Se Elvis Era Il Re Del Rock’n’Roll, Chuck Era…Il Rock’n’Roll! Un Sentito Omaggio Da Uno Stone In Libera Uscita. Ronnie Wood & His Wild Five – Mad Lad: A Live Tribute To Chuck Berry

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Ronnie Wood & His Wild Five – Mad Lad: A Live Tribute To Chuck Berry – BMG CD

In questo mese di Novembre sono usciti ben due tributi al grande Chuck Berry, uno dei pionieri assoluti del rock’n’roll, nonostante non ricorrano particolari anniversari riguardanti il musicista di St. Louis scomparso nel 2017: dell’ottimo album del bluesman Mike Zito intitolato Rock’n’Roll (con una marea di ospiti) se ne occuperà prossimamente Bruno, mentre io oggi vi parlo di questo Mad Lad: A Live Tribute To Chuck Berry, che documenta appunto un concerto tenutosi circa un anno fa, il 13 Novembre 2018, al Tivoli Theatre di Wimborne (una cittadina nel sud dell’Inghilterra) ad opera di Ronnie Wood e dei suoi Wild Five. Dei membri attuali dei Rolling Stones Wood è sicuramente quello che negli anni è stato più attivo da solista, con più di dieci album tra studio e live (anche se un paio pubblicati prima di prendere il posto di Mick Taylor all’interno della storica band britannica), con una qualità media anche più alta di quella di Mick Jagger, cosa bizzarra se consideriamo che gli Stones molto raramente hanno consentito all’ex Faces di collaborare con loro alla stesura delle canzoni (a memoria credo non si arrivi a cinque brani, con Black Limousine come episodio più famoso).

Per questo album però Ronnie ha voluto fare qualcosa di diverso, omaggiando uno dei suoi eroi musicali di sempre, un lavoro che dovrebbe rappresentare il primo disco di una trilogia di tributi a grandi del passato che hanno avuto per il nostro un’importanza particolare (al momento non è dato sapere chi siano gli altri due artisti interessati, anche perché i relativi concerti si terranno a detta di Wood negli anni a venire: io punterei due euro sul fatto che uno possa essere Bo Diddley). Mad Lad è un album davvero piacevole e riuscito, con il nostro che assume il ruolo di band leader con buona autorevolezza, accompagnato da un gruppo, I Wild Five appunto, formato da elementi validissimi (lo strepitoso pianista Ben Waters, la sezione ritmica di Dion Egtved e Dexter Hercules, i sax di Antti Snellman e Tom Waters, ed i cori femminili di Amy Mayes e Denise Gordon); Ronnie, poi, è un chitarrista eccellente ed un cantante discreto, con una voce tra il dylaniano e lo scartavetrato: non sarà Jagger, ma tecnicamente se la cava meglio del collega Keith Richards. E poi in questo concerto Ronnie non è da solo, in quanto in tre pezzi chiama sul palco la brava Imelda May (gliel’ha presentata Jeff Beck?), che riscalda ulteriormente l’ambiente con la sua ugola scintillante https://discoclub.myblog.it/2010/11/24/musica-tradizionale-dall-irlanda-imelda-may-mayhem/ …anche se io una telefonatina all’amico Rod Stewart l’avrei fatta.

Prima di partire con la disamina del contenuto di questo album vorrei evidenziare l’unica magagna: il CD contiene 11 canzoni per circa 40 minuti di musica mentre nel concerto intero sono stati suonati 21 brani, comprendendo però anche cover di altri autori, ma almeno si potevano inserire tutti i pezzi di Berry, dato che di spazio sul dischetto ce n’era ancora (in particolare mancano Around And Around, No Particular Place To Go, Run Rudolph Run e Bye Bye Johnny, oltre a Roll Over Beethoven e Nadine che erano state suonate all’inizio dalla band senza il leader per riscaldare l’ambiente). L’album comincia con l’unico brano scritto da Wood per l’occasione, cioè Tribute To Chuck Berry, in realtà un pretesto per introdurre la serata citando ripetutamente il celebre riff chitarristico con il quale il rocker di colore apriva molte sue canzoni. I pezzi di Chuck iniziano con Talking About You, un rock’n’roll suonato con classe e rispetto, Ronnie sicuro e la band che lo segue spedita (e Waters che fa correre da subito le dita sulla tastiera a modo suo): il brano non è tra i più noti di Berry, ma l’alternanza tra classici e canzoni meno famose sarà il tema della serata.

Ronnie passa alla slide per la gustosa Mad Lad, uno strumentale suonato in maniera formidabile, con il nostro che fa i numeri e ci porta per qualche minuto nel più profondo Mississippi; arriva la May e si prende il microfono per una sontuosa Wee Wee Hours, un raffinatissimo blues lento, suonato dai Wild Five con una maestria degna di una band dei peggiori bar di Chicago, Waters strepitoso ed Imelda che ci mette una grinta notevole. La cantante irlandese resta sul palco per unirsi alle altre due coriste in una saltellante Almost Grown, in cui Wood si diverte un mondo nel botta e risposta vocale con le tre donzelle, cantando in maniera distesa e suonando la chitarra da vero rock’n’roller, mentre Waters continua con la sua eccezionale performance personale. Back In The USA è puro rock’n’roll, spigliato, trascinante e suonato come Dio comanda (e mi immagino Ronnie ad imitare il passo dell’oca di Berry), Blue Feeling è un altro strumentale di livello eccelso, puro blues con la premiata ditta Wood & Waters che è una delizia per il palato, mentre Worried Life Blues non è scritta da Chuck bensì da Maceo Merriweather (ma Berry l’aveva incisa per il lato B del singolo Bye Bye Johnny): altro blues eseguito con classe, eleganza ed uno stile misuratissimo da parte del leader.

Finale splendido a tutto rock’n’roll con un trittico da urlo formato da Little Queenie, Rock’n’Roll Music (questa ancora con la May alla voce solista) e Johnny B Goode, chiusura travolgente per un CD divertentissimo che omaggia con gusto e classe uno di quelli che il rock’n’roll lo ha letteralmente inventato.

Marco Verdi

Bob Dylan At 70, “Piccole” Ma Significative Aggiunte!

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Ovviamente ero stato pessimista e anche se non si può dire che i festeggiamenti fervano per il 70° di Bob Dylan qualcosa si muove (anche se non sul fronte ufficiale della Columbia/Sony).

Studs Terkel’s Wax Museum The Long Lost1963 Radio Broadcast è gia stato pubblicato da qualche giorno per il mercato inglese. L’etichetta è la Left Field Media, la stessa del Live At Main Point di Springsteen, quindi parliamo di materiale, come dire, semi-ufficiale ma di buona qualità. Si potrebbe definirlo un complemento al Brandeis University. Siamo al 26 aprile del 1963, Dylan ha appena terminato le registrazioni di Freewheelin’ e organizza questa trasferta a Chicago per apparire nello spettacolo radiofonico di Studs Terkel nel corso del quale verranno mandati in onda i brani registrati la sera prima in un locale della Windy City, The Bear di cui Albert Grossman era uno dei proprietari.

Tutto il broadcast (e relativo CD) dura 65 minuti: 7 brani per un totale di 28 minuti e 37 minuti di amichevole conversazione tra Dylan e Terkel.  Ovviamente sono tutte versioni “inedite” dal vivo: così ascoltiamo, nell’ordine, Farewell, A hard rain’s gonna fall, Bob Dylan’s Dream, Boots Of Spanish Leather, John Brown, Who Killed Davey Moore e Blowin’ In The Wind.

Come vedete ci sono brani dall’album imminente, da quello successivo e alcuni che non inciderà fino agli anni ’90. Ovviamente, come già detto, la qualità sonora è buona senza essere eccelsa e migliora dopo un paio di brani.

L’altra signora che si occupa di Dylan non è molto conosciuta ma estremamente brava. Si chiama Barb Jungr è inglese di ascendenza cecoslovacca ed ha già pubblicato una decina di album. Questo nuovo disco si chiama Man In The Long Black Coat esce per la Linn Records e si tratta di una “raccolta” di canzoni scritte da Bob Dylan. Non è il primo disco che la Jungr dedica al soggetto in quanto nel 2002 era già uscito Every Grain Of Sand dedicato all’argomento e anche nei dischi successivi qualche cover di Bob ci scappava spesso. Comunque l’album ha anche quattro brani registrati appositamente per l’occasione.

E sapete una cosa, la signora è proprio brava, bella voce, una via di mezzo tra la limpidezza di una Eva Cassidy se fosse arrivata alla maturità e le “sonorità” più vissute dell’irlandese Mary Coughlan. La critica la porta in palmo di mano anche per questa sua caratteristica di rivisitare non l’American Songbook e quindi i classici alla Cole Porter, Gershwin, Rodgers & Hart e gli altri grandi, ma autori più recenti, Dylan in primis, ma anche Leonard Cohen, Springsteen, Neil Diamond, Paul Simon, David Byrne, Presley, Leon Russell e anche autori inglesi come Richard Thompson, Ray Davies e la sua amica Christine Collister con cui ha collaborato varie volte.

Il risultato è molto piacevole, spesso sorprendente, tra chitarre acustiche e pianoforti spesso si insinuano sassofoni, tastiere e fisarmoniche per un sound raffinato, al limite jazzato e di gran classe su cui si libra questa bella voce. Hanno detto di lei: “Una delle principali interpreti del catalogo di Dylan” The Indipendent, “Speriamo che Dylan stesso la ascolti e inizi a scrivere dei brani direttamente per lei” The Observer, tanto per citarne un paio. Se vogliamo trovare un difetto forse il suono non è molto “rock”, contemporaneo ma grazie anche alla audiofilia della Linn Records di grande presenza.

Bruno Conti