Il “Mago” Del Blues? Più O Meno. Omar And The Howlers – Zoltar’s Walk

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Omar And The Howlers – Zoltar’s Walk – Big Guitar Music           

Il disco precedente, The Kitchen Sink, uscito nel 2015, me lo ero perso, leggendo in giro i commenti si era parlato di un album per certi versi interlocutorio, qualcuno aveva rilevato segnali di una certa “stanchezza” da parte di Omar e dei suoi Howlers, all’incirca per gli stessi motivi altri erano invece comunque soddisfatti dei risultati. In fondo la formula è comunque più o meno sempre quella, il classico power trio di ambito blues(rock), di derivazione texana (il nostro è nato nel Mississippi, ma vive ad Austin da una vita), aperto ad altre influenze, in ogni caso inserite nel grande bacino delle 12 battute classiche. Negli anni precedenti Omar Dykes aveva provato ad inserire nel menu nuovi elementi, pubblicando a proprio nome, e non del gruppo, Runnin’ With The Wolf, un disco che era un omaggio (riuscito) alla musica di Howlin’ Wolf, prima ancora erano usciti un paio di album dedicati a Jimmy Reed, uno in coppia con Jimmie Vaughan e uno da solo, mentre nel CD del 2012, Too Much Is Not Enough. era accreditato come membro aggiunto Gary Primich http://discoclub.myblog.it/2013/07/09/vai-col-vocione-omar-dykes-runnin-with-the-wolf-5499510/ . Ma poi con I’m Gone si era tornati alla formula in trio classica di Omar And The Howlers http://discoclub.myblog.it/2012/06/28/un-bluesman-texano-del-mississippi-omar-and-the-howlers-i-m/ , poi ribadita con il citato The Kitchen Sink e ora con questo nuovo The Zoltar’s Walk.

Come forse sapete Dykes si ostina, già dal 2012, a festeggiare i suoi 50 anni di carriera (quindi ora dovrebbero essere 55), non male per uno nato nel 1950, le cui prime mosse risalgono al 1973 e il primo album al 1980. Ma questa è una storia già raccontata, veniamo agli undici brani contenuti nell’album; questa volta sono tutte composizioni originali, che ruotano intorno alle vicende di questo Zoltar, mago e divinatore che appariva nel film Big ma anche in altri cartoons giapponesi, niente cover quindi, ma il risultato non cambia di molto, forse per l’occasione c’è più grinta e passione, anche più divertimento, il vocione di Omar è sempre poderoso e fin dall’apertura Diddleyana di Under My Spell, con riferimenti all’immancabile Jimmy Reed, il groove della ritmica e il lavoro della solista di Dykes sono trascinanti. L’etichetta è piccola, la Big Guitar Music, ma come indica la ragione sociale, il suono vorrebbe essere “grande” e vorticoso; Keep Your Big Mouth Shut rimanda anche al sound dei vecchi Fabulous Thunderbirds, con elementi rock e boogie, a fianco dell’immancabile blues.

E Omar è chitarrista dal tocco all’occorrenza felpato e ricco di feeling, come nella ballata quasi presleyana rappresentata nella delicata What Can I Do, per poi scatenarsi nello shuffle strumentale Zoltar’s Walk o ancora nella più cadenzata Stay Out Of My Yard, dove appare anche una guizzante armonica, suonata da Ted Roddy, ma comunque i “difetti” palesati nel suddetto The Kitchen Sink in parte rimangono, non sempre il vecchio “fervore” del passato è presente, non dico che il gruppo suoni per onorare il contratto, visto che l’etichetta è loro, ma non tutti i brani sono all’altezza. Soapbox Shouter, dedicata a Chuck Berry che sta a metà strada tra Stevie Ray Vaughan e Thorogood, ha la giusta intensità e la chitarra viaggia di gusto, con Meaning Of The Blues che tiene fede al suo titolo ed è più “rigorosa” e Big Chief Pontiac, che è di nuovo uno showcase per l’armonica, in questo caso di Dykes. Non può mancare lo slow blues intenso e ingrifato (ce ne vorrebbero di più) di Always Been A Drifter, dove si apprezzano la tecnica ed il feeling sopraffino di Omar Dykes, o il divertente R&R a tutta velocità della scatenata Mr. Freeze, o i ritmi latineggianti e sudisti della “misteriosa” Hoo Doo, in ricordo dell’amato Howlin’ Wolf. Insomma tutto molto piacevole ma anche, volendo, non indispensabile.

Bruno Conti

Vai Col “Vocione”! Omar Dykes – Runnin’ With The Wolf

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Omar Dykes – Runnin’ with the Wolf – Mascot/Provogue

Dopo la reunion di Omar & The Howlers dello scorso anno con I’m Gone  un-bluesman-texano-del-mississippi-omar-and-the-howlers-i-m.html, che a sua volta era stata preceduta dal tributo a Jimmy Reed in coppia con Jimmie Vaughan e un seguito che sempre intorno all’argomento verteva, come Big Town Playboy, il nostro amico ritorna al suo nome originale e, come, Omar Dykes (senza Kent), si lancia in un tributo ad un altro dei musicisti che hanno segnato la sua carriera (e ai quali spesso è stato accostato), Chester Burnett a.k.a. Howlin’ Wolf, al quale è dedicato ed intorno alla musica del quale ruota questo Runnin’ With The Wolf, senza dimenticarsi  di un altro dei grandi del blues, che tanti brani firmati ha firmato del “Lupo”, come Willie Dixon. Come ricorda lo stesso Omar nelle note del libretto allegato al CD, spesso è stato comparato a Howlin’ Wolf per quel vocione profondo e per lo stile grintoso, feroce e muscolare, ma onestamente riconosce che il paragone non regge: Howlin’ Wolf è una delle leggende del Blues, uno dei più grandi cantanti, autori ed interpreti della scuola di Chicago, mentre lui forse non vale nemmeno un quarto del grandissimo vocalist.

Nonostante ciò ci prova e accanto ad alcuni brani “oscuri” del repertorio di Burnett, ha scelto di interpretare proprio i grandi classici. Se lo dobbiamo fare, facciamolo bene e anche tra i musicisti utilizzati ci sono Howlers nuovi e vecchi: la sezione ritmica con i bassisti Ronnie James e Bruce Jones e i batteristi Wess Starr e Mike Buck che si alternano, l’organo di Nick Connolly usato con parsimonia in alcuni brani, come pure una sezione fiati a due, solo in tre canzoni, senza dimenticare i chitarristi aggiunti Derek O’Brien, Casper Rawls e Eve Monsees, una giovane promessa di Austin, Texas (come Gary Clark Jr), protetta di Omar  e l’armonica di Ted Roddy solo in due pezzi, nel super classico Smokestack Lightning e nell’iniziale Runnin’ With The Wolf l’unico brano non firmato Burnett o Dixon, ma che in quello spirito si crogiola. Ovviamente ascoltando questi brani non si può fare a meno di pensare a tutte quelle band e solisti, che, nella British Invasion, Stones per primi, e poi nell’epopea del British Blues, dagli antesignani Cream di Clapton a tutti gli altri che non citiamo per brevità, ma a cui aggiungiamo almeno Jeff Beck e Hendrix, si sono “ispirati” alla musica di questo omone di quasi 2 metri per 140 chili di peso, una stazza che incuteva rispetto in tutti i suoi interlocutori a fronte di un carisma sconfinato.

Naturalmente sono le ennesime variazioni sul tema, ma fatte molte bene e, nonostante si schermisca, Omar Dykes (con e senza “ululatori”) è in possesso di un vocione in grado di rendere giustizia al repertorio che affronta, come è subito chiaro sin dal tributo iniziale che è una sorta di bigino di tutto quello che verrà dopo nel disco. Siano le evoluzioni in trio di una Hendrixiana Killin’ Floor con il suo riff ripetuto ed insistito e l’assolo tipicamente texano di Omar o l’incedere inconfondibile di uno degli slow per eccellenza come Little Red Rooster, si annusa profumo di buona musica e Dykes ha voglia di strapazzare la sua chitarra come nei giorni migliori della sua carriera. Ma lascia spazio anche alla brava Monsees in una canonica Howlin’ For My Baby e duetta con Derek O’Brien in uno dei classici tra i Classici, una Spoonful che riprende il suo sound elettrico originale lontano dagli eccessi hard che sarebbero venuti negli anni a seguire. Ooh Baby Hold Me, uno dei brani “oscuri” citati, tramite l’utilizzo di un inconsueto wah-wah che duetta con un sax non accreditato nelle note ha un che di hendrixiano nel suo incedere, tipo le jam strumentali della terza facciata di Electric Ladyland, in bilico tra passato e futuro.

Anche Riding In The Moonlight non è notissima ma fa la sua bella figura nella versione in power trio, mentre Who’s Been Talking un altro dei super classici, si avvale di una formazione allargata a sette, con fiato, organo e la chitarra della Monsees ad accompagnare un gigioneggiante Omar. Back Door Man è semplicemente la quintessenza della musica di Howlin’ Wolf, bella versione chitarristica, Worried All Time ha un retrogusto quasi R&R e Smokestack Lighting è …Smokestack Lighting, urlo primevo incluso, con la voce di Dykes che ricorda anche quella del vecchio Capitano (Beefheart), un altro che conosceva bene l’argomento. Do the do, di nuovo fiati e versione allargata, non la ricordavo, ma il riff ha un che di Bo Diddley (altro grande amore di Omar), I’m Leavin’ you ci riporta alle 12 battute classiche e Tell Me What I’ve Done è un altro dei rari slow presenti ma ricco di grinta, prima della conclusione con un altro dei classici firmati da Willie Dixon, quella Wang Dang Doodle ripresa mille volte nella storia del blues, facciamo 1001, vai col “vocione” e non se ne parla più. Bel disco!                   

Bruno Conti

“Troppo” Potrebbe Non Essere Abbastanza! Omar And The Howlers – Too Much Is Not Enough

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Omar And The Howlers featuring Gary Primich – Too Much Is Not Enough – Big Guitar Music

Prima che lo diciate voi, e avendolo detto probabilmente tutto l’universo dei recensori blues dell’umano creato, e anche lo stesso Omar Dykes nelle note di questo CD, ebbene sì, aveva già pubblicato un tributo a Jimmy Reed, in coppia con l’amico Jimmie Vaughan, On The Jimmy Reed Highway, nel 2007: ma come dice il titolo di questa “nuova” fatica Too Much Is Not Enough. E poi, sempre come ci ricorda lo stesso Omar Kent Dykes, questo era stato registrato in precedenza e poi accantonato. Ma ora, anche come tributo al recentemente scomparso Gary Primich, che appare all’armonica in dieci dei dodici brani del disco, è stato deciso di pubblicare questo ennesimo omaggio all’arte del grande bluesman Jimmy Reed, questa volta sotto la sigla Omar And The Howlers. E fanno tre dischi a nome del gruppo in questo 2012, nulla per nove anni (escluso un live) e poi il nuovo I’m Gone (un-bluesman-texano-del-mississippi-omar-and-the-howlers-i-m.html ), una Essential Collection e ora questo album. Peraltro, nelle note del dischetto, Omar ci “minaccia” benevolmente – Se pensate che sia andato oltre le righe con Jimmy Reed, aspettate quando pubblicherò il mio materiale su Bo Diddley e Howlin’ Wolf –.

Intanto che aspettiamo,  proprio il vecchio lupo mi sembra il punto vocale di riferimento di questo Too Much…, i brani saranno anche tratti dal repertorio di Jimmy Reed, ma Omar li interpreta come se si fosse reincarnato nello spirito di Howlin’ Wolf, con molte inflessioni che ricordano anche il Captain Beefheart più bluesato. Nel disco sono presenti, oltre alla sezione ritmica, meno selvaggia che nei dischi più rock-blues del gruppo, Jay Moeller, fratello di Johnny, e batterista dei Fabulous Thunderbirds, l’allora giovanissimo chitarrista nero texano Gary Clark Jr., che ha di recente pubblicato l’eccellente Blak and Blu per la Warner, oltre al citato Primich e a Derek O’Brien che completa la pattuglia dei chitarristi. Ma, stranamente, non siamo di fronte ad un disco di chitarra blues, ma semplicemente di Blues: ovvio che la chitarra fa parte delle procedure, ma è usata in un modo molto discreto, alla Jimmy Reed direi, niente svolazzi e assoli selvaggi (che vengono riservati ad altre occasioni, soprattutto dal vivo, perché sono comunque nel DNA del buon Omar), ma un suono classico e tradizionale, con moltissimo spazio lasciato all’armonica, che spesso è la protagonista. Omar Kent Dykes tra l’altro si ostina a voler festeggiare i suoi 50 anni di carriera, con tanto di bollino nel libretto del CD, facendo decorrere l’inizio della sua carriera dal 1962, quando aveva 12 anni e suonava nel suo primo gruppo. Ma dove, mi domando io?

Gary Clark ci delizia con la sua tecnica alla slide in un paio di brani, I Gotta Let You Go e la “Elmoriana” (nel senso di Elmore James), You Don’t Have To Go, tutti i musicisti si divertono nella latineggiante Roll In Rhumba. In Ain’t Got You, Omar torna a quel tempo di boogie del suo materiale classico, dove sembra veramente Howlin’ Wolf o Captain Beefheart alla guida degli ZZ Top con formazione ampliata da un ottimo armonicista come Primich. Mentre nel super classico Shame, shame, shame sembra di ascoltare il Duke Robillard più pimpante. Ma tutto il disco è molto piacevole, fuori dal tempo, con un suono volutamente “antico”, fuori dal tempo. non dissimile da quello che utilizza spesso il suo amico Jimmie Vaughan, per amanti del Blues più tradizionale ma non per questo non apprezzabile da chi ama il rock.

Bruno Conti

Un Bluesman “Texano” Del Mississippi. Omar And The Howlers – I’m Gone

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Omar And The Howlers – I’m Gone – Big Guitar Music

A nove anni dall’ultimo album di studio, Boogie Man, che risaliva al 2003, Omar Kent Dykes ha convocato nuovamente la sua pattuglia di “ululatori” passati e presenti per una nuova puntata della saga di Omar & The Howlers, iniziata nel lontano 1973, anche se il primo frutto discografico è Big Leg Beat del 1980, come spesso accade uno dei suoi migliori in assoluto. Secondo le leggende metropolitane, Omar festeggia quest’anno i suoi 50 anni di carriera, in quanto sarebbe entrato nella sua prima band a 12 anni. Nato nel 1950, i conti tornano: però, per la serie allora vale tutto, potrei dire che visto che a quell’età giocavo con le figurine, sono uno dei fondatori della Panini. Il nostro amico è nato a McComb, Mississippi, un piccolo paesino che curiosamente ha dato i natali anche a Bo Diddley ed è la località vicino alla quale si è schiantato l’aereo che trasportava i Lynyrd Skynyrd. Forse per evitare questi futuri pericoli Omar si è trasferito in Texas, a Austin, già nel 1976, in un periodo dove iniziava a fiorire una scena blues locale che contava tra le sue punte di diamante i fratelli Vaughan e di cui Omar and The Howlers sarebbero stati (e sono tuttora) tra i migliori rappresentanti.

Dopo una serie di  recenti album solisti e collaborazioni, tra l’altro una proprio con Jimmie Vaughan, On The Jimmy Reed Highway, Dykes si è fondato la propria etichetta discografica, la Big Guitar Music, nome quanto mai esplicativo, e ha deciso di regalarci un nuovo capitolo della sua Enciclopedia sulla musica texana: rock and roll, blues, rockabilly, country, gli elementi ci sono tutti e come di consueto vengono frullati in quello stile inequivocabile che spesso nel passato li ha accostati all’altra grande band di “genere”, ovvero i Fabulous Thunderbirds. In questo caso non c’è l’armonica fra gli strumenti utilizzati ma chitarre, soprattutto chitarre e ancora chitarre, oltre naturalmente alla voce potente e vissuta di Omar, a suo agio in tutti i generi trattati.

Dal rockabilly boogie blues dell’iniziale title-track con il vocione che fa concorrenza a John Lee Hooker come profondità e una chitarra scintillante, per un risultato che sta a cavallo tra i Fabulous Thunderbirds e i Blasters più attizzati passando per il blues super classico di All About The Money per arrivare al country puro di una Drunkard’s Paradise che sembra una versione riveduta per i nostri giorni di Me And Bobby McGee, con acustiche e pedal steel a sostituire i soliti riff blues. Che ritornano nel ritmo alla Bo Diddley della vigorosa Wild And Free e nei ritmi elettrici a metà tra Chicago Blues e Stevie Ray Vaughan di Down To The Station. Omar Dykes ci regala dal suo songbook (tutte scritte per l’occasione) un eccellente tributo al suo stato d’adozione, Lone Star Blues è uno slow blues strumentale in trio con tanto di scat nella parte centrale che ne illustra anche le capacità tecniche come chitarrista poi ribadite nelle velocità frenetiche dell’irresistibile Omar’s Boogie.

Finito l’intermezzo strumentale Goin’ Back To Texas è un altro di quei blues ribaldi e scanditi che hanno sempre fatto parte del repertorio della Band mentre Let Me Hold You è una ballatona lenta quasi alla Willie Nelson, una country song profumata di Blues, cantata come Dio comanda. Move Up To Memphis è un altro di quei brani a cavallo tra blues e rock che hanno fatto la fortuna del gruppo in passato e che non mancano in questo ritorno mentre l’unica cover presente è uno dei super classici del Blues, I’m Mad Again, uno dei cavalli di battaglia di quel John Lee Hooker citato prima, vocione d’ordinanza, atmosfere sospese e ritmi ciondolanti per una versione da manuale. Si poteva anche finire qui ma Take Me Back è un bel rockabilly blues che avrebbe potuto entrare con onore nel repertorio di Elvis e nel testo cita nomi e luoghi che hanno fatto grande questa musica. Bel finale per un bel disco.

Bruno Conti