La Reunion Prosegue, Ed Anche Molto Bene! The Dream Syndicate – These Times

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The Dream Syndicate – These Times – Anti CD

Quando nel 2017 Steve Wynn aveva pubblicato un disco nuovo di zecca a nome dei riformati Dream Syndicate, l’eccellente How Did I Find Myself Here?, non avevo pensato ad una reunion estemporanea https://discoclub.myblog.it/2017/10/04/sventagliate-elettriche-come-ai-bei-tempi-the-dream-syndicate-how-did-i-find-myself-here/ , anche perché era dal 2012 che avevano ripreso a fare concerti insieme, ma con tutto l’ottimismo possibile non avrei creduto di ritrovarmi dopo soli due anni a commentare un altro album ad opera loro. E non è che la cosa mi dispiaccia, in quanto These Times dimostra che quanto di buono fatto vedere dal disco di due anni fa non era un fuoco di paglia, anche se comunque ci sono delle differenze sia nel suono che nelle canzoni, ma il tutto nel rispetto della continuità. So che quest’ultima può sembrare una frase in “politichese” che afferma una cosa ed il suo contrario, ma vedo di spiegarmi meglio: These Times è un album dai testi profondamente pessimistici, che parla dei problemi enormi del mondo e della società odierna (come da titolo), e parecchi pezzi riflettono il mood delle liriche, suonando cupi, pressanti e con pochi spiragli di luce.

In più i nostri sperimentano suoni più moderni, a differenza di How Did I Find Myself Here? che era un disco di rock chitarristico abbastanza classico nella sua confezione: qui invece c’è anche l’uso della tecnologia, si sente il suono dei synth in diversi momenti (ad opera di Chris Cacavas, entrato a far parte in pianta stabile del gruppo, e quindi essendo l’unico ad aver militato nei due gruppi cardine del cosiddetto Paisley Underground, cioè i Green On Red ed appunto i Syndicate), ed anche l’uso della strumentazione ha meno agganci col passato. Ma, ed ecco il discorso sulla continuità, si tratta sempre e comunque di rock’n’roll con elementi punk e qualcosa di psichedelico, le chitarre non si tirano mai indietro e le atmosfere sono quelle tipiche dei nostri, solo con un occhio più attento ai tempi attuali, ma comunque senza mai perdere il senso della misura. Prodotto dal fido John Agnello, These Times non presenta ospiti esterni a parte un paio di backing vocalists femminili, e quindi vede i già citati Wynn e Cacavas affiancati dalla seconda chitarra di Jason Victor e dalla sezione ritmica (sempre grande protagonista) di Mark Walton al basso e Dennis Duck alla batteria. Il CD si apre con The Way In, un brano potente e chitarristico del tipo a cui i nostri ci hanno abituato, solo con un synth in sottofondo che però non infastidisce: ritmica pressante ed atmosfera cupa e tagliente (può essere tagliente un’atmosfera? Ascoltate questo brano e mi darete ragione) e nessuno squarcio di luce.

Put Some Miles On continua in maniera aggressiva, siamo quasi in zona punk anche se i nostri hanno una tecnica ed una professionalità che i gruppi punk si sognano: ritmo forsennato e chitarre stridenti, con Wynn che “loureedeggia” con la voce; Black Light inizia con un suono di tastiere “strano”, poi il brano parte con un basso pulsante ed una ritmica incalzante, ed anche qui i nostri non danno speranze nel testo e si approcciano in modo duro, secco e senza fronzoli. Da questo avvio These Times potrebbe sembrare più ostico dell’album di due anni fa (che in certi punti era perfino orecchiabile) ma il piacere dell’ascolto non ne è di certo inficiato, solo non lo metterei ad un appuntamento galante. Bullet Holes stempera un po’ la tensione, complice anche una chitarra acustica, ed il brano stesso è decisamente più immediato e fruibile, quasi un folk-rock urbano dalla melodia più definita, mentre Still Here Now è un’autentica rock song alla maniera dei nostri, chitarre e piano elettrico in evidenza ed un motivo diretto che continua con l’opera di distensione sonora rispetto ai primi tre pezzi. Speedway è ancora una canzone dall’incedere aggressivo ed incombente, ma anche coinvolgente, con il synth usato a mo’ di organo farfisa e le chitarre che arrotano che è una bellezza.

Recovery Mode ha un refrain orecchiabile ed è quanto di più vicino al pop possa esprimere il gruppo di Los Angeles, con le tastiere qui in prima fila rispetto alle chitarre, mentre The Whole World’s Watching vede il basso dominare in partenza, poi entra una chitarra sghemba ed il solito synth che però qui secondo me non era necessario (avrei preferito l’organo): Steve inizia a cantare dopo due minuti ed il brano si impenna di brutto. Chiusura con la roboante Space Age, altro rock’n’roll di grande energia e vigore chitarristico (e notevole godimento per chi ama il vero rock) e con Treading Water Underneath The Stars, finale a ritmo più contenuto ed atmosfera oscura simile a quella dei brani iniziali, anche se i decibel non sono certo messi a riposo. These Times non sarà forse immediato come How Did I Find Myself Here? e forse è anche un gradino sotto come canzoni, ma rimane comunque un signor disco di moderno rock, del tipo che oggi si sente sempre meno.

Marco Verdi

Gran Disco Ma…Non Potevano Pensarci Un Po’ Prima? The Long Ryders – Psychedelic Country Soul

long ryders psychedelic country soul

The Long Ryders – Psychedelic Country Soul – Omnivore CD

I Long Ryders negli anni ottanta sono stati con i Dream Syndicate ed i Green On Red uno dei gruppi cardine di quel movimento nato a Los Angeles e denominato Paisley Underground, ma nello stesso tempo, soprattutto per le loro influenze che andavano dai Byrds ai Flying Burrito Brothers, si potrebbero considerare tra i capostipiti del futuro revival Americana ed alternative country. I tre album pubblicati durante il loro periodo di attività (1983-1987), Native Sons, State Of Our Union e Two-Fisted Tales, sono considerati dagli estimatori tra i dischi di maggior culto della decade, ma il fatto che vendettero pochissimo contribuì allo scioglimento prematuro del quartetto (Sid Griffin, Stephen McCarthy, Tom Stevens e Greg Sowders), nonostante esibizioni dal vivo che definire infuocate è dir poco (il secondo ed il terzo lavoro sono usciti pochi mesi fa in edizioni triple deluxe, ma se del gruppo non avete nulla è sufficiente il bellissimo box quadruplo del 2016 Final Wild Songs). Nelle decadi successive Griffin, da sempre il leader dei Ryders, ha pubblicato diversi album sia da solo che con i Coal Porters (oltre a scrivere libri su Gram Parsons e Bob Dylan), e dal 2004 ha iniziato a riunire saltuariamente il suo vecchio gruppo per brevi tour (ed un album dal vivo, State Of Our Reunion), ma pochi avrebbero pensato che i nostri avrebbero dato alle stampe un lavoro nuovo di zecca, e men che meno della qualità di Psychedelic Country Soul.

E invece Sid e compagni (ancora nella loro formazione originale) sono riusciti seppur tardivamente nel miracolo, cioè di consegnarci un disco davvero bellissimo, pieno di canzoni originali (ed una cover) suonate e cantate con la grinta degli esordi, una miscela vincente di country e rock’n’roll che fa sembrare l’album come un disco perduto inciso subito dopo Two-Fisted Tales. Anzi, forse è perfino meglio, in quanto i nostri hanno acquisito maggior esperienza e hanno perso qualche ingenuità inevitabile quando si è giovani: per questo Psychedelic Country Soul (bello anche il titolo) è a mio parere uno dei migliori album di Americana usciti negli ultimi tempi, e vista la già avvenuta reunion dei Dream Syndycate (che tra l’altro hanno un disco in uscita a Maggio) per ricostituire il Paisley Underground mancherebbero solo i Green On Red, se solo Dan Stuart riuscisse a tornare a concentrarsi sulla musica. L’album è prodotto da Ed Stasium, definito dai nostri il quinto Long Ryder, e vede alcune collaborazioni illustri come la violinista Kerenza Peacock, già con i Coal Porters, e le voci di Debbi e Vicky Peterson, ex Bangles. La maggior parte dei brani è a firma di Griffin, ma anche McCarthy e Stevens dicono la loro, pure come cantanti solisti.

Si inizia alla grande con la scintillante Greenville, un brano country-rock terso e limpido con chitarre in gran spolvero e ritmo sostenuto, suono byrdsiano ed ottimo refrain: bentornati. Let It Fly è una deliziosa country ballad suonata sempre con piglio da rock band, begli stacchi chitarristici, interventi di steel e violino ed armonie vocali celestiali; la spedita Molly Somebody è folk-rock deluxe dal ritmo alto, melodia che prende al primo ascolto e gran lavoro di chitarra, un brano che potrebbe benissimo provenire dal repertorio di Tom Petty, mentre All Aboard è una splendida e goduriosa rock’n’roll song, solite chitarre in tiro (strepitoso l’assolo centrale) ed uno sviluppo trascinante: siamo solo ad un terzo del disco e già abbiamo quattro canzoni una più bella dell’altra. Anche Gonna Make It Real è decisamente bella, un country-rock puro e cristallino, dal motivo solare ed ancora con un uso sopraffino delle voci; If You Want To See Me Cry, lenta ed acustica, è un gradito momento di relax, ma con What The Eagle Sees riprende alla grande il tour de force elettrico, un rock’n’roll suonato con grinta da punk band, quasi come se i nostri fossero in un club nei primi anni ottanta: gran ritmo e, tanto per cambiare, una festa di chitarre.

California State Line è una deliziosa e malinconica country ballad, nella quale è chiara l’influenza di Parsons; The Sound è un pezzo rock fluido e grintoso, dal tempo accelerato e con la solita linea melodica tersa e godibile. Walls, unica cover del CD, è un bel brano proprio di Tom Petty, non molto conosciuto (era sulla colonna sonora di She’s The One), ma perfetto per l’attitudine folk-rock dei nostri: rilettura rispettosa e decisamente riuscita, grazie anche alle voci delle due ex Bangles. Il dischetto termina con la tenue Bells Of August, squisita e rilassata ballata elettroacustica scritta e cantata da Stevens (e qui sento echi di The Band), e con l’elettrica e potente title track, che conferma quanto annuncia nel titolo, specie per la parte “psychedelic”, come da vibrante coda chitarristica del pezzo. E’ chiaro che la carriera dei Long Ryders negli anni ottanta è stato un caso lampante di “unfinished business”, ma ora vorrei sperare che questo bellissimo album sia un nuovo inizio e non la parola finale alla loro storia.

Marco Verdi

Sventagliate Elettriche Come Ai Bei Tempi! The Dream Syndicate – How Did I Find Myself Here?

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The Dream Syndicate – How Did I Find Myself Here? – Anti CD

Quando nel 2012 Steve Wynn aveva riformato per una serie di concerti i Dream Syndicate, gruppo cardine insieme ai Green On Red del cosiddetto movimento Paisley Underground (nato a Los Angeles negli anni ottanta), mi sarei aspettato che prima o poi la band si sarebbe ritrovata in studio per dare un seguito al loro ultimo lavoro, Ghost Stories (1988). Quello che non avevo immaginato è che i quattro (oltre a Steve l’unico altro membro fondatore è il batterista Dennis Duck, mentre il bassista Mark Walton era entrato nel 1986 e Jason Viktor è il chitarrista dei Miracle 3 di Wynn) avessero ancora nelle corde un disco del livello di questo How Did I Find Myself Here? L’album infatti, più che il seguito di Ghost Stories, si ricollega direttamente al leggendario Medicine Show, splendido secondo lavoro dei nostri che aveva seguito l’altrettanto fulminante esordio di The Days Of Wine And Roses: How Did I Find Myself Here? è infatti un disco di una potenza ed energia straordinarie, con la tipica miscela di rock e psichedelia del gruppo portata a livelli molto alti, otto canzoni coi fiocchi suonate alla grande, come se trent’anni non fossero passati.

Stupisce anche la lucidità di Wynn come songwriter, dato che, dopo i promettenti inizi da solista (gli ottimi Kerosene Man e Dazzling Display e lo splendido Fluorescent), negli anni a seguire si era un po’ perso, alternando dischi di discreta fattura ad altri meno brillanti, ma senza più centrare l’album da copertina. Qui invece funziona tutto a dovere (complice anche il contributo determinante alle tastiere di Chris Cacavas, ex Green On Red) ed il disco si rivela tra i migliori album di rock chitarristico da me ascoltati ultimamente: potrei fare un paragone con il sorprendente reunion album dei Sonics di due anni fa (This Is The Sonics http://discoclub.myblog.it/2015/12/23/recuperi-sorprese-fine-anno-1-aiuto-il-lettore-va-fuoco-the-sonics-this-is-the-sonics/ ), non per il genere di musica ma per il fatto che spesso per fare del grande rock è preferibile avere una carta d’identità un po’ ingiallita. Il CD inizia in maniera strepitosa con la potente Filter Me Through You, brano chitarristico e cadenzato dal drumming possente ma anche con un motivo orecchiabile, il tutto nella più perfetta tradizione del quartetto californiano, un vero muro del suono che ci riporta indietro di trent’anni. Glide se possibile è ancora più elettrica e pressante, in contrasto con la voce declamatoria di Wynn, qui messa quasi in secondo piano rispetto alla veemenza chitarristica, mentre Out Of My Head aumenta ancora il ritmo e sfocia quasi nel punk, anche se di gran classe (so che punk e classe nella stessa frase fanno a pugni, ma fidatevi), con qualche traccia anche del Lou Reed più aggressivo: energia allo stato puro, senza dimenticarsi però della sostanza delle canzoni.

Sentite pure la saltellante 80 West, qui siamo forse oltre la forza di Medicine Show, come se gli anni che sono passati avessero accentuato al massimo la furia elettrica dei nostri; Like Mary molla un po’ la presa, spunta anche una chitarra acustica, e Wynn si prende il centro della scena con il suo tipico stile da rocker notturno, ricordandoci anche che quando vuole è un cantautore coi fiocchi. The Circle coniuga ancora alla perfezione potenza (tanta) e fruibilità, un attacco frontale di notevole impatto, mentre la title track è il pezzo centrale del disco: inizio sghembo, con gli strumenti che vanno ognuno per i fatti suoi e dove non è estranea una buona dose di psichedelia, poi Viktor ricuce tutto insieme, Wynn inizia a cantare ed il brano scorre fluido per undici minuti ad alto tasso elettrico. Kendra’s Dream, che chiude il CD, è a sorpresa cantata da Kendra Smith, bassista degli esordi dei Syndicate e poi con gli Opal, un pezzo ipnotico, obliquo, con le chitarre al limite della distorsione e la voce particolare e vissuta in puro stile Marianne Faithfull  della Smith a creare un mix straniante ma di indubbio fascino.

Meno male che c’è in ancora in giro qualche band in grado di fare del rock come Dio comanda, ed i Dream Syndicate fanno senz’altro parte di questo, ahimè, sempre più ristretto gruppo.

Marco Verdi

Il Grande Rock Abita Anche In Italia, E Da Molto Tempo! Cheap Wine – Beggar Town Album E Concerto

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Cheap Wine – Beggar Town – Cheap Wine/Distr. IRD

Piccola premessa. Sabato scorso, 4 ottobre, sono andato allo Spazio Teatro 89 di Milano per la presentazione ufficiale del nuovo album dei Cheap Wine Beggar Town, da oggi disponibile ufficialmente in vendita, in rete per il download e nei negozi specializzati: concerto bellissimo, con una prima parte dove è stato eseguito il disco nella sua interezza e, senza soluzione di continuità, una cavalcata nel vecchio repertorio della band pesarese. Solito quintetto, o meglio, rispetto al nuovo disco, dove appariva ancora il vecchio bassista, Alessandro Grazioli, che ha lasciato dopo 18 anni di presenza nella band, c’era il nuovo bassista Andrea Giaro, che diminuisce drasticamente la quota bulbo pilifera del gruppo, ma non la competenza e la qualità del sound (era già presente al Buscadero Day). Per il resto, Alan Giannini, la solita macchina da guerra inarrestabile e raffinata al contempo alla batteria, l’ottimo Alessio Raffaelli alle tastiere (presente anche nei Miami And The Groovers) e i fratelli Diamantini, Marco, voce solista, occasionale chitarra e armonica, nonché autore dei testi e di quasi tutte le musiche della band, e alle chitarre elettriche, slide e con wah-wah, Michele Diamantini; nell’insieme, una eccellente esibizione anche grazie all’ottima acustica del Teatro milanese (un posto da scoprire ed usare in una “poverissima”  metropoli meneghina a livello di luoghi concertistici per il rock). Vi risparmio la lista dei brani eseguiti, visto che fra poco parliamo del nuovo disco, posso aggiungere che per motivi vari a livello personale, ammessi dallo stesso Marco, è stata una serata ad alto contenuto emozionale e la conferma del loro valore di Live Band che non scopro certo io.

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Venendo al nuovo Beggar Town, si tratta di un disco buio, cupo e tempestoso, dai testi crudi e pessimisti all’ennesima potenza, però la musica, quasi a compensare, è ricca, vibrante e di grande spessore, senza nulla da invidiare alle grandi produzioni internazionali anche a livello di suono, brillante e ben delineato. Questo decimo album dei Cheap Wine, in 18 anni di attività, ma già da inizio anni ’90 qualcosa si muoveva in quel di Pesaro, è l’ennesima conferma che siamo di fronte ad una delle formazioni più interessanti del panorama musicale rock italiano: anche loro, come mi piace ricordare, fanno parte di quella piccola ma agguerrita pattuglia di “italiani per caso”, da sempre proiettati verso un tipo di suono che si abbevera alle radici della musica americana (e anche di quella anglosassone), il tutto visto attraverso l’ottica della provincia italiana, dal loro quartier generale di Pesaro la “conquista” del mondo si spera idealmente sia sempre possibile. Se un brano dei Green On Red è stato quello che ha dato il nome al gruppo, la musica del Paisley Underground, il punk più raffinato (anche se il termine è un po’ un ossimoro) inglese, il rock classico inglese, Jimmy Page nelle chitarre di Michele Diamantini, ma anche Mott The Hoople nelle loro derive più R&R, qualcosa del Gilmour più lancinante e blues, tanto rock americano, da Petty a Springsteen, i citati Green On Red e i Dream Syndicate, Dylan Neil Young, quello più tosto, tra i cantautori, questo sono alcune delle cose che sento io nella loro musica, ma potete aggiungere quello che volete, anche perché il risultato finale è poi un suono molto personale che si inserisce d’autorità, ed in modo indipendente e onesto, nel grande fiume della buona musica tout court.

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Una bella confezione digipack apribile, con copertina, illustrazioni e artwork curate da Serena Riglietti, già all’opera per il precedente Based On Lies, e nota per essere l’autrice delle copertine dei libri della saga di Harry Potter, nonché insegnante all’Accademia di Belle Arti di Urbino, che notoriamente è a due passi da Pesaro. Non è tutto, il libretto comprende i testi completi, da ponderare, con relativa traduzione in italiano. E soprattutto, dodici nuove canzoni che si ascoltano tutte di un fiato, anche se l’approccio globale è forse meno immediato e rock che nei dischi passati (nel senso di “rawk and roll”), a parte il crescendo finale, siamo in ogni caso di fronte ad un signor disco. La partenza è affidata ad una intensa Fog On The Highway, con il piano Bittaniano di Raffaelli ad intrecciarsi con la chitarra di Michele Diamantini in modalità slide più wah-wah che inanella una serie di assoli acidissimi che ti torcono le budelle con delle scosse poderose mentre il fratello Marco, con voce piana da narratore esterno inizia a raccontarci cosa non funziona nel mondo, e purtroppo la lista è lunga. Altro brano eccellente è Muddy Hopes, una sorta di valzerone noir sempre incentrato sul dualismo chitarra-tastiere, con il cantato di Marco che ricorda moltissimo le atmosfere (e la voce). quasi sussurrata di Leonard Cohen, con l’atout di una chitarra risonante che ha tratti western, salvo poi nel finale scatenare tutta la sua inquietante potenza e pigiare di nuovo a fondo sul pedale del wah-wah, mentre il corpo della melodia è lasciato ai florilegi di un piano acustico quasi jazzistico nel suo divenire.

La title-track Beggar Town, con la musica di Raffaelli e ancora con una chitarra circolare e tagliente come una sega elettrica cerca di dividerci in due prima di consegnarci al “Re dei mendicanti”, il tutto su un drumming ossessivo e con il wah-wah che sparge ancora una volta velenosi accordi. Lifeboat, un altro lentone minaccioso e ciondolante, con la solita chitarra acida ed un piano elettrico che intessono traiettorie blues notturne e sospese è un’altra perla di preziosi equlibri sonori, con il solito Diamantini jr a disegnare sonorità liquide in un brano che a tratti ricorda le atmosfere e le sonorità di una Riders On The Storm per i giorni nostri. Qualche pennata di chitarra acustica ingentilisce il mood di Your Time Is Right Now, una costruzione sonora, dove il cantato corale ricorda la “vecchia” West Coast (anche se loro tecnicamente vengono dalla East Coast) o il “nuovo” Jonathan Wilson, tra Pink Floyd; Yes (lo Steve Howe di Yes Album era un gran solista, sentitevi Yours Is No Disgrace) e cavalcate psichedeliche che poi sfociano in una bella jam strumentale, dove le chitarre soliste raddoppiate e le tastiere trascinano l’ascoltatore verso lidi di pura libidine aurale, veramente un brano corale che dimostra la maturità eccellente raggiunta dal gruppo anche al di fuori delle vecchie sfuriate rock. Keep On Playing chissà perché mi ricorda il buon prog, con un inizio quasi vicino all’incipit del Il Banchetto della PFM o ancora i Led Zeppelin più pastorali, quando la batteria fa il suo trionfale ingresso sulle improvvisazioni del piano che poi lascia spazio ad un assolo di chitarra in crescendo. nella versione dal vivo si è dimostrato quasi inarrestabile nella sua magica fluidità, tra Page e il Bonamassa più legato ai 70’s, ma sempre con quei sottotoni springsteeniani che non guastano, come il cantato, sempre essenziale e mai sopra le righe di un ispirato Marco Diamantini.

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Claim The Sun è una ballatona ariosa, sulle ali di una slide ricorrente e di un piano elettrico essenziale, potrebbe ricordare anche nel timbro vocale di Diamantini Sr. certe cose più meditate dello Steve Wynn della maturità o il meglio della produzione dei Cheap Wine stessi, quelli più riflessivi. Utrillo’s Wine, basata su un aneddoto o una storia vera, un “piccolo tradimento” tra due amici sfigatissimi a Parigi, Modigliani e Utrillo, con il secondo che si vende i pochi stracci del primo per comprarsi due bottiglie di vino e berle alla sua salute, una sorta di parabola della serie non c’è limite al peggio, ridiamo per non piangere, un brano solo piano e voce, che nella melodia iniziale mi ha ricordato, non so se solo a me, il vecchio Cat Stevens (Father And Son?), per poi diventare una umbratile canzone tra Springsteen e il Waits più melodico. Di nuovo chitarre choppate e con il wah-wah innestato, ma accelerano i tempi, il suono si fa più funky-rock ed incalzante in una Destination Nowhere sempre poderosa anche nella sua incarnazione concertistica, con la solista che disegna ghirigori elettrici tra Zappa e Page, ma anche ricordando i “vecchi maestri” Green On Red, che fanno capolino pure nelle violente sventagliate rock’n’roll di una incattivita ode all’Uomo Nero, una Black Man dove anche le cascate pianistiche di Alessio Raffelli hanno un brio e una violenza tipiche del miglior R&,prima di lasciare spazio ad un altro assolo di chitarra di quelli che ti tagliano in tanti pezzettini.

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La minacciosa, nel tempo e nella musica, I Am The Scar, si situa in quel crocevia rock che sta tra i vecchi inni garage-psych di Nuggets, il Petty più rock, il Paisley Underground più cattivo di Wynn e Stuart, con i loro degni compari Karl Precoda e Chuck Prophet. Mentre la conclusione è affidata ad un brano The Fairy Has Your Wings (For Valeria), scritta in memoria di qualcuno che non c’è più ,ma la cui voce, fattezze e ricordi sono sempre vivi nella mente di Diamantini che vuole immortarli per sempre in questa bella canzone, complessa e dal bellissimo crescendo, un inizio malinconico e soffuso, una parte centrale, dove il suono è più ricercato e melodico e una lunga coda pianistica, che nella versione live vista alla presentazione, si chiude con una ulteriore coda strumentale d’assieme, una sorta di catarsi sonora che rende il brano quasi trionfale, peccato non sia presente nella pur bella versione di studio, già oltre i sei minuti e quindi forse siamo extra time, ma ci sarebbe stata veramente bene (questi recensori mai contenti!). Sarà per i prossimi concerti dell’imminente tour che tra ottobre, novembre e dicembre li vedrà in giro per l’Italia a spargere la buona novella (in alcune date anche in versione acustica) di questo nuovo, eccellente disco, e di tutto il loro passato catalogo sonoro http://www.cheapwine.net/concerti.htm. Il giudizio è uno: grande Rock, ma le parole d’ordine sono tre, comprate, comprate, comprate! Soldi spesi bene!

Bruno Conti