Produce Joe Bonamassa E Lei Ci Dà Dentro Di Brutto, Forse, Ma Forse, Anche Troppo! Joanna Connor – 4801 South Indiana Avenue

joanna connor 4801 south indiana avenue

Joanna Connor – 4801 South Indiana Avenue  – Keeping The Blues Alive

Ormai sembra che Joe Bonamassa stia perdendo lo scettro di artista più prolifico a favore di Neil Young che ultimamente cento ne pensa e cento ne fa: quindi il buon Joe ha pensato di incrementare il “suo secondo lavoro”, come produttore discografico per la propria etichetta Keeping The Blues Alive che,  dopo la pubblicazione dell’album di Dion Blues With Friends (e l’uscita del CD degli Sleep Eazys) ora si occupa del rilancio di Joanna Connor, una delle musiciste più valide e interessanti in ambito blues, nativa di New York, ma basata a Chicago, con una carriera discografica iniziata nel lontano 1989 con Believe It!, e proseguita, tra alti e bassi, con altri quattordici album, inclusi diversi dischi dal vivo, ed escluso questo nuovo 4801 South Indiana Avenue, dall’indirizzo del famoso locale della Windy City Theresa’s Lounge. La Connors (scusate ma mi scappa di dirlo, non è più una giovanissima, l’anno prossimo compirà 60 anni) fa parte della pattuglia delle musiciste bianche che praticano un blues piuttosto energico anziché no, quindi chitarriste cantanti molto influenzate anche dalla musica rock, con uno stile aggressivo e a tratti roboante, in grado di “maltrattare” spesso la sua Gibson (o una Delaney) per ridurla a più miti consigli https://www.youtube.com/watch?v=suwb2pdE2_g : era parecchi anni che non mi capitava di recensire un suo album per il Buscadero, ma il nuovo CD, grazie anche al lavoro di Bonamassa, mi sembra che la riporti ai fasti passati.

Joanna Connor by Maryam Wilcher

Joanna Connor by Maryam Wilcher

Joe e Joanna.una bella accoppiata. Non guasta il fatto che Joe le abbia affiancato un manipolo eccellente di musicisti, da Reese Wynans alle tastiere, a Calvin Turner al basso e Lemar Carter alla batteria, una piccola sezione fiati che ogni tanto interviene e i due co-produttori, Bonamassa e Josh Smith che spesso e volentieri fanno sentire anche le loro chitarre. La nostra amica è conosciuta soprattutto come una virtuosa della slide, e nel disco ce n’è a iosa: in effetti nel brano di apertura Destination, dal repertorio degli Assassins di Jimmy Thackery, la Connors inizia a mulinare il suo bottleneck a velocità vorticose, ben sostenuta dal piano di Wynans, con la sua voce potente supportata anche da quella del grande Jimmy Hall dei Wet Willie, con tutta la band che tira di brutto https://www.youtube.com/watch?v=89wb2tqg0io , mentre Come Back Home di nuovo con uno scatenato Wynans al piano, è una sorta di boogie rallentato, intenso e scandito, con Joanna che piazza un altro solo vigoroso di slide che ricorda quelli del miglior Thorogood https://www.youtube.com/watch?v=JUj5-MAcoiY . Bad News è uno dei pezzi più conosciuti di Luther Allison, per il quale la Connors in passato apriva i concerti, un lentone di quelli appassionati ed intensi, dove Joanna si cimenta in un lavoro di chitarra ricco di finezza e forza, mentre la sua voce è in grado di evocarne le atmosfere quasi stregate e sofferte, e Wynans alle tastiere è ancora una volta all’altezza della situazione, con i fiati a colorare l’atmosfera sullo sfondo https://www.youtube.com/watch?v=FvYKatLNbc0 .

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I Feel So Good è uno dei grandi cavalli di battaglia di Magic Sam, un boogie frenetico e selvaggio, con il bottleneck sempre in grande evidenza, a duettare con la batteria di Carter, prima sfuma e poi riprende forza con finale a sorpresa https://www.youtube.com/watch?v=JUj5-MAcoiY . For The Love Of A Man è un classico blues rovente con fiati, scritto da Don Nix, proveniente dal repertorio di Albert King, seguito da un altro piccolo classico delle 12 battute come Trouble Trouble, a firma Lowell Fulsom, reso noto da Otis Rush, altro slow blues lancinante, con Josh Smith alla seconda chitarra e Wynans che raddoppia a piano e organo, per un pezzo che sta tra Bloomfield, sentire i fiati, please e Stevie Ray Vaughan e la Connors che si infervora alla solista https://www.youtube.com/watch?v=0CgFMl5tGKc . Please Help era di JB Hutto ma è un tributo al grande Hound Dog Taylor, slide music alla ennesima potenza, Cut You Loose la faceva anche il vecchio Muddy, Chicago Blues attualizzato da un arrangiamento moderno, dove la quota rock si fa prevalente e il bottleneck fa sempre furore https://www.youtube.com/watch?v=6-TF4bsd2Fk . Per gli ultimi due pezzi Joe Bonamassa fa un passo avanti e duetta con Joanna, prima nelle volute soul blues di Part Time Love dove organo, sax e fiati tutti prendono la direzione del Sud https://www.youtube.com/watch?v=hTApLuD5Jow  e nella gagliarda It’s My Time, scritta da Josh Smith e che è l’occasione per un duello di slide tra Joe e Joanna, pezzo che rievoca le atmosfere del Cooder più trascinante, con la musica che scivola, scivola, scivola… https://www.youtube.com/watch?v=vDjQMaSL4Nc 

Bruno Conti

Un Bluesman “Attempato” Ma Sempre Molto Pimpante! Linsey Alexander – Blues At Rosa’s

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Linsey Alexander – Live At Rosa’s – Delmark Records

Linsey Alexander il 23 luglio ha compiuto 78 anni, ma ascoltando questo CD non si direbbe proprio: il musicista americano, nato in Mississippi ed allevato a Memphis (percorso perfetto), ha una storia simile a quella di molti altri bluesmen. Per il viaggio a Chicago si è dovuto impegnare la sua prima chitarra al banco dei pegni (mai riscattata dicono le sue biografie) e giunge nella capitale dell’Illinois nel lontano 1959, dove in lunghi anni passati tra piccoli locali fumosi, juke joints e improbabili lavori per sopravvivere, si è costruito una reputazione sia come chitarrista che come entertainer suonando con B.B.King, Bobby Rush, Buddy Guy e moltissimi altri (fa sempre curriculum). Per pubblicare i suoi primi CD a livello indipendente, composti soprattutto di cover, deve arrivare all’inizio degli anni 2000, quando aveva già toccato i 60 anni, alla faccia della gavetta. Ma la sua bella voce, limpida, potente ed espressiva, ed il suo stile chitarristico (Gibson e Fender, poi alla fine non gli sono mancate), fluido, ricco di tecnica e feeling, lo rende uno dei praticanti delle 12 battute più interessanti tra i nomi di culto.

Tanto che la Delmark, una della bandiere del blues più ruspante e rigoroso della Windy City, lo mette sotto contratto, e tra il 2012 e il 2017 pubblica tre eccellenti album (e nella sua band suona per parecchio tempo anche il bravissimo Breezy Rodio https://discoclub.myblog.it/2020/03/07/la-conferma-di-uno-dei-nuovi-talenti-emergenti-del-blues-breezy-rodio-if-it-aint-broke-dont-fix-it/ ), con il classico suono dell’electric blues made in Chicago, dischi fieri e pimpanti dove la voce e la solista di Alexander rimandano a gente come Jimmy Dawkins, Magic Sam, Otis Rush, ma è giusto per ricordarne qualcuno. E ora questo Live At Rosa’s, registrato in uno dei più leggendari locali di Chicago, rinverdisce i fasti dei grandi album dal vivo che hanno fatto la storia della Delmark: in particolare “l’ispirazione” per questo disco Live viene da All Your Love, I Miss Loving: Live at the Wise Fool’s Pub Chicago di Otis Rush, un concerto pubblicato su CD nel 2005, ma che risale come registrazione al 1976. La produzione è affidata al solito team Delmark, guidato da Julia A. Miller, e nella band di Alexander, oltre allo storico tastierista Roosevelt Purifoy, troviamo Ron Simmons al basso, anche lui con Linsey da 40 anni, e “Big” Ray Stewart alla batteria, oltre al sostituto di Rodio come secondo chitarrista, il russo Sergei Androshin.

Il risultato è spettacolare, il nostro amico suona e canta ancora come un giovinetto: con un nerbo e una grinta invidiabili, la voce e la tecnica alla chitarra testimoniamo di un artista sempre in grande spolvero. “The Hoochieman” come lo chiamano i fans (che peraltro a giudicare dagli applausi del CD non dovevano essere più di una 50ina scarsa in quella serata), li ripaga con nove brani di grande intensità: Please Love Me, un ficcante shuffle del BB King anni ‘60, dove Alexander canta e suona con un impeto invidiabile, la solista è in grande evidenza come pure l’organo di Purifoy, incidentalmente il brano era lo stesso che apriva il Live di Rush citato prima, segue My Days Are So Long, una sua composizione, con un bel groove R&B e le linee della solista sempre fluide e ricche di feeling. Have You Ever Loved A Woman, a quasi 9 minuti il brano più lungo dell’album, è proprio il classico slow blues di Freddie King, versione superba con un assolo intensissimo e lancinante del tutto degno dell’originale e il buon Linsey che canta con voce squillante, come se il tempo per lui non fosse passato, mentre I Got A Woman non è quella di Ray Charles, per quanto un altro pezzo dal ritmo funky di ottima qualità, sempre con chitarra in primo piano, seguito da un altro puro Chicago Blues come Goin’ Out Walking.

Altro “lentone” di grande fascino è la cover di Somethin’ ‘Bout ‘Cha di Latimore, con un’altra interpretazione da manuale sia vocale che strumentale del nostro https://www.youtube.com/watch?v=4dW7CJLrhpM , e pure la mossa e ritmata Snowing In Chicago non scherza, ragazzi se suona, prima di passare ad un altro piccolo classico come Ships on the Ocean di Junior Wells, niente armonica ma versione da sballo con Alexander che “maltratta” la sua chitarra alla grande, prima di congedarsi con Going Back To My Same Old Used To Be, con un riff ricorrente quasi hendrixiano e una ennesima interpretazione da brividi, assolo di piano di Purifoy incluso. Il vecchio Blues non muore mai, assolutamente da avere, se amate le 12 battute più genuine.

Bruno Conti

Un Documento Storico Formidabile Per La “Woodstock Nera”, Se Fosse Pure Inciso Bene… Ann Arbor Blues Festival 1969

ann arbor blues festival 1969

Ann Arbor Blues Festival 1969 2 CD Third Man Records

Un disco dal doppio giudizio: quattro e forse avrebbero potuto essere anche cinque stellette per il contenuto musicale e l’importanza dei musicisti coinvolti, due e a tratti anche tre, per la qualità sonora d questo documento, che esce esattamente 50 anni dopo lo svolgimento di questo evento: una sorta di Woodstock “nera “tenutasi ad Ann Arbor, alla Università del Michigan, tra il 1° e il 3 agosto del 1969, come “l’altro” Festival appena più famoso. Si trattò del primo grande Raduno che raccoglieva insieme quasi tutti i più grandi artisti del Blues americano, al di là di quelli itineranti che giravano per l’Europa negli anni ’60, grazie alla enorme popolarità, soprattutto in Inghilterra, ma anche in Europa, del British Blues e del blues-rock in generale,  e che di conseguenza aveva portato anche a collaborazioni importanti tra musicisti bianchi e i grandi delle 12 battute che li avevano  fortemente influenzati.

Senza stare a fare un trattato sulla situazione, comunque musicisti come Muddy Waters, Howlin’ Wolf, B.B. King, per citare i più importanti, ma ce n’erano parecchi altri, cominciavano a vendere dischi in quantità più che rispettabili anche al di fuori del cosiddetto “chitlin’ circuit” in cui si esibivano solo gli artisti afroamericani e nelle “race charts” di blues e R&B, iniziando anche a partecipare a Festival Folk per esempio Newport, che avevano aperto sia agli artisti neri che alla musica elettrica. Questo lungo preambolo per dire che nel cinquantenario di questo avvenimento sono riapparsi dei nastri registrati all’epoca, con apparecchiature di fortuna (piccoli registratori mono con nastri amatoriali e postazioni di fortuna in mezzo al pubblico) con cui gli stessi appassionati che avevano organizzato le serate  le hanno in qualche modo preservate per i posteri: i nastri sono arrivati alla Third Man Records di Jack White, grande appassionato di questa musica quasi arcana, che li ha restaurati nei limiti del possibile e li ha pubblicati in un doppio CD o in due vinili separati. Ripeto, per evitare equivoci, il suono è a livelli di bootleg o di trasmissione radiofonica fine anni ’60, quindi molto “primordiale”, si sente gente che parla, scherza, ride e tossisce, a tratti anche durante le canzoni, ma l’importanza storica giustifica la pubblicazione?

Francamente non lo so, probabilmente sì, basta saperlo: comunque i nomi citati sopra ci sono tutti: un B.B. King sontuoso e veemente con la sua orchestra, un Luther Allison “arrapato” in un lunghissimo medley (oltre 14 minuti) di Everybody Must Suffer / Stone Crazy, in cui la ferocia della esibizione è quasi inversa alla qualità del suono https://www.youtube.com/watch?v=M2LwSR8nw4M .I musicisti sono liberi di improvvisare e non sono costretti nei tempi dei dischi, però il suono è un grosso limite. Altrove, per esempio in alcune performance in solitaria, come quella iniziale, solo voce e piano, di Roosevelt Sykes, il suono è quasi accettabile, come pure nel brano di Arthur “Big Boy” Crudup, o Jimmy Dawkins che fa I Wonder Why, e ancora Junior Wells in un tributo a Sonny Boy Williamson, Howlin’ Wolf in una colossale versione, oltre 16 minuti, di Hard Luck, con il suo vocione più minaccioso che mai, un suadente Otis Rush in una spaziale So Many Roads, So Many Trains, incisa persino bene https://www.youtube.com/watch?v=mVCTG0nI_Nc .

Nel secondo CD troviamo un intenso Muddy Waters in una gagliarda Long Distance Call, incisa quasi “bene”, T-Bone Walker nei 10 minuti del suo capolavoro Stormy Monday, Big Mama Thornton che risponde alla Janis di Monterey con la sua Ball And Chain, e qui avremmo apprezzato un miglior sound per goderci al meglio la performance, e la James Cotton Blues Band nei 13 minuti vorticosi di Off The Wall. In qualità di cronista ho riferito a grandi linee cosa dovete aspettarvi, poi fate vobis. Quindi “consigliato” con riserva: e se siete bluesofili incalliti nei brani dalla qualità sonora non eccelsa fate finta che siano dei vecchi 78 giri.

Bruno Conti

John Mayall Retrospective, Il Grande Padre Bianco Del Blues Parte III

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Terza ed ultima parte.

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Back The Roots – 2 LP Polydor 1971 – ***1/2

Mayall se ne accorge e per il successivo album, il doppio Back To The Roots, che indica le intenzioni fin dal titolo, non solo torna al suo passato più blues, ma invita alle sessions tenute tra Londra e Los Angeles due vecchi “alunni” come Eric Clapton e Mick Taylor: nel disco suonano molti altri musicisti, Keef Hartley e Paul Lagos alla batteria, Harvey Mandel e Jerry McGee alla chitarra (futuro solista della band), Taylor al basso e Johnny Almond a sax e flauto, oltre a Sugarcane Harris al violino. I pezzi  con Clapton, manco a dirlo, sono tra i migliori: Prisons On The Road dove Eric duetta con Harris, Accidental Suicide che però senza batteria incide meno anche se Mick Taylor ed Eric suonano insieme, Home Again, solo armonica, piano e “Slowhand”, Looking At Tomorrow, che sembra proprio un pezzo di Clapton e Goodbye December.

Intendiamoci  niente di memorabile, anche se uniti agli ottimi contributi di Mick Taylor, il bel blues lento Marriage Madness, la vorticosa Full Spead Ahead, una sorta di Room To Move 2 ma elettrica, il gagliardo blues-rock di Mr. Censor Man e l’ottimo blues con uso slide di Force Of Nature, fanno sì che l’album sia più che positivo, uno degli ultimi in questo senso.

Memories – Polydor 1971 **1/2

Il disco successivo che esce sempre nel 1971 a novembre, con Mayall accompagnato ancora da Larry Taylor e da Jerry McGee alle chitarre, lo inseriamo nella discografia anche se certo non brilla per qualità, perché da qui in avanti per trovare dischi veramente belli di John Mayall bisognerà cercarli con il lanternino, almeno per una ventina di anni. Quindi vediamo in futuro cosa troveremo, anche se nel 1972 due dischi molto belli escono ancora, entrambi dal vivo, tratti dai concerti del 1971 a Boston e New York per il primo disco e quello del Whisky A Go Go del 1972, per il secondo

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Jazz Blues Fusion – Polydor 1972 ****

Moving On – Polydor 1972 ***1/2

Il titolo è programmatico ancora una volta e la (big) band che accompagna Mayall è strepitosa, una piccola orchestra che mescola musicisti neri e bianchi con risultati di conseguenza strepitosi. Secondo alcuni è addirittura forse il miglior album di Mayall di sempre: diciamo esclusi quelli con i Bluesbreakers. Comunque è un bel sentire: Clifford Solomon al sax, Blue Mitchell alla tromba, Freddy Robinson alla chitarra e Mayall ad armonica e piano sono i solisti, il solito fantastico Larry Taylor al basso e Ron Selico alla batteria, la sezione ritmica. Ragazzi se suonano: Country Road, la travolgente Good Time Boogie, la jazzata Change Your Ways, il lentone Dry Throat, l’improvvisazione immancabile nei concerti di Mayall di Exercise in C Major for Harmonica (sentire anche l’assolo di Larry Taylor!) e la conclusiva Got To To Be This Way, sono una meglio dell’altra.

Moving On è inferiore, sia pure di poco, ma solo perché la formula era già conosciuta e anche se la formazione si amplia ulteriormente, con l’aggiunta di Ernie Watts, Charles Owens e Freddie Jackson ai fiati, mentre Keef Hartley sostituisce Selico, il primo Live si fa ancora preferire: Worried Mind swinga subito di brutto, Keep Your County è dell’ottimo blues intriso di R&B, Christmas 71 un ottimo lento, Things Go Wrong più mossa ed irruenta, Moving On ha un suono più rock-jazz con ottimi interventi dei fiati, e notevole anche la conclusiva High Pressure Living, ma tutto l’album è comunque di eccellente fattura.

Gli Anni Americani Parte Seconda 1973… The Best Of The Rest

Andiamo poi a pescare gli album veramente interessanti che escono dal 1973 in avanti nel lunghissimo periodo americano che si protrae sino ad oggi, sia pure con qualche disavventura personale lungo il cammino, tipo l’incendio che nel 1979 ha distrutto la casa di Mayall a Laurel Canyon.

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Ten Years Are Gone – 2 LP Polydor -1973 ***1/2

Un buon album metà in studio e metà dal vivo all’ Academy Of Music di NY, che più o meno ripete lo stile dei precedenti, sempre con Freddy Robinson, Blue Mitchell e Keef Hartley, a cui si aggiunge il grande Red Holloway al sax e che vede il ritorno di Sugarcane Harris al violino. Tutti i pezzi meno uno sono firmati da Mayall e si segnalano nella parte live le lunghissime Harmonica Free Form, la “solita” improvvisazione in piena libertà di Mayall al suo strumento preferito ed i più di 17 minuti della jazzata e complessa Dark Of The Night, che contiene anche gli assoli dei vari musicisti. Sugli altri dischi degli anni ’70 direi di stendere un velo pietoso, quasi tutti usciti per la ABC, non ne ricordo uno che valga la pena di menzionare, e anche sui musicisti, a parte forse un giovane Rick Vito, non vale la pena soffermarsi, forse potrei ricordare il live The Last Of The British Blues, ma giusto perché ne ho parafrasato il titolo per usarlo nell’articolo. Bottom Line, uscito nel 1979 per la DJM, ha dei musicisti della madonna che suonano nel disco, Lukather, Tropea, i fratelli Brecker, Ritenour, Jeff Porcaro, un produttore come Bob Johnston, ma ci sarà un motivo per cui è l’unico che non è mai uscito in CD: John Mayall goes funky (giuro), terribile. E anche gli anni ’80 non partono bene, anche se nel 1985 esce per l’australiana AIM un disco che riporta in auge il nome del glorioso combo.

Return Of The Bluesbreakes –AIM 1985 ***

In sei pezzi alla chitarra c’è Mick Taylor, negli altri Don McMinn, registrato in quel di Memphis produce Don Nix, il suono è elettrico e vibrante, Mayall è in buona forma vocale e ha voglia di soffiare nell’armonica. I brani con Mick Taylor sono dal vivo in quel di Washington, DC nel 1982, e l’ex Stones non ha perso la mano. Il concerto completo poi uscirà in CD nel 1994 per la Repertoire con il titolo The 1982 Reunion Concert ***1/2, John McVie al basso e Colin Allen alla batteria.

Chicago Line – Island 1988 ***1/2

Qui si torna a ragionare dopo tanti anni, non c’è solo il nome Bluesbreakers, ma anche due validi chitarristi come Coco Montoya e Walter Trout. Esce in CD per la Castle nel 1990, quasi tutti i pezzi sono di Mayall, meno una cover di Jimmy Rogers e una di Blind Boy Fuller, oltre alla prima versione di uno dei cavalli di battaglia di Trout come Life In the Jungle. Blues-rock di buona fattura con due solisti finalmente degni degli anni d’oro dei Bluesbreakers.

A Sense Of Place – Island 1990 ***1/2

Altro disco di buona qualità e altro grande chitarrista che suona a fianco di Mayall: questa volta ad affiancare Coco Montoya c’è un altro eccellente musicista, reduce dai lavori con John Hiatt e Zachary Richard: arriva Sonny Landreth alla slide. Alla batteria, fisso dal 1985 al 2008 c’è sempre il fido Joe Yuele.

Wake Up Call – Silvertone 1993 ***1/2

Nuova etichetta, la Silvertone, per l’ultimo disco con Coco Montoya: per l’occasione Mayall chiama a raccolta parecchi amici per un altro album solido, ricco di energia e buona musica,  e chitarristi come piovesse: Buddy Guy, che è anche la seconda voce solista nel tiratissimo slow blues I Could Cry, Mick Taylor, Albert Collins e David Grissom, con Mavis Staples che canta la title track.

Da Spinning Coin ***1/2 del 1995, se mi passate la battuta, arriva un “grosso” chitarrista, Buddy Whittington che al di là delle dimensioni fisiche è anche un solista di indubbio valore, tanto che rimarrà con Mayall e i Bluesbreakers fino al 2007. Nel 2001 esce un altro album celebrativo della serie.

John Mayall & Friends – Along For The Ride – Eagle Records ***1/2

A fianco di Whittington troviamo Davy Graham, Peter Green, Steve Miller, Steve Cropper, Billy Gibbons, Gary Moore, Jeff Healey, Jonny Lang e l’immancabile Mick Taylor. E sono solo I chitarristi: altri ospiti Dick Heckstall-Smith al sax, Reese Wynans e Billy Preston alle tastiere, più qualche cantante assortito tipo Chris Rea, Otis Rush, Andy Fairweather-Low ed altri amici. Tredici brani e non ne ricordo uno scarso, aggiungere alla lista dei must have. E nel 2003, sempre a proposito di dischi celebrativi, per i 70 anni di Mayall esce,sia in CD che in DVD, il superbo disco dal vivo

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70th Birthday Concert – Eagle 2003 – ****

Serata memorabile che vede il ritorno sul palco dopo oltre 40 anni di Eric Clapton che si riunisce con il suo vecchio mentore.Tra gli ospiti anche Mick Taylor che è la chitarra solista in tutto il concerto, ben spalleggiato da Whittington, e tra le sorprese il vecchio “nemico” Chris Barber al trombone. Repertorio superlativo con Clapton che canta Hoochie Coochie Man e I’m Tore Down e maramaldeggia alla chitarra in splendide versioni  di Hide Away, All Your Love e in una chilometrica, oltre 18 minuti, Have You Heard, che è pura goduria. E il resto non è chi sia scarso, anzi, per usare un fine eufemismo, anche se non siamo di fronte a dei giovanotti, mi scappa un bel minchia se suonano! Direi che fa parte dei dischi imperdibili di John Mayall. Fino al recente Nobody Told Me ****,  36° disco di studio, che lo ha riportato ai vertici assoluti della sua produzione, direi che non ci sono altri album da ricordare, benché A Special Life del 2014 era comunque un buon disco.

Tra le innumerevoli antologie e dischi dal vivo, molti dei quali non sono più disponibili, andrebbero segnalati i due recenti volumi  Live In 1967 Vol. 1&2, peccato che non siano incisi molto bene. Tra le antologie, anche se non più disponibili da parecchio tempo, ma magari verranno ristampate prima o poi, vorrei ricordare ancora i due doppi London Blues 1964-1969 e Room To Move 1969-1974, entrambi ****.  Tra quelli già citati nell’articolo Looking Back ***1/2  del 1971, che raccoglie, singoli, b-sides e inediti. Viceversa tra le cose più recenti Live At The BBC ***1/2 CD della Decca/Universal del 2007, che riporta le registrazioni tra il 1965 e il 1967. Molto interessante anche l’antologia uscita nel 2010 per la Hip-O- Select del gruppo Universal , un cofanetto da 4 CD So Many Roads: An Anthology 1964-1974 ****, però pure questa era a tiratura limitata e non si trova più in commercio.

Quindi augurando lunga vita a John Mayall, magari sarebbe il momento ideale per pubblicare un bel box retrospettivo per festeggiare i suoi 85 anni compiuti.

Bruno Conti

John Mayall Retrospective, Il Grande Padre Bianco Del Blues Parte I

john mayall photo david gomez Photo David Gomez

In questo scorcio del 2019 stiamo assistendo ad un soprassalto di attività legate a John Mayall che, dopo avere compiuto 85 anni lo scorso 29 novembre, anziché rallentare sembra avere intensificato le operazioni: prima pubblicando un nuovo album Nobody Told Me, che probabilmente è il suo migliore degli ultimi 40 anni e oltre https://discoclub.myblog.it/2019/02/21/85-e-non-sentirli-il-suo-miglior-album-da-oltre-40-anni-john-mayall-nobody-told-me/ , poi riprendendo la sua comunque sempre intensa serie di tour, dove sta presentando anche pezzi del nuovo album, con la presenza di Carolyn Wonderland, il ritorno di un chitarrista nella formazione e la prima volta di una donna in quel ruolo nei Bluesbreakers (anche se il nome non è più in uso, e un paio di presenze femminili c’erano già state negli anni’70, quelli più bui a livello qualitativo). Al musicista di Macclesfield (nel Cheshire, che quindi oltre al famoso gatto, ci ha regalato quantomeno un altro personaggio importante) ci è parso a questo punto doveroso dedicare un articolo, una lunga retrospettiva (che leggerete in tre parti), che tracciasse la carriera di una delle vere leggende della musica blues (ma anche rock): facendo un calcolo a grandi linee della sua produzione, mi pare di avere individuato quasi cento album pubblicati, in una carriera iniziata a livello discografico più di 55 anni fa, nel 1963. Parliamo di dischi di studio, live, antologie, qualche EP, e quindi ecco un resoconto ampio, ma non necessariamente esaustivo della sua produzione, cercando di individuare le fasi salienti di un percorso musicale che lo ha reso una delle figure più importanti nella storia del “Blues Bianco”!

john mayall 1966

John Mayall in questo senso non è forse un musicista formidabile: buon cantante e tastierista, discreto chitarrista ritmico, pregevole armonicista, probabilmente non eccelle in nessuno di questi strumenti, armonica esclusa ma la sua importanza si misura nel fatto di essere stato uno scopritore di talenti, un catalizzatore, un divulgatore delle 12 battute dei grandi musicisti neri sul suolo britannico (insieme a Cyril Davies, con cui dice di non avere intrattenuto particolari rapporti, e al suo buon amico Alexis Korner, altro talento scout formidabile, senza dimenticare Chris Barber, uno dei primi ad introdurre nel jazz inglese elementi blues e rock).

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I Gloriosi Anni ’60 Dei Bluesbreakers.

Già nel 1963 (peraltro quando aveva comunque compiuto 28 anni) e saltando gli anni formativi in giro per locali dal 1956 al 1962, Mayall, dopo aver visto la band di Alexis Korner in un club di Manchester prova ad intraprendere una carriera musicale a tempo pieno, in un una band dove con lui c’erano Peter Ward, John McVie al basso, Bernie Watson alla chitarra e Martin Hart alla batteria, i quali pubblicano un singolo Crawling Up A Hill b/w Mr. James, nel maggio 1964. Subito dopo però Watson viene sostituito da Roger Dean (proprio il futuro grande disegnatore di copertine) alla chitarra e Hart da Hughie Flint alla batteria. Questa formazione registra il 7 dicembre 1964…

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John Mayall Plays John Mayall – Decca 1965 – ***1/2

Un buon disco, registrato dal vivo al Klooks Kleek, lo storico club londinese, utilizzando primitive tecniche di registrazione. Dean ha raccontato che c’erano cavi che uscendo da una finestra del locale arrivavano direttamente fino agli studi della Decca, che erano quasi a d un centinaio di metri di distanza. Comunque l’album illustra, sia pure in modo embrionale, quella miscela di R&B, R&R, blues e materiale originale di Mayall (ben 9 brani su 12) che di lì a breve sarà la carta vincente dei futuri Bluesbreakers, non appena un certo “Manolenta” non entrerà in modo dirompente nella formazione. Il disco comunque trasuda energia e grinta, presentando alcuni degli elementi delle future band inglesi che fonderanno blues, rock e R&B. come Dr. Feelgood, Nine Below Zero e altri: canzoni come la pimpante Crawling Up A Hill, I Wanna Teach You e When I’m Gone di Smokey Robinson, mostrano un eccellente armonicista in Mayall ,che suona anche organo e cembalett , e che canta anche con impeto, un buon chitarrista nella persona di Dean e una sezione ritmica con un paio dei futuri grandi del british blues, come McVie e Flint, e c’è anche Nigel Stanger al sax. I Need Your Love è il primo blues intenso, preso dal repertorio di B,B. King, con un buon solo di Roger Dean, R&B Time: Night Train/Lucille, un vibrante medley dei brani di James Brown e Little Richard, Runaway e Heartache tra i primi strumentali  con armonica che impazza ,che saranno poi tipici nella carriera del nostro, nonché il gran finale di Chicago Line

Nel corso del 1965 perdono il contratto con la Decca, ma nell’ottobre del 1965 esce per la Immediate il primo 45 giri attribuito a John Mayall & The Bluesbreakers I’m Your Witchdoctor, un gagliardo pezzo prodotto da Jimmy Page dove appare per la prima volta Eric Clapton alla chitarra, con un sostanziale cambio nel sound che si fa decisamente più torrido (la trovate nella versione Deluxe doppia del primo album, quello qui sotto, con la Decca che li ha rimessi subito sotto contratto). L’anticamera della registrazione di uno degli album epocali della storia del rock, ovvero

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John Mayall – Blues Breakers With Eric Clapton – Decca 1966 – *****

Un capolavoro. Un disco da 5 stellette che ancora oggi mantiene una freschezza ed una forza dirompenti. La sequenza dei 12 brani originali rimane una delle più indimenticabili nella storia delle 12 battute: si apre con il riff devastante di All Your Love di Otis Rush, dove Eric Clapton può dare libero sfogo al suo amore per il blues elettrico più genuino, quello che negli Yardbirds per certi versi aveva dovuto stemperare, con un assolo memorabile che ne mostra già perfettamente sviluppati i futuri splendori. Hideaway, lo strumentale di Freddie King è anche meglio, la mano è tutt’altro che lenta sul manico della chitarra, anzi vola, con una tecnica ed un feeling incredibili ed eleganti, veramente un uno-due da stendere al tappeto chiunque e che permise al Beano Album (dal fumetto in copertina) di arrivare fino al sesto posto delle classifiche UK, segnando l’inizio del British Blues. Litte Girl, un originale di Mayall è ancora intriso di elementi rock, mentre Another Man, ancora di John, solo voce e armonica, è un tuffo nel blues più duro e puro, prima di unire le forze con Clapton per un lento di quelli torridi come Double Crossin’ Time, dove la voce appassionata di John e il suo piano duettano con un ispiratissimo Eric.

A chiudere la vecchia prima facciata del LP una pimpante rilettura del classico di Ray Charles What I’d Say, ottima, anche se è uno dei pochi brani del disco che non supera la versione originale, anche se “God”, come chiamavano Clapton all’epoca ci mette del suo. Un album che sicuramente contribuì al (ri)lancio dei grandi musicisti blues neri sul continente europeo e poi di rimbalzo anche in America. Key To Love, ancora di Mayall, è uno dei primi esempi del blues fiatistico di alcuni dischi che seguiranno, anche Clapton è sempre in modalità sfrenata, e non manca l’omaggio a Mose Allison in una vorticosa Parchman Farm dagli spunti jazzati, prima di una morbida e fantastica blues ballad come Have You Heard con la sezione fiati di Alan Skidmore, Derek Healey e Johnny Almond a spalleggiare il solito infervorato Eric, ma un altro dei momenti topici del disco è sicuramente la versione di Ramblin’ On My Mind , uno dei primi esempi della “elettrificazione” per ora ancora “morbida” dell’opera di Robert Johnson, con “Enrico” voce solista per l’occasione, che poi si scatena nuovamente in una devastante Steppin’ Out, un brano strumentale che era già apparso su What’s Shakin’ e che sarà uno dei futuri cavalli di battaglia delle esibizione live dei Cream e tra i prodromi dell’invenzione del rock-blues e del power trio.

Mayall, che non sta a guardare, omaggia uno dei suoi  maestri Little Walter, con una briosa e scintillante It Ain’t Right. In pratica un album perfetto, che si trova in varie edizioni, quella con mono e stereo in sequenza, oppure l’ideale sarebbe quella in doppio CD Deluxe, ricca di chicche: alcuni dei singoli citati prima, a cui si aggiungono il 45 giri di Bernard Jenkins, sei brani dal vivo poi usciti su Primal Solos, con Jack Bruce al basso e svariate BBC Sessions. Clapton va e viene dalla Grecia, finché non lascia definitivamente il gruppo, ma il buon John ha già pronto il sostituto, un altro giovanissimo fenomeno della chitarra di soli 20 anni chiamato Peter Green, con il quale registra un altro disco epocale come…

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John Mayall Bluesbreakers – A Hard Road – Decca 1967 – *****

Forse le cinque stellette sono troppe, forse, ma la presenza di Peter Green, uno dei miei preferiti in assoluto alla chitarra, lo rende un altro album indispensabile nella discografia di Mayall. Il disco è stato registrato in soli 4 giorni tra ottobre e novembre 1966 ai soliti studi della Decca di Londra, e con la produzione di  Mike Vernon, che aveva curato anche il precedente album, e sarà una sorta di deus ex machina di tutto il filone del British Blues, anche grazie alla propria etichetta Blue Horizon, che nascerà proprio per lanciare i Fleetwood Mac di Peter Green, dove troverà ad attenderlo John Mc Vie e Mick Fleetwood, anche loro fuoriusciti dai Bluesbreaker, con Fleetwood ,che in quel periodo si era alternato alla batteria con Hughie Flint e  Colln Allen, e Ainsley Dunbar, che era il titolare nell’album originale, mentre nelle due Deluxe edition del CD, entrambe doppie, uscite nel 2003 e 2006, c’è anche molto materiale dell’epoca, sempre con Peter Green, uscito su Raw Blues, Looking Back, Thru The Years,4/ 5 brani sono quelli dell’EP con Paul Buttefield, l’omologo americano di Mayall per il blues bianco, un duello di armonicisti e cantanti, mini che esce il 6 gennaio del 1967, poche settimane prima di A Hard Road, nei negozi dal 17 febbraio, e di nuovo un successo in classifica, arrivando fino all’ottavo posto. In alcuni brani ai fiati ci sono di nuovo Alan Skidmore e Johnny Almond, più Ray Warleigh, e il disco è di nuovo splendido: per la serie Mike Vernon ci sapeva fare anche nella scelta della sequenza delle canzoni.

Il LP si apriva con una coppia di pezzi di John, A Hard Road, cantata in leggero falsetto da Mayall, che era uno slow degno dei migliori brani che arrivavano da oltre oceano, con Peter Green che iniziava ad estrarre dalla sua Les Paui del 1959 quel magico timbro che lo renderà unico per sempre, e anche It’s Over è un ottimo Chicago shuffle, ma i due capolavori arrivano subito dopo. You Don’t Love Me è un pezzo di Willie Cobbs dal riff inconfondibile, che negli anni successivi entrerà nell’immaginario collettivo degli amanti del rock grazie alla versione degli Allman Brothers nel Live At Fillmore East, ma in questa versione, cantata da Peter Green, è una sorta di anticipo del sound che avranno i futuri Fleetwood Mac, con in più l’armonica scoppiettante di Mayall; The Stumble è un altro pezzo strumentale di Freddie King, con Green che rivaleggia con Clapton per chi ha il timbro di chitarra più bello e lo stile più versatile, una bella lotta che fa la gioia degli ascoltatori. Another Kinda Love, Hit The Highway e Leaping Christine, sono altri pezzi che confermano il momento magico di John come autore, e sono suonate splendidamente dalla band, con il ventenne Green in pieno volo improvvisativo, come evidenziano soprattutto una Dust My Blues di Elmore James, dove Peter va di slide, e la magnifica The Supernatural, un pezzo strumentale scritto dal musicista di Bethnal Green, dove la chitarra del nostro galleggia quasi nella stratosfera, sognante e liquida, anticipando il riff e il sound di Black Magic Wowan, con quelle note lunghe e vibrate, su cui lo stesso Peter e poi Carlos Santana ci costruiranno almeno mezza carriera.

Nelle pieghe dell’album e nelle varie edizioni potenziate ci sono parecchie altre gemme sonore, una per tutte la fiatistica Someday After A While, sempre di King, ma mi fermo qui, se no l’articolo diventa un romanzo.

Fine Prima Parte.

Bruno Conti

Il Meglio Degli Anni Del Blues, Fase Due, Raccolto In Un Box. Gary Moore – Blues And Beyond

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Gary Moore – Blues And Beyond – Santuary/BMG Rights Management 4CD/2 CD

Robert William Gary Moore, come altri giovani artisti nati in Irlanda (ma anche e soprattutto in Inghilterra) e vissuti a cavallo tra la fine anni ’60 e i primi ’70, ha vissuto le ultime propaggini dell’epopea del cosiddetto British Blues: Moore si presentava come un arrivo tardivo, visto che la sua carriera inizia intorno al 1968, quando entra negli Skid Row, band dove militava il suo futuro pard Phil Lynott, un gruppo ritagliato sulla falsariga dei Taste di Rory Gallagher, ma soprattutto dei Fleetwood Mac del suo idolo Peter Green, che durante un tour dove la band irlandese faceva da supporto proprio ai Mac lo presentò alla CBS/Columbia, che fece incidere un paio di dischi a Moore e soci. Poi, rimanendo sempre in un ambito blues-rock, pubblicherà un eccellente album solista nel 1973 Grinding Stone, prima di entrare nei Thin Lizzy in sostituzione di Eric Bell (che proprio in questi giorni ha pubblicato un album solo), ma rimanendo brevemente in formazione, per ritornare in pianta più stabile nel periodo di Black Rose, incidendo però con il gruppo la prima versione di Still In Love With You, il suo brano più celebre, per quanto accreditato a Phil Lynott, la cui carriera si intersecherà a più riprese con quella di Moore. Nel frattempo, dopo l’esperienza con i Colosseum II, Gary Moore prosegue la sua carriera solista che però approda ad un hard-rock, per il sottoscritto, abbastanza di maniera e non sempre brillante, per quanto la sua chitarra era sempre in grado di infiammare le platee, soprattutto dal vivo.

Nel 1990 il nostro amico (ri)approda al Blues con una serie di album veramente belli, Still Got The Blues, After The Hours e Blues For Greeny, uscito nel 1995 e dedicato al suo mentore Peter Green, che dopo l’abbandono dei Fleetwood Mac gli aveva affidato la sua Gibson Les Paul del 1959, strumento dal suono splendido. Però i brani contenuti in questo box antologico non vengono da quel periodo, ma dal “secondo ritorno” al blues, quello avvenuto tra il 1999 e il 2004, attraverso quattro album pubblicati per la Sanctuary e di cui, nei primi due CD di questo quadruplo, c’è una abbondante scelta, sempre orientata verso il lato più blues del chitarrista irlandese, per quanto meno limpidi e genuini del periodo Virgin anni ’90, comunque nobilitati da un eccellente scelta di brani Live aggiunti “inediti” inseriti nel CD 3 e 4 del cofanetto, che rivisitano classici delle 12 battute misti a molti dei brani migliori del suo repertorio. Nella bella confezione è anche contenuto un libro, I Can’t Wait, che è la sua biografia autorizzata. Nei primi due dischetti, che si possono acquistare anche a parte, come una buona doppia antologia di quel periodo, spiccano l’iniziale Enough Of The Blues, l’hendrixiana (altro pallino di Moore) Tell Woman, a tutto wah-wah, una lancinante versione di Stormy Monday dove la chitarra scivola maestosa e sicura, una sincera That’s Why I Play The Blues (molti pensano che la svolta blues di Gary fosse dovuta ad a una sorta di opportunismo, ma BB King, che ha suonato spesso con lui dal vivo, la pensava diversamente).

Troviamo ancora Power Of The Blues, tra Gallagher e i Thin Lizzy, una chilometrica Ball And Chain (non quella della Joplin e Big Mama Thornton), di nuovo molto ispirata dall’opera di Jimi Hendrix, la pimpante Looking Back di Johnny Guitar Watson, il lungo e sognante strumentale Surrender, molto alla Peter Green via Santana, la tirata Cold Black Night, un altro slow come There’s A Hole, Memory Pain di Curtis Mayfield, di nuovo molto hendrixiana, l’ottima The Prophet, l’omaggio a BB King nella fiatistica You Upset Me Baby e quello a Otis Rush (e ai Led Zeppelin) in una carnale I Can’t Quit You Baby, un’altra delle sue classiche e sognanti ballate come Drowning In Tears, una cattivissima Evil di Howlin’ Wolf, ma più o meno tutti i brani contenuti nel doppio antologico sono di eccellente fattura, fino alla versione Live di Parisienne Walways del Montreux Festival 2003.

Il doppio CD dal vivo inedito è ancora meglio: versioni fantastiche di Walking By Myself, Oh Pretty Woman veramente ottima, una splendida Need Your Love So Bad che forse neppure Green (forse) avrebbe saputo fare meglio, All Your Love brillantissima e una struggente Still Got The Blues, molto vicina a Santana, lo shuffle perfetto di Too Tired e una devastante versione di 13 minuti diThe Sky Is Crying, con una serie di assoli veramente magistrali, e poi ancora Further On Up The Road, una scatenata Fire di Jimi Hendrix, la trascinante The Blues Is Alright e le versioni dal vivo di Enough Of The Blues e dello strumentale The Prophet. Insomma Gary Moore era uno di quelli di bravi e questo cofanetto lo certifica una volta ancora.

Bruno Conti

Degno Figlio Di Tanto Padre? Per Quanto Possibile, Questa Volta Sì! Big Bill Morganfield – “Bloodstains On The Wall”

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Big Bill Morganfield – “Bloodstains On The Wall” – Black Shuck Records                  

William “Big Bill” Morganfield è il figlio di Muddy Waters, anche se in vita ha avuto scarsi contatti con il padre ed è stato allevato dalla nonna in Florida. E la sua carriera nell’ambito musicale è partita solo parecchi anni dopo la dipartita dell’augusto genitore avvenuta nel 1983: infatti il suo primo disco esce solo nel 1997, quando aveva già 41 anni, e da allora ne ha pubblicati comunque sette, compreso questo “Bloodstains On The Wall”. Nessuno particolarmente memorabile, alcuni anche buoni (ricordo di averne recensiti credo un paio), forse quest’ultimo il migliore in assoluto, ma ovviamente McKinley Morganfield era tutta un’altra storia: va bene che non sempre, anzi assai raramente, i figli d’arte riescono a raggiungere o avvicinare i vertici di chi li ha preceduti, ma almeno ha avuto il buon gusto di non farsi chiamare Big Bill Waters. A 60 anni, l’età del nostro amico oggi, il babbo aveva già realizzato una serie di capolavori quasi ininterrotta, cosa che non possiamo certo pretendere dal suo erede e mi fermo prima di avventurarmi in qualche giudizio di cui potrei poi pentirmi, diciamo che l’album in questione è un onesto album di Chicago Blues, ben suonato e con quattro brani composti dallo stesso Big Bill.

In sei brani appare la Mofo Party Band, con i tre fratelli Clifton, oltre a Brian Bischel alla batteria e Bartek Szopinski a piano e organo. Nei restanti brani ci sono parecchi ospiti di nome e sostanza: oltre ad un altro paio di figli d’arte, Eddie Taylor Jr. sicuramente e Chuck Cotton probabilmente, troviamo anche Colin Linden e Bob Margolin alle chitarre, nonché Augie Meyers al piano in un brano e Jim Horn al sax, e, in alternativa a John Clifton all’armonica, l’ottimo Steve Guyger soffia di gusto in una brillante I Don’t Know Why che porta la firma di Willie Dixon. Per sgombrare da equivoci il mio commento devo precisare che Big Bill Morganfield ha una eccellente voce, il marchio di famiglia si percepisce e il disco si gusta tutto d’un fiato, ripeto, non aspettiamoci il capolavoro, ma il Blues viene trattato con gusto e perizia in questo CD e anche se il disco è stato registrato tra Nashville, la California e il North Carolina si respira l’aria dei club fumosi di Chicago dove il papà si era costruito la sua reputazione. E il “giovane” Big Bill ha pure un eccellente tocco alla slide come dimostra in un intenso slow blues come When You Lose Someone You Love che porta la sua firma, e dove si apprezza anche il piano di Szopinski. Ogni tanto viene inserito il guidatore automatico, come nell’iniziale Lost Without Love o nella cadenzata Too Much, dove lo stile non dico si faccia scolastico ma manca un po’ di nerbo.

Però nella vibrante Help Someone il pianoforte corre a tutto boogie e sembra quasi di ascoltare Pinetop Perkins o Otis Spann, mentre nella title-track, in  origine un country blues degli anni ’50, qui trasformato in un brano alla Muddy Waters (e ci mancherebbe) tutti i musicisti suonano alla grande, a partire da Augie Meyers al piano, il titolare alla slide acustica (o forse è Linden?), Jim Horn al sax, Doc Malone all’armonica, grande intensità veramente. Niente male anche Can’t Call Her Name, lo spirito è sempre quello giusto delle 12 battute classiche, con chitarre ovunque e la penna di Morganfield si conferma capace. Se occorre si pesca dal repertorio: una Keep Loving Me scritta da Otis Rush, tirata e chitarristica come poche, preceduta da una sorprendente Wake Up Baby, leggera e divertente e che porta la firma di Lisa Stansfield (proprio lei!); avviso per i naviganti, i due brani sono invertiti nel CD e nel libretto, ma nulla sfugge al vostro recensore preferito. I Am The Blues è uno dei manifesti assoluti di questa musica, scritta da Willie Dixon, e qui resa in una eccellente versione da Big Bill Morganfield, che nell’occasione reclama la sua eredità con la giusta intensità e gli assoli di chitarra sono veramente ricchi di gusto. Anche un tocco di West Coast Blues con una cover di Help The Bear di Jimmy McCracklin e siamo al finale, Hold Me Baby, un’altra composizione di Big Bill presentata come bonus track: la slide è acustica, ma il tocco di “modernità” della drum machine potevano risparmiarcelo. Per il resto un ottimo album, meglio di quanto mi aspettassi.

Bruno Conti

Chi Si Accontenta Gode! John Mayall’s Bluesbreakers – Live in 1967 Volume Two

john mayall live in 1967 volume two

John Mayall’s Bluesbreakers – Live in 1967-Volume Two – Forty Below Records 

Leggenda vuole che quando Mike Vernon, il loro produttore, entrando in studio per registrare il nuovo album e notando un amplificatore diverso dal solito, chiedesse “Dov’è Eric Clapton?”e  John Mayall gli rispondesse “Non è più con noi, se ne è andato da qualche settimana”, aggiungendo “Non preoccuparti ne abbiamo uno migliore!”. Con Vernon che preoccupatissimo si chiedeva “Meglio di Clapton?” e Mayall che ribadiva “Magari non ancora, ma aspetta un paio di anni e vedrai!”, presentandogli poi Peter Green. In effetti il giovane Peter Greenbaum aveva già sostituito Eric “God” Manolenta Clapton per qualche giorno, quando era sparito in Grecia nell’estate precedente, ma dall’autunno entrò in formazione a titolo definitivo per registrare A Hard Road, rimanendo poi con i  Bluesbreakers per circa un anno. Chi mi conosce sa che considero Peter Green uno dei dieci più grandi chitarristi bianchi della storia del blues elettrico, e non solo (e lo stesso pensava BB King che lo adorava): in poco più di 4 anni, prima con Mayall e poi nei Fleetwood Mac ha lasciato un segno indelebile nelle vicende del british blues (e del rock). Ma ovviamente non è il caso di raccontare la storia un’ennesima volta, fidatevi!

Il disco dei Bluesbreakers con Green usciva nel febbraio del 1967 e in quel periodo il gruppo suonò spesso nei locali di Londra, con la formazione dove apparivano anche i futuri Fleetwood Mac, John McVie e Mick Fleetwood, che non aveva partecipato alla registrazione dell’album. Il fato benigno volle che un fan olandese della band, tale Tom Huissen fosse presente con un antediluviano registratore a una pista per preservare per i posteri tutti i concerti. John Mayall e il suo ingegnere del suono Eric Corne, a quasi 50 anni di distanza da quelle registrazioni, ne sono venuti in possesso e, nei limiti del possibile, hanno provveduto a restaurarle e pubblicarle Se avete già sentito il primo capitolo di questo Live In 1967, avrete notato che in molti brani il suono è veramente pessimo, per non essere volgari inciso con il c..o, mentre in altri è tra il buono e l’accettabile, però Peter Green suona come un uomo posseduto da una missione, quella di divulgare il blues presso le giovani generazioni, condividendo la visione del suo mentore Mayall. E infatti si parte subito bene con una versione scintillante di Tears In My Eyes, dove Green rilascia un assolo ricco di tecnica e feeling, con quel suono unico e immediatamente riconoscibile che lo ha fatto amare da generazioni di chitarristi a venire, da Santana a Gary Moore (che riceverà in dono la Les Paul di Green) a Rich Robinson dei Black Crowes passando per Joe Perry, oltre a Jimmy Page e Eric Clapton che hanno espresso più volte la loro ammirazione per lo stile di Green, quel vibrato caldo e tremolante che poi si impenna all’improvviso in note lunghe e sostenute. E in questo brano, grazie alla buona incisione tutto si apprezza al massimo.

In altri pezzi bisogna intuirlo, ad esempio nella successiva Your Funeral And My Trial, che sembra incisa nella cantina del locale accanto, a Bromley. So Many Roads, il classico di Otis Rush, come il primo brano viene dalle registrazioni al mitico Marquee di Londra e quindi la registrazione è più che buona, come pure la veemente interpretazione di Green, in serata di grazia. In Bye Bye Bird il pezzo di Sonny Boy Williamson, sempre inciso a Bromley, si intuisce una eccellente performance di Mayall all’armonica, mentre Please Don’t Tell registrato al Ram Jam Club è sempre inciso maluccio, anche se i Bluesbreakers tirano come degli indemoniati, e in Sweet Little Angel Green si merita tutti gli aggettivi spesi per lui da B.B. King, grande versione del classico di Riley King https://www.youtube.com/watch?v=LXnuKmawtIw , come pure Talk To Your Daughter, da sempre un cavallo di battaglia, qui in una versione breve. Bad Boy è un brano minore, e si sente pure male, mentre Stormy Monday appare in una versione lunga e ricca di interventi solisti di Green, siamo al Klooks Kleek e canta Ronnie Jones, che è proprio quello che poi è diventato un famoso DJ in Italia, ma agli inizi era un grande cantante blues, scoperto da Alexis Korner. Greeny è uno dei fantastici strumentali scritti da Peter Green ad inizio carriera, pregasi ascoltare come suona, con Ridin’ On The L&N che si intuisce essere uno dei pezzi forti di Mayall, e pure Chicago Line lo sarebbe, se si sentisse bene. Conclude Double Trouble, un altro standard di Otis Rush, che poi Clapton avrebbe fatto proprio, ma allora Green lo suonava alla grandissima. Bisogna dire, vista la qualità sonora a tratti, che “chi si accontenta gode”, la musica meriterebbe mezza stelletta in più e forse oltre.

Bruno Conti

Supplemento Della Domenica: Ritorna Uno Dei Grandi Classici Del Blues Anni ’60, In Edizione Riveduta E Corretta! Magic Sam – Black Magic

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Magic Sam Blues Band – Black Magic (Deluxe) – Delmark/Ird

Questo è uno dei classici dischi di blues che si devono avere, uno di quelli da 4 stellette. Se poi, come ha fatto la Delmark, è stato pure rimasterizzato e potenziato con ben 8 tracce extra, di cui due inedite in assoluto, diventa indispensabile: bella anche la confezione digipack. Oltre a tutto gli altri sei brani, che sono alternate takes o brani non pubblicati, si trovavano solo su Magic Sam Legacy, una raccolta di materiale inedito uscita in CD nel 2008, e che forse non tutti hanno, ma acquistano ancora maggior significato aggiunti a queste sessions, registrate tutte tra  il 23 ottobre e il 7 novembre del 1968, proprio per questo Black Magic, e poi non utilizzate. Il disco fu il canto del cigno per Samuel Maghett, in arte Magic Sam, che sarebbe morto il 1° dicembre del 1969, pochi giorni dopo la pubblicazione dell’album, a soli 32 anni, in modo inatteso (per un attacco cardiaco), ma forse non imprevisto, visto il regime di vita che avevano molti musicisti all’epoca, a soli 32 anni. In seguito la sua leggenda è stata alimentata con molte pubblicazioni postume, ma a ben guardare, il musicista nato a Grenada, Mississippi, ma tipico rappresentante del West Side Blues di Chicago, in vita ha pubblicato solo due dischi, West Side Soul e questo Black Magic.

Mi lancio, con Freddie King, Buddy Guy e Otis Rush, è stato probabilmente uno dei più grande chitarristi della saga del blues elettrico di quegli anni: certo Albert King e B.B King erano anche grandi chitarristi, ma pure autori e cantanti sopraffini, delle vere icone nella storia delle 12 battute, Magic Sam, anche se era comunque un eccellente vocalist, verrà ricordato soprattutto come un formidabile solista https://www.youtube.com/watch?v=_7ZS22vc4Os . Il disco, prodotto da Bob Koester, che firma anche delle nuove note per la ristampa potenziata del CD, si avvale di un grandissimo gruppo di musicisti che suonano nell’album: Eddie Shaw, al sax tenore, Lafayette Leake al piano, Mighty Joe Young, alla seconda chitarra, Mac Thompson al basso e Odie Payne, Jr., alla batteria. Una (ri)edizione da mettere lì, religiosamente, sul vostro scaffale, a fianco del recente Live At The Avant Garde, June 22 1968, pubblicato sempre dalla Delmark nel 2013. Il suono, già buono nella versione originale da 10 brani, è stato ulteriormente migliorato, e quindi si possono godere a fondo le evoluzioni di Magic Sam e dei suoi amici: partenza sparata con la gagliarda e ritmata I Just Want A Little Bit, brano scritto da Roscoe Gordon, dove si iniziano da subito ad apprezzare anche le componenti R&B e soul presenti in grande copia nella musica di Maghett, eccellente voce di stampo soul, come viene ribadito nella incalzante You Belong To Me, un brano che ha profumi Stax, mentre What I Done Wrong, pur se ritmata, ha il classico suono Chicago Blues, con la chitarra dalle tinte semplici e lineari, ma sempre pronte a quel classico suono lancinante della scuola del blues urbano https://www.youtube.com/watch?v=m8f2eFHGD8E , poi ribadite nella cadenzata Easy Baby, che porta la firma di Willie Dixon, o nel tipico slow blues It’s All Your Fault, Baby, che viene dalla penna di Lowell Fulsom, con il solito cantato ricco di enfasi di Magic Sam, che, ben sostenuto da sax e piano, rilascia un assolo di una semplicità e di una classe disarmanti.

Same Old Blues è il classico di Don Nix,  brano che era anche nel repertorio di Freddie King e Jimmy Witherspoon, qui in una versione pimpante che ricorda molto il suono di dischi tipo Blues Jam At Chess dei Fleetwood Mac, mentre You Dont Love Me, Baby di William Cobb, senza il baby nel titolo, sarebbe diventato uno dei cavalli di battaglia dal vivo degli Allman Brothers, il riff inconfondibile è quello, ovviamente senza la potenza rock che gli avrebbero dato gli amplificatori Marshall da lì a poco. San-Ho-Zay, era uno degli strumentali tipici di Freddie King, sempre in bilico tra blues e R&B, con la chitarra di Magic Sam che disegna le sue perfette linee soliste; altro slow blues di quelli lancinanti è You Better Stop! You’re Hurting Me, tra le migliori interpretazioni in assoluto di Magic. Il disco originale si chiudeva sulla versione di Keep On Loviing Me, brano del “collega” Otis Rush, un bello shuffle dal suono cristallino. Tra le 8 bonus, molte alternate takes, What I Have Done Wrong, due volte, I Just Want A Little Bit, Same Old Blues, Everything’s Gonna Be Alright, uno dei suoi classici, che era uscito come singolo per la Cobra, e i due inediti assoluti, Keep On Doin’ What You’re Doin’,altro brano di puro Chicago Blues, e Blues For Odie Payne, uno slow strumentale dove si apprezza tutta la tecnica sopraffina di Magic Sam e dei suoi eccellenti comprimari. Per chi ama il blues, ribadisco, indispensabile, ma tutti ci facciano un pensierino!

Bruno Conti

Ritorno Alle Origini! Ronnie Earl & The Broadcasters – Father’s Day

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Ronnie Earl & The Broadcasters – Father’s Day – Stony Plain/Ird

Ormai credo sia cosa risaputa anche dai sassi che Ronnie Earl non canta, ma suona, cazzarola se suona, uno dei chitarristi più fenomenali apparsi nell’ultimo trentennio. E ogni disco è meglio di quello precedente: dopo gli eccellenti Just For Love, un live dove si potevano apprezzare i talenti vocali della bravissima Diane Blue, e il successivo Good News, con la presenza della Blue ancora più marcata http://discoclub.myblog.it/2014/07/12/ottimo-ed-abbondante-ronnie-earl-and-the-broadcasters-good-news/ , ora è la volta di questo Father’s Day,  dove accanto alla confermata Diane troviamo un cantante di notevole talento come Michael Ledbetter, già voce solista nella Nick Moss Band. E non è tutto, dopo tanti anni si ritorna in parte al suono dei primi anni di Ronnie Earl con i Roomful Of Blues, e quindi accanto al suo quartetto appaiono anche i fiati. Oltre a Earl, solista stellare, “The Master of the Telecaster” è un titolo che gli spetta di diritto, troviamo l’ottimo Dave Limina al piano e soprattutto all’organo Hammond, Lorne Entress alla batteria, Jim Mouradian al basso, i due vocalist citati e Nicholas Tabarias, seconda solista aggiunta in un paio di brani, oltre alla sezioni fiati, Mario Perrett e Scott Shetler, entrambi al sax.. E il disco ne guadagna; ci sono solo tre brani originali questa volta, ma la scelta delle cover è fantastica. Ronnie Earl, ripreso in posa sciamanica, ed anche un po’ hendrixiana, sulla copertina del CD, cerca di incantare la sua chitarra, ma finisce per incantare i suoi ascoltatori.

Sarà solo blues, ma si sente che ci sono passione, intensità, classe, feeling, tecnica, tutti gli elementi che fanno grande un virtuoso dello strumento come il nostro Ronnie. Presentato dal sito della Stony Plain come il suo settimo album per l’etichetta, in altre discografie come il nono, a me ne risulterebbero dieci, la statistica è solo un’opinione, comunque la si veda è l’ennesimo ottimo album di Ronnie Earl: c’è lo shuffle travolgente di It Takes Time, uno dei due brani a firma Otis Rush, dove il chitarrista rilascia un grande assolo, stimolato dalla brillante performance di Ledbetter, vocalist di grande spessore e con la band che lo segue passo dopo passo con la consueta precisione, soprattutto Limina all’organo, poi una delle tre tracce a firma Earl, Higher Love uno shuffle, più raffinato anche nell’uso della solista, dove appaiono i due sassofonisti e Ledbetter divide il compito vocale con Diane Blue, per un ottimo duetto. L’altro brano di Rush è uno dei più famosi, quel Righ Place, Wrong Time che dava il titolo a uno dei suoi album migliori, inutile dire che la versione che Earl fa di questo slow blues intenso con fiati è da manuale, e anche Ledbetter non è da meno, prima di lasciare spazio a un assolo sontuoso del nostro Ronnie. Magic Sam è stato un altro dei grandi chitarristi dell’era moderna del  blues e la sua What I Have Done Wrong è esaltata da una interpretazione ricca di soul della pimpante Diane Blue, mentre troviamo un Earl pungente, con fiati e organo che vanno di groove https://www.youtube.com/watch?v=6wNx36iNfqM .

Giving Up è una struggente soul ballad del Van McCoy era pre-disco, con una magnifica interpretazione vocale, ancora una volta, di Ledbetter e Earl che stilla nota dopo nota dalla sua chitarra, prima di lasciare spazio al sax di Perrett. Every Night About This Time è un altro super classico, questa volta di Fats Domino, puro stile New Orleans, con Limina ovviamente al piano, Ledbetter voce solista e fiati ben bilanciati e Ronnie che guida le danze con la sua Fender https://www.youtube.com/watch?v=3KVqnenDrtM , poi nuovamente in primissimo piano nello slow blues immancabile, che è la title-track Father’s Day, brano frmato Earl-Ledbetter che non sfigura in mezzo a tanti classici https://www.youtube.com/watch?v=k34VdimwGl0 .. Quando Earl ha inciso questo album probabilmente B.B.King non era ancora morto, ma la sua I Need You So Bad risulta un omaggio sentito ed eseguito con classe, un tipico shuffle cantato con perizia dal bravo Michael. Ottima anche l’interpretazione vocale di Diane Blue in I’ll Take Care Of You di Brook Benton, altro lento soffertissimo dove Earl divide gli spazi chitarristici con il suo “protetto” Nicholas Tabarias, come pure nella successiva super funky Follow Your Heart, dove è schierata tutta la squadra, fiati, organo, Ledbetter e Blue a duettare, e Tabarias che esegue il primo solo https://www.youtube.com/watch?v=Vfipsv8bh84 . Moanin’ è l’immancabile strumentale jazz swingato, di Bobby Timmons, con il dualismo chitarra-organo per l’occasione arricchito dai fiati. Altro pezzo da novanta dei brani chitarristici è una All Your Love scintillante, pescata ancora dal repertorio di Magic Sam, versione lenta, con Ledbetter che titilla il “solito” lavoro ad alta precisione della solista e conclusione di uno dei migliori dischi blues dell’anno e di Earl in particolare, con una sognante, delicata ed intensa Precious Lord, un gospel del Rev. Thomas Dorsey dove la gara di bravura tra Earl e Diane Blue porta ad un pareggio a tutto vantaggio degli ascoltatori https://www.youtube.com/watch?v=l3L30UyjjV8 .

Bruno Conti