Big Easy Hillbillies! The Deslondes

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The Deslondes – The Deslondes – New West CD

E’ risaputo che una delle maggiori music cities americane è New Orleans, che però difficilmente sforna gruppi legati alla musica country: i Deslondes invece, pur provenendo dalla Crescent City, fanno country, anche se in maniera del tutto particolare. Infatti, pur avendo qua e là qualche elemento legato alla città di provenienza (penso sia inevitabile, non puoi fare il musicista a New Orleans senza subirne l’influenza), i Deslondes suonano una musica che è diretta figlia di Hank Williams, mantenendo il più delle volte suono ed arrangiamenti tipici dell’era pioneristica della nostra musica.

Quindi The Deslondes (disco di debutto assoluto del quintetto, formato da Sam Doores, Riley Downing, Dan Cutler,  Cameron Snyder e John James Tourville) è un gustoso disco di old-time country, con qualche spruzzata di rock’n’roll, un pizzico di soul e ben poche concessioni a sonorità più moderne: un album assolutamente creativo e godibile, con i cinque che si dividono democraticamente sia la scrittura dei brani che le parti vocali (anche se Doores e Downing fanno la parte del leone), e dove ogni canzone è diversa dall’altra, ma nello stesso tempo l’insieme risulta coeso e per nulla dispersivo. In certi momenti l’appartenenza alla Big Easy si sente (per esempio, nel brano iniziale), altre volte sembra di sentire una band texana, altre ancora un gruppo basato a Nashville che suona vintage country: l’attenzione ai particolari è sempre alta e la noia è bandita.

L’opening track Fought The Blues And Won farebbe pensare ad un album maggiormente New Orleans-oriented: il tempo cadenzato, l’atmosfera d’altri tempi e soprattutto l’uso del piano lo fanno sembrare un pezzo di Fats Domino. Ma con Those Were (Could’ve Been) The Days siamo già in territori diversi: un notevole country-folk con tanto di botta e risposta voce-coro, spedito e gradevolissimo,  come si usava fare sessant’anni fa https://www.youtube.com/watch?v=94Ia1j9WWfI ; Heavenly Home, dalla lunga introduzione di armonica, è un brano corale sempre dal marcato sapore sixties, un tocco di country e riverberi a go-go, mentre la breve Less Honkin’ More Tonkin’ è uno splendido intermezzo tra country e skiffle, davvero coinvolgente e divertente (peccato duri meno di due minuti).

Low Down Soul è una country ballad anni cinquanta, The Real Deal è puro e diretto rock’n’roll, Still Someone una country song con pochi orpelli e la voce particolare di Downing a creare un bel contrasto, mentre la splendida Time To Believe In sembra uscita da una colonna sonora western di Ennio Morricone, un piccolo capolavoro: proprio da brani come questo si nota la preparazione dei cinque ragazzi e la serietà della loro proposta https://www.youtube.com/watch?v=dqsSF9gznJE . Louise è puro country, con una melodia molto bella (vi ricordate dei BR5-49? Ecco, siamo da quelle parti) https://www.youtube.com/watch?v=32lOKiDmelI , Simple And True, leggermente annerita, risente abbastanza dell’atmosfera della Louisiana https://www.youtube.com/watch?v=Cy6zEwrdt-Q , Same Blood As Mine è solare e saltellante, mentre Out On The Rise, che chiude il CD, è un bellissimo ed intenso country-blues eseguito con voci, piano, steel, batteria spazzolata e feeling a dosi massicce.

The Deslondes: un nome da tenere a mente.

Marco Verdi

Ripassi Per Le Vacanze 3. Montgomery Gentry – Folks Like Us

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Montgomery Gentry – Folks Like Us – Blaster Records 

L’abbigliamento in copertina lascia chiaramente intendere che genere facciano Eddie Montgomery e Troy Gentry, quindi giochiamo subito a carte scoperte, siamo di fronte a un duo di notevole successo nell’ambito del country americano. O quanto meno lo sono stati: in pista dalla metà degli anni ’90, quando insieme al fratello maggiore di Eddie, John Michael Montgomery, avevano fondato un gruppo di scarso successo. Poi le strade si sono divise, John Michael ha avuto un successo strepitoso nelle classifiche di settore, i Montgomery Gentry invece, pure: dal 1999 al 2011, sette album tutti nelle Top 10 delle charts country e ottimi risultati di vendita, con milioni di dischi venduti nel corso degli anni. Adesso che i CD si vendono molto meno vedremo se questo Folks Like Us, che è il secondo ad uscire per una etichetta indipendente, ripeterà i numeri dei precedenti, soprattutto i 6 usciti per la Columbia. Il gruppo o duo, chiamatelo come volete, ha comunque sempre mantenuto nella propria carriera un tipo di sound che, oltre al mainstream di Nashville, si avvicina a stilemi decisamente vicini al southern rock, quindi molte chitarre elettriche, impasti vocali notevoli, energia, senza mai dimenticare l’uso delle ballate o comunque quel pizzico, più o meno grande, di appeal commerciale e radiofonico.

E non c’è nulla di male: in effetti scorrendo i nomi dei musicisti che suonano anche in questo nuovo album sono all’incirca gli stessi che si trovano nei dischi di Jason Aldean, Alabama, Tracy Lawrence, Trace Adkins  e simili, molto amati dagli appassionati più osservanti, ma meno da chi scrive, compreso il produttore Michael Knox, che nel caso in questione confeziona un prodotto dove le ballate elettriche e i pezzi southern sono decisamente più energici di quelli, che so, di Brooks And Dunn, o almeno da quelle parti come sound. In effetti i due non è che si scrivano i brani, salvo rare eccezioni, non suonano strumenti, e quindi le origini del Kentucky, appena sopra il Tennessee, sono un mero dato statistico. Comunque, come la si voglia vedere, il risultato è più che accettabile: We Were Here è una bella ballata elettrica, con i due che si alternano come voce solista e poi armonizzano, la sezione ritmica è grintosa, le chitarre si fanno sentire, le tastiere hanno un suono “umano” e sono giusto le melodie ad avvicinarli a tratti al classico Nashville Sound commerciale di oggi, perché quando le soliste guidano le danze la loro vena sudista viene a galla https://www.youtube.com/watch?v=JRnSjShh89g . Anche Headlights è un brano quasi rock, con riff di chitarra a destra e a manca e continue aperture delle due soliste di Kurt Allison e Adam Shoenfeld, che sono il tratto distintivo di tutto il disco e di questo brano in particolare.

Anche quando il suono si ammorbidisce come nell’ottima ballata In A Small Town, l’intreccio di voci e chitarre acustiche e slide ad affiancare le elettriche potrebbe rimandarci a gente come la Eli Young Band, un gruppo di buon country-rock http://discoclub.myblog.it/2011/08/22/buon-country-rock-dal-texas-via-nashville-eli-young-band-lif/ . Quando appare a duettare con loro anche Chris Robertson della band southern/hard rock dei Black Stone Cherry, in un brano come Back On A Dirt Road, abbiamo la conferma che siamo lontani dalle mollezze della Nashville più bieca. I due non saranno dei fautori del roots rock o del genere Americana, ma si lasciano ascoltare, non male anche l’energica Two Old Friends e e la tirata Folks Like Us, sempre con le chitarre spianate in primo piano. Non manca una ballatona ruffiana come Pain, ma fa parte dello stile del duo, che poi si redime subito, con un boogie southern come Hillbilly Hippies che ha il cuore, e anche il resto, al posto giusto https://www.youtube.com/watch?v=QIvSQiA2VuI  e Better For It, altra ballata tipicamente country, non è malaccio, una steel qui, un tocco di organo là e il risultato non supera il tasso glicemico più di tanto. E pure la conclusiva That’s Just Living, canzone di impianto rock radiofonico americano AOR, si salva sempre grazie all’uso massiccio delle chitarre. Per gli amanti del genere: belle canzoni, belle voci, chitarre a tutto riff, poteva andarci peggio, visto quello che circola al momento nelle classifiche americane di settore.

Bruno Conti

Una Musica Che Graffia L’Anima! Malcolm Holcombe – The RCA Sessions

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Malcolm Holcombe – The RCA Sessions – Gypsy Eyes Music/Proper Records/Ird – Deluxe Edition CD+DVD

Di Malcolm Holcombe i lettori di questo blog sanno già tutto, avendone chi scrive parlato a suo tempo, per l’uscita dei precedenti lavori Down The River (12) http://discoclub.myblog.it/2012/10/05/lungo-il-fiume-del-country-blues-malcolm-holcombe-down-the-r/  e Pitiful Blues (14) http://discoclub.myblog.it/2014/08/09/le-ballate-pietose-poeta-blues-malcolm-holcombe-pitiful-blues/ , ma torno con piacere a parlarne in occasione dell’uscita di questo nuovissimo The RCA Sessioins, che celebra i 20 anni di carriera di uno dei musicisti più originali della scena folk contemporanea americana. The RCA Sessions è una raccolta di canzoni scritte tra il 1994 e 2014, tratte dai suoi precedenti dieci album e EP (salvo un brano inedito), tutte rifatte in una nuova veste sonora per questa occasione, il tutto con il supporto di una band stellare composta dal fido Jared Tyler a dobro e lap-steel (visto dal sottoscritto a Pavia nel recente concerto al Bar Trapani), Dave Roe al contrabbasso, Ken Coomer (ex Wilco) alla batteria, la brava Tammy Rogers al violino e mandolino, e “special guests” come l’armonicista Jelly Roll Johnson, Siobhan Maher-Kennedy (cantante dei River City People e in seguito corista per Willy DeVille, Steve Earle e altri), e una delle mie cantanti preferite, Maura O’Connell (richiestissima negli ultimi tempi, vedere recensione dell’ultimo lavoro di Tom Russell), il tutto registrato nei mitici RCA Studios di Nashville con la produzione di Ray Kennedy e Brian Brinkerhoff.

Le “sessions” si aprono sul riff acustico di Who Carried You, e proseguono con l’armonica dolce di Jelly Roll Johnson in una suadente Mister In Morgantown, per poi passare al violino di Tammy Rogers di una danzante I Feel Like A Train (era nell’EP Wager),  il blues dei monti Appalachi di Doncha Miss That Water,  le atmosfere rilassate e sofferte di una The Empty Jar, cambiando poi decisamente ritmo con la travolgente Butcher In Town, il punk-blues di To Drink The Rain, e la ballata commovente Early Mornin’, dove la voce di Malcolm sembra uscire dall’anima.

Dopo un sorso opportuno di aranciata (ma temo sia stata altra in passato la sua bibita preferita), si riprende con il folk acustico di I Never Heard You Knockin, per poi trovare l’unico inedito del lavoro una Mouth Harp Man dove si manifesta nuovamente la bravura di Jelly Roll Johnson, per proseguire con il rock-blues tirato di I Call The Shots, seguito dal ritmo mosso My Ol’Radio, con al controcanto la vocina di Siobhan Maher-Kennedy, e una Goin’ Home che viene valorizzata da un coretto importante, mentre Down The River viene riproposta in versione country-agreste; si termina con il violino di Tammy Rogers che accompagna una leggermente “psichedelica” e intrigante Pitiful Blues, e inifne una morbida e avvolgente ballata popolare A Far Cry From Here, cantata in duetto da Malcolm con la voce meravigliosa della cantante irlandese Maura O’ Connell. Il Dvd accluso arricchisce il lavoro con le immagini delle “sessions”, ed è un bel vedere.

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Si può provare a cercare qualsiasi aggettivo per descrivere Malcolm Holcombe e la sua musica, ma  la sua voce baritonale impastata di catrame e i suoi testi, sono solidi come le montagne da cui viene (i monti Appalachi nella Carolina Del Nord) https://www.youtube.com/watch?v=5R_OUKXjm7c , e questo The RCA Sessions  è un’ulteriore conferma della sua bravura, se ce ne fosse bisogno, serve per celebrare nel migliore dei modi vent’anni di carriera, vissuti anche pericolosamente (un periodo a lungo sopraffatto dall’alcolismo), ma portati avanti con la coerenza e la fierezza da un personaggio che deve assolutamente essere scoperto dagli amanti della buona musica, un perfetto beautiful loser. Anche se non è “nuovo”, forse siamo di fronte al suo album più bello in assoluto.

Tino Montanari

Ebbene Sì, E’ La Figlia, Anche Se Il Babbo E’ Un’Altra Cosa! Lilly Hiatt – Royal Blue

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Lilly Hiatt – Royal Blue – Normaltown Records

Cosa dobbiamo aspettarci da una figlia d’arte di cotanto padre? Non la versione femminile di John Hiatt, e sarebbe difficile e scorretto pensare che potrebbe diventarlo (ma un pensierino possiamo pur sempre farlo)! Giunta al secondo album, Lilly Hiatt si affida per questo CD alla produzione di Adam Landry, quello del recente album dei Diamond Rugs, ma anche di Deer Tick, Hollis Brown e Sallie Ford, che la allontana dal sound più roots-country-rock del precedente produttore Doug Lancio, per un suono più contemporaneo, pop e mainstream, dove forse non risaltano troppo quelle che vengono presentate da Lilly come le sue principali influenze ( babbo a parte, ovviamente qualche aria di famiglia c’è), Lucinda Williams e Dinosaur Jr (?!)., o meglio qualche grado di parentela, l’essere anime gemelle, con Lucinda si può riscontrare, magari anche con la Rosanne Cash più leggera, ma per il resto direi che siamo più sul lato contemporary pop di Nashville, tipo Bangles, Cardigans, a tratti anche Aimee Mann, tutti in trasferta nella capitale del Tennessee.

Il country c’è, anche grazie alla pedal steel spesso presente di Luke Schneider, per esempio nella deliziosa Jesus Would’ve Let Me Pick The Restaurant, che si candida come uno dei titoli più originali, ironici e femministi dell’anno, altrove la solista più lavorata e noisy di Beth Finney, già presente nel precedente lavoro Let Down, ed il muro di tastiere, anche molti synth, suonati da Adam Landry, come in Heart Attack  e nell’iniziale Far Away, evocano un suono anni ’80, tipo quello di Echo & The Bunnymen, o anche dei primi Til Tuesday di Aimee Mann https://www.youtube.com/watch?v=HWLJMlOYpAQ . Landry ha anche un po’ nascosto nel mix la voce, piacevole ma non memorabile di Lilly, e quindi lo spirito rock delle canzoni ogni tanto fatica ad emergere, ma in Off Track dove pedal steel e solista si confrontano con successo, la bilancia è più equilibrata https://www.youtube.com/watch?v=AK8Tk_LUNCw , anche se le solite tastiere sono fin troppo soffocanti, con quella patina radiofonica che si spera potrà portarla al successo, formula che viene ripetuta anche nella successiva Too Bad, mentre Get This Right è più energica e suona come una sorta di Lucinda Williams indie pop, con le chitarre più grintose e anche la sezione ritmica ci dà dentro di gusto, il babbo dovrebbe approvare https://www.youtube.com/watch?v=bnqfne5gh20 . Papà che viene evocato nella più delicata, ancorché sempre grintosa, Somebody’s Daughter, sia a livello musicale che di testi, la voce di Carey Kotsionis appoggia e sostiene quella di Lilly e la pedal steel è la protagonista assoluta della tessitura musicale, con la voce che ha quel giusto mix di vulnerabilità e confidenza, presente anche nella citata Jesus Would’ve Let Me Pick The Restaurant.

Diciamo che sentite a volumi adeguati le canzoni acquistano grinta e spessore, non tutte, Heart Attack continua a ricordarmi più i Quarterflash che Tom Petty https://www.youtube.com/watch?v=YE-ODQQci2g , mentre una ballatona come Your Choice, solo voce, chitarra acustica e tastiere potrebbe vagamente ricordare Natalie Merchant, ma vagamente https://www.youtube.com/watch?v=0dSxuFaZIzQ . Machine potrebbe passare per uno dei brani che Carlene Carter faceva negli anni ’80, quando era la moglie di Nick Lowe e nei suoi dischi suonavano i Rockpile e i Rumour, cioè un bell’esempio di country’n’roll, con chitarre spiegate e la voce finalmente pimpante https://www.youtube.com/watch?v=kyVOYWvE3JE , ma Don’t Do These Things Anymore, al di là delle chitarre molto “lavorate” ha troppo un’aria synth pop irrisolta, meglio la country ballad conclusiva Royal Blue, un valzerone melodico e delicato, degno dei brani lenti ed intensi che l’augusto genitore ci regala spesso e volentieri, e che in questo caso Lilly è in grado di rivedere da un punto di vista femminile https://www.youtube.com/watch?v=74kv-BxP0cM . La stoffa c’è, qualche canzone pure, proviamo magari un terzo produttore ed avremo la nuova Jenny Lewis o un’altra Brandi Carlile? E in ogni caso, rispetto a gran parte di quello che si ascolta in radio o si vede nelle classifiche, non dico che siamo a livelli sublimi, ma per fortuna siamo su un altro pianeta. Certo non è facile, il cognome ti apre qualche porta https://www.youtube.com/watch?v=aTxjXZtf-nw ma poi, come dice Teddy Thompson nella bella e sincera Family, che dà il titolo al disco della famiglia Thompson riunita: “My father is one of the greats to ever step on a stage/ My mother has the most beautiful voice in the world…And I am the middle child, the boy with red hair and no smile/ Not too secure, very unsure who to be”, si può applicare anche a Lilly Hiatt e a tutti i figli d’arte sparsi per il mondo.

Bruno Conti    

Heartland Rock, Ma In Quel Di Nashville ! Drew Holcomb And The Neighbors – Medicine

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Drew Holcomb And The Neighbors – Medicine – Magnolia Music

Dignitosi dischi di roots-music ne stanno uscendo tanti, majors e indipendenti sembrano fare a gara nel proporre nomi e personaggi nuovi sull’onda di quello che è stato giustamente definito una sorta di “new roots revival”. Pertanto questa musica sembra stia vivendo un momento di notevole fermento e popolarità presso il grande pubblico (e questo non può che far piacere a chi l’ha sempre seguita con molto interesse, come il sottoscritto). Bene, tutto questo preambolo per parlarvi di tale Drew Holcomb e dei suoi Neightbors che vengono da Memphis, ma dal 2006 vivono ed operano nella vicina Nashville, dove hanno inciso una serie di album (se non sbaglio questo è il nono), in una scena musicale certamente non facile, competitiva ed assai affollata, e dove spesso la musica vive di tradizione. Tralasciando i primi introvabili lavori, l’esordio con Washed In Blue (05) l’autoprodotto Live From Memphis (07), e il disco natalizio A Neighborly Christmas (07), la vera carriera inizia con Passenger Seat (08), a cui fanno seguito A Million Miles Away (09), Chasing Someday (12), Through The Night: Live In Studio (12), l’ottimo Good Light (13) https://www.youtube.com/watch?v=0LlbjlwXMGo , per finire con questo Medicine che conferma pienamente la costante crescita del gruppo. L’attuale line-up dei Neighbors, vede oltre a Drew, voce e chitarra, il suo “pard” Nathan Dugger alle chitarre e tastiere, Rich Brinsfield al basso, Ian Fitchuk alla batteria, l’esperto multi strumentista nonchè produttore, Joe Pisapia, (collaboratore in tempi recenti di K.d. Lang) e la moglie Hellie Holcomb al piano, autrice anche di un album solista, As Sure As The Sun, uscito nel 2014 https://www.youtube.com/watch?v=VuGmcCK7T_c .

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Dodici brani di classico rock americano, dodici pillole se preferite, visto il titolo: si inizia con una dolce ninna-nanna acustica American Beauty https://www.youtube.com/watch?v=IJAdBBvuUv8 , per poi alzare il volume con il folk-rock di Tightrope e Here We Go https://www.youtube.com/watch?v=qMRvvhPqlIc , il “sound” ricco e corposo di Shine Like Lightning https://www.youtube.com/watch?v=5jVnvlV5muk , e le nostalgiche atmosfere di Avalanche e Heartbreak (con il piano di Hellie in evidenza). Si prosegue con un delicato brano dedicato alla moglie (sempre presente al piano) You Will Always Be My Girl, passando poi al brano più rock del lavoro, una Sisters Brothers che sembra uscita dai solchi di un vecchio disco dei Black Keys, alla travolgente e pianistica Last Thing We Do, per poi tornare alla ballata acustica Ain’t Nobody Got It Easy (cantata alla grande da Drew) https://www.youtube.com/watch?v=YGayFK3N8hg , l’inizio fischiettante di una gioiosa I’ve Got You in duetto con Ellie, e terminare la “cura” con un’altra strepitosa ballata folk When It’s All Said And Done, che nel percorso del brano si apre in tono melodico, per poi finire in crescendo con pedal-steel e chitarre in grande evidenza, con Drew e tutta la band che si esprimono al meglio.

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Dopo dieci anni di “gavetta” Drew Holcomb e i suoi Neighbors, con questo disco Medicine, hanno guadagnato il diritto ad avere “un posto al sole” dalle parti di Nashville e dintorni, richiamando anche certi suoni californiani anni ’70 (con largo uso di pianoforte e chitarre) con un sound personale che viene valorizzato dalla bella voce del “leader”, un pugno di canzoni che si fanno ascoltare ripetutamente e sono suonate alla grande. Se amate il “Classic Rock”, questa è sicuramente la vostra “Band” !

Tino Montanari

Il Lato “Giusto” Di Nashville! Irene Kelley – Pennsylvania Coal

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Irene Kelley – Pennsylvania Coal – Patio Records

La prima volta che ho ascoltato questo CD l’immagine che mi si è presentata in testa, con tanto di nuvoletta, a mo’ di fumetto e con la didascalia sotto, è stata quella di un composto Emmylou Harris/Nancy Griffith. Quelle più country/bluegrass degli anni ’70-’80: voce angelica e calda, grande capacità di generare emozioni con il suo modo di cantare partecipe, raffinato ma semplice al tempo stesso, come le grandi cantanti del passato e del presente. In più anche una notevole bravura come autrice. Tutto questo è Irene Kelley, cantante residente in quel di Nashville, ma originaria della Pennsylvania, da qui il titolo, Pennsylvania Coal, dedicato al nonno, nativo della Polonia, emigrato negli Stati Uniti, dove lavorò nelle miniere di carbone ed effigiato nella foto d’epoca sul retro copertina dell’album stesso, mentre è sull’orlo del “buco” di ingresso della miniera. La Kelley, in un certo senso, racconta la storia della sua famiglia, in modo figurato e in alcune delle canzoni contenute nel CD, con l’aiuto di alcuni songwriters noti e meno noti, Peter Cooper, Thomm Jutz, Mark Irwin, John Weisberger, David Olney, John Hadley, Billy Yates e le figlie Justyna e Sara Jean.

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Oltre ad una pattuglia di musicisti, tra i quali mi piace ricordare il produttore (insieme a Irene) e bassista Mark Fain, l’ottimo Bryan Sutton a chitarre e banjo, Stuart Duncan al violino, Lynn Williams alla batteria, usata con discrezione ma che fornisce un giusto supporto ritmico al suono molto tradizionale del disco. Come vocalist ospiti appaiono, sempre tra i tanti, perché le armonie vocali sono i tra gli elementi vincenti delle canzoni, Claire Lynch, Trisha Yearwood (nella bellissima Better With Time https://www.youtube.com/watch?v=XHfWRIT7gOc , ma tutti i brani sono di elevata qualità), Carl Jackson e Rhonda Vincent. La Kelley non è una novellina, ha fatto tutta la trafila tipica dei musicisti country: autrice negli anni ’80, tra le prime canzoni una Pennsylvania Is My Home che finisce in un documentario della PBS e le procura un contratto con la MCA, che le pubblica due singoli e le fa registrare un album, mai distribuito, poi lunghi anni, sempre in quel di Nashville, come autrice, e i suoi brani vengono registrati da Loretta Lynn, Trisha Yearwood, Ricky Skaggs, Carl Jackson, Sharon White, Pat Green, Alan Jackson e da moltissimi altri.

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Poi ad inizio anni 2000 un paio di album, molto belli, pubblicati a livello indipendente https://www.youtube.com/watch?v=gu7JMYZ8bP4  e ora, dopo una pausa di quasi dieci anni, questo nuovo album che rivaleggia, nel genere, con le cose migliori delle ricordate Emmylou e Nancy Griffith, di Dolly Parton, Alison Krauss, Trisha Yearwood e Rhonda Vincent, che ci cantano, e aggiungerei anche Kathy Mattea, così le migliori le abbiamo citate tutte, un piccolo gioiellino nell’ambito bluegrass/country, vogliamo aggiungerci Americana, Folk e mountain music? Facciamolo, non si sbaglia di certo! Il brano d’apertura, You Don’t Run Across My Mind, è un meraviglioso bluegrass in forma di canzone, brioso e cantato divinamente, con Darren Vincent al controcanto e il guizzante violino di Stuart Duncan a duettare con le chitarre e il banjo di Sutton, oltre al mandolino di Adam Steffey, altro musicista imprescindibile nella realizzazione sonora del disco https://www.youtube.com/watch?v=hjbKonHRek4 . Ancora il violino in primo piano nella malinconica Feels Like Home https://www.youtube.com/watch?v=i1K_pvP5zXE , sempre con queste stupende armonie vocali che galleggiano sul tappeto sonoro del brano, questa volta affidate a Dale Ann Bradley e Steve Gulley, mentre la Kelley canta veramente come un “angelo” del country, a livello delle migliori Emmylou, Dolly e Nancy.

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Pennsylvania Coal, che racconta la storia del nonno minatore, è un brano intenso, dall’incedere maestoso, tra folk e country, sempre con il violino, da sentire per credere, di un ispirato Stuart Duncan, che aggiunge pathos e sostanza alla notevole interpretazione di gruppo https://www.youtube.com/watch?v=ojU5Y6zpYg0 . Breakin’ Even è una dolce e delicata ballata, con improvvise accelerazioni, ancora con la voce magnifica della Kelley, in questo album veramente al top delle sue capacità, grazie anche al  lavoro di Mark Fain, vincitore di sette Grammy con i Kentucky Thunder di Ricky Skaggs. Deliziosa anche My Flower, scritta con la figlia Justyna e con le armonie della Lynch, nonché Rattlesnake Rattler, dal sapore bluegrass ancora più accentuato e con la seconda voce della Vincent che sembra la sua gemella https://www.youtube.com/watch?v=YsRFt28sqrE .Sister’s Heart è più raccolta e tradizionale, tra folk, spiritual e mountain music, ma sempre con il drive della batteria a sostenerla.

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Things We Never Did, scritta con Hadley e Olney e percorsa dalla fisarmonica di Jeff Taylor, ha un taglio più cantautorale, come pure Angels Around Her, dedicata alla madre scomparsa circa dieci anni fa, commovente e delicata, entrambe vicine allo spirito della Griffith più tradizionale https://www.youtube.com/watch?v=bjdIpRPUA6g . La già ricordata Better With Time, in duetto con la Yearwood, è una ballata cantabile dalle melodie sopraffine e Garden Of Dreams, l’altro brano scritto con l’accoppiata Olney/Hadley è una ulteriore canzone che conferma l’elevata qualità dell’album, tra i migliori dell’anno in questo ambito musicale. La bonus track, You Are Mine, scritta e cantata con le figlie, è la classica ciliegina sulla torta, per un dolce veramente ben riuscito https://www.youtube.com/watch?v=Dz2QCX0MJpw . Il CD è già uscito da qualche mese, non è di facile reperibilità, ma se amate il genere vale assolutamente la ricerca!

Bruno Conti  

A Dispetto Del Cappellino, Per Suonare Suona, Caspita Se Suona! Shane Dwight – This House

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Shane Dwight – This House – Eclecto Groove Records

Un californiano che si trasferisce a Nashville per produrre la propria musica non è certo una novità assoluta, anzi e anche chi ha lo stesso gusto per il vestiario di Tom Morello (ma non lo stesso stile musicale) e porta pure un berretto simile, in effetti nelle foto cappelli ne sfoggia diversi, non oso pensare cosa ci sia sotto, sia in senso figurato che letterale. Ma Shane Dwight, a prescindere dal vestiario, per suonare suona, eccome se suona: con otto album in studio e due DVD nel suo carniere https://www.youtube.com/watch?v=MOSEv43mslU , questo signore non è quello che si può definire un principiante, ma da un paio di CD a questa parte, l’ottimo A Hundred White Lies https://www.youtube.com/watch?v=fYVMuS6iITc  e questo This House, ha unito alla propria reputazione di guitar slinger https://www.youtube.com/watch?v=HhBqFlPc_Ko  anche quella di buon autore e cantante. Per aiutarlo a completare questa parziale trasformazione si è scelto alcuni dei migliori turnisti di lusso in circolazione in quel di Nashville, Kevin McKendree alle tastiere, che oltre ad essere il band leader di Delbert McClinton è diventato uno dei migliori produttori in circolazione (per esempio negli ultimi dischi di Tinsley Ellis e Curtis Salgado, di cui ricordo di essermi occupato), con lui ci sono il bassista Steve Mackey e il batterista Lynn Williams entrambi da quella band e, in alternativa, quando serve, troviamo Kenneth Blevins e Doug Lancio, batteria e seconda chitarra, dalla band di John Hiatt.

Shane Dwight with Bekka Bramlett 128

Delle armonie vocali si occupa una signora, Bekka Bramlett (la figlia di Delaney & Bonnie), che non ha dato forse alla musica quello che il suo patrimonio genetico faceva presagire, ma ha comunque sempre una gran voce https://www.youtube.com/watch?v=tVRA5rPKBPM . E lo dimostra subito nel brano d’apertura, This House, una canzone di impronta più acustica rispetto al resto dell’album, un contrabbasso e la voce di Bekka a contrappuntare quella di Dwight, mentre le tastiere di McKendree si dividono gli spazi con la chitarra acustica di Shane, per una partenza in sordina ma raffinata https://www.youtube.com/watch?v=ZVfKZ-H9Z0Y . Ma We Can Do This, il secondo brano, aggiusta subito il tiro, un funky rock che dimostra che la Bramlett più che nei Fleetwood Mac avrebbe dovuto cantare nei Little Feat, infatti siamo da quelle parti musicalmente, basso e batteria indaffaratissimi, la chitarra elettrica che comincia ad essere strapazzata come richiede il copione, tastiere e seconda chitarra sugli scudi e vai così. Fool è una bella ballata, ma di quelle proprio belle, profumo del Tennesse, con soul e gospel ancora a cura dei cori della Bramlett, l’organo di McKendree che ci delizia i padiglioni auricolari e Dwight che canta con passione, prima di rilasciare un assolo conciso ma lirico, con la presenza di Blevins alla batteria che potrebbe ricordare certe canzoni di Hiatt, veramente piacevole.

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Ma l’amore per il blues non è stato dimenticato in questo album, Shane scalda l’atmosfera con Sing For Me (Search For Sierra,) un bel mid-tempo cadenzato attraversato da una chitarra carica di eco e da belle atmosfere sonore sospese. It’s Gonna Be Beautiful porta la firma pure di Bekka Bramlett (tutte le altre, meno una, sono di Shane Dwight) che la canta veramente bene, una canzone di gran classe, con qualcosa del repertorio dei genitori che affiora, ma anche elementi country e pop, un pizzico della migliore Tina Turner e una bella melodia che si metabolizza con facilità, tra le cose migliori della carriera della Bramlett, Dwight si limita a fare l’accompagnatore, con classe. Ma poi parte lo shuffle, una Devil’s Noose dove la voce si incattivisce e la chitarra prende il centro del palcoscenico, e il ragazzo bisogna dire che tiene fede alla sua reputazione di “manico”, ribadita poi in Stepping Stone, un altro bluesaccio dove lui e Doug Lancio si sfogano scambiandosi fendenti chitarristici di quelli poderosi, e qui, cari miei, siamo dalle parti del profondo Texas. Never Before non molla la presa, trovato il groove la band ci sciorina un rock-blues di quelli che ti fanno saltare sulla sedia, chitarra in overdrive e voce pimpante, senza requie e I’m A Bad Man conclude la tetralogia blues con una puntata in quel di Chicago, voce e chitarra sempre sul pezzo e grande grinta e maestria di Dwight che sulla sua solista cesella le dodici battute https://www.youtube.com/watch?v=ax9GCk7i2E8 .

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Losing Ground è una lirica ballad che mescola il meglio del country di Nashville con arie pop quasi beatlesiane, ai limiti del plagio, ma sorprendenti e piacevoli, Bramlett e McKendree sempre perfetti gregari di lusso e la chitarra quasi knopfleriana non perde un colpo. Bad For You è l’altro pezzo firmato con Bekka Bramlett, vogliamo chiamarlo heavy soul, un ritmo funky, strumentazione e voci sature e un assolo luciferino di Dwight e infine, per concludere in bellezza, un’altra deliziosa canzone di stampo country-gospel, si chiama Crazy Today ma potrebbe essere Will The Circle Be Unbroken in chiave gospel. Shane Dwight: altro nome da tenere d’occhio ed appuntarsi, etichetta del gruppo Delta Groove, marchio di garanzia!

Bruno Conti

Sono Di Nashville, Ma Non Fanno Country! – Apache Relay

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Apache Relay – Apache Relay – Nomadic Records

Nella geografia musicale statunitense, Nashville è stata sempre, giustamente, etichettata come la “mecca” della country-music, ma questo gruppo, gli Apache Relay (di cui mi sono già occupato per il disco precedente American Nomad http://discoclub.myblog.it/2011/05/25/staffette-indiane-apache-relay-american-nomad/ ), fa tutta un’altra musica, un misto di folk-rock con influenze molto ampie che richiamano le nuove band “generazionali”, come gli Avett Brothers, Mumford & Sons, e i capostipiti Arcade Fire. Sono stari scoperti da Doug Williams (l’uomo che portò alla ribalta i fratelli Avett), e hanno in Michael Ford Jr. il riconosciuto leader e voce solista, con gli altri Apache a fare da supporto, ovvero Mike Harris, Brett Moore, Kellen Wenrich e la new entry Ben Ford, per un gruppo particolare e decisamente interessante. Questo nuovo lavoro prodotto da Kevin Augunas (Valerie June, Edward Sharp & Magnetic Zeros), anche autore, con Johnathan Rice, dei brani di questo album, è stato registrato in Canada nei prestigiosi Fairfax Recordings Studios, utilizzando un tessuto musicale “indie-rock”, mescolato con sonorità anni ’60.

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L’album inizia brillantemente con il singolo Katie Queen Of Tennessee (che ha il potenziale per essere un successo radiofonico) https://www.youtube.com/watch?v=qhlnPq8hLJw , a cui fanno seguito le divertite percussioni di Ruby e la melodia avvolgente di Terrible Feeling, mentre Don’t Leave Me Now sembra uscita da uno dei primi dischi degli Arcade Fire https://www.youtube.com/watch?v=7FeuRTI7hM8 . Il CD continua su questi livelli attraverso belle costruzioni armoniche, come in Growing Pains,  un country-bluegrass dalla melodia semplice, passando per i riff chitarristici di Good As Gold e Forest For The Trees, la ballata folk Dose https://www.youtube.com/watch?v=SykTGWaNmq8 , mentre White Light è un brano ritmato e ben cantato. Chiudono un disco interessante, Valley Of The Fevers dall’incedere tambureggiante, e Happiest Day Of Your Life intimista e acustica, solo la chitarra e la voce del leader Michael Ford Jr.

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Le belle canzoni non mancano di certo in questo disco (come nel precedente), confermando a tre anni da American Nomad le qualità del gruppo, certificate da una serie di canzoni composite, dove l’armonia e la melodia  sono sempre al centro del contesto musicale ed in cui gli strumenti a corda sono essenziali (come il violino di Sharon Louise Jackson e Kathleen Robertson). Un altro passo in avanti per una giovane band che mi fa dire con certezza che non si tratta più di una rivelazione.

Tino Montanari

“Di Cover In Cover”. Charlie Daniels Band – Off The Grid Doin’ It Dylan

charlie daniels off the grid doin' it dylan

Charlie Daniels Band – Off The Grid Doin’ It Dylan – Blue Hat Records

Importante figura del Southern Rock e della Country Music, Charlie Daniels è un barbuto e corpulento musicista proveniente dal profondo sud statunitense (nato a Wilmington in North Carolina nel ’36), attivo nel mondo musicale già negli anni ’50, quando suonava il bluegrass nel gruppo dei Misty Mountain  Boys, per poi formare nel ’56 i Rockets con i quali incideva Jaguar. All’inizio degli anni ’60 si stabilisce a Nashville, e si fa un certo nome come sessionman suonando la chitarra e il suo strumento preferito, il violino, per artisti del calibro di Pete Seeger, Leonard Cohen e Bob Dylan (negli album Nashville Skyline, New Morning, Self Portrait, anche come bassista), e dopo cinquant’anni di carriera, una infinità di album, partecipazioni a numerosi festival ed eventi concertistici (ricordo solamente la fortunata serie Volunteer Jamhttp://discoclub.myblog.it/2012/04/17/vecchi-sudisti-charlie-daniels-band-live-at-rockpalast/ , il cerchio si chiude con questo lavoro, Off The Grid Doin’ It Dylan, in cui Charlie Daniels  rende omaggio ad uno degli idoli della sua formazione musicale https://www.youtube.com/watch?v=sxj0uW3nM2E .

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L’atmosfera di questo disco non dovrebbe essere una sorpresa per chi ha seguito la carriera della Charlie Daniels Band https://www.youtube.com/watch?v=QPgXJUU4R-U  che, nell’attuale line-up del gruppo, vede, oltre al quasi ottantenne leader alla voce, chitarra, violino e mandolino, Pat McDonald alla batteria e percussioni, Charlie Hayward al basso, Bruce Brown al banjo, dobro e armonica, Chris Wormer alle chitarre acustiche e elettriche, Casey Wood alle tastiere e Shannon Wickline al piano, per rileggere dieci brani del grande Bob, con un suono, come di consueto, tra country e southern rock.

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Fatta la doverosa premessa che il violino country è onnipresente in questo disco, l’album inizia con una Tangled Up In Blue proposta come un bluegrass accelerato https://www.youtube.com/watch?v=_3HDuHqf73k , stesse dinamiche per il classico Times They Are A Changin’, con mandolino e dobro a dettare un arrangiamento agreste, mentre con la seguente I’ll Be Your Baby Tonight  si viaggia verso un country giocoso, dove dobro e pianoforte brillano nello sviluppo del brano. Gotta Serve Somebody, un po’ a sorpresa, nelle loro mani diventa un bellissimo blues-funky, con una importante coda finale del piano di Shannon Wickline, mentre un altro “classico”, I Shall Be Released (rievoca i bei tempi di fine anni ’60), è valorizzato da una bella armonica “soul”, per poi passare ad una quasi dimenticata Country Pie (era in Nashville Skyline), dove sembra di essere in un “border saloon” del vecchio West. I ricordi lontani ripartono con una delle canzoni più riconoscibili nella storia della musica americana, Mr.Tambourine Man, rifatta in una piacevole versione “roots”, seguita da una robusta Hard Rain’s A Gonna Fall con la sezione ritmica e l’armonica di Bruce Brown in evidenza, mentre Just Like A Woman è resa più dolce dagli interventi del mandolino, per poi chiudere con il botto, una festosa Quinn The Eskimo (The Mighty Quinn) (ne ricordo una bella versione dei Manfred Mann), dove impazza il violino di Charlie.

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Molti altri artisti quest’anno sono usciti (o usciranno) con dischi che rendono omaggio a Bob Dylan (senza nessuna ricorrenza specifica), ma se siete dei fans della Charlie Daniels Band e del genere, questo Off The Grid Doin’ It Dylan è molto piacevole da ascoltare (uno dei dischi migliori di Daniels da molti anni a questa parte), in quanto troviamo un po’ di tutto nei dieci brani che compongono la scaletta, ma soprattutto non si può non ammirare una “leggenda vivente” del country-southern rock, un “nonnetto” (senza offesa), che alla tenera età di 77 anni, riesce ancora a confezionare un tributo simile. Chapeau!

Tino Montanari

Cavalli Di Razza In Versione “Unplugged” – Band Of Horses – Acoustic At The Ryman

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Band Of Horses – Acoustic At The Ryman – Brown Records/Spin-Go

Ci sono gruppi che esigono un ascolto accurato prima di rivelarsi i “cavalli di razza” che nel corso della carriera sono poi diventati. I Band Of Horses rientrano in questa categoria: dopo lo splendido debutto con Everything All The Time (06) su Sub Pop Records (che conteneva The Funeral, una canzone che ha raccolto parecchi consensi nel circuito alternativo), a cui fecero seguito altri lavori meno ispirati ma sempre di buon livello come Cease To Begin (07), Infinite Arms (10 e Mirage Rock (12), è con questo live set acustico che (per chi scrive), fanno il salto di qualità http://www.youtube.com/watch?v=RxWSEZfplow .

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Il background artistico dei Band Of Horses, trio proveniente da Seattle, formato dal leader e cantante Ben Bridwell, con i suoi “stallieri” Rob Hampton e Creighton Barrett, dopo l’indie-rock delle prime uscite (il debutto e Cease To Begin), aveva in seguito intrapreso la strada di un pop-rock venato di country (Infinite Arms), per poi sterzare verso il folk-rock (Mirage Rock), rincorrendo negli anni un sound e una scrittura tipica della grande tradizione rock americana.

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Acoustic At The Ryman è il primo disco dal vivo del gruppo, registrato in due serate presso lo storico e mitico teatro di Nashville, con una strumentazione interamente in assetto acustico, con violoncello, chitarre, pianoforte e percussioni delicate. I dieci pezzi presentati sono tratti in modo omogeneo da tutti i dischi della band, alternando brani di grande impatto strumentale, ad altri momenti cantati, dalle ricche armonie vocali (nei brani storici).

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E allora idealmente saliamo sul palco con Benjamin Bridwell voce e chitarra, Ryan Monroe piano e chitarra, Tyler Ramsey alle chitarre, Bill Reynolds al basso e Creighton Barrett alle percussioni per introdurre l’iniziale Marry Song e Detlef  Schrempf (dedicato ad un grande giocatore tedesco del  basket professionistico USA) http://www.youtube.com/watch?v=m5dt01gDJ5Y , due dei tanti brani “rubacuori” del gruppo, mentre Slow Cruel Hands Of Time viene riproposta in una versione minimalista. Un tenue accordo di chitarra introduce la corale Everything’s Gonna Be Undone, a cui fanno seguito due cavalli di battaglia come No One’s Gonna Love You e Factory, che sembrano state scritte appositamente per queste versioni acustiche. Dopo una breve pausa (per accordare gli strumenti) si riparte con una Older in stile Crosby, Stills, Nash & Young, mentre la seguente Wicked Gil viene rivoltata come un calzino (sembra un’altra canzone), con largo uso del pianoforte. Accordi di piano che vengono riproposti nel singolo d’esordio The Funeral (estratto da Everything All The Time), dall’incantevole melodia http://www.youtube.com/watch?v=UI14P8WQROw , forse il brano più intimo e toccante della serata (una sorta di Stairway To Heaven della band) e chiudere con una Neighbor cantata coralmente quasi “a cappella” http://www.youtube.com/watch?v=QT36twWX4hA . Applausi.

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Acoustic At The Ryman soddisferà in pieno le aspettative dei tanti “fans” (come sempre in queste operazioni i brani diventano più intimi e raccolti ed emergono aspetti artistici meno evidenti), in questo caso dieci ballate mai troppo veloci, cantate con la bellissima voce di Ben e le pregevoli armonie delle seconde voci, che ci tengono compagnia per poco più di quaranta minuti, e nel caso abbiate un buon impianto stereofonico, sembra davvero di stare a pochi metri dai musicisti.

In una decina d’anni di attività i Band Of Horses, si sono guadagnati la giusta fama di essere una delle più solide “indie rock band” del panorama americano, e questa performance live (nel santuario del country a Nashville) li consacra definitivamente come un gruppo di musicisti di talento, che scesi dal palco, lasciano nel pubblico presente in sala, le emozioni autentiche che si cercano nella buona musica.

Tino Montanari