Per Chi Ama Le Voci Femminili Di Qualità. Garrison Starr – Girl I Used To Be

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Garrison Starr – Girl I Used To Be – Soundly Music

Quando Garrison Starr arriva sulla scena musicale americana a metà anni ‘90 è poco più che una ragazza: nativa di Memphis, ma cresciuta a Hernando, Mississippi, pubblica il suo primo EP all’età di 20 anni, ma già in precedenza era avvenuto l’importante incontro con Neilson Hubbard, quello che sarebbe stato sin da allora il suo fido luogotenente, nonché produttore di gran parte dei suoi album e con il quale rinnova la collaborazione nel nuovo Girl I Used To Be, disco che segna il suo ritorno dopo una pausa piuttosto lunga (il precedente Amateur, l’ultimo ufficiale, uscito abbastanza in sordina nel 2012) per motivi personali ed esistenziali, credenze religiose e orientamenti sessuali che le hanno creato problemi ed incertezze. Il successo di pubblico e critica del primo album per una major Eighteen Over Me, aveva portato a paragoni con Melissa Etheridge, Mary Chapin Carpenter, Lucinda Williams, Shawn Colvin, anche Steve Earle, con il quale è stata spesso in tour, per quel suo saper fondere elementi country e folk mainstream, con una anima rock e Americana, una bella voce limpida e squillante, una penna brillante come autrice, anche se fin dagli inizi i dubbi la laceravano, ma si dice che aiutino la creatività.

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Comunque i passaggi da Nashville alla California, con continui cambi di case discografiche, e una lunga pausa di quattro anni tra il secondo e il terzo album, non le avevano giovato, anche se il suo ultimo album importante The Girl That Killed September del 2007, era forse stato, anche per la sua autrice, il migliore della carriera fino a quel punto, ma tutti i primi vi consiglio di cercarli. Poi anche lei, come decine di altri artisti, è dovuta diventare “indipendente” ed è sparita dai radar, tra progetti non sempre riusciti (mi viene in mente collaborare con i Backstreet Boys o con l’amica Margaret Cho, in un album della categoria Comedy). In questo ping pong tra Nashville e California, attualmente risiede a Los Angeles. Tra l’altro il disco è stato completato tra il 2017-2018 e doveva essere pubblicato nel 2020, ma causa Covid è stato rinviato al 2021: prodotto da Hubbard, che suona anche batteria e tastiere, vede la presenza di eccellenti musicisti come Will Kimbrough alle chitarre, Annie Clements al basso, Josh Day dei Sugarland alla batteria e la cantautrice Maia Sharp alle tastiere, e consta di nove brani tutti scritti dalla stessa Garrison che collabora con diversi autori, a parte due firmati solo da lei. Apre The Devil In Me, un brano che parte lentamente, poi entrano tutti gli strumenti e la canzone ha un bel crescendo, anche la voce si fa più assertiva, aiutata da un testo interessante, che parla dei rifiuti avuti per essere gay, e da una incantevole melodia avvolgente https://www.youtube.com/watch?v=70LtJ79IUmMJust A Little Rain è un’altra bella canzone, elettroacustica e solare, piacevoli armonie vocali e un po’ di leggero jingle jangle alla Tom Petty https://www.youtube.com/watch?v=D4PYFnhPzus .

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Downtown Hollywood ha un suono ispirato dalla California del titolo, quasi epico a tratti, con un bel piglio sonoro ricco ed affascinante https://www.youtube.com/watch?v=0gZ8fkGUODs , mentre la bellissima Don’t Believe In Me esplora le incertezze del passato, anche sulla sua Cristianità, il suono è più intimo e meno incalzante, ma sempre di eccellente fattura https://www.youtube.com/watch?v=F57Ga1sjFrY .Run con un bel lavoro delle chitarre è più elettrica e vibrante, ancora ben strutturata e con un solido arrangiamento di Hubbard che sovraintende con classe alle operazioni https://www.youtube.com/watch?v=migGpK6QtxE , ottima anche The Train That’s Bound For Glory, perfetto esempio di roots music tendente all’Americana sound, con la voce raddoppiata https://www.youtube.com/watch?v=Oea16DhRSmI  e deliziosa anche la malinconica e delicata ballata folk oriented che è Make Peace With It https://www.youtube.com/watch?v=9BfL1Ur2Zzk . Nobody’s Breaking Your Heart è la canzone scritta insieme a Maia Sharp, un altro ottimo esempio di Modern Country raffinato, intenso e squisitamente rifinito con quel sound tipicamente californiano https://www.youtube.com/watch?v=nDj5NhReHwI ; a chiudere Dam That’s Breaking, altra partenza lenta, solo voce e chitarra acustica, poi scaldati i motori la canzone acchiappa l’ascoltatore, grazie ancora una volta al solido lavoro di Hubbard che cura tutti i particolari con precisione e alla voce appassionata di Garrison Starr https://www.youtube.com/watch?v=hYx0pKdSv3s . Per chi ama le voci femminili di qualità.

Bruno Conti

La “Saga” Degli Orphan Brigade Sbarca In Irlanda – To The Edge Of The World

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Orphan Brigade -. To The Edge Of The World – Appaloosa/Ird

Prosegue il meritevole viaggio musicale dei bravi Orphan Brigade, iniziato con la registrazione in una casa coloniale del Kentucky, e precisamente la Octagon Hall, con l’ottimo Soundtrack To A Ghost Story, proseguita nelle strade di Osimo, tra le caverne e le catacombe della ridente cittadina marchigiana, con Heart Of The Cave https://discoclub.myblog.it/2017/10/12/dal-kentucky-ad-osimo-la-magia-continua-the-orphan-brigade-heart-of-the-cave/ , fino poi ad arrivare, in una ideale trilogia, con questo ultimo lavoro To The Edge Of The World, alle belle coste della verde contea di Antrim. Come nei dischi precedenti gli Orphan Brigade, che sono sempre Ben Glover alla chitarra acustica e voce, Neilson Hubbard alla chitarra, batteria, percussioni, tastiere, voce, nonché produttore dell’album, Joshua Britt al mandolino, chitarra acustica e voce, compongono le canzoni sul posto, avvalendosi poi anche di validi musicisti locali quali Colm McClean alla pedal steel, Conor McCreanor al basso, Barry Keer al flauto e cornamusa, Danny Mitchell al piano, Marla Gassmann al violino, Bestie Whirter all’organo, le brave coriste Lorna, Karen e Joleen McLaughlin, e come ospite John Prine, per un nucleo di brani che non sono altro che 14 brevi racconti tra musica tradizionale e nuove sonorità.

L’introduzione del disco è una breve Pipes’ suonata dalla cornamusa di Barry Kerr, seguita dalle percussioni al ritmo da Bo Diddley “style” di una grintosa Mad Man’s Window, per poi scoprire gli intriganti e stranianti ululati di una “tribale” Banshee, registrati a mezzanotte nella foresta di Glenarm, fare in seguito un salto nel cimitero della chiesa di St.Patrick per cantare una celtica Under The Chestnut Tree, mentre con la danzante Dance With Me To The Edge Of The World, eseguita sulle scogliere del castello di Kinbane, è proprio impossibile non muovere il “piedino”. Si riparte con le chitarre acustiche di una dolce Children Of Lir, per poi far salire su una barca il grande John Prine, e dirigersi verso la baia di Glenarm, per cantare in duetto con lui una splendida ballata come Captain’s Song (Sorley Boy), scivolare ancora sulle note del mandolino di Joshua Britt, nel tenue valzer Isabella, cambiare totalmente ritmo con il “country celtico” di una song irlandese come St.Patrick On Slemish Mountain, che introduce il secondo breve intermezzo musicale, una Bessie’s Hymn giocata sull’organo della McWhirter.

La parte finale del lavoro ci porta infine sulle spiagge di Cushendun, con la corale e danzante Fair Head’s Daughter, la ripresa di una breve To The Edge The World, cantata con il supporto del Children’s Choir, trasferirsi nel convento di Bonamargy nel Ballycastle per ballare sulle panche una marcia nuovamente “tribale” come Black Nun, e andare a chiudere sulle strade della foresta di Glenarm, accompagnati dalla dolce nenia di un flauto, nella spettrale e catartica Mind The Road, cantata da Ben Glover. Il gruppo americano/irlandese, con questo To The Edge Of The World continua il suo viaggio per il mondo, con un modo attualmente unico di fare musica, una sorta di concept-albums sempre alla ricerca di storie e ispirazioni, con un giusto equilibrio tra arrangiamenti tradizionali e le nuove sonorità, che è il marchio di fabbrica della band. Gli Orphan Brigade non sbagliano un colpo, e come nei lavori precedenti c’è della magia in questo disco, suonato come Dio comanda, con testi intrisi di storia e commozione che ti entrano nell’anima e questo li rende unici e affascinanti. To be continued …

*NDT: Al solito una menzione speciale per la gloriosa etichetta italiana Appaloosa che ha pubblicato il CD, con allegato un libretto arricchito dai testi in inglese e con ottime traduzioni italiane.

Tino Montanari

Canzoni Dal Salotto Di Casa. Jude Johnstone – Living Room

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Jude Johnstone – Living Room – Bojak Records

Come gli attenti lettori di questo blog sanno, Jude Johnstone non la scopriamo certo adesso, ma già in passato abbiamo avuto modo di parlare di alcuni suoi dischi, tra cui gli eccellenti Shatter e A Woman’s Work https://discoclub.myblog.it/2017/02/17/un-altro-grande-disco-per-la-randy-newman-al-femminile-jude-johnstone-a-womans-work/ , lavori di un’artista molto conosciuta e apprezzata a livello internazionale, ma purtroppo ancora poco conosciuta dalle nostre parti, e temo che rimarrà tale vista la non facile reperibilità dei suoi album, e il fatto non depone certo a nostro favore per una artista che ha iniziato la sua carriera nel lontano 2002. Questo Living Room è il suo ottavo album, sempre distribuito dalla sua etichetta indipendente Bojak Records (per l’occasione, come da titolo; registrato nel salotto di casa di Nashville della cantautrice), con solo l’apporto del pianoforte, e il contributo di alcuni eccellenti musicisti, tra i quali il violoncellista Bob Liebman, la brava violinista Olivia Korkola (lo zoccolo duro del lavoro), David Pomeroy al basso, Mike Meadows alle percussioni, con il non trascurabile apporto in qualità di “vocalist aggiunti” di colleghi come Ben Glover, Neilson Hubbard (Orphan Brigade), Brandon Jesse, il tutto sotto la produzione del fonico Michael Hanson, con il risultato finale di un set di dieci brani dolorosi e profondi.

Pura poesia sonora emana dalla dolcissima iniziale Is There Nothing solo pianoforte e voce, seguita dalla bellissima My Heart Belongs To You cantata in coppia con Neilson Hubbard, passando poi ad una delicata That’s What You Don’t Know interpretata con il socio di Hubbard negli Orphan Brigade, Ben Glover. All I Ever Do costituisce uno dei punti di forza del disco, soprattutto per il canto vibrante di Jude che emana una profonda commozione, brano subito seguioa da una raffinata One Good Reason, arricchita dal suono di un quartetto d’archi che rivaleggia con il pianoforte della Johnstone, che ci porta poi all’ascolto di un vero capolavoro con una ballata come Serenita, una sorta di delicata “romanza” per piano, voce e la tromba di Tim Hockenberry, ad accompagnare la voce calda di Brandon Jesse supportata dal canto di Jude. Ci si avvia verso la conclusione con la magia di una “poesia” declamata come I Guess It’s Gonna Be That Way, una sorta di dolcissimo valzer-celtico Season Of Time, interpretato ancora insieme al bravo Glover, per poi commuoversi sulle le note della pianistica So Easy To Forget, sussurrata ancora in coppia con Brandon e il supporto della tromba di Tim, andando a chiudere con un piccolo raffinato gioiello musicale solo piano e voce, che non poteva che chiamarsi Paradise.

Devo ammettere che quando ascolto i nuovi lavori di questa signora, mi sorprendono ogni volta per la sensibilità squisitamente femminile dei testi dei suoi brani, cosa che puntualmente accade anche in questo Living Room, dove le dieci canzoni che lo compongono non possono non ricordare nella stesura e approccio compositivo un’altra grande artista che risponde al nome di Mary Gauthier. Durante la sua lunga carriera Jude Johnstone, ha avuto il riconoscimento che le sue canzoni sono state interpretate da artisti del calibro per esmpio di Johnny Cash, ma anche di diverse cantautrici (per il discorso fatto poc’anzi), interpreti come le americane Bette Midler, Stevie Nicks, Emmylou Harris, Trisha Yearwood, Jennifer Warnes, Bonnie Raitt, e la grande vocalist irlandese Mary Black, guadagnandosi il nostro rispetto anche per questo Living Room, un disco dal fascino incredibile e senza tempo, che pur non aggiungendo nulla alla lunga storia musicale americana, evoca un tempo che (purtroppo) non esiste più, ma per tenerlo in vita potrebbe essere sufficiente un costante e meritevole “passaparola”, per far conoscere questo piccolo gioiello musicale.

*NDT: Per chiudere il cerchio vi ricordo che la Johnstone era stata scoperta ai tempi, dal suo primo mentore Clarence Clemons, il mitico sassofonista della E-Street Band.

Tino Montanari

Candidato Ai Grammy 2019 Come Miglior Album Folk, E’ D’Uopo Parlarne! Mary Gauthier – Rifles & Rosary Beads

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Mary Gauthier – Rifles & Rosary Beads – Appaloosa/Ird CD 2018

Uscito a gennaio dello scorso anno, anche questo Rifles & Rosary Beads di Mary Gauthier, è rientrato nella categoria del “lo faccio io, lo fai tu” e alla fine nessuno ha scritto la recensione. Ma visto che il CD merita assolutamente, e in più di recente è entrato nella cinquina delle nominations dei Migliori Album Folk per gli imminenti Grammy Awards, l’occasione è ideale per parlarne. Considerando anche che la Gauthier è sempre stata una delle preferite del Blog e del sottoscritto in particolare. Se vi eravate persi gli album precedenti o non conoscete la sua storia, qui trovate la recensione del suo splendido album precedente https://discoclub.myblog.it/2014/07/30/ripassi-le-vacanze-sempre-la-solita-mary-gauthier-trouble-and-love/ (non ne ha mai fatti di scarsi, sempre livelli di eccellenza nella sua produzione), e all’interno del Post anche i link per leggere di quelli precedenti. Si diceva che il disco è uscito ormai da un anno, il 26 gennaio del 2018, ed è comunque rientrato nelle liste dei migliori di fine anno, comprese le nostre: disco, che nella edizione italiana, a cura della Appaloosa, contiene anche un libretto con i testi originali e  le traduzione a fronte, nonché la lista di tutti i musicisti che hanno suonato nell’album, che, anche se rientra nella categoria Folk, come al solito, vede comunque la presenza di alcuni musicisti di grande qualità, a partire dal produttore Neilson Hubbard, che suona anche la batteria, oltre al “nostro” Michele Gazich al violino (da sempre strumento cruciale nella musica di Mary) e viola, Kris Donegan Will Kimbrough, a chitarre e mandolino, Danny Mitchell, pianoforte e fiati, Michael Rinne al basso, oltre alle armonie vocali di Odessa Settles Beth Nielsen Chapman, nonché di Kimbrough e Mitchell.

Nelle canzoni del disco, che trattano il tema del ritorno alla vita normale dopo avere combattuto guerre in giro per il mondo, la Gauthier ha scelto di condividere i testi dei suoi brani con alcuni veterani (uomini e donne, e le loro famiglie) che raccontano le loro difficoltà a ritornare alla vita civile, quella normale, della società americana, dove “Fucili e grani del rosario” convivono in un difficile equilibrio, proprio iniziando con Soldiering On (“Non Mollare”), un brano che è quasi una dichiarazione di intenti, esposta con la solita voce caratteristica di Mary, piana,dolente e malinconica, ma anche appassionata, la voce di chi non ha avuto una vita felice e serena, ma ha dovuto fronteggiare mille difficoltà nel corso della sua esistenza, e le incorpora nelle sue composizioni e nel suo modo di porgerle: musicalmente il brano è comunque ricco ed affascinante, con le pennate della chitarra acustica che vengono poi rafforzate dal suono della chitarra elettrica di Kimbrough, del violino impetuoso di Gazich, di una sezione ritmica incalzante, quasi marziale, e quindi il suono esplode con forza dalle casse dell’impianto, forte e vibrante, se questo è folk datecene ancora, brano splendido che vive di picchi e vallate sonore, con la musica che sale e scende per accompagnare la narrazione.

Appurato che i testi sono splendidi ed importanti, ma ve li potete leggere comodamente nel libretto, concentriamoci sulla musica, che non è elemento secondario in questo album, anzi: Got Your Six è un folk-blues-rock vibrante, con la voce che sale d’intensità, ben sostenuta dalle armonie vocali, chitarra slide e violino dettano sempre i temi e la sezione ritmica segue con grinta. La splendida ballata country-rock The War After War, vista dal lato delle spose, e firmata anche dalla Nielsen Chapman, ha un suono ondeggiante e delicato, scandito in un modo che potrebbe rimandare al Neil Young dei primi anni ’70. Anche l’armonica, suonata dalla Gauthier sin dall’incipit di Still On The Ride, rimanda al vecchio Neil, ma poi il brano introduce anche un mandolino, piano, l’immancabile violino, per un suono ricco e maestoso che conferma la maestria della cantante di New Orleans nel saper creare melodie sempre di grande fascino; un pianoforte ed una chitarra acustica ci introducono poi alle atmosfere più intime e delicate della immaginifica Bullet Holes In the Sky, dove il lirico violino di Gazich illumina la narrazione di Jamie Trent, un veterano della Guerra del Golfo, mentre racconta una sua giornata durante un Veterans Day in quel di Nashville.

Brothers ha un bel tiro rock, con chitarre e violino sugli scudi, siamo dalle parti di Lucinda Williams musicalmente, mentre il testo verte sulla parità tra uomini e donne anche nella carriera militare; la title-track Rifles & Rosary Beads, che parte lenta ed acustica, si sviluppa poi in un’altra malinconica ballata, con l’armonica struggente della Gauthier dal piglio quasi dylaniano che si innesta su una sorta di valzerone country, mentre la ovattata Morphine 1-2 è una folk ballad nello stile tipico della nostra, con un piano appena accennato a delineare la melodia che poi viene affidata nuovamente a Michele Gazich. It’s Her Love racconta degli incubi notturni dei veterani, temperati dall’amore di chi ti ha aspettato a casa ed ora è pronto a sostenerti con il proprio amore, sempre musicalmente sotto la forma di una intensa folk ballad, la cui struttura sonora vive su un leggero crescendo che si avvale dell’intervento discreto dei vari musicisti e di un cantato accorato della Gauthier, che si fa più assertivo ed affascinante nella devastante narrazione della sconvolgente Iraq, dove la musica serena e delicata di violino ed armonica contrasta con la durezza del testo. A chiudere il tutto la corale e sempre struggente Stronger Together, firmata oltre che da Ashley Cleveland, dalla Beth Nielsen Chapman, e dalla Gauthier, da altre sei mogli o sorelle di veterani artificieri devastati dagli effetti della guerra, un altro brano che mitiga la durezza dei contenuti con una melodia fiera e di grande intensità.

Vedremo se i giurati dei Grammy lo premieranno nella categoria Miglior Album Folk e avrà quindi la meglio sui dischi di Punch Brothers, Iron And Wine, Dom Flemons e della veterana Joan Baez, che mi pare la concorrente più agguerrita: in ogni caso, se non lo avete già, fate un pensierino su questo eccellente album di cui era d’uopo parlare in un “recupero” obbligatorio, merita la vostra attenzione.

Bruno Conti

 

Vera Musica Di Montagna…Ed Il Suono Ci Guadagna! Wild Ponies – Galax

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Wild Ponies – Galax – Gearbox CD

Terzo album per i Wild Ponies, un gruppo della Virginia che in realtà è un duo formato da Doug e Telisha Williams, che nella vita sono anche marito e moglie. Galax, il titolo dell’album, è anche il nome di una città limitrofa al luogo nel quale i due sono nati, una località collinare non distante dai monti Appalachi: ed il disco è proprio un omaggio dei due alle loro radici, ed alla musica di quelle montagne, una miscela di folk, bluegrass, country ed old-time music davvero stimolante, registrata insieme a musicisti locali ed a veri e propri maestri di Nashville come Fats Kaplin e Will Kimbrough. La maggior parte dei brani è scritto dai due Pony Selvaggi, anche se il sapore è del tutto tradizionale, merito delle melodie che hanno agganci con il passato e della strumentazione quasi esclusivamente acustica e suonata con la perizia di autentici pickers, con la batteria che interviene solo ogni tanto (ad opera di un altro nome molto conosciuto a Nashville, Neilson Hubbard).

Un CD fresco e piacevole, con i nostri che ci danno dentro con grande forza e feeling indiscutibile. L’unico traditional del disco è posto proprio in apertura: Sally Ann è un godibilissimo bluegrass che più classico non si può, un tripudio di chitarre, mandolino, violino e banjo, il tutto eseguito con grande energia e con un bel botta e risposta tra la voce di Telisha ed il coro, sembra di trovarsi di fronte ad una vecchia registrazione dei Weavers o dei New Lost City Ramblers. Tower And The Wheel è sempre dominata da una strumentazione folk-grass, ma la melodia la fa sembrare un racconto western, con gran lavoro di banjo e violino; Pretty Bird è un noto brano della grande folksinger Hazel Dickens, reso come un autentico field recording (si sente perfino il frinire dei grilli), che inizia solo con Telisha alla voce e Doug alla chitarra, tempo lento e drammatico, poi a metà canzone arriva Kaplin con il suo violino e dona il tocco che mancava. Molto bella anche la vivace To My Grave, un’altra deliziosa western song, e stavolta c’è anche la batteria; l’intensa Will They Still Know Me vede finalmente Doug alla voce solista, una voce vissuta, non bella come quella della moglie ma particolare, e poi il brano è profondo ed evocativo, tra country e folk d’antan (e spunta perfino una chitarra elettrica).

Hearts And Bones (non è quella di Paul Simon) è una ballata folk purissima e cristallina, perfetta per la voce limpida di Telisha, Jacknife, del giovane cantautore Jon Byrd, è dotata di una melodia meno d’altri tempi, più sullo stile di Kris Kristofferson, mentre Mamma Bird è puro folk, con un ritornello immediato ed il solito prezioso apporto di banjo, violino e quant’altro. Il CD termina con Goodnight Partner, la più attuale fra le canzoni proposte, un ottimo honky-tonk con tanto di steel e chitarra twang, e con Here With Me, altra ballata pura come l’acqua dei monti Appalachi, il secondo motivo cantato da Doug ed uno dei più toccanti di tutto il lavoro. Se in altri settori (per esempio quello culinario) tradizione ed innovazione possono anche andare a braccetto, con i Wild Ponies ci possiamo anche dimenticare per un attimo dell’innovazione, senza che questo vada però ad incidere sulla piacevolezza e sul divertimento.

Marco Verdi

Dal Kentucky Ad Osimo, La Magia Continua! The Orphan Brigade – Heart Of The Cave

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Orphan Brigade – Heart Of The Cave – Appaloosa Records / Ird

Come nei “sequel” di successo che si rispettino, a distanza di due anni dall’acclamato Soundtrack To A Ghost Story, tornano gli Orphan Brigade che, lasciata la casa “infestata” nel Kentucky, l’Octagon Hall di Franklin http://discoclub.myblog.it/2016/01/12/recuperi-inizio-anno-6-delle-sorprese-fine-2015-orphan-brigade-soundtrack-to-ghost-story/ , con questo nuovo lavoro Heart Of The Cave (sempre per l’italiana Appaloosa, con accluso libretto dei testi in inglese e traduzione in italiano) si sono trasferiti nella ridente e bella cittadina italiana di Osimo, registrando questo “concept.album” nelle famose caverne (ricche di storia e con un alone di magia e mistero) della località marchigiana. Essenzialmente il “trio” è composto dal talentuoso cantante irlandese Ben Glover, e dai suoi due compari americani Joshua Britt e il bravo produttore Neilson Hubbard, ma bisogna ricordare che la “brigata” riunisce sotto lo stesso tetto anche una schiera di artisti e musicisti di talento che rispondono al nome di Gretchen Peters, Barry Walsh, Danny Mitchell, Dean Marold, Will Kimbrough, Natalie Schlabs, Eamon McLoughlin, Audrey Spillman, Kira Small, e Kris e Heather Donegan, che sviluppano, come nel lavoro precedente, tredici capitoli di un romanzo che spazia fra tradizione e religione, su un tappeto sonoro prettamente “folk acustico”.

Il brano iniziale Pile Of Bones, ricorda fortemente la musica dei nativi americani, a cui fanno seguito la ballata popolare Town Of A Hundred Chirches, dove spicca il mandolino di Josh Britt, il dovuto omaggio alla storia di Osimo (Come To File) un brano mid-tempo sostenuto dagli ottoni, la storia del patrono locale in una Flying Joe arrangiata in un intrigante “gospel bluegrass”, per poi rispolverare un antico motto massonico con Vitriol accompagnata da una chitarra acustica, violino e tastiere. L’ambizioso viaggio prosegue con la melodia contagiosa di una sussurrata Pain Is Gone, i cori magici che accompagnano una tambureggiante Alchemy, ricordando i migliori Arcade Fire (precisamente il periodo di Funeral), con la bellissima The Birds Are Silent (ispirata da un terremoto che purtroppo si è verificato nelle grotte), per poi passare alle note di una gioiosa The Bells Are Ringing, e tornare alla ballata romantica con Sweet Cecilia, sostenuta da una chitarra classica “andalusa”, che poi nello sviluppo si trasforma in un arrangiamento “appalachiano”.

La parte finale inizia con le note di pianoforte che accompagnano il percorso di una spettrale Meet Me In The Shadows, si affronta di nuovo la spiritualità con la commovente There’s A Fire That Never Goes Out, con il determinante contributo ai cori dei collaboratori e cantanti Gretchen Peters e Will Kimbrough, e per terminare questo nuovo magnifico progetto rimane la traccia di chiusura Donna Sacra, con le voci evocative del sacerdote e della congregazione femminile di Osimo, a testimonianza che l’intreccio fra la storia americana e quella italiana è meno distante di quello che si potrebbe pensare. Nel complesso Heart Of The Cave completa in modo eccezionale il precedente lavoro deglii Orphan Brigade, spaziando con disinvoltura da storie di uomini e fantasmi, a racconti di chiesa, misticismo e perfino di massoneria, dischi che personalmente non mi stancherei mai di ascoltare (suonati e cantati come dio comanda), intrisi di storia e di valori, capaci di catturare l’anima e l’orecchio di chi ama la “buona musica”, una consigliata colonna sonora per queste prossime serate autunnali!

Tino Montanari   

Due “Tipi” Diversi Che Dispensano Talento E Romantiche Emozioni! Ben Glover – The Emigrant/Ed Harcourt – Furnaces

*NDB. Dopo una assenza di qualche mese torna a collaborare con il Blog Tino Montanari, che riparte con una doppia recensione.

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Ben Glover – The Emigrant – Appaloosa Records/I.R.D.

Ed Harcourt – Furnaces – Caroline/Universal

I più attenti lettori di questo “blog” ricorderanno sicuramente che di questo giovanotto, Ben Glover, abbiamo parlato bene in occasione dell’uscita di Atlantic http://discoclub.myblog.it/2014/11/15/vita-musicale-divisa-belfast-nashville-ben-glover-atlantic/ , ne abbiamo riparlato. ancora meglio, per il progetto Orphan Brigade, con lo splendido Soundtrack To A Ghost Story http://discoclub.myblog.it/2016/01/12/recuperi-inizio-anno-6-delle-sorprese-fine-2015-orphan-brigade-soundtrack-to-ghost-story/ , e ora puntualmente mi accingo a parlare positivamente anche di questo nuovo lavoro The Emigrant (il suo sesto album da solista e dal tema più che mai attuale), composto da dieci brani: suddivisi tra pezzi folk tradizionali, e canzoni composte per l’occasione insieme ad autori come la grande Mary Gauthier, Gretchen Peters, e Tony Kerr.

Con la co-produzione del collega e polistrumentista Neilson Hubbard al basso, percussioni e piano (membro anche lui degli Orphan Brigade), Ben Glover riunisce negli studi Mr.Lemons di Nashville ottimi musicisti fidati, tra i quali Eamon McLoughlin alle chitarre, Dan Mitchell e John McCullough al pianoforte, Skip Cleavinger al violino, Colm McClean alle chitarre acustiche, Conor McCreanor al basso, rispettando musicalmente (come negli album precedenti) le proprie radici irlandesi, impiantate da parecchio tempo nella città di Nashville, dove vive e lavora ormai da sette anni.

L’apertura di questo moderno “concept-album” è rappresentata da un brano folk tradizionale come The Parting Glass (Il Bicchiere Della Staffa), dove un seducente violino accompagna la voce calda e rabbiosa di Ben, a cui fanno seguito la ballata scritta a quattro mani con Tony Kerr A Song Of Home, la pianistica e sofferta tittle-track The Emigrant che vede co-autrice la brava Gretchen Peters per poi tornare ancora ad un famoso brano tradizionale la bellissima Moonshiner (cantata in passato anche da Dylan, ma vi consiglio di ascoltare la versione dei Say Zuzu  dall’album Bull) https://www.youtube.com/watch?v=vaAW1XgROZs , e omaggiare Ralph McTell con una efficace cover di From Clare To Here. Il viaggio riparte letteralmente “con il cuore in mano” di una melodia tipicamente irlandese scritta con Mary Gauthier Heart In My Hand, dove imperversa lo struggente violino di Skip Cleavinger, proseguire con un altro brano di area celtica The Auld Triangle firmato da Brendan Behan, la breve Dreamers, Strangers, Pilgrims, rispolverare un brano del famoso cantautore australiano di origini scozzesi Eric Bogle And The Band Played Waltzing Matilda (una canzone struggente da Pub Irlandese, rivisitata anche dai Pogues, June Tabor, Dubliners, Christy Moore, Joan Baez e moltissimi altri), e andare a chiudere con una visione poetica della sua terra con il tradizionale The Green Glens Of Antrim. Commovente!

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Ed Harcourt (per chi scrive), è sicuramente uno dei migliori cantautori della scena inglese apparsi negli ultimi anni, fin dall’esordio con Here Be Monster (01). Questo Furnaces è l’ottavo album di Harcourt (compreso l’ottimo mini CD Time Of Dust (14), a distanza di tre anni dall’album solo piano e voce Back Into The Woods (13) http://discoclub.myblog.it/2013/03/29/piano-songs-confidenziali-ed-harcourt-back-into-the-woods/ , con dodici tracce sonore mai cosi ricche e pulsanti, e il merito è sicuramente nella produzione del “mago del suono” Mark Ellis (meglio conosciuto con lo pseudonimo di Flood), una “personcina” che nella sua carriera ha collaborato con artisti di vaglia come i Depeche Mode, Nick Cave, U2, e anche il nostro Lucio Battisti per l’album Images, come fonico.

Diciamo subito che tutte le canzoni sono concepite come se a suonarle fosse una band, con Ed che ha suonato di tutto, dal suo amato pianoforte, al basso, batteria, synth e chitarre acustiche, aiutato da valenti musicisti (e amici) quali Stella Mozgawa delle Warpaint, il percussionista Michael Blair (del giro di Tom Waits), il bassista Tom Herbert, e la cantante Hannah Lou Clark alle armonie vocali, a certificare un lavoro vario e importante.

Fin dall’introduzione che sembra un brano uscito dai solchi di Michah P.Hinson, si capisce cosa si va ad ascoltare, e la successiva e maestosa The World Is On Fire ne è la conferma, seguita da Loup Garou dalla ritmica insistita, la title track Furnaces, ariosa con grande uso di archi, passando per il blues moderno e elettronico di Occupational Hazard, e la intrigante, scarna e sensuale Nothing But A Bad Trip.

Il “nuovo corso” del cantautore britannico, riparte con l’indolente e meravigliosa ballata You Give Me More Than Love, con la tambureggiante Dionysus, la sincopata There Is A Light Below, per poi passare alle atmosfere care ai migliori Arcade Fire con Last Of Your Kind, andando a chiudere con una Immoral dall’arrangiamento cinematografico, e i titoli di coda di una carezzevole Antarctica.

Ho l’impressione che questo lavoro di cantautorato “indie”, sia una svolta per la carriera di questo bravissimo instancabile polistrumentista (recentemente ha collaborato con Marianne Faithfull per lo splendido Live No Exit http://discoclub.myblog.it/2016/10/06/unaltra-splendida-quasi-settantenne-marianne-faithfull-exit/ e Sophie Ellis-Bextor, qui approvo meno), depositario di un “songwriting” elaborato ma affascinante e coinvolgente, e Furnaces lo testimonia con una musicalità varia e curata in ogni sfumatura, che forse necessita di ascolti ripetuti, ma il risultato credetemi è coinvolgente ed emozionante e merita una doverosa e meritoria attenzione. Camaleontico!

Tino Montanari

Recuperi Di Inizio Anno 6: Una Delle Sorprese di Fine 2015! Orphan Brigade – Soundtrack To A Ghost Story

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Orphan Brigade – Soundtrack To A Ghost Story – Appaloosa / I.R.D.

Per chi scrive, è successo in passato, ed è successo di in questa occasione, è succederà certamente in futuro, di avere dei “colpi di fulmine musicali”, in quanto non credo che esistano dischi in grado di essere ascoltati solo in un determinato contesto, ma è altrettanto vero che certi dischi riescono a salire di tono ricordando emozioni anche soltanto immaginarie. Mi sembra questo il caso di Soundtrack To A Ghost Story degli Orphan Brigade (mi sono documentato, e come è abbastanza noto, il nome deriva da una brigata militare di quel periodo intorno a cui ruota tutta la storia), capitanati dal cantautore irlandese trapiantato negli States Ben Glover (di cui mi ero occupato a fine 2014 per il suo pregevole Atlantic http://discoclub.myblog.it/2014/11/15/vita-musicale-divisa-belfast-nashville-ben-glover-atlantic/ ), affiancato da due autori e musicisti americani, Joshua Britt e Neilson Hubbard (anche produttore del lavoro), che con l’aiuto di altri validi musicisti e collaboratori, tra cui spiccano Heather e Kris Donegan, Danny Mitchell, Dean Marold, Eamon McLoughlin e le brave, e forse meno conosciute di quanto meritino, cantanti Kim Richey http://discoclub.myblog.it/tag/kim-richey/  e Gretchen Peters, che, tutti insieme si sono ritrovati a incidere (a loro insaputa)  in quella che viene considerata la casa colonica più “infestata” d’America, la Octagon Hall Franklin nel Kentucky, sessanta miglia a nord di Nashville https://www.youtube.com/watch?v=TAwEyiBWY9Y . Tutto questo progetto parte da una serie di documenti ritrovati (lettere, diari e poesie scritti dai militari della Orphan Brigade), messi in musica da questi baldi cantautori di talento, che hanno sfornato l’album rivelazione di fine 2015.

Per impostare il contesto im cui si svolge la vicenda, il disco si apre con i rintocchi funebri del piano in Octagon Hall Prelude, seguiti subito dalla meravigliosa Pale Horse, con un tamburo militare ad accompagnare una solenne melodia, passando poi al “groove” della sferragliante Trouble My Heart (Oh Harriett), con il banjo e la seconda voce della Richey in evidenza, il pungente country-walzer di I’ve Seen The Elephant, addolcito dalla voce di Gretchen Peters, e una intrigante marcetta a ritmo di gospel come Sweetheart (con una tromba lacerante nel finale). Dopo una buona “disinfestazione” le storie ripartono con il lamento delicato di Last June Light e il dolce mandolino che accompagna le voci femminili in The Story You Tell Yourself (su tutte quella della Richey), mentre We Were Marching On Christmas Day è una ballata palpitante, seguita dalla strumentale e fischiettata Whistling Walk.

Il racconto prosegue ancora con Good Old Flag  un tipico brano dall’andatura mid-tempo, per poi passare al lamento in salsa irlandese di una Cursed Be The Wanderer (dove si nota lo zampino di Glover), che ci mette del suo (con solo voce e chitarra) anche nel tradizionale accorato Paddy’s Lamentation, arrivando infine al termine del racconto con la struggente bellezza di Goodnight Mary, una sognante e intensa ninna-nanna  del duo Hubbard e Richey, e una finale The Orphans cantata da Glover e Donegan (supportati nuovamente dalle voci femminili), doveroso omaggio ai soldati che hanno ispirato il nome di questo magnifico “combo”.

Soundtrack To A Ghost Story è la perfetta colonna sonora di una storia vera, che rappresenta uomini veri, ambientata a cavallo della guerra civile americana, ma è anche una “ghost story” cantata e narrata logicamente con forti influenze letterarie. La cosa particolare di questo lavoro è che ascolto dopo ascolto, le trame del disco si sviluppano in modo diverso, con arrangiamenti che spaziano dal folk al rock, dal gospel al country, con bellissimi testi che raccontano di vita e di morte (e che trovate acclusi meritoriamente tradotti in italiano nella versione della Appaloosa), con un percorso sonoro accattivante e coinvolgente.

Per chi ama le storie vere e la buona musica, un vero balsamo, credetemi. Imperdibile!

Tino Montanari

Una Vita Musicale Divisa Tra Belfast E Nashville! Ben Glover – Atlantic

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Ben Glover – Atlantic – Carpe Vita Creative/Proper/Ird

Probabilmente molti di voi, presumo, si chiederanno chi si cela dietro un nome sconosciuto come quello di Ben Glover, cantautore nato a Glenarm nel Nord dell’Irlanda, ma già con cinque album alle spalle e una carriera artistica divisa tra Belfast e Nashville. La musica di artisti americani come Johnny Cash e Hank Williams, insieme alle tradizionali canzoni irlandesi, sono state per il buon Ben la colonna sonora della sua crescita nell’incantevole piccolo borgo dell’isola di smeraldo. Così, nel periodo dell’università, succedeva che attraversava l’Atlantico eseguendo ballate folk-irlandesi e le canzoni di Christy Moore e dei Pogues dello sdentato Shane McGowan nei bar di Boston, e quando ritornava di nuovo a casa nei pub irlandesi, cantava Dylan e Springsteen, e questo tema di una vita divisa a metà tra i due paesi collegati con l’Oceano Atlantico, lo accompagna tuttora.  Ben debutta con un EP The Ballad Of Carla Boone (06) e con il primo lavoro ufficiale The Week The Clocks Changed (08) accompagnato dal gruppo The Earls, poi si trasferisce a Nashville e sotto la produzione di Neilson Hubbard (Matthew Ryan, Garrison Starr, Kim Richey e membro degli Strays Do Not Sleep) sforna due buoni album come Through The Noise, Through The Night (10) e Before The Birds (11), che gli permettono di aprire i concerti di artisti del calibro di Buddy Miller, Vince Gill, Tift Merritt e altri, arrivando ad una certa notorietà con Do We Burn The Boats? (12), disco nel quale un personaggio come Mary Gauthier firma in coppia con Glover la delicata Rampart Street.

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Le canzoni di Atlantic sono state scritte in America, ma registrate nel salotto di casa di Ben nella contea di Donegal (la foto della cover del disco, è la spiaggia di Ballyliffin di fronte all’Oceano Atlantico), con l’apporto di un gruppo di “turnisti” del luogo, che vede oltre allo stesso Glover alla chitarra acustica e voce, Colm McClean alle chitarre e pedal steel, Kris Donegan alla lap-steel e mandolino, Matt McGinn  al basso, Dan Mitchell alle tastiere e pianoforte, il fidato produttore Neilson Hubbard alla batteria e percussioni, le coriste Lo Carter e April Rucker, e come ospite la brava Gretchen Peters, in un brano che porta la sua firma. https://www.youtube.com/watch?v=ylBMI0aj1tA

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In Atlantic Ben ha condiviso i compiti di scrittura oltre che con l’abituale amico Neilson Hubbard, anche con Mary Gauthier, Gretchen Peters e Rod Picott, ed è proprio dalla penna del cantautore americano che il viaggio parte con l’iniziale The World Is A Dangerous Place, una ballata acustica cantata con voce profonda da Ben, a cui fanno seguito due brani firmati con la Gauthier, Oh Soul una splendida canzone di redenzione (è inserita anche nel recenteTrouble And Love di Mary) e Too Long Gone con un buon ritmo intervallato da cori soul https://www.youtube.com/watch?v=6VJodQqe3fs , e la cadenzata western-song True Love’s Breaking My Heart con un bel lavoro della slide. Il viaggio prosegue con la splendida Prisoner, un brano da cantare percorrendo la leggendaria Highway 61 https://www.youtube.com/watch?v=dLBqI7oX3U8 , e con i duetti con Gretchen Peters, la delicata ed intensa elegia di Blackbirds https://www.youtube.com/watch?v=z4CEPNMECVQ , e una tenue ballata come The Mississippi Turns Blue, che poteva essere inserita nella tracklist del recente The River And The Thread di Rosanne Cash, mentre Take And Pay è il terzo brano co-firmato con la Gauthier, un intrigante e moderno “gospel”, sempre sorretto dalle voci delle brave coriste. Sul finire del viaggio vengono proposte la sottile malinconia di una How Much Longer Can We Bend?, le atmosfere decisamente irlandesi di Sing A Song Boys, con il mandolino ad accompagnare  una brano perfetto da cantare nei Pub, e una dolcissima canzone sul Capodanno New Years Day, sussurrata da Ben sotto un cielo notturno e davanti alle onde crespe dell’Atlantico.

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Ben Glover nel corso di questi anni ha aperto i concerti di musicisti validi ed importanti, e quindi ormai non è più da considerarsi solo “una giovane promessa”, in quanto in questo Atlantic, testi, voce, strumentazione, trasmettono stati d’animo, atmosfera e una emozione che fanno di questo lavoro un disco praticamente perfetto, e la cosa che sorprende è che il tutto avvenga senza mai alzare troppo la voce.

NDT: Poco distante dal borgo che ha dato i natali a Ben, si trova la contea di Connemara dove si produce uno dei Whisky Irlandesi più ricercati nel mondo, quindi se entrate in possesso di questo CD, il mio consiglio è di ascoltarlo sorseggiando un buon bicchiere di questo eccellente Whisky!

Tino Montanari

*NDB. Qui, volendo, trovate tutto l’album in streaming da ascoltare www.americansongwriter.com/2014/08/album-stream-ben-glover-atlantic/

Due “Signorine” Da Sposare…Musicalmente! Kim Richey – Thorn In My Heart/Amy Speace – How To Sleep In A Stormy Boat

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Kim Richey – Thorn In My Heart – Yep Roc Records 2013

Amy Speace – How To Sleep In A Stormy Boat – Windbone records 2013

Oggi vi parlo di queste due cantautrici, stranamente accomunate dal fatto che sono particolarmente stimate dalla grande Judy Collins (Amy Speace ha pubblicato anche lei dei CD per la Wildflower di proprietà di Judy).

Partiamo dalla più “stagionata”: Kim Richey (è del ’56), originaria dell’Ohio, dopo una vita vagabonda, è approdata a Nashville in cerca di fortuna, costruendosi un bagaglio di esperienze ed emozioni, valorizzate attraverso la sua voce. All’esordio con l’album omonimo Kim Richey (95)ha fatto seguire dischi dove il suono diventa più pop e ricercato come Bitter Sweet (97) e Glimmer (99), per poi approdare alla Lost Highway con Rise (2002, album) con alcune interessanti partecipazioni come l’ex Green On Red Chuck Prophet e Pete Droge (uno dei tanti talenti mancati) e l’immancabile Collection (2004). Dopo una lunga pausa, nuovo cambio di casacca (Vanguard Records) e ritorno in studio per pubblicare Chinese Boxes (2007) e Wreck Your Wheels (2010) con sonorità che ricordano Lucinda Williams (anche nel timbro vocale e nella sofferta interpretazione dei brani).

In questo Thorn In My Heart, prodotto dal pluridecorato Neilson Hubbard, Kim si accompagna con validi musicisti del valore di Carl Broemel dei My Morning Jacket  alla pedal steel, Pat Sansone dei Wilco alle armonie vocali, Will Kimbrough alla chitarra acustica e Kris Donegan alle chitarre elettriche, e  avendo come ospiti nei duetti “personcine” come Jason Isbell e la rediviva Trisha Yearwood. Il disco mischia folk, rock e country in modo disteso e piacevole, a partire dall’iniziale Thorn In My Heart, proseguendo con le splendide ballate London Town (con il corno francese di Dan Mitchell) e Angel’s Share accompagnata nel ritornello da un violino delizioso, passando per il duetto con Isbell e le armonie vocali di Trisha Yearwood nel pregevole country Break Away Speed, e ancora il valzer sognante  di Love Is, con un pianoforte scintillante, per finire con la sofisticata I’m Going Down, la folk song Take Me To The Other Side e la chiusura cupa e rallentata, ma affascinante, di Everything’s Gonna Be Good .

La seconda, Amy Speace, è di Baltimora, ha una storia musicale più breve rispetto alla Richey e il suo stile è un insieme di generi musicali diversi. Amy infatti fonde rock, blues, country e folk, si scrive le sue canzoni, e con la sua voce bella e tersa si è fatta conoscere fino ad essere scelta dalla Collins. Non è una “novellina”, il suo disco d’esordio (ma già prima, nel 1998, faceva parte di un duo folk Edith O con Erin Ash, che ha pubblicato un album, Tattoed Queen), Fable (2002) è stato realizzato con il finanziamento e le donazioni dei fans (ormai è una consuetudine dilagante), e dopo una vita “on the road” con la sua fidata band Tearjerkers, incide Songs For Bright Street (2006), anche lei incide per la Wildflower della Collins e The Killer In Me (2009), prodotto da James Mastro e Mitch Easter che la porta ad avere una certa visibilità nell’ambito del settore musicale e che verrà ripubblicato nel 2014 dalla sua etichetta, la Windbone.

Come il CD della Richey, anche questo How To Sleep In A Stormy Boat (finanziato nuovamente da fans e “amici”)  è prodotto dal “prezzemolino” Neilson Hubbard (piano e chitarre nonché collaboratore di Matthew Ryan e Garrison Starr), ritroviamo Kris Donegan alle chitarre, Michael Rinne al basso, Evan Hutchings alla batteria, Dan Mitchell tromba e tastiere, Jill Andrews alle armonie vocali, e le collaborazioni di ospiti di riguardo come Mary Gauthier e John Fullbright, per un lavoro molto particolare che la Speace costruisce ispirandosi alle opere di William Shakespeare. E l’iniziale The Fortunate Ones in duetto con la grande Mary Gauthier è subito da brividi, con degli splendidi violini in sottofondo, violini che accompagnano anche How To Sleep In A Stormy Boat. La voce baritonale di John Fullbright introduce The Sea & The Shore cantata in duetto con Amy, a cui fanno seguito l’intro a cappella di Bring Me Back My Heart, l’elettroacustica Hunter Moon, passando per le melodie sognanti di Left Me Hanging e Perfume, per concludere con le dolci confessioni acustiche di Feather & Wishbones e la ballata pianistica Hesitate cantata al meglio, come la miglior Judy Collins; le note del libretto sono firmate da Dave Marsh, uno dei migliori giornalisti musicali americani e per anni biografo di Springsteen.

Kim Richey e Amy Speace non saranno sicuramente il futuro cantautorale americano (non hanno forse una personalità straripante), ma trovando parecchie affinità elettive con colleghe come Mary Gauthier, Lucinda Williams, Mary Chapin Carpenter  (per citare le più brave), per chi scrive sono, senza alcun dubbio, la conferma della rinascita del rock d’autore al femminile.

Tino Montanari