Questa E’ La Vera Musica Latino-Americana! The Mavericks – En Espanol

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The Mavericks – En Espanol – Mono Mundo/Thirty Tigers CD

I Mavericks, che quest’anno festeggiano i trent’anni di carriera, si possono ormai considerare una delle band cardine del panorama musicale americano. Dopo aver raggiunto il successo negli anni novanta con dischi come What A Crying Shame, Music For All Occasions e Trampoline, il gruppo di Miami è stato sciolto dal leader Raul Malo che voleva perseguire una carriera come solista, una separazione che è durata ben quindici anni (a parte una reunion estemporanea nel 2003 con il peraltro incerto The Mavericks). Una volta riformatisi, i nostri sono riusciti disco dopo disco a tornare ai livelli di un tempo (specie con gli ultimi due lavori Brand New Day e Play The Hits https://discoclub.myblog.it/2019/11/25/una-gran-bella-collezione-di-successidegli-altri-the-mavericks-play-the-hits/ ), ed oggi sono giustamente considerati una di quelle band in grado di suonare qualsiasi cosa, che sia country, rock’n’roll, pop, swing, musica di stampo messicano o ballate romantiche alla Roy Orbison, grazie alla grande voce del leader ed alla bravura strumentale degli altri tre (Eddie Perez, chitarre, Jerry Dale McFadden, piano ed organo, Paul Deakin, batteria).

Dopo aver provato quasi tutti i generi musicali, quest’anno Malo ha voluto realizzare un progetto da sempre nei suoi pensieri, e cioè un intero disco di musica latina cantato in spagnolo, un proposito favorito anche dalle sue origini cubane. Il disco in questione si intitola appunto En Espanol, ed in dodici canzoni esplora splendidamente la musica latina in varie sfaccettature: ci sono brani chiaramente che risentono dell’influenza cubana, ma anche tanto Messico, un pizzico di contaminazione sudamericana e perfino come vedremo un pezzetto di Italia. Ma quello che più conta è che En Espanol (prodotto come sempre da Malo e Niko Bolas, storico collaboratore di Neil Young) è un album davvero godibile, suonato in maniera perfetta e cantato meravigliosamente da Raul, che con gli anni sembra migliorare disco dopo disco. In più, il suono è rinforzato come già negli ultimi lavori dai Fantastic Five, un combo che conta sulla splendida fisarmonica ed il bajo sexto di Michael Guerra, una sezione fiati di tre elementi ed il basso di Ed Friedland, più il contributo in tre brani del bravissimo pianista Alberto Salas ed in uno del mitico Flaco Jimenez e del suo inseparabile accordion (e non manca in diversi pezzi l’uso dell’orchestra, fortunatamente mai in maniera ridondante).

En Espanol è bilanciato tra cover (sette) e brani originali (cinque), e sono proprio questi ultimi la vera sorpresa, in quanto sembrano in tutto e per tutto canzoni appartenenti alla tradizione. I pezzi scritti da Malo (da solo o con altri) iniziano con la splendida Recuerdos, un brano dall’atmosfera latina anni sessanta, con grande musicalità da parte della band e dei fiati e la voce di Raul che è uno spettacolo a parte: il ritornello, poi, è irresistibile. Poder Vivir è un solare corrido messicano che sembra tradizionale al 100%, con Guerra che fa il bello e il cattivo tempo; Mujer è un godibile bolero che fa incontrare Messico e Cuba, e si contrappone alla melodiosa Pensando En Ti, uno slow dal sapore d’altri tempi cantato con grande intensità, ed alla vibrante Suspiro Azul, cadenzata e coinvolgente. E veniamo alle cover: il CD si apre con La Sitiera (scritta da Rafael Lopez Gonzalez e resa popolare da Omara Portuondo), introdotta da un evocativo chitarrone twang subito doppiato dall’orchestra, poi arriva la voce potente di Malo che prende subito il possesso del brano; non ci sono altri strumenti fino al terzo minuto, quando entra il resto della band insieme ad una tromba mariachi, conducendo la canzone al termine in maniera spettacolare.

No Vale La Pena (del grande cantante messicano Juan Gabriel) è una gioiosa fiesta piena di suoni e colori, con la fisa di Flaco a duettare baldanzosamente con Malo, mentre i Mavericks sembrano un gruppo proveniente da Guadalajara più che dagli Stati Uniti; Sombras Nada Mas, un pezzo reso noto da Javier Solis, è un lento strappalacrime con i nostri che bilanciano perfettamente antico e moderno (e Raul sembra davvero Orbison), mentre Me Olvidé De Vivir è addirittura appartenente al repertorio di Julio Iglesias (che figura anche tra gli autori), ed il brano mantiene lo stile latino-pop romantico del famoso cantante spagnolo anche se Malo e compagni fanno la differenza per quanto riguarda il suono. La nota Sabor A Mi è uno dei più celebri bolero della musica latina (l’hanno fatta un po’ tutti, dai Los Panchos a Luis Miguel), ed i nostri la eseguono con classe, eleganza e rispetto per la struttura originale. L’aggancio con l’Italia di cui parlavo prima è con Cuando Me Enamoro, adattamento della famosa Quando Mi Innamoro (che nel booklet viene attribuita ad Andrea Bocelli, che però è solo l’ultimo in ordine di tempo ad averla proposta, essendo originariamente un pezzo presentato a San Remo nel 1968 da Anna Identici): la canzone è quella in assoluto con l’arrangiamento meno “latino”, ma si mantiene ben ancorata nei sixties e risulta alla fine tra le più gradevoli.

Le cover (ed il CD) terminano con la pimpante Me Voy A Pinar Del Rio (della celebre cantante cubana Celia Cruz), una delizia a tempo di mambo, decisamente trascinante e perfetta per concludere in crescendo un album che mi sento di consigliare anche a chi non ne può più di musica finto-latina e danzereccia: i Mavericks sono un gruppo vero, ed En Espanol è un disco divertente ma concepito con grande serietà ed amore.

Marco Verdi

Una Gran Bella Collezione Di Successi…Degli Altri! The Mavericks – Play The Hits

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The Mavericks – Play The Hits – Mono Mundo/Thirty Tigers CD

Quando ho letto che tra le uscite di Novembre c’era un album dei Mavericks intitolato Play The Hits ho subito pensato ad un’antologia o, meglio, ad un disco dal vivo incentrato sui loro brani più popolari, cosa che sarebbe stata anche logica dato il periodo pre-natalizio. Dopo essermi informato meglio ho invece constatato che Play The Hits è un lavoro nuovo di zecca da parte della band di Miami, nel quale i nostri rileggono alla loro maniera una serie di canzoni che sono stati dei successi nelle mani di altri artisti. Un album di cover in poche parole, scelta anche logica in quanto Raul Malo e compagni (Eddie Perez, Jerry Dale McFadden e Paul Deakin) fin dai loro esordi nell’ormai lontano 1991, quando venivano etichettati come country, erano in grado di interpretare qualunque tipo di musica, dal rock’n’roll al country, dal tex-mex alla ballata anni sessanta, passando per pop e ritmi latini (ricordo che Malo nasce da genitori cubani). Da quando i Mavericks si sono riformati nel 2003 la loro carriera è stata un continuo crescendo, ed il loro ultimo album di materiale originale, Brand New Day, è stato uno dei dischi più belli del 2017; lo scorso anno ci siamo divertiti con il loro album natalizio Hey! Merry Christmas! https://discoclub.myblog.it/2018/12/12/ancora-sul-natale-la-festa-e-qui-the-mavericks-hey-merry-christmas/ , ed ora Play The Hits ci fa vedere la bravura dei nostri nel prendere canzoni di provenienza abbastanza eterogenea e di plasmarle al punto da farle sembrare opera loro.

Con l’aiuto ormai abituale dei Fantastic Five (una sorta di gruppo-ombra che collabora con i nostri da diverso tempo, e che vede l’ottimo Michael Guerra alla fisarmonica, Ed Friedland al basso ed una sezione fiati di tre elementi) il quartetto ci regala 42 minuti di estrema piacevolezza, con undici brani scelti tra successi più o meno famosi rifatti con grande creatività ma senza stravolgere le melodie originali, nel segno quindi del massimo rispetto. Malo è ormai uno dei migliori cantanti in circolazione, una voce melodiosa e potente al tempo stesso che lo ha imposto da tempo come vero erede di Roy Orbison (ci sarebbe anche Chris Isaak, che però non può raggiungere l’estensione vocale di Raul), mentre i suoi tre compari sono in grado di suonare qualsiasi cosa. Il CD, prodotto da Malo con Niko Bolas (vecchio collaboratore di Neil Young), inizia in maniera decisa con Swingin’ (del countryman John Anderson), brano cadenzato che perde l’arrangiamento originale per acquistarne uno nuovo che si divide tra rock, swamp ed errebi, un mood trascinante e caldo grazie all’uso dei fiati e Raul che canta da subito alla grande. I fiati colorano ancora di rhythm’n’blues la mitica Are You Sure Hank Done It This Way di Waylon Jennings, con i nostri che mantengono il passo del compianto artista texano in mezzo ad un suono forte ed impetuoso; Blame It On Your Heart è un pezzo di Patty Loveless che qua diventa uno splendido tex-mex tutto ritmo, colore e grinta, con Guerra che fa il suo dovere alla fisa ed i nostri che confezionano una performance irresistibile.

Don’t You Ever Get Tired (Of Hurting Me), di Ray Price, è un delizioso honky-tonk lento con buona dose di romanticismo e solita prestazione vocale da favola di Malo, e Guerra che garantisce anche qui un sapore di confine. I nostri omaggiano anche Freddy Fender con una toccante versione di Before The Next Teardrop Falls: bellissima melodia cantata un po’ in inglese un po’ in spagnolo ed ancora la grandissima voce del leader a dominare (davvero, non ci sono molti cantanti a questo livello in circolazione), mentre è sorprendente la rilettura di Hungry Heart di Bruce Springsteen, che si tramuta in un country-swing con fiati dal sapore anni sessanta, con tanto di chitarra twang, una trasformazione decisamente riuscita che però non snatura l’essenza della canzone; Why Can’t She Be You è una versione jazzata e raffinatissima di un pezzo di Hank Cochran portato al successo da Patsy Cline (che ovviamente aveva cambiato il titolo volgendolo al maschile), con Mickey Raphael ospite all’armonica: grande classe. Once Upon A Time è un noto standard rifatto anche da Frank Sinatra, qui arrangiato come un ballo della mattonella in puro stile sixties, con l’aggiunta della seconda voce di Martina McBride, mentre Don’t Be Cruel non ha bisogno di presentazioni: famosissimo brano di Elvis che viene riproposto con un gustoso e trascinante arrangiamento tra country e big band sound, una meraviglia. Finale con un’intensa versione del classico di Willie Nelson Blue Eyes Crying In The Rain, solo Raul voce e chitarra (ma che voce), e con I’m Leaving It Up To You, una hit del dimenticato duo Dale & Grace che è una ballatona dal muro del suono potente ed un’atmosfera ancora d’altri tempi.

Quindi un altro ottimo disco in questo ricco autunno musicale.

Marco Verdi

Ancora Sul Natale: La Festa E’ Qui! The Mavericks – Hey! Merry Christmas!

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The Mavericks – Hey! Merry Christmas! – Mono Mundo/Thirty Tigers CD

Ho sempre trovato strano che un gruppo “festaiolo” come i Mavericks non avesse mai pubblicato un album a carattere natalizio (solo un singolo in occasione del Record Store Day del Novembre dello scorso anno), una mancanza alla quale la band capitanata da Raul Malo ha deciso di riparare oggi con questo nuovissimo Hey! Merry Christmas!, che si pone da subito come una delle uscite a tema stagionale più interessanti di questo 2018. Tanto per cominciare Malo e compagni (Eddie Perez alle chitarre, Jerry Dale McFadden alle tastiere e Paul Deakin alla batteria e percussioni) non hanno fatto come il 90% degli artisti, anche i più blasonati, che scrivono uno o due pezzi nuovi e poi si affidano quasi totalmente a classici brani della tradizione natalizia, ma hanno deciso di mettere a punto un vero e proprio disco nuovo, con ben otto pezzi su dieci composti ex novo e solo due cover. Una scelta del tutto insolita, non esclusiva (per esempio anche Rodney Crowell ha appena pubblicato un Christmas record di soli brani originali https://discoclub.myblog.it/2018/11/11/per-un-natale-texano-diverso-rodney-crowell-christmas-everywhere/ ), ma che rende il risultato finale decisamente personale e tipico dello stile dei nostri, che stanno vivendo un momento di ottima forma dato che Brand New Day, il loro lavoro del 2017, è senza dubbio il disco migliore che hanno prodotto in questi anni duemila https://discoclub.myblog.it/2017/04/20/sono-tornati-ai-livelli-di-un-tempo-mavericks-brand-new-day/ .

Hey! Merry Christmas! è quindi un album vario, divertente, pieno di suoni, ritmo e idee, suonato alla grande e cantato al solito in maniera strepitosa da Malo, una delle grandi voci del nostro tempo; la produzione è nelle mani di Raul stesso e di Niko Bolas, collaboratore storico di Neil Young e già da anni a fianco dei Mavericks, e la parte strumentale è potenziata da un altro gruppo chiamato The Fantastic Five, che comprende la bellissima fisarmonica di Michael Guerra, Ed Friedland al basso ed una sezione fiati di tre elementi (Julio Diaz e Lorenzo Ruiz alle trombe e Max Abrams al sax), con in più la ciliegina dei cori femminili a cura delle McCrary Sisters, che donano un tocco gospel al solito mix vincente di rock, pop, country, ballate e Messico. Il CD inizia proprio con la canzone del singolo del 2017, Christmas Time Is (Coming ‘Round Again), un brano gioioso e ricco di swing, dal ritmo sostenuto e con un arrangiamento che rispetta la tradizione dei classici pop natalizi ed un aggancio alle produzioni di Phil Spector. Ancora un Wall Of Sound decisamente allegro con la squisita Santa Does, introdotta da un sax sbarazzino, un pezzo dall’aria molto sixties ed un ritornello da canticchiare al primo ascolto; la cadenzata I Have Wanted You (For Christmas) ha un’atmosfera nostalgica ed un suono che è una via di mezzo tra pop e country (e con un tocco mexican), mentre Christmas For Me (Is You) è una ballatona d’altri tempi, lenta e jazzata, con una notevole prestazione vocale di Malo ed un accompagnamento di gran classe.

Santa Wants To Take You For A Ride ha una ritmica sinuosa ed un mood che ha più di un debito con Elvis, una sorta di rockabilly con fiati davvero piacevole; It’s Christmas Without You ha ancora un mood decisamente vintage, sembra uscita da un disco natalizio di fine anni cinquanta, ed è tra le più gradevoli (e poi Raul canta meravigliosamente). Ho parlato poco fa di Phil Spector, ed ecco proprio Christmas (Baby Please Come Home), uno dei brani più popolari del famoso album natalizio del grande produttore newyorkese (la cantava Darlene Love): Malo e soci rispettano l’arrangiamento originale e tirano fuori una performance di grande forza, le sorelle McCrary forniscono adeguato supporto vocale e la canzone ne esce alla grande. Hey! Merry Christmas! è puro rock’n’roll, sempre con un occhio al passato, ed i nostri dimostrano di divertirsi un mondo, One More Christmas è nuovamente pop di classe, con suoni dosati alla perfezione ed atmosfera che resta inchiodata ai suoni di più di cinquanta anni fa. Chiusura con una rilettura al solito raffinatissima di Happy Holiday, canzone scritta da Irving Berlin e portata al successo da Bing Crosby nel lontano 1942. Mavericks e il Natale sono fatti gli uni per l’altro, e questo dischetto lo dimostra in maniera inequivocabile.

Marco Verdi

Carina, Brava E Con Le Amicizie Giuste! Whitney Rose – Rule 62

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Whitney Rose  – Rule 62 – Six Shooter/Thirty Tigers CD

Sono passati sono pochi mesi dall’ottimo EP South Texas Suite http://discoclub.myblog.it/2017/03/02/texana-no-canadese-whitney-rose-south-texas-suite/ , ma la giovane Whitney Rose (artista canadese di nascita ma americana d’adozione) è già tornata tra noi, questa volta con un full length intitolato Rule 62. La carriera della brava (e bella) artista è legata a doppio filo con la figura di Raul Malo, che ha prodotto l’EP del 2017 ed anche il precedente album di Whitney (e secondo in assoluto) Heartbreaker Of The Year, e la scintilla è scattata quando la Rose ha aperto nel 2013 i concerti dei Mavericks: Malo si è innamorato, professionalmente si intende, della country singer canadese e l’ha guidata passo dopo passo, fino a questo nuovo album che già dal primo ascolto si candida come il migliore dei tre pubblicati dalla ragazza (ed alla produzione oltre a Raul c’è anche un’altra nostra vecchia conoscenza: Niko Bolas, vecchio braccio destro di Neil Young).

Il matrimonio musicale tra la Rose e Malo funziona alla grande, in quanto lo stile di Whitney si ispira direttamente al country più classico, quello di Patsy Cline e Hank Williams (anche se la grinta da rocker alla giovane non manca di certo), e le atmosfere un po’ retro predilette da Raul si sposano alla perfezione con certe sonorità. Se aggiungiamo che la Rose ha anche buone capacità di scrittura e che al disco partecipa una bella serie di musicisti di valore (tra cui il batterista dei Mavericks, Paul Deakin, il bassista Jay Weaver, anch’egli ultimamente con la band di Raul, il fiddler Aaron Till, già con gli Asleep At The Wheel, il chitarrista Kenny Vaughn e l’ottima pianista Jen Gunderman), non è difficile capire perché questo Rule 62 è un lavoro da tenere in considerazione. L’avvio è splendido: I Don’t Want Half (I Just Want Out) è country puro e cristallino, un honky-tonk del genere che Malo e soci facevano ad inizio carriera, cantata da Whitney con la voce giusta e dal suono scintillante. La mossa Arizona ha il ritmo tipico di certe cose del Sir Douglas Quintet (e quindi profuma di Texas), e l’uso del sax dona ancora più colore al sound, Better To My Baby è molto anni sessanta, con un tipo di arrangiamento in cui Malo è un maestro (c’è anche un bel chitarrone twang), ma Whitney non vive di luce riflessa, è brava e ha le idee chiare.

E poi le canzoni se le scrive da sola. La languida You Never Cross My Mind dimostra che la Rose non è solo grinta, ma ha un lato dolce che non è da meno (e qui Raul presta anche la sua voce, in sottofondo ma riconoscibilissima), You Don’t Scare Me ha di nuovo un sapore d’altri tempi, un tipo di suono nel quale anche Chris Isaak ci sguazza, ed il ritornello è decisamente accattivante, mentre la fiatistica Can’t Stop Shakin’ cambia registro, in quanto è un autentico e classico errebi suonato con il giusto piglio (e c’è anche un bell’assolo chitarristico), anche se forse qui ci voleva una voce più potente. Una fisarmonica fa capolino nella bella Tied To The Wheel (cover di un brano di Bill Kirchen), una country ballad tersa e luminosa, anch’essa suonata in maniera perfetta, la spedita Trucker’s Funeral ha un mood anni settanta, un misto di Dolly Parton e Jessi Colter, anch’essa di ottimo livello; Wake Me In Wyoming è ancora honky-tonk deluxe che più classico non si può, You’re A Mess ha il sapore delle produzioni dell’età d’oro della nostra musica (anche qui lo zampino di Malo si sente), mentre Time To Cry è puro country’n’roll, diretto e trascinante, e chiude in maniera energica un dischetto davvero piacevole, riuscito e da non sottovalutare.

Marco Verdi

L’Altra Metà Della Famiglia? O Non Più! Pegi Young & The Survivors – Lonely In A Crowded Room

Pegi Young Lonely

Pegi Young & The Survivors – Lonely In A Crowded Room – New West

Come sapete di solito non ci occupiamo di gossip, pettegolezzi e/o vicende familiari, ma visto che il personaggio lo richiede facciamo una eccezione per l’occasione. Come forse avrete letto, assolutamente a sorpresa, Neil Young a luglio di quest’anno ha presentato istanza di divorzio da Pegi, dopo ben 36 anni di matrimonio. Che cosa è successo? Chi lo sa! David Crosby che ha estrinsecato dei commenti negativi, soprattutto sulla nuova compagna di Neil, di cui tra un attimo, ha provocato una risposta piccata da parte del canadese, che ha annunciato che CSNY non suoneranno mai più insieme, con Graham Nash che sta cercando di fare da pompiere e paciere, e a sua volta annuncia, per il prossimo anno, un tour di CSN da soli. Nel frattempo la situazione procede, Young si è fatto vedere con la nuova fidanzata, Daryl Hannah (apperò! Pero poi se uno ci pensa, non è che si sia messo con una teenager, la biondona ormai ha anche lei i suoi 53 anni), Pegi non si è presentata al Farm Aid, ma poi tutti e due, ognuno con la propria sezione di concerto, a fine ottobre hanno partecipato al Bridge School Benefit. Vedremo gli sviluppi futuri, evidentemente a 68 anni non gli bastava più “giocare” con il Pono, i marchingegni di Jack White e le orchestre dell’ultimo Storytone http://discoclub.myblog.it/2014/11/16/il-bisonte-sbaglia-due-volte-fila-neil-young-storytone/ , dove peraltro ci sono anche brani dedicati alla sua nuova situazione amorosa.

Ma veniamo a questo Lonely In A Crowded Room, quarto album da solista di Pegi Young, dove comunque in un brano, Don’t Let Me Be Lonely (!). appare anche Neil Young, debitamente ringraziato nelle note con un “Wishing You Peace Of Mind”. Probabilmente, anzi sicuramente, la registrazione è avvenuta prima della rottura, visto che il disco è stato creato, in parte, al Broken Arrow Ranch, con la produzione di Niko Bolas, e la presenza al basso di Rick Rosas, prestato dai Survivors ai Crazy Horse nell’ultimo tour, per sostituire Billy Talbot che aveva avuto dei problemi di salute: solo che nel frattempo, inopinatamente, il 6 novembre, Rosas è morto improvvisamente, lasciandomi basito, alla faccia della sfiga! Chiusa parentesi. Nel disco, alle tastiere, nonché eminenza grigia del progetto, troviamo il grande Spooner Oldham, oltre al bravo chitarrista Kelvin Holly, Phil Jones alla batteria e in un paio di brani, ad esempio quello più country, Lonely Women Make Good Lovers, l’ottimo Mickey Raphael all’armonica . Il disco è piacevole e si lascia ascoltare anche se l’abbrivio faceva sperare in cose migliori: I be weary, posta in apertura, sembra una bella ballata mossa con il marchio di fabbrica della famiglia Young, acustiche e una bella elettrica in evidenza, le tastiere di Oldham a fare da collante al sound e lei che canta decisamente bene, meglio che in passato https://www.youtube.com/watch?v=82oT2krXYCI . Anche Obsession ha un bel piglio rock, energica e decisa, con le voci di supporto di Paula & Charlene Holloway a dare spessore al brano, ben sostenuto dal piano elettrico di Spooner e dalla chitarra tagliente di Holly https://www.youtube.com/watch?v=J6Abm8Q0aEI . Che partenza! Tutti i due brani scritti da Pegi, come la successiva Better Livin’ Through The Chemicals, brano felpato e jazzato, con la presenza dei fiati, ma anche piuttosto raffinato.

Appena meglio la cover di Ruler My Heart, un vecchio brano di stampo soul a firma Naomi Neville, che però evidenzia che Pegi non è poi questa gran cantante, se la cava con onestà, senza brillare troppo https://www.youtube.com/watch?v=_erWT_16_Bk . Il pezzo country già citato porta la firma di Spooner Oldham ed è piacevole, mentre Don’t Let Me Be Lonely, è un altro pezzo vecchio soul del 1964, scritto da Jerry Ragovoy, con qualche pennellata chitarristica del vecchio Neil, niente da strapparsi i capelli, sempre piacevole comunque. Non male invece Feel Just Like A memory, un’altra bella cavalcata younghiana con la chitarra ben presente e le voci di supporto che danno grinta anche al cantato di Pegi https://www.youtube.com/watch?v=dhG2kydge9I . In My dreams, jazzata e nuovamente sulle ali del piano elettrico di Oldham, però non decolla, rimane irrisolta, ci sono milioni di cantanti in giro che fanno queste canzoni, meglio. Walking On the Tightrope, nuovamente con l’armonica di Raphael a colorare il suono, a fianco di chitarra e tastiere, è invece un buon brano, con una discreta melodia e la giusta grinta, niente male. Chiude la breve Blame It On Me, una canzoncina leggera che non aggiunge particolari meriti all’album, ma d’altronde quello bravo in famiglia era ( ed è sempre stato) l’altro.

Diciamo una sufficienza risicata per i quattro/cinque brani sopra la media e per il buon sound d’assieme, comunque non malvagio, c’è di peggio in giro, dischi spesso salutati come fossero dei capolavori assoluti!

Bruno Conti

C’è, Ma Non Si Vede, Ancora Ottimo Gospel Rock Per Ashley Cleveland – Beauty In The Curve

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Ashley Cleveland – Beauty In The Curve – 204 Records CD/Download

Una premessa, questo disco non è recentissimo in quanto la prima apparizione seppur “teorica” nelle discografie risale al 2012, ma mi permette di avere l’opportunità di parlarvi di una bravissima cantante, non più giovanissima (è del 1957),  che raggiunse una prima volta gli onori della cronaca musicale con un folgorante esordio, Big Town, Pubblicato dalla Atlantic nel lontano ’91, sicuramente non un capolavoro ma una onesta prova di sano rock, dove si evidenziava la compattezza del gruppo (di allora), e la sua splendida e potente voce http://www.youtube.com/watch?v=zkXlCjuiRfg . Quindi direi che due notizie sulla signora per inquadrarne il personaggio sono d’uopo: originaria di Knoxville, Tennessee, Ashley Cleveland si è formata musicalmente come cantante ed autrice in California, e dopo aver lavorato nei locali della Bay-area e purtroppo non intravedendo prospettive per la sua carriera, si è stabilita in quel di Nashville, dove, pur non essendo una country singer, iniziò a lavorare nei club, nei locali e nel circuito dei “colleges”. Di questo talento emergente, capace di amalgamare nella sua musica il rock, il folk, il gospel e del southern-blues, esprimendoli attraverso una non comune personalità musicale (sentitevi questa Gimme Shelter  http://www.youtube.com/watch?v=JdGG6CC_NTY ), si accorgono ai tempi Craig Krampf e Niko Bolas (produttori in coppia dell’esordio di un’altra grande scoperta del cantautorato Usa, Melissa Etheridge, e il secondo, spesso collaboratore di Neil Young), facendola entrare nel giro delle coriste di Nashville, nobilitando con la sua voce lavori di artisti noti come John Hiatt (in Stolen Moments http://www.youtube.com/watch?v=fw5VCDRE0GQ, Emmylou Harris, James McMurtry, Patti Smith e altri, con la conseguenza che le sue canzoni vengono sempre più apprezzate da musicisti ed addetti ai lavori.

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Rotto il ghiaccio con il sopracitato esordio, incide album di buona fattura come Bus Named Desire (93), Lesson Of Love (95), quando viene premiata con un primo Grammy nella categoria Best Rock Gospel, You Are There (98), ancora un Grammy, e dopo un periodo non fortunato, anche per problemi di alcolismo e droga, a seguito di gravidanze non pianificate, “sorella” Ashley si avvicina al cristianesimo, facendo seguire negli anni vari dischi con testi a sfondo religioso a partire da Second Skin (02), Men And Angels Say (05), Before The Daylight’s Shot (06),terzo Grammy e God Don’t Never Change (09) con cui riceve la quarta nomination ai Grammy, fino ad arrivare a questo ultimo Beauty In The Curve con la produzione e gli arrangiamenti curati dal compagno Kenny Greenberg. Recentemente ha anche partecipato alle sessions dell’ultimo album di Mary Gauthier, di cui potete leggere in altre pagine del Blog http://discoclub.myblog.it/2014/07/30/ripassi-le-vacanze-sempre-la-solita-mary-gauthier-trouble-and-love/.

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Tra i musicisti che accompagnano Ashley in questa “novena” musicale, oltre al marito Kenny che suona le chitarre, il basso e la pedal steel, troviamo Chad Cromwell alla batteria, Tim Lauer alle tastiere, Reese Wynans all’Hammond B3, Eric Darken alle percussioni e alla batteria, Michael Rhodes al basso, e come ospite il grande cantautore Pat McLaughlin, sia alla chitarra che alla voce, oltre al fondamentale apporto dei vocalist di supporto, Gayle Mayes-Stuart, Perry Coleman e Angela Primm. Si parte “duro” con l’iniziale chitarristica Heaven e la batteria sincopata di City On A Hill, passando per il gospel di Walk In Jerusalem e la ballata acustica Honey House, dove si risente con piacere la calda voce di Ashley. Con Beautiful Boy si viaggia verso sonorità più “bluesy”, mentre Born To Preach The Gospel è  chiara nelle sue intenzioni fin dal titolo; a seguire troviamo ancora le “atmosfere di fratellanza” di Jesus In The Sky e Thief At The Door http://www.youtube.com/watch?v=lOymaJpjc1M . La pedal-steel di Kenny è il supporto principale nella splendida title track Beauty In The Curve http://www.youtube.com/watch?v=671qyLLMs1E , seguita dalla accorata Little Black Sheep (che è anche il titolo del suo libro autobiografico, edito nel 2013), una dolce preghiera accompagnata solo dalla chitarra e la voce di Ashley http://www.youtube.com/watch?v=8zx452YD_mc , andando a chiudere questo “bel sermone” con uno spiritual dal titolo lunghissimo, Woke Up This Morning With My Mind On Jesus, dove si estrinseca di nuovo una bellezza celestiale che è pari alla bravura della Cleveland. Amen!

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Adesso questa signora vive in quel di Nashville con i tre figli (Rebecca, Henry, Lily), viaggia verso i sessanta, ma riascoltando in questi giorni il disco d’esordio Big Town  (91), posso affermare che non ha perso una briciola della grinta e le qualità di interprete e autrice, sostenute attraverso una non comune personalità musicale ed una voce unica per potenza (sentire che versione di You Gotta Move http://www.youtube.com/watch?v=gx1R5N4TRec ), difficile da riscontrare nelle cantanti dell’ultima generazione (con le eccezioni di Dana Fuchs e Bert Hart). Intendiamoci, la Cleveland non propone nulla di nuovo, fa solo la sua parte, e per chi scrive la fa dannatamente bene, quindi vi consiglio caldamente di andare alla ricerca dei suoi dischi (a parte questo, disponibile solo suo sito http://www.ashleycleveland.com/, alcuni altri si trovano a cifre interessanti on-line), male che vada avrete le preghiere di “sorella” Ashley.

Tino Montanari