firma Duke Robillard, Strollin’ With Lowell and BB è uno swingato omaggio ai due signori citati nel titolo, ma non mi entusiasma. Come You Won’t Ever che nasce con l’idea di rendere omaggio omaggio alla musica di Stevie Wonder e Four Tops, ma in pratica sembra la colonna sonora di qualche episodio di Starsky & Hutch, piacevole anche nel groove di basso e batteria e nell’intervento della tromba, ma sicuramente non memorabile. E anche l’altro brano strumentale a firma Monster Mike Welch (il soprannome gli fu dato ad inizio carriera da Dan Aykroyd),  al di là dalla classe dei due, ha un po’ l’aria di una outtake minore e sonnolenta dalla Supersession di Bloomfield, Kooper & Stills. Molto meglio Groovin’ Slow, dove un giro di basso marcatissimo “modernizza” questo omaggio allo stile preciso e da nota singola del grande Wes Montgomery, con le due soliste a scambiarsi soli di precisione chirurgica. If This Is Love è un bel pezzo che avrebbe potuto figurare in un disco di fine anni ’60 del già citato Bloomfield o in qualche disco recente del Robben Ford più bluesy, e a furia di soli pungenti finisce in gloria questo CD, che ha i suoi alti e bassi, ma è vivo e vitale, forse anche per l’apporto di Welch.

Bruno Conti

Tutti Sulla Macchina Del Tempo! Otis Grand – Blues ’65

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Otis Grand – Blues ’65 – Maingate Records

Il titolo è di per sé già abbastanza esplicativo, se aggiungiamo il sottotitolo …For Listening Swingin’ & Dancing, e il motto riportato nel libretto del CD “Good Blues Feel Good”, la filosofia che sta alle radici di questo album è piuttosto chiara: musica, anche scritta oggi, ma con lo spirito di quegli anni, dal 1965 a ritroso, quindi niente rock-blues, che non era stato ancora inventato ma blues puro, meglio se nella migliore tradizione dei dischi che B.B. King incideva in quel periodo per la ABC-Paramount, rockabilly e rock’n’roll, country&western mascherato (ci sono un paio di brani firmati da Charlie Rich), ma anche pura musica da ballo, Rumba Conga Twist è uno strumentale firmato da Grand ma avrebbe potuto essere uno dei successi che eruttavano dai jukebox  in quel fatidico anno. Come molti sanno (in caso contrario ve lo sto dicendo) Otis Grand, come lascia intuire la carnagione, è un bluesman di scuola americana, ma nato a Beirut in Libano e residente a Croydon in Inghilterra, chitarrista sopraffino della vecchia scuola (accentuata in questo disco dall’utilizzo della Gibson Es-335 per evidenziare ulteriormente questo viaggio nel tempo, già peraltro effettuato nel suo precedente album, Hipster Blues, che celebrava la musica Mod & R&B sempre degli anni ’60).

Anni che evidentemente sono quelli della sua formazione musicale (è nato nel 1950, quindi non è più uno sbarbatello), quando il pop, il rock, il soul, il R&B, il country, il R&R e perfino il Blues convivevano nelle classifiche senza problemi, e c’è una bella paginetta nel libretto del CD che ci racconta cosa succedeva nel 1965. Per fare tutto ciò Otis si è recato in quel di Limoges in Francia, con qualche capatina nel Vermont, a conferma dello spirito internazionale del progetto, e con l’aiuto di un cospicuo manipolo di musicisti di nome (ma non di grande fama se non per gli appassionati) ha realizzato questo divertente dischetto: per citarne alcuni, il cantante ed armonicista è lo spesso sottovalutato Sugar Ray Norcia, vocalist dalla voce vellutata (sentite l’eccellente lavoro che fa nel brano d’apertura, la scatenata Pretend, che era cantata in origine da Nat King Cole e dove i fiati, oltre alla voce, sono i grandi protagonisti), al basso e contrabbasso Michael “Mudcat” Ward, Greg Piccolo con il suo sax tenore guida la numerosa pattuglia della sezione fiati, ossia Carl Querfurth, John Peter LoBello, Paul Malfi, Doug “Mr Low” James (già i nomi ti ispirano), Anthony Geraci al piano e organo e l’ex bambino prodigio Monster Mike Welch solista aggiunto in un paio di brani.

Ogni cosa funziona alla grande, Who Will The Next Fool Be, una delle canzoni scritte da Rich, potrebbe provenire da uno dei dischi di B.B. King di quell’annata, chitarra pimpante, una voce che ti mette allegria (e non rimpiangere quella di Bobby Blue Bland che la cantava ai tempi), piano saltellante e atmosfera vintage, ma che classe ragazzi. Proseguendo nell’ascolto di Live At The Regal (ah non è quello, mi sembrava di non avere sbagliato a infilare il dischetto nel lettore), parte uno strepitoso blues con fiati come Bad News Blues On TV, a firma dello stesso Grand che rilascia anche un assolo strepitoso con la sua Gibson d’annata, che se fossi BB King gli farei una telefonata per complimentarmi, ma purtroppo non lo sono. Già detto della coinvolgente Rumba Conga Twist dove la ficcante solista di Grand è di nuovo protagonista, ma tutto il gruppo si diverte, citerei anche un super slow come Do You Remember (When) addirittura pennellato e la divertente e nuovamente scatenata I Washed My Hands In Muddy Water, un successo appunto del 1965 di Stonewall Jackson ma che tutti ricordano (tutti?) nella versione di Elvis Presley del ’71, questa di Grand è decisamente più swingata e blues con Sugar Ray Norcia che soffia alla grande nella sua armonica.

Midnight Blues, l’altro pezzo di Charlie Rich ha un suo perché come l’eccellente escursione nel New Orleans soul rappresentata da Please Don’t Leave, cantata con passione da Brother Roy Oakley, che era il vecchio cantante della band di Grand, ora ritirato dalle scene ma sempre tosto. In molti brani, anche quelli già citati, sembra di ascoltare la vecchia Butterfield Blues Band che nasceva proprio in quel periodo, il suono di Grand è molto Bloomfield, per esempio in In Your Backyard o in Shag Shuffle dove si scambia “fendenti” con Monster Mike Welch, come facevano appunto Bloomfield e Bishop. Warning Blues è un bel duetto tra Norcia e Grand, un blues intenso e gagliardo, come si conviene e la conclusiva Baby Please (Don’t Tease) è un boogie swingato con i due chitarristi e i fiati ancora sugli scudi. Questo è un “passato” che ci piace, divertente e coinvolgente come usava in quel fatidico 1965!

Bruno Conti