Un Lavoro “Mirabile” Tra Musica E Letteratura! Kathryn Williams – Hypoxia

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Kathryn Williams – Hypoxia – One Little Indian Records

Con undici album all’attivo e una più che onorevole carriera nei “bassifondi” del folk inglese, Kathryn Williams torna a due anni dal precedente Crow Electric (13) con questo nuovo lavoro Hypoxia (Ipossia), ispirato a The Bell Jar (La Campana Di Vetro) unico romanzo della poetessa di Boston Sylvia Plath. Come sempre sono molteplici gli spunti di interesse in questo album della Williams, un lavoro nato su commissione (per il cinquantennale del libro), che l’ha portata in breve tempo a comporre otto brani, più uno scritto a quattro mani con il bravissimo Ed Harcourt (ormai suo collaboratore e produttore di fiducia), riuscendo a infondere nella propria musica le pagine tormentate della poetessa americana. Ad accompagnare Kathryn in questa intrigante avventura, oltre ad Ed che suona di tutto, piano, tastiere, e tutti gli strumenti a corda, David Page alle chitarre, Jon Thorne al basso, e il suo amico cantautore Neill MacColl alle armonie vocali, con il risultato di un album ricco di trame classicamente folk, rese al meglio dalla soavità della voce della Williams.

Queste note letterario-sonore iniziano con il pop delicato di Electric https://www.youtube.com/watch?v=kQXQnTvmKVs , e proseguono con le atmosfere “avant” di una intrigante Mirrors, il controverso psych-folk di Battleships, per poi lasciare spazio ad una pianistica e ispirata Cuckoo (scritta con Harcourt) e alla ninna-nanna folk di Beating Heart https://www.youtube.com/watch?v=L0C6Yg3686M . Le pagine del romanzo proseguono con la “geniale” Tango With Marco, un tango moderno che si sviluppa nuovamente su un tessuto “avant-folk”, il suono del pianoforte che fa da sfondo alle splendide armonie vocali di Kathryn in When Nothing Meant Less https://www.youtube.com/watch?v=W1D1RNfIjJw , il ritmo “circense” di una ariosa The Mind Is Its Own Place, andando poi a chiudere questa rivisitazione del libro con i cesellati arpeggi folk di Part Of Us, dove come sempre eccelle la voce celestiale della Williams.

In una carriera che si è avviata discograficamente  con Dog Leap Stairs (99) ed è poi proseguita più che dignitosamente con Little Black Numbers (00) (nominato all’epoca al Mercury Prize), Old Love Light (02) Relations (04), Over Fly Lover (05) Leave To Remain (06) Two (08) in collaborazione con Neill MacColl, The Quickening (10) http://discoclub.myblog.it/2010/03/07/c-e-tanta-buona-musica-la-fuori-basta-cercarla-betty-soo-kat/  e The Pond (12), tutti passati dalle nostre parti inosservati, Kathryn Williams, a torto è stata sempre considerata un nome minore “da seconda fascia”, ma bisogna invece riconoscere che la folksinger di Liverpool conosce alla perfezione i tempi della migliore canzone tradizionale, e in questo lavoro Hypoxia (che non è certamente un disco di facile ascolto) dimostra ancora una volta di essere un’artista di talento (anche se a riconoscerglielo siamo sempre in pochi), riuscendo, in un connubio tra musica e letteratura, a dare vita e corpo ad un progetto “mirabile”, da ascoltare e assimilare con estrema attenzione, in quanto resta comunque un’ottima occasione per conoscere una cantautrice brava e anche importante del nuovo panorama folk britannico.

Tino Montanari

C’è Tanta Buona Musica Là Fuori! Basta Cercarla: Betty Soo & Kathryn Williams

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Basta cercarla si è detto, la buona musica; questa volta il viaggio parte da Austin, Texas dove risiede Bettysoo (tutto attaccato in effetti), il suo album, il terzo della produzione si chiama Heat Skin, Water Skin e, risulta abbastanza evidente dalla foto, è una ragazza di chiari ascendenti asiatici, seconda generazione coreana per la precisione. Ma la sua musica è chiaramente quel particolare mix di stili che da un po’ di anni si è deciso di chiamare Americana, tra roots music, rock, country e un pizzico di soul (più la predisposizione d’animo che lo stile musicale). Il tutto è abilmente prodotto da Gurf Morlix, che dopo tanti anni passati con Lucinda Williams ha lavorato anche con Mary Gauthier, Slaid Cleaves, Robert Earl Keen e Ray Willie Hubbard, tanto per citare alcune sue credenziali e clienti soddisfatti.

Morlix riesce meglio nel lavoro per altri che nei suoi dischi e questo album ne è l’ennesima riprova: dal quasi blues-rock con venature psichedeliche alla Williams (Lucinda) dell’iniziale Never Knew No Love con chitarre, organo, cori call and response e uno strano effetto creato con una voce che sussurra di gola (non saprei descriverlo, se riuscite sentitevelo) si passa alla stupenda dolce ballata Just Another Lover, una folk song cantata con voce angelica da Bettysoo con il violino di Gene Elders che disegna ghirigori sonori nel tessuto della canzone. Whisper  my name ricorda i brani più evocativi della sua conterranea Nanci Griffith, dolce e malinconica quel che basta, con la seconda voce di Morlix che aggiunge spessore al fascino di questo brano. Who knows, sin dal titolo e con quella chitarra pungente che si rincorre continuamente con un organo, non sfigurerebbe nel canone sonoro dei migliori brani della Lucinda Williams citata prima. Altro brani bellissimo, Forever vive su atmosfere più sospese e rarefatte ma sempre affascinanti. Senza farvi la lista di tutti i brani non c’è un brano scarso tra gli undici che compongono questo album. Io ve lo consiglio, il problema è trovarlo, Waterloo records, Austin, Texas.

L’altra signora viene dal vecchio continente, anzi da Liverpool, England: la sua discografia conta già sette titoli più uno in comproprietà con Neil MacColl, dal titolo quantomai chiarificatore di Two. Lo stile della nostra amica, Kathryn Williams è chiaramente di matrice folk, quello classico britannico ma anche vicino a quel revival neo-folk che sta percorrendo l’Inghilterra e del quale, in un certo senso, la Williams è stata una precorritrice. Strumentazione scarna, ma mai spartana, con xilophoni, vibrafoni, marimbe e percussioni che si incrociano con le classiche chitarre acustiche, harmonium, fisarmoniche e ukulele della tradizione. Non mancano i richiami a Nick Drake e Incredible String Band, ma anche ai primi Pentangle e, in alcuni brani, ad un certo gusto per ballate notturne, quasi jazzy (senza il quasi) che ricordano June Tabor senza averne la voce incredibile, più vicina a Norah Jones o una Kate Bush sussurata, ma anche le Unthanks che guidano questo revival folk che comprende, per certi versi, anche Fanfarlo e Mumford and Sons (che, detto per inciso, sono primi in classifica in Australia da 60 anni, ho esagerato? Diciamo da parecchio).

Il disco vive su una sua quasi fiabesca dolcezza che si apre sul battito della pioggia che introduce l’iniziale 50 White Lines una incalzante road song cadenzata da una voce maschile che conta le linee bianche della strada, indirizza il sound dell’album che ricorda anche certe atmosfere della prima Suzanne Vega, inizio deciso. Just a feeling con la sua chitarra fingerpicking, voce sussurrata e arrangiamenti inconsueti tanto ricorda il mai troppo lodato Nick Drake, se devi trarre ispirazione da qualcuno meglio il vecchio Nick che Robbie Williams, se proprio devi scegliere. Winter is sharp è il brano più tradizionalmente folk di questa collezione, l’unico forse completamente inserito nella tradizione, atmosfere create da un sovrapporsi di voci non molto lontano da quello delle Unthanks, sostenuto da ukulele, percussioni, harmonium e vibrafono, breve ma intenso. Wanting e Waiting ricorda l’Inghilterra romantica e demodè del Ray Davies di Waterloo Sunset, un quadretto delizioso. Cream of the crop e There Are Keys jazzate e notturne ricordano certi brani della grande cantante irlandese Mary Coughlan (un’altra cantante straordinaria che urge investigare se già non la conoscete), con contrabbassi pizzicati e vibrafoni in evidenza e spezzano il predominio folk nelle sonorità del CD. Distribuito dalla One Little Indian potrebbe anche giungere nelle nostre lande. La Williams nel 2000 era anche stata nominata per il Mercury Prize, il premio di eccellenza della stampa inglese, quindi vedete voi.

Se manca alla vostra collezione, l’ha fatta anche lei.

La ricerca continua.

Bruno Conti