Il “Ritorno” Di Una Leggenda: Anche Lui 75 Anni Portati Benissimo! Aaron Neville – Apache

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Aaron Neville – Apache – Tell It Records

A volere ben vedere non è che Aaron Neville se ne fosse mai andato, continua a fare dischi con regolarità, ogni tre o quattro anni: l’ultimo era stato My True Story, un disco di cover uscito nel 2013 per la Blue Note, prodotto da Don Was, e dedicato al doo-wop (ma non solo, c’erano anche brani di Curtis Mayfield, delle Ronettes, persino di R&R). Però è stato l’unico per la prestigiosa etichetta distribuita dalla Universal, come era stato nel 2006 per Bring It On Home…Tho Soul Classics, altro disco di cover uscito per la Burgundy distribuita dalla Sony/Bmg, e prima ancora per Nature Boy: The Standards Album, un disco sui grandi classici del songbook americano pubblicato dalla Verve. Quando le varie etichette delle majors non gli rinnovano il contratto lui ritorna alla propria etichetta, la Tell It Records, e ci regala un nuovo album. Questa volta, dopo molti anni, i brani contenuti nel disco portano quasi tutti la sua firma, da solo o in compagnia di Eric Krasno (dei Soulive) Dave Gutter (Rustic Overtones), che producono il CD, e Krasno ci suona pure. Quindi tutto materiale originale, e anche, in  molti brani, un ritorno all’energia e alla carica, se non proprio allo stile, dei vecchi dischi dei Neville Brothers. Ma non solo, oltre a Krasno, che suona basso, chitarra e tastiere, c’è anche la sezione fiati della Daptone, quella dei dischi di Sharon Jones per intenderci, oltre a musicisti del giro Soulive Lettuce (altra band di Krasno), e persino tale Eric Bloom, che però non è quello dei Blue Oyster Cult come è stato scritto, ma l’omonimo trombettista di New Orleans che suona nei Lettuce.

E il risultato, molto buono, è un disco, dove a fianco delle consuete ballate, poche, cantate nello splendido languido falsetto che da sempre è il marchio di fabbrica di Aaron Neville, ci sono anche brani decisamente più mossi che attingono al classico sou/R&B di New Orleans ed in generale al funky e alla musica nera più genuina. Insomma anche questo signore, che pure lui quest’anno compie 75 anni, dimostra di avere ancora molte frecce al suo arco. Prendiamo l’apertura affidata a Be Your Man, un brano scritto dall’accoppiata Krasno Gutter, che sembra uscire da una colonna sonora Blaxploitation dell’amato Curtis Mayfield o di Isaac Hayes, con fiati, percussioni, chitarre con wah-wah che ondeggiano gagliardi sotto la voce sempre inconfondibile e in gran spolvero di Neville, se non sono i Neville Brothers, poco ci manca https://www.youtube.com/watch?v=9MamxVm9jmY , o All Of The Above, uno splendido mid-tempo soul, con inserti di doo-wop nei coretti dei vocalist aggiunti e i fiati sincopati in stile quasi jazz, che ci regalano una bella foto della migliore musica nera made in Louisiana, anche se è stata registrata a New York. Orchid In The Storm con il falsetto che comincia ad entrare in azione è un’altro bellissimo esempio di come il vecchio R&B non abbia al momento rivali in quello cosiddetto “nuovo”, quando ci sono musicisti di grande valore in azione, come in questo disco, e i fiati liberi di improvvisare su una melodia irresistibile lo testimoniano.

Stompin’ In The Ground, è un omaggio alla città di New Orleans, nel testo e nella musica, un piccolo capolavoro di gumbo music che presenta il meglio dei ritmi e dei saporti di quella città, funky alla Dr. John, Professor Longhair, Allen Toussaint (e tanti altri che vengono sciorinati come in una litania da Aaron), senza dimenticare ovviamente Meters Neville Brothers,  il tutto eseguito con classe e grande perizia, un gioiellino. La prima ballata, Heaven, ti spedisce veramente in paradiso, con quella voce ancora meravigliosa ed intatta, inconsueta in questo “omone”, che intona un omaggio tra gospel e deep soul alle glorie del Signore https://www.youtube.com/watch?v=626iEiklGqM . Cambio di ritmo per Hard To Believe, con un groove circolare di basso che sorregge il ritmo funky e danzereccio, nel senso più nobile del termine, della canzone, con fiati, piano elettrico, chitarra e sezione ritmica tutti sul pezzo; con la successiva Ain’t Gonna Judge You che alza ulteriormente l’asticella del funky, in un tripudio di ritmi e sapori sonori, anche l’organo in questo caso, e mastro Neville che guida le operazioni da par suo. La seconda ballata, più mossa di Heaven, con un ritmo leggermente reggae, ma anche inserti di puro soul alla Marvin Gaye, si chiama I Wanna Love You ed è l’occasione per ricordare i vecchi errori del passato. Mentre Sarah Ann, dedicata alla moglie, è un limpido esempio di doo-wop alla Drifters, con quella voce splendida sempre in grado di emozionare quando vola verso il suo falsetto irraggiungibile e perfetto (ho fatto la rima) https://www.youtube.com/watch?v=Q1JGkpW_82M .

Mancano gli ultimi due brani, Make Your Momma Cry, forse ancora reminiscenze del giovane Aaron sulla sua infanzia ed adolescenza, è una costruzione ipnotica e spaziale, degna di nuovo dei migliori Neville Brothers, con i musicisti che quasi “scivolano” su un mood sonoro avvolgente e magico, con fiati, tastiere e chitarra sempre impeccabili. E per concludere, anche una dichiarazione “politica” e sociale universale come Fragile World, un brano che ruba quasi i ritmi jazz in 5/4 di Time Out, arricchiti da elementi di New Orleans music, il tutto in uno spoken word di Neville che però forse spezza l’atmosfera complessiva dell’album, ma è un piccolo appunto per un disco globalmente di grande qualità che sancisce il “ritorno” di un grande artista. Speriamo che non sia l’ultimo degli Apache!

Bruno Conti   

“Reale Fratellanza Sudista”, Versione II Capitolo Secondo. Royal Southern Brotherhood – The Royal Gospel

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Royal Southern Brotherhood – The Royal Gospel – Ruf Records                   

Questo è il secondo capitolo in studio della versione Mark II della “Reale Fratellanza Sudista”: rispetto al disco precedente Don’t Look Back, uscito lo scorso anno http://discoclub.myblog.it/2015/05/14/cambia-la-fratellanza-parrebbe-meglio-royal-southern-brotherhood-dont-look-back/ , c’è stato un ennesimo cambiamento nella formazione, Darrell Phillips ha sostituito al basso il membro originale Charlie Wooten, dopo gli avvicendamenti avvenuti tra il 2014 e il 2015, quando Bart Walker e Tyrone Vaughan erano subentrati a Devon Allman e Mike Zito, lasciando solo Cyril Neville e Yonrico Scott dei musicisti presenti nel primo album. Diciamo che anche questo album di studio (pur segnalando ulteriori passi avanti, già evidenziati nel precedente CD) è comunque inferiore alla dirompente potenza che i Royal Southern Brotherhood sono in grado di esprimere nei loro concerti dal vivo, come evidenziato dallo splendido CD/DVD della serie Songs From The Road. Come si usa dire, The Royal Gospel cresce dopo ripetuti ascolti, e anche se la produzione di David Z (come del suo predecessore Jim Gaines) continua a non soddisfarmi del tutto, ci sono parecchi brani sopra la media in questo quarto album della band sudista. Intanto il disco è stato registrato in presa diretta, in sette giorni, a New Orleans ai Dockside Studios nel febbraio di quest’anno e si sente (sia come locations che come freschezza nell’approccio); come si sente la presenza del membro aggiunto Norman Caesar, alle tastiere e in particolare all’organo Hammond B3, che aggiunge profondità e tocchi gospel soul al suono del gruppo, e poi anche le canzoni, spesso firmate collettivamente, hanno una maggiore compattezza e spessore, pur puntando comunque più sui grooves e le soluzioni ritmico-soliste che sulla melodia, ma a lungo andare, devo dire, piacciono.

Peraltro lo spirito delle “famiglie del Sud” vive sempre nella band, se Cyril Neville rappresenta appunto il lato gumbo soul dei Neville Brothers, Tyrone Vaughan (figlio di Jimmie e quindi nipote di Stevie Ray) rimpiazza lo spirito rock della famiglia Allman, che era detenuto da Devon. Probabilmente Vaughan e Walker, pur essendo fior di strumentisti, sono inferiori a Walker e Zito, ma si amalgamano meglio nel tessuto sonoro d’insieme, e i loro strumenti sono spesso e volentieri in primo piano. Come si evince dalla prorompente scarica di energia rock della iniziale Where There’s Smoke There’s Fire, un pezzo firmato da Neville e Vaughan che brilla per il lavoro delle due chitarre, sia solistico che di tessitura, quanto per gli intrecci vocali, anche se la produzione di David Z al solito è fin troppo carica, comunque partenza eccellente https://www.youtube.com/watch?v=dxN5D8_Adr0 . I’ve Seen Enough To Know ha dei tratti sonori decisamente più gospel-soul, reminiscenti del sound dei Neville Brothers, anche se un filo troppo “leccati”, ma il tocco dell’organo, le percussioni di Cyril e il lavoro ritmico sono decisamente raffinati https://www.youtube.com/watch?v=Hh6iblzzmdA , ma è in Blood Is Thicker Than Water che i due mondi si fondono alla perfezione, il tocco santaneggiante delle chitarre, il groove figlio della Louisiana dei migliori Neville, tra soul, R&B e funky, qualche inserto caraibico, con Walker e Neville che sono le due guide vocali, e gli inserti blues-rock delle due soliste sono fulminanti.

I Wonder Why accentua gli elementi blues, ma anche quelli gospel, con il classico call and response che si inserisce in un crescendo di intensità, e anche I’m Coming Home mantiene questo spirito grintoso, tra il ritmo marziale della batteria, i soliti interventi mirati delle due chitarre, sempre pronte alla bisogna e l’organo che scivola languido sullo sfondo. Everybody’s Pays Some Dues è ancora più sbilanciata sul lato blues, sempre però con quello spirito funky presente nel brano, e le chitarre fanno sempre la differenza, come nei concerti dal vivo; Face Of Love è la prima ballata dell’album, introdotta da un bel arpeggio di acustica, poi si sviluppa in un notevole crescendo, cantato con voce melliflua da un ispirato Cyril Neville, che si conferma vocalist di tutto rispetto. Land Of Broken Hearts torna al southern rock del brano iniziale, con poderose folate chitarristiche, con Spirit Man che privilegia di nuovo il lato più blues ed autentico della band, grintoso e classico al tempo stesso, assolo di slide incluso. Hooked On The Plastic è di nuovo puro funky Neville syle, come pure Can’t Waste Time, mentre la conclusiva Stand Up è una coinvolgente esplosione di tipo rock’n’soul.

Bruno Conti

“Solo” Un Altro Gruppo Da New Orleans: Bayou Americana, Per Gradire! Honey Island Swamp Band – Demolition Day

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Honey Island Swamp Band – Demolition Day – Ruf Records

L’ultima uscita della Ruf, il CD di Andy Frasco & The U.N., non mi aveva entusiasmato http://discoclub.myblog.it/2016/04/16/mi-aspettavo-piu-andy-frasco-and-the-u-n-happy-bastards/ . Ma l’etichetta tedesca si riprende subito con questa ottima proposta di un’altra band americana, anzi di New Orleans per la precisione. La Honey Island Swamp Band, gruppo della Louisiana che aveva raccolto positive recensioni anche sul Blog per il precedente Cane Sugar http://discoclub.myblog.it/2013/09/20/good-news-from-louisiana-honey-island-swamp-band-cane-sugar/ . Ma il quartetto (ora ampliato a quintetto) ha già una decina di anni di attività sulle spalle, con tre album di studio e un EP pubblicati, oltre ad un paio di titoli dal vivo della serie Live At Jazz Fest. Lo stile della band è una riuscita fusione di rock, soul, funky, blues, swamp music, con spruzzate anche di country e folk, che loro stessi, con felice espressione, hanno definito “Bayou Americana” https://www.youtube.com/watch?v=6rZ35Dy8RwY . Quindi a grandi linee siamo dalle parti di altre grandi band della Crescent City tipo Subdudes e Radiators, oltre agli inevitabili paragoni con Little Feat e Band, ma diciamo che le componenti “nere” sono meno accentuate che negli altri gruppi citati. Nella formazione i due leader sono il cantante, chitarrista, mandolinista, all’occorrenza anche armonicista Aaron Wilkinson, che è puree l’autore principale delle canzoni, e il chitarrista, virtuoso della slide, Chris Mulé, anche lui autore prolifico https://www.youtube.com/watch?v=IXeV90lcop0 . L’ottima sezione ritmica è composta da Sam Price al basso e Garland Paul alla batteria: con tutti e quattro i musicisti che apportano le loro eccellenti armonie vocali al suono complessivo del gruppo. Che aggiunge l’ultimo arrivato, il tastierista Trevor Brooks, a completare un sound già ricco,

Il disco precedente era stato prodotto dallo specialista di New Orleans John Porter con ottimi risultati, questa volta in città, al Parlor Studio, si è calato Luther Dickinson. Se l’anno scorso vi era piaciuto, come al sottoscritto, molto,  il disco dei Wood Brothers, qui troverete un altro dischetto più che soddisfacente http://discoclub.myblog.it/2015/12/27/recuperi-sorprese-fine-anno-2-peccato-conoscerli-the-wood-brothers-paradise/ . L’apertura è affidata a How Do You Feel, un pezzo che sembra provenire da una riuscita fusione degli Stones americani a tutto riff e degli intrecci vocali di gruppi come la Band e i Little Feat, con Mulé, l’autore del brano, che intreccia la sua slide con le fluide cascate di note del piano di Brooks, che ricorda molto il tocco del vecchio Nicky Hopkins, con tanto di gran finale di sax che ci ricorda appunto i Rolling di Sticky Fingers. grande inizio. Head High Water Blues, racconta i fatti conseguenti all’uragano Katrina, un evento che ha segnato tutti i musicisti della band, costretti a emigrare a San Francisco per un periodo di tempo, e lo fa a tempo di funky-blues, con la consueta slide tagliente di Mulé, ma anche interventi di Wilkinson con la seconda solista, tastiere “scure” e molto Gumbo nel suo dipanarsi, la voce caratteristica di Wilkinson, ottimo vocalist, qui autore del brano; No Easy Way parte lenta e solenne, quasi funerea, poi innesta un ritmo in crescendo, sulle ali della agile sezione ritmica, interventi mirati dei fiati, e quella slide incombente sullo sfondo del tessuto sonoro del pezzo, che sottolinea l’ottima performance vocale di Wilkinson, mentre un organo vintage dà il tocco in più, per un effetto che a tratti ricorda anche i Neville Brothers, con le percussioni ad aggiungere un feel quasi latino. Medicated, dell’accoppiata Wilkinson/Mulé, ha un’aria più spigliata e sbarazzina, quasi sixties, mi ricorda certe cose della prima J.Geils Band,  anche nell’approccio vocale, ritmo ed energia per un pezzo coinvolgente.

Watch And Chain, con un bel piano elettrico, poi ricorrente, ad aprire le procedure, si avvicina a quel sound Subdudes/Radiators di cui si diceva, sempre il bottleneck di Mulé che incombe sul tutto e ritmi spezzati tra blues e rock di sostanza, con i fiati che sottolineano la voce di Aaron, con improvvisi stacchi funky https://www.youtube.com/watch?v=7Kvml9a5Mok . Katie scritta da Mulé, è una canzone quasi folk, solo chitarra acustica, armonica ed una ritmica discreta, deliziosa nella sua semplicità, il tocco di organo è geniale https://www.youtube.com/watch?v=d8LBRTgxrE0 , mentre Ain’t No Fun è un southern-blues-rock, con la slide potente di Mulé di nuovo in azione, e quel groove che ricorda i vecchi Little Feat ma anche le twin guitars degli Allman Brothers, grande brano, con il basso di Sam Price che è una vera potenza. She Goes Crazy, di nuovo di Mulé, ha  un groove elettroacustico che tanto ricorda i vecchi Subdudes, ma è meno efficace di altri brani; Through Another Day è uno dei brani più potenti della raccolta, introdotto dal suono dell’armonica, poi si sviluppa su intricate atmosfere southern che ricordano il sound dei primi Widespread Panic, con eccellenti intrecci chitarristici. Say It Isn’t True è una bellissima ballata con armonica, piano e una delicata chitarra wah-wah ad incorniciare una splendida performance vocale di Aaron Wilkinson. Il mandolino e l’acustica slide che aprono la conclusiva Devil’s Den, scritta insieme a John Mooney, potrebbero far pensare ad un brano tranquillo, ma poi il pezzo si sviluppa in un notevole crescendo e diventa quasi epico, pur rimanendo nei suoi tratti di “Bayou Americana”. Consigliato di cuore!

Bruno Conti

Solo Piano E Voce, Ma Che Voce! Katie Webster The Swamp Boogie Queen – I’m Bad

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Katie Webster – The Swamp Boogie Queen I’m Bad – Wolf Records/Ird

Katie Webster ormai è scomparsa dal lontano 1999, e quando se ne è andata aveva solo 63 anni. Considerata una delle grandi interpreti del blues e del soul, ma anche grande pianista boogie-woogie ( e in questa guisa aveva già inciso alcune cose sul finire degli anni ’50), la Webster, cosa nota, ma non notissima, negli anni ’60 aveva fatto parte della band che accompagnava Otis Redding, spesso aprendone anche i concerti. Accostata giustamente alla swamp music di New Orleans, di cui era gloriosa interprete, in effetti la nostra amica era nata a Houston, e sempre in Texas, a League City, è morta. In mezzo ci sono stati vari anni di carriera, con alcune pause: dopo la non lunghissima militanza con Otis, aveva tentato una prima volta la carriera solista, ma senza tanta convinzione,  dedicandosi negli anni ’70 alla cura dei genitori malati, per poi lanciarsi a fondo nella musica verso la metà degli anni ’80, quando incise prima due buoni dischi per la Arhoolie e poi dal 1988 al 1991,  tre notevoli album per la Alligator, due dei quali, The Swamp Boogie Queen e Two-Fisted Mama, dei mezzi capolavori. Questo I’m Bad la cattura proprio dopo l’uscita del secondo disco citato poc’anzi: si tratta di un concerto registrato ad Atene (quella “vera” in Grecia, non le varie copie sparse per gli Stati Uniti), inedito a livello discografico, ed ora pubblicato per la prima volta dalla etichetta austriaca Wolf Records, specializzata in blues, nella serie denominata appunto Louisiana Swamp Blues, di cui è il settimo volume.

La Grecia, che era un paese dove ritornava spesso, avendo stretto delle amicizie con musicisti locali, tra cui John Angelatos che firma le note dell’album, in un certo senso le fu fatale: infatti Katie ebbe un primo infarto proprio ad Atene nel 1993, ritornando sulle scene l’anno successivo, ma fu poi costretta a diminuire le sue apparizioni, fino alla morte avvenuta nel 1999 a causa di un altro infarto. Ma in questo concerto del 12 novembre 1990 la troviamo in gran forma, solo voce e piano, ma con quella voce è comunque un piacere ascoltarla, anche se nei dischi di studio, con un adeguato accompagnamento, era devastante il suo impatto vocale. Il repertorio proposto è ricco e variegato: si va dal blues travolgente di una serrata Got My Mojo Workin’ alla più riflessiva I Want You To Love Me, dove già si colgono le qualità che la avevano fatta definire “Two Fisted, Piano Pounding, Soul Singing, Swamp Boogie Quuen”. Una perizia al piano che risalta ancor più in un travolgente Katie’s Boogie, uno dei vari pezzi che porta la sua firma, con il vero nome di Kathryn Jewel Thorne. Come pure l’ottima title track I’m Bad, scritta insieme a Vasti Jackson, una slow blues ballad intensa e dalla grande carica emotiva, per non parlare di una soave e divertita Basin Street Blues, sempre con le mani che volano sul piano. Come dimostra di nuovo nella grintosa Two Fisted Mama, sempre con quella voce strepitosa, per poi sorprenderci con una delicata cover di So For Away, il bellissimo brano dei Dire Straits presente in Two Fisted Mama https://www.youtube.com/watch?v=_Ihqk7iapM8  e stenderci con un medley di un paio di brani di John Lee Hooker, Hobo Blues/Boogie Chillen.

Tra i classici del soul di New Orleans una splendida versione di Sea Of Love, per poi tornare al blues con una notevole rilettura di Honest I Do di Jimmy Reed, ammiccante e ritmata il giusto. Altra chicca sul lato belle canzoni (dove si apprezza ancora di più la voce calda ed avvolgente) I Can’t Give You Anything But Love, con Lord I Wonder, un suo brano che tocca anche il lato gospel, sempre misto al boogie woogie e al blues, poi è la volta dell’omaggio a quello che è stato il suo mentore, Otis Redding, con una fantastica Sittin’ On The Dock Of The Bay. Non manca un breve ma sentito Spiritual Medley, con quattro super classici riproposti in rapida sequenza. E anche It’s Good To See You è una scelta sorprendente, un brano scritto dal grande cantautore inglese Allan Taylor, interpretata ed adattata come fosse una soul ballad. Gran finale di nuovo con il grande Otis, attraverso una delle più belle canzoni d’amore di tutti i tempi, una Try A Little Tenderness che non finisce mai di stupire per la sua passione e per la versione superba del brano https://www.youtube.com/watch?v=H5gyI4ExU6o , specie se la canta una in possesso di una voce così ci si può solo “arrendere”!

Bruno Conti

Nuove Avventure “Underground” Per Lo Svedese Di New Orleans! Anders Osborne – Spacedust And Oceans Views

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Anders Osborne –  Spacedust And Oceans Views – Back On Dumaine Records

Lo svedese di New Orleans, Anders Osborne, un “cliente” abituale del blog, continua imperterrito a sfornate nuovi album: dopo lo splendido trittico (più un EP) pubblicato per la Alligator http://discoclub.myblog.it/2012/04/27/uno-svedese-di-new-orleans-a-los-angeles-anders-osborne-blac/ , culminato con l’ottimo Peace, non si è visto rinnovare il contratto dall’etichetta di Chicago, forse non era piaciuta la simpatica copertina con la bambina che mostrava l’indice?  Sta di fatto che il chitarrista e cantante ha continuato a produrre musica a livello indipendente, autofinanziandosi attraverso Pledge Music; lo scorso anno è uscito un album molto bello, a nome NMO, North Mississippi Osborne, insieme ai fratelli Dickinson, tra le cose migliori in assoluto pubblicate da entrambi, un disco dove il Ry Cooder degli anni ’70, incontrava il folk-rock-blues dei North Mississippi Allstars e la propensione di Osborne anche per la musica della Band, il sound New Orleans e altre sonorità seventies http://discoclub.myblog.it/2015/02/23/disco-bellissimo-peccato-esista-nmo-anders-osborne-north-mississippi-allstars-freedom-and-dreams/ . Purtroppo il disco all’inizio era solo per il download, poi disponibile anche sul sito di Anders, dove si può acquistare tuttora per un bel 20 $ più le spese di spedizione, insieme volendo a questo nuovo Spacedust And Oceans Views, stesso prezzo, li trovate eventualmente entrambi qui  https://squareup.com/store/anders-osborne-inc/.

Questa volta troviamo poche lancinanti cavalcate chitarristiche alla Crazy Horse, o taglienti rock-blues, ma un disco quasi pastorale, molto da cantautore, aspetto comunque sempre presente nelle opere del nostro ex barbutissimo amico (dalle ultime foto sembra l’abbia accorciata notevolmente): dalla delicata iniziale Pontchartrain, con una melodia circolare, leggere percussioni, un elegante e minimale giro di chitarra elettrica e Anders Osborne che ripete ad libitum “I am a burning man” su una melodia che ci ricorda alcune delle sue migliori canzoni più intimiste, passando per la quasi rassegnata Life Don’t Last That Long, un country-blues d’autore sereno che ricorda, come già successo in passato, certe cose minori di Jackson Browne, molto bella comunque.

Nel disco suonano ottimi musicisti, che non saprei collocare nei vari brani, in quanto nelle note non è riportato, comunque ricordo il batterista di New Orleans Johnny Vidacovich, Ivan Neville, Brady Blade, e altri meno noti come il tastierista John “Papa” Gros, il trombonista Mark McGraine, il violinista Stevie Blacke, che cura gli arrangiamenti di archi, peraltro suonati tutti sempre da lui e appare con il suo strumento nella lunga ballata Cape Cod, dove fa capolino anche una delicata steel guitar, in un brano che ricorda addirittura certe cose del miglior Van Morrison, solenne e splendida. Come molto bella è pure la precedente Lafayette, una canzone dove sembra di ascoltare la Band con alla guida e alla voce Levon Helm https://www.youtube.com/watch?v=U9bqEXv6TyQ , e il nostro che alla chitarra, con slide e wah-wah, aggiunge pepe all’arrangiamento. Qui e là si appalesa anche una voce femminile che non ho riconosciuto, ma è assai efficace nel suo supporto canterino; Wind è più ondulata e moderatamente funky, con agganci alla produzione precedente di Osborne, sempre quel cantato piano alla Browne, su una base ritmica mossa e vivace, tra chitarre, voci di supporto e tastiere sullo sfondo.

Molto bella anchee All There Is To Know, altra ballata leggermente mossa e malinconica, come pure Can You Still Hear Me, un bel blues lento caratterizzato da uno dei rari lancinanti solo della chitarra di Anders Osborne, con Move To Mississippi che accentua questo afflato chitarristico ed è uno dei brani che più si avvicina al suono dei dischi rilasciati per la Alligator, quando nella parte centrale titilla la solista con le sue tipiche sonorità acide c’è veramente da goderne. L’elettroacustica Burning Up Slowly ci riporta alla calma e alla serenità dei brani iniziali, altro notevole esempio delle capacità compositive e vocali di questo bravissimo autore e cantante, come pure la leggermente jazzata Tchoupitoulas Street Parade, dedicata ad una località della sua amata New Orleans, con i fiati che la circondano in un caldo abbraccio ed un approccio principalmente strumentale. Big Talk ci mostra entrambe le facce della musica di Osborne, quella più tirata e selvaggia della prima parte e quella sognante e morbida del resto della canzone. A concludere il tutto una “strana” From Space, che sfiora la psichedelia pura nelle parti di chitarra del nostro amico e si avvale anche di inserti recitati in cui appare tra le altre la voce di Rickie Lee Jones (difficile non riconoscerla), quasi free form music che chiude in modo bizzarro un disco per il resto molto piacevole ed accattivante, che conferma la classe di questo signore che quando leggerete questa recensione https://www.youtube.com/watch?v=k-YEhzr3tTU , il 4 maggio scorso, avrà varcato anche lui la soglia dei 50 anni.

Bruno Conti

Un “Sudista” Alla Francese – Leadfoot Rivet – Southern Echoes

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Leadfoot Rivet – Southern Echoes – Dixiefrog/Ird 

Ammetto di non conoscere molto il personaggio, ricordo il nome Leadfoot Rivet perché era uno dei partecipanti al tributo a Roy Buchanan che era uscito a nome Fred Chapellier & Friends nel 2007 e so che ha registrato sei o sette album, tra cui un ottimo Live lo scorso anno https://www.youtube.com/watch?v=VIMhPpWCtw4 . Anche Rivet, come Chapellier è francese, ma non è un chitarrista, più cantante e armonicista, per quanto se la cavi alla electric resonator. Nel libretto del nuovo CD Southern Echoes c’è una lista di tutte le sue collaborazioni passate e presenti, che è lunga come un elenco telefonico, ma che sinceramente non ricordo: da Albert King, Wilson Pickett, Bobby Bland, Irma Thomas, i Flying Burrito Brothers, agli Ozark Mountain Daredevils, Irma Thomas, Steve Young, Duke Robillard, Tom Principato, e mille altri, sarà vero, può essere, visto che il nostro non è più un giovanotto, boh! Sicuramente Larry Garner gli ha dato il soprannome “Leadfoot” mutuato da nomignoli che girano in Louisiana, ma anche se il cognome d’arte viene da quella zona, però non è quello vero, in quanto il nostro all’anagrafe fa Alain Rivey. Al di là di tutto comunque il disco è piacevole, undici pezzi firmati da Rivet e quattro cover, con un buon gruppo di musicisti che lo accompagnano, in gran parte francesi e non particolarmente noti, a parte il texano Anson Funderburgh che suona la solista in Highly Educated Fool, uno dei brani migliori, più vicino al blues elettrico, dove si gusta anche la guitar-sitar di Thomas Weirch.

Per il resto lo stile musicale è molto ibrido, “sudista” nelle intenzioni (Leadfoot viene dalla Provenza, quindi sud della Francia), con elementi country, cajun, zydeco, soul e R&B bianco, un po’ di jazz after-hours leggerino, una sorta di Willie Nelson “de noantri”, anche se lì siamo su ben altri livelli. Comunque la voce è piacevole, rauca, vissuta, non memorabile, ma ben impostata, specie quando si cimenta con una versione gospel-soul di He Ain’t Heavy (He Is My Brother), il famoso brano portato al successo dagli Hollies, qui in una versione quasi knopfleriana, che al primo ascolto mi era parsa abbastanza pacchiana, anche per il lavoro forse troppo complesso alla batteria di Stephane Avellaneda, dalla band di Ana Popovic, ma poi la doppia voce di Slim Batteux e le armonie delle coriste alla fine portano a casa il risultato. Per il resto troviamo pigre ma grintose tracce tra country, soul e blues, come l’iniziale The Bullfrog, dove armonica, chitarre slide e soliste si intrecciano con gusto o Shed My Old Skin dove il profumo delle paludi della Louisiana è insaporito da tocchi R&B, e ancora Hangover In Hanover, che al di là del gioco di parole da quattro soldi è un buon country-folk alla Willie Nelson, non fosse per il vocione di Rivet.

Highly Educated Fool è il blues elettrico con Funderburgh di cui si è detto, e Ghost Train è un veloce country-rockabilly gospel à la Johnny Cash. Slow Motion, cover di tale Billy Stone si muove tra gospel e deep soul, quindi nuovamente territori sudisti, anche grazie alla presenza delle coriste, con JP Avellaneda (fratello del batterista) che rilascia un buon solo di chitarra. Di nuovo aria di New Orleans per Livin’ With Me Is Funny, con l’armonica che fa la parte della fisa, con He Is A Loner di nuovo una di quelle ballate country soul valzerate di cui Willie Nelson è maestro. Somewhere South Of Macon, dall’andatura più marcata e rock è un ottimo brano dal songbook della sottovalutata Marshall Chapman, mentre Damned Tourist con un bel piano elettrico a menare le danze è di nuovo New Orleans style. Non entusiasma il jazz-blues afterhours di una raffinata ma loffia Miss Paranoia, meglio l’ultima cover, ma di poco, il country-swing di Dinosaur, scritta da Hank Williams Jr., a tratti fin troppo gigionesca, Bromberg questo tipo di brani li farebbe molto meglio. Rimangono Why Lie? Need Beer!, una bella traccia countryfied elettroacustica con uso di mandolino e la conclusiva, discorsiva, lunghissima (oltre 8 minuti) The Game Of Love, di nuovo in area country got soul, o se preferite soul blues, con un crescendo intenso e ricco di spirito gospel sudista.

Bruno Conti

Recuperi (E Sorprese) Di Fine Anno 2. Un Peccato Non Conoscerli: The Wood Brothers – Paradise

wood brothers paradise

The Wood Brothers – Paradise – Honey Jar Records

Vi offro una carota di fine anno: ma a differenza di quella di fronte al ciuccio nella copertina di Paradise, nuovo e nono album dei Wood Brothers, non è irraggiungibile, tutt’altro. Anzi, se amate la buona musica, e in questo disco ce n’è tanta, dovete fare il possibile per recuperarlo. I fratelli Wood sono due: Chris, anche contrabbassista con Medeski, Martin & Wood, trio di chiara impronta jazz e Oliver, chitarrista, cantante e produttore (recentemente con Shemekia Copeland per l’ultimo album http://discoclub.myblog.it/2015/09/21/la-piu-bianca-delle-cantanti-nere-recenti-shemekia-copeland-outskirts-of-love/ , ma ha prodotto anche molti dei precedenti e nel 2014 l’eccellente disco di Seth Walker http://discoclub.myblog.it/2014/09/01/rock-blues-soul-miscela-perfetta-seth-walker-sky-still-blue/). A completare la formazione, quello che loro definiscono il terzo fratello (da cinque anni con loro), Jano Rix, a batteria, percussioni e tastiere. Il genere, oltre al rock, blues e soul ricordati nel titolo del Post su Walker, incorpora anche elementi di roots music, o Americana se preferite, e New Orleans sound mediato dall’ottica più rock dei Little Feat. E in questo album anche sprazzi di rock psichedelico fine anni ’60, alla Traffic, band in cui militava l’omonimo Chris Wood. Quindi, se vogliamo, lo stile si potrebbe avvicinare, anche grazie all’uso dei fiati in alcuni dei brani, a quello della Tedeschi-Trucks Band, band con cui Oliver ha spesso collaborato in passato, e i cui titolari, Derek Trucks alla alide, e Susan Tedeschi alla voce, sono presenti come ospiti in Never And Always, una di quelle ballate gospel profane, fintamente pigre e ciondolanti, con l’acustica e il contrabbasso dei Woods e la voce deliziosa di Susan ad evocare quelle calde atmosfere di certe canzoni della Band, fino alla esplosione breve e ficcante della slide di Trucks. 

Anche Raindrop, con i suoi ritmi funky e frastagliati, evoca sia il sound della succitata Band quanto il suono dei gruppi della Louisiana, grazie ai fiati, il trombone in particolare, che si insinuano nel groove poderoso della batteria e del basso di Chris Wood, per la prima volta alle prese con uno strumento elettrico in questo album, e anche la chitarra di Oliver ha la giusta quota di cattiveria, per non parlare delle voci delle McCrary Sisters. Ma “ecletticità” è la parola d’ordine di questo disco: in American Heartache, cantata a due voci dai fratelli Woods, si respira, anche grazie all’armonica dylaniana di Chris, profumo della grande musica americana evocata dal titolo del brano e Oliver rilascia anche un breve e ficcante assolo https://www.youtube.com/watch?v=F1eZqp-Bd3Y . Per non parlare di quella splendida e malinconica ballata che risponde al nome di Two Places, una canzone che parte piano sull’onda di una chitarra acustica, poi lentamente entrano tutti gli strumenti, una rullata di balleria e un colpo di basso, poi scivola dentro un evocativo Hammond e poi arrivano, in questo continuo crescendo, i fiati e tutto si rivela nel suo magico splendore. Ancora diversa la tirata e bluesata iniziale Singin’ To Strangers, di nuovo vicino allo spirito di Dylan e la Band https://www.youtube.com/watch?v=6WidA1yJBGU , grazie di nuovo all’armonica e al lavoro delle chitarre, magistralmente arrangiate, mentre Susan Tedeschi (o sono le McCrary?) presta nuovamente la sua voce per le perfette armonie vocali e Oliver inchioda un altro breve solo dei suoi, e sembra anche di ascoltare i vecchi Delaney & Bonnie, con il loro rock got soul.

Touch Of Your Hand. cantata da Chris Wood, con il classico risuonare del suo contrabbasso a contraddistinguerla, come pure il twangin’ evocativo delle chitarra di Oliver, ha anche tratti di country desertico e anomalo nel suo DNA, mentre Without Desire con il suo serpentino e sinuoso incedere ha stampato New Orleans nel biglietto da visita, tra chitarre, organi e fiati che si dividono equamente gli spazi con la chitarra di Oliver, un solista non esplosivo ma dalla tecnica e dal feeling magnifici. Come conferma, a proposito di serpenti, il R&R à la Little Feat, della vorticosa Snake Eyes, sempre arricchita dalle efficaci armonie vocali di tutto il gruppo, in cui anche Jarno Rix ha la sua parte https://www.youtube.com/watch?v=E7XOBPTI1Iw . Probabilmente, come ha detto il gruppo, alla riuscita di questo Paradise ha contribuito il fatto che i membri della band, vivendo ora tutti a Nashville, hanno potuto scrivere insieme i brani del disco. Come conferma la splendida River Of Sin https://www.youtube.com/watch?v=aLwGosdeiv8 , un’altra ballata jazzata dove si apprezzano il piano e l’organo di Rix che conferiscono un’aria old style, quasi alla Randy Newman, a questa delicata ode al peccato, sempre impreziosita da un cesellato lavoro vocale, in questo caso delle McCrary Sisters. Ho dimenticato qualcosa? Ah sì, manca la dolce e bucolica Heartbreak Lullaby, una piccola delizia folk ed acustica che completa la tavolozza di colori usata per questo Desire, prendere appunti di fine anno, please!

Bruno Conti

Se Sono Bravi Li Troviamo Sempre! D.L. Duncan – D.L. Duncan

d.l. duncan

D.L. Duncan – D.L. Duncan – 15 South Records

Dave Duncan, per l’occasione D.L. Duncan, è uno dei tanti “piccoli segreti” che costellano la scena musicale americana, con una carriera lunga più di 35 anni (o così riportano le sue biografie), anche se discograficamente è attivo solo dagli anni duemila, con un paio di album a nome proprio e uno come Duncan Street, in coppia con l’armonicista Stan Street, uno stile che partendo dal blues incorpora anche alcuni elementi country (in fondo vive e opera a Nashville) e di Americana music, oltre a sapori soul e R&B, presi da Lafayette, Louisiana, l’altra città in cui è stato registrato questo album. Duncan si è sempre circondato di musicisti di pregio, e se nei dischi precedenti apparivano Jack Pearson, del giro Allman, Reese Wynans e Jonell Mosser, oltre a Kevin McKendree e il suo datore di lavoro Delbert McClinton, in questo nuovo lavoro, in aggiunta agli ultimi due citati, appaiono anche Sonny Landreth, David Hood. Lynn Williams e le McCrary Sisters, oltre ad una pattuglia di agguerriti musicisti locali; produce lo stesso D.L. Duncan, con l’aiuto dell’ingegnere del suono Tony Daigle, più volte vincitore di Grammy Awards, recente produttore anche dell’ultimo disco di Landreth.

Il suono è quello classico che ci piace, molto blues e country (poco tradizionale) molto got soul, ma anche rock chitarristico e non mancano neppure vivaci ballate tra New Orleans e il Randy Newman più elettrico, il tutto condito dalla voce laconica ma efficace di Duncan, che è pure ottimo chitarrista. Si passa dal ciondolante e divertente groove dell’iniziale I Ain’t The Sharpest Marble, con il piano di McKendree e l’armonica di McClinton a dare man forte alla solista efficace e variegata di Duncan, al poderoso e tirato rock-blues di Dickerson Road, dove la chitarra del nostro si colloca tra il Santana più bluesy e Mark Knopfler dei primi Dire Straits, con continui lancinanti rilanci e un efficace lavoro di raccordo di McKendree, oltre a Hood che pompa di gusto sul suo basso. You Just Never Know è puro Chicago blues elettrico, di nuovo con McClinton all’armonica e McKendree che passa al piano, oltre alle McCrary Sisters che aggiungono la giusta dose di negritudine, il resto del lavoro lo fa una slide tagliente. Che torna, presumo nella mani di Landreth, per una vigorosa Your Own Best Friend, dove tutta la band conferma ancora una volta il suo valore, Duncan e le McCrary cantano con grande impegno, la ritmica e le tastiere lavorano di fino e il pezzo si ascolta tutto di un fiato https://www.youtube.com/watch?v=P_NDU1bA68M . I Know A Good Thing, scritta con Curtis Salgado (il resto dell’album è quasi tutto firmato dallo stesso Duncan) è un altro minaccioso blues d’atmosfera, costruito intorno a un giro di basso di David Hood che ti arriva fino alle budella, sempre con ottimo lavoro alla bottleneck del nostro amico, che pure lui non scherza come slideman.

Sending Me Angels è una bellissima ballata country-blues, scritta da Frankie Miller (altro grandissimo pallino di chi vi scrive) e cantata in passato anche da McClinton, eccellente il lavoro al dobro di Duncan e di McKendree all’organo con le McCrary che aggiungono una quota gospel con le loro deliziose armonie vocali, una sorta di Romeo & Juliet in quel di Nashville https://www.youtube.com/watch?v=xE3LGA7jyNY . Orange Beach Blues, una specie di autobiografia in musica, è comunque grande musica sudista, profumo di blues, di Texas e Louisiana, quella anche delle canzoni di Randy Newman a cui Duncan assomiglia moltissimo nel cantato di questo brano, che poi è un quadretto sonoro che rasenta la perfezione, e con un finale chitarristico di grande fascino. St. Valentine’s Day Blues è la slow ballad avvolgente e malinconica alla B.B. King che non può mancare in un disco come questo, sempre con la chitarra di Duncan in grande evidenza. Sweet Magnolia Love sembra un pezzo di Ry Cooder da Bop Till You Drop o quelli con la coppia di compari Bobby King e Terry Evans, qui sostituiti dalle voci delle bravissime sorelle McCrary, e la chitarra viaggia sempre che è un piacere https://www.youtube.com/watch?v=QEkp3aAcGOc . E a chiudere il tutto All I Have To Offer You Is Love, una bella ballata di stampo knopfleriano scritta da Craig Wiseman, noto autore di brani country in quel di Nashville, di nuovo eccellente il lavoro di Duncan, qui ancora a dobro e mandolino e con il prezioso contributo di David Pinkston alla pedal steel https://www.youtube.com/watch?v=wnx9YqRyATI . Sarà pure piccolo, ma rimane un gioiellino di disco, non facile da recuperare ma la vale la pena cercarlo!

Bruno Conti    

Le Due Facce Dei Lowlands: Quella Acustica Ed Unplugged Del Nuovo CD+DVD A Tiratura Limitata E Quella Elettrica Del Concerto Di Sabato 28 Novembre Allo Spazio Teatro 89 Di Milano

lowlands live and acousticlowlands live with plastic pals

Come sapete su questo Blog si parla spesso dei Lowlands (e del loro leader Ed Abbiati) in quanto il sottoscritto (oltre ad un rapporto di amicizia con Ed) pensa che siano una delle realtà musicali più interessanti del panorama rock indipendente italiano in lingua inglese (o se preferite, come li ho definiti in altre occasioni degli “italiani per caso”)!

Quindi visto che ci sono buone nuove sul fronte discografico e concertistico eccomi a parlarvi di nuovo di loro. Esce in questi giorni, con tiratura limitata di 500 copie, il secondo volume delle Bootleg Series della band pavese: si intitola Live And Acoustic At Spazio Teatro 89 April 5th 2014, é un CD+DVD su etichetta Gypsy Child Records, in Italia verrà venduto solo sul loro sito o ai concerti e considerando che la data di sabato prossimo 28 novembre allo Spazio Teatro 89 di Milano sarà l’ultima occasione di vedere la band in versione elettrica per un po’ di tempo, da quanto mi dice Ed, e anche di acquistare lì al concerto il nuovo doppio Live della band, l’occasione è ghiotta. La formazione sarà a cinque, con Manuel Pili al basso al posto di Antonio “Rigo Righetti”, mentre oltre a Ed Abbiati Roberto Diana, immancabili (e che dovrebbero poi proseguire momentaneamente come duo nella prima parte del 2016, con due progetti discografici in fase preliminare), ci dovrebbero essere anche Francesco Bonfiglio, a tastiere e fisarmonica e Mattia Martini alla batteria. Ad aprire il concerto ci saranno i Plastic Pals, una interessante band rock svedese diciamo del filone Paisley Underground/Garage Rock il cui minimo comune denominatore con i Lowlands è Chris Cacavas, che ha prodotto il loro ultimo album Turn The Tide https://www.youtube.com/watch?v=OmTJAQE4kCQ  ed è stato collaboratore di Ed Abbiati nell’ottimo Me And The Devil https://www.youtube.com/watch?v=7-tHaCrI3A0 . Quindi intervenite numerosi perché la serata si preannuncia interessante. E adesso spendiamo due parole per l’ottimo Lowlands Live And Acoustic.

17 tracce nella versione CD e 20 nella versione DVD (che riporta anche le presentazioni e i dialoghi tra un brano e l’altro) questo Live, nonostante la scritta Bootleg Series è un prodotto altamente professionale, con ottima qualità audio e video, ripreso con varie telecamere e con una resa sonora del tutto soddisfacente. Siamo al 5 aprile del 2014, un sabato, il giorno dopo la band entrerà in studio per proseguire con la registrazione di quello che sarà il loro nuovo album di studio, l’eccellente Love, Etc… di cui potete leggere qui http://discoclub.myblog.it/2014/11/21/continua-linvasione-delle-band-pavesi-lowlands-love-etc-disco-concerto/. Il titolo dell’album parla di un disco dal vivo e acustico, e così è, ma rientra tranquillamente anche nella categoria degli Unplugged, vista la mancanza di strumenti elettrici, come è tradizione della vecchia serie che andava in onda su VH1. In comune con quella serie (come ricordiamo dalle esibizioni di Clapton, Neil Young, Dylan, R.e.m. e molti altri) è la presenza comunque sul palco di una miriade di musicisti, “senza spina” ma in metà di mille, anche nella serata dei Lowlands a tratti sul palco ci saranno fine a sedici musicisti.

Il concerto, che è anche una sorta di retrospettiva sulla carriera della band, si apre in chiave acustica con The Last Call, la title-track del primo album, e per l’occasione al contrabbasso torna Simone Fratti, il primo bassista della formazione; qui la dimensione è decisamente acustica e intima, anche grazie alla ottima acustica del teatro, quasi completamente esaurito per l’occasione, con i tocchi dell’armonica di Richard Hunter e del’ospite Alice Ghiretti al cello, a colorire il suono già dalla successiva Life’s Beautiful Lies, con Rigo Righetti ora al basso e anche la presenza di Alex Cambise alla seconda chitarra e del piano di Bonfiglio comincia a farsi sentire, mentre il lavoro di Mattia Martini alla batteria è soffuso ma chiaramente percepibile, come quello della slide acustica di Roberto Diana. Il concerto prosegue con reminiscenze di Ed sulla genesi dei brani, per esempio Ashes, con Cambise ora al mandolino e Bonfiglio alla fisa e Matteo Zanesi alle percussioni sullo sfondo, sempre in perfetto stile unplugged, mentre il ritmo si alza con la ottima Lovers And Thieves, con un sound molto alla Waterboys, più mosso e quasi celtic soul, mentre Fragile Man, dedicata ad un vecchio amico che non c’è più è decisamente più malinconica e raccolta.

A questo punto torna sul palco Hunter con la sua armonica e si aggiunge alla lap steel, MG Boulter, leader dei Lucky Strikes, che aveva aperto la serata, per una suggestiva e raffinata Lately (solo sul DVD, ma la confezione è doppia per cui trovate comunque tutto) molto roots. Cheap Little Paintings, dedicata ai vecchi dipinti del padre, ma anche all’arte di scrivere “piccole” canzoni torna all’ambientazione sonora di inizio concerto e anche Friday Night mantiene questa aura malinconica e folk, come pure 38th & Lawton, brano da singer songrwriter, concepito a San Francisco e con l’armonica di Hunter di nuovo in bella evidenza, mentre ritornano anche Fratti e Stefano Speroni all’acustica della vecchia formazione, i due rimangono per Like A Rose, sempre dal primo album. A seguire Walking Down The Street, nelle parole di Ed Abbiati la sua canzone alla Creedence, almeno nelle intenzioni perché noi non c’entra nulla, anche se rimane una bella canzone. A questo punto il palco si fa affollato, per la seconda parte del concerto arrivano i quattro musicisti addetti ai fiati, Andres Villani al sax, Massimiliano Paganin alla tromba, Marco Grignani al trombone e Claudio Perelli al clarinetto e il suono prende un’altra piega, decisamente più celtic soul, per esagerare, con tocchi alla Band e arie musicali pescate da New Orleans, subito ben evidenziate da una brillante Gypsy Child, con i contrappunti dei fiati a dare più brillantezza al sound, ancora più evidenti nella divertente e trascinante You Me The Sky And The Sun, uno dei brani in anteprima dal “futuro” Love Etc.

Ghosts In This Town è una delle più belle canzoni scritte da Ed, nel parere di chi scrive, e questa veste unplugged con fiati aumenta il suo fascino e anche In The End mantiene questa aria da festa tra amici, con il suo ritornello irresistibile e cantabile che ben si presta alla dimensione Live e ad un sing-along con tutto il pubblico. Una lunghissima Only Rain, che viene sempre Gypsy Child, parte sulle ali della slide di Roberto Diana e poi si sviluppa in un altro bell’arrangiamento corale, grazie alla particolare “magia” di quella serata, molto bella la parte strumentale centrale, che è anche l’occasione per presentare tutti i partecipanti alla serata. Fine del concerto, ma tornano in fretta per qualche bis: Lowlands, il primo brano in assoluto, inciso per un tributo ai Gourds, eccellente band texana da cui ha preso il nome il gruppo, è una sorta di epica ballata sudista, molto americana nel suo divenire, con un eccellente Cambise alla’acustca e i “soliti” Hunter all’armonica e Diana alla slide, tra i protagonisti assoluti della serata, senza forse quelle nuances celtiche che si sarebbero poi aggiunte al suono della band. Love Etc…, altro brano nuovo per l’occasione è una delle canzoni che più mi piacciono dell’ultima produzione del gruppo, una piccola delizia sonora a tempo di valzer che permette al pubblico di partecipare e a Ed di dedicare la canzone a moglie e figlie. “Ancora una”, Keep On Flowing, altra gioiosa celebrazione in puro spirito celtic soul con tutti i musicisti sul palco e per finire veramente Homeward Bound (che non è quella di Simon & Garfunkel, ma evidentemente le canzoni con quel titolo sono tutte belle), poi ripresa a fine anno nel concerto di presentazione di Love Etc… con tanto di discesa tra il pubblico con un finale che più “unplugged” non si può, ma quella era un’altra storia.

Questo è quanto, se siete interessati alla loro musica e questa bella confezione doppia, per aggiudicarvela, dietro congruo pagamento, non dovete fare altro che presentarvi al loro concerto di sabato prossimo allo Spazio Teatro 89 di Milano. Ne vale la pena!

Bruno Conti

Un Grande Musicista “Cittadino Del Mondo” ! Joe Jackson – Fast Forward

joe jackson fast forward

Joe Jackson –Fast Forward – Ear Music / Edel

Questo signore ha iniziato a fare musica alla fine degli anni settanta, con un esordio a dir poco sfolgorante, Look Sharp (79), una miscela esplosiva di new wave, reggae, funky e pop. In quei tempi la musica inglese era estremamente vitale, con artisti del calibro di Elvis Costello, Graham Parker e un gruppo innovativo come i Police, e la musica  di Joe Jackson si collocava perfettamente in un simile contesto. Poi il buon Joe ha incominciato a cambiare idea sulla musica che doveva fare, era già stanco del rock ed ha progressivamente modificato il suo stile compositivo con i lavori seguenti, Jumpin’ Jive (un tributo a Louis Jordan) e alla musica jump-blues e swing, il capolavoro Night And Day (il suo album di maggiore successo, sia di critica che di vendite), i sottovalutati Body And Soul (con sfumature jazz e varie correnti musicali), e Big World (86). Poi è iniziato un periodo “strano” con l’esperimento di Will Power e la colonna sonora di Tucker, e a parte l’ottimo live Summer In The City (00), l’ultimo quarto della carriera di Jackson (tra sinfonie e musiche per la notte), si è perso in progetti un po’ troppo “cerebrali” per essere apprezzati. Adesso, a distanza di sette anni dall’ultimo lavoro in studio Rain (08), torna con questo ambizioso progetto Fast Forward,  un disco costituito da sessioni registrate in quattro città diverse (e con organici diversi): New York, Berlino, Amsterdam e New Orleans, i luoghi che hanno influenzato musicalmente la sua lunga carriera.

Il viaggio nel mondo parte da New York (dove Joe ha vissuto per diversi anni), registrando le quattro tracce con Bill Frisell alla chitarra, Brian Blade alla batteria, il suo bassista storico Graham Maby, e la brava violinista jazz Regina Carter, a partire dalla lunga title track Fast Forward, dove al pianoforte si risente il Jackson migliore, accompagnato dal violino magico della Carter, per poi passare al bel ritmo mosso di If It Wasn’t For You, intercalato dagli inconfondibili tocchi di chitarra di Frisell, una cover della “verlainiana” See No Evil  dal classico album Marquee Moon dei Television) https://www.youtube.com/watch?v=RjMngVhOjec , e un brano dalle sfumature un po’ jazz come King Of The City, che ripercorre atmosfere alla Donald Fagen https://www.youtube.com/watch?v=gau0w4gauKk .  La seconda “casa”, Amsterdam, si avvale di frequenti collaboratori come Stefan Kruger e Stefan Schmid della band Zuco 103 e dell’Orchestra del Concertgebouw per ariose ballate mid-tempo come A Little Smile, una Far Away con in evidenza la voce della quattordicenne Mitchell Sink, un gioiello a ritmo di mambo come So You Say, e una miscellanea di suoni diversificati nella crepuscolare Poor Thing.

Berlino è la terza “casa, e come la città il suono è più moderno e innovativo, e Joe Jackson utilizza musicisti americani di grande esperienza quali Greg Cohen (Tom Waits, Bob Dylan) al basso, e il batterista Hearl Harvin (Tindesticks), con la prima traccia Junkie Diva che si avvale di un riff trascinante (e di un testo che potrebbe ricordare cantanti “perdute” come Amy Whitehouse o Janis Joplin) https://www.youtube.com/watch?v=pc4aW7oJG6k , seguita dagli inserti di tromba raffinati di If I Could See Your Face, una canzone che si sviluppa su un tessuto sonoro orientale, mentre The Blue Time è una splendida ballata pianistica notturna https://www.youtube.com/watch?v=vyO1BOxUZwk , prima di arrivare ad una cover di un brano del 1930, la famosa Good Bye Jonny di Kurt Weill, cantata in versione cabaret. La quarta e ultima “casa”  è quella di New Orleans (una delle città preferite da Jackson), dove ha deciso di lavorare con musicisti locali, tra cui tre componenti del gruppo funk Galactic, il batterista Stanton Moore, il bassista Robert Mercurio, il chitarrista Jeff Raines, e una indispensabile sezione fiati guidata dal sassofonista Donald Harrison, settore che parte con le tastiere e il groove deciso di una vibrante Neon Rain, a cui seguono di nuovo le note di una tromba e i fiati in una intrigante Satellite, il ritmo saltellante e spavaldo di Keep On Dreaming, andando a chiudere con la sarabanda funky finale di Ode To Joy, tipica dei suoni che si respirano in una città piena di “umori” come la capitale della Louisiana.

Ho sempre pensato che questo “nomade” musicista fosse l’unico (di quella ondata citata all’inizio) ad avere le carte in regola per restare sulla cresta dell’onda, un artista dal talento “poliedrico”, con una voce che spazia dal pop al rock, dal soul al blues, dallo swing al jazz, il tutto ancora una volta certificato da questo ultimo lavoro Fast Forward, che riporta Joe Jackson ai livelli che gli competono, con canzoni di una qualità pari a quella che ha distinto i suoi momenti migliori, fatte anche di ritmo e tanta energia. Bentornato Mr. Jackson.!

Tino Montanari