Non Mancano I Dischi Dal Vivo Né Degli Uni Né Dell’Altro, Ma Questi Due Sono Bellissimi. The Who – Live At The Isle Of Wight 2004 Festival/Paul Simon – The Concert In Hyde Park

who live at the isle of wight 2004

The Who – Live At The Isle Of Wight 2004 Festival – Eagle Rock DVD – BluRay – 2CD/DVD – 2CD/BluRay

Paul Simon – The Concert In Hyde Park – Legacy/Sony 2CD – 2CD/DVD – 2CD/BluRay

Oggi ci occupiamo di due pubblicazioni dal vivo che hanno in comune il fatto di essere entrambe molto belle, nonché di essere state entrambe registrate qualche anno fa: gli artisti in questione non sono certo privi nelle loro discografie di testimonianze live, sia in audio che in video, ma nonostante ciò sarebbe un peccato ignorare queste due uscite.     Gli Who, una delle più longeve band britanniche, hanno nella fattispecie pubblicato negli anni più album dal vivo che in studio, ma questa performance registrata nel 2004 durante il mitico Isle Of Wight Festival (che aveva riaperto i battenti due anni prima) è da considerarsi tra le più importanti, non fosse altro per il fatto che vedeva i nostri tornare sul luogo del delitto a 34 anni dalla leggendaria serata del 1970 (anch’essa disponibile ufficialmente dal 1996). Il gruppo era alla prima tournée britannica dopo la morte dello storico bassista John Entwistle, e quindi i nostri erano già ridotti a duo, naturalmente composto dal leader e chitarrista Pete Townshend e dalla potente ugola di Roger Daltrey, mentre il resto della band vedeva Pino Palladino al basso, Simon Townshend (fratello minore di Pete) alla chitarra ritmica, Zak Starkey (figlio di Ringo Starr) alla batteria e John Bundrick alle tastiere, formazione in sella ancora oggi, Bundrick escluso. Live At The Isle Of Wight 2004 Festival proposto, come è consuetudine per la Eagle Rock in tutte le combinazioni audio/video possibili, vede dunque gli Who, in forma smagliante, deliziare il numeroso pubblico con un’esibizione potente, roccata e chitarristica come nel loro DNA: sia Daltrey che Townshend sono in grande spolvero, e la band suona con la forza di un macigno, il che non significa mancanza di tecnica; e poi ci sono le canzoni, veri e propri inni entrati a far parte della storia del rock, una scaletta forse con poche sorprese (e poco differente da altri dischi dal vivo del gruppo) ma con talmente tanti capolavori che è sempre un piacere riascoltarli.

Il suono non è forse spettacolare come nel recente Live In Hyde Park, ma è comunque ottimo, e la serata parte subito alla grande con un trittico a tutto rock’n’roll formato da I Can’t Explain, Substitute ed Anyway, Anyhow, Anywhere, e quasi subito dopo una, come al solito, epica Behind Blue Eyes (in mezzo, Who Are You, che non mi è mai piaciuta molto ma è l’unica, mentre purtroppo dalla scaletta manca The Kids Are Alright, una delle mie preferite); l’inarrivabile Baba O’Riley, per chi scrive la più grande canzone rock di sempre dopo Stairway To Heaven, è stranamente al settimo posto nella setlist invece che nei bis, mentre c’è anche qualche chicca come The Punk And The Godfather (da Quadrophenia), Drowned e Naked Eye con solo le chitarre acustiche dei due leader (e nella prima Pete alla voce solista) e due canzoni all’epoca nuove di zecca, uscite come bonus tracks dell’antologia Then And Now: la magnifica Real Good Looking Boy, puro Who sound al suo meglio, e la potente ma meno incisiva Old Red Wine. Altri highlights sono la strepitosa You Better You Bet, i superclassici My Generation (più corta del solito) e Won’t Get Fooled Again ed un finale a tutto Tommy con Pinball Wizard, Amazing Journey, Spark, See Me Feel Me e Listening To You, con Magic Bus come bis conclusivo.

paul simon concert in hyde park

Paul Simon è noto per essere uno dei massimi songwriters di tutti i tempi, ma non certo per il fatto di essere un animale da palcoscenico: di carattere freddo, spesso scostante al limite dello snobismo, non sempre sul palco il newyorkese è garanzia di qualità (io l’ho visto tre volte, sempre a Milano, e se in due occasioni mi aveva entusiasmato ed emozionato, la terza ero rimasto decisamente deluso), ma quando sente aria di grande evento (leggi concerto con folla oceanica, riprese video e futura pubblicazione ufficiale) offre sempre delle performance strepitose. È questo il caso di The Concert In Hyde Park, registrato nel noto polmone verde di Londra nel corso dell’Hard Rock Calling del 2012, una serata magica sotto molti aspetti, un po’ per la suggestiva cornice di pubblico, un po’ per l’ottima forma del leader, ma soprattutto perché nella seconda parte del concerto Simon si è presentato con la band di Graceland al completo, per la prima volta dal tour del 1987, e ha riproposto, anche se con le canzoni in ordine sparso, quasi tutto il famoso album di 26 anni prima (saltando solo, non so bene perché, All Around The World Or The Myth Of Fingerprints). Anche qui, come nel caso degli Who, le canzoni sono una più bella dell’altra, e se aggiungiamo un Simon in serata di grazia il concerto fa presto a diventare imperdibile: Paul ha sempre avuto il pregio di circondarsi di musicisti formidabili, e questa sera non fa certo eccezione, sia per quanto riguarda la sua abituale band che quella “africana”, entrambe guidate dall’eccellente chitarrista Vincent Nguini, e con ospiti come il noto cantautore reggae Jimmy Cliff, il grandissimo gruppo vocale Ladysmith Black Mambazo guidato dal loro leader Joseph Shabalala ed il famoso trombettista sudafricano Hugh Masekela.

La prima parte del concerto è più classica, ma sempre musicalmente ricca e piena di spunti ritmici e melodici mai banali, con classici come la vivace Kodachrome, che apre la serata, il gustoso gospel di Gone At Last, la lenta Dazzling Blue (unica concessione all’allora nuovo So Beautiful Or So What), la sempre intensa e raffinata Hearts And Bones (in medley con Mystery Train di Junior Parker e con lo strumentale Wheels di Chet Atkins), le irresistibili That Was Your Mother, un travolgente cajun ed antipasto di Graceland, e Me And Julio Down By The Schoolyard, per chiudere con la fluida Slip Slidin’ Away, puro Simon classico, e la ritmatissima e coinvolgente The Obvious Child. In questa prima metà c’è anche il mini set di Jimmy Cliff, con le famosissime The Harder They Come e Many Rivers To Cross solo nella parte video (che non ho ancora visto), oltre alla meno nota Vietnam e la solare (e splendida) Mother And Child Reunion in duetto con Simon. La seconda parte, come ho già detto, è incentrata su Graceland, ed è un immenso piacere ascoltare in una veste sonora così scintillante classici come le strepitose Homeless (tutta a cappella) e Diamonds On The Soles Of Her Shoes, la fluida title track, il capolavoro The Boy In The Bubble, le meno note Crazy Love, Vol. II, Gumboots e Under African Skies, e le travolgenti I Know What I Know e, soprattutto, You Can Call Me Al, vera esplosione di ritmo e suoni. Nei bis, finalmente, anche un po’ di spazio per il repertorio targato Simon & Garfunkel, con una sempre emozionante The Sound Of Silence acustica ed una stupenda The Boxer full band con l’intervento al dobro di Jerry Douglas. Richiamato a gran voce sul palco, Simon si congeda con la vivace Late In The Evening e la classica e raffinata Still Crazy After All These Years. Due live albums da non perdere quindi, specie il secondo.

Marco Verdi

Il Risveglio Di Un’Eroina Degli Anni Sessanta! Joan Baez – The Complete Gold Castle Masters

joan baez complete gold castle masters

Joan Baez – The Complete Gold Castle Masters – Razor & Tie/Concord/Proper 3CD

Gli anni ottanta sono stati una decade parecchio difficile per molti artisti che appena vent’anni prima avevano il mondo (musicale) nelle loro mani, a causa della tendenza tipica di quegli anni di staccare con il passato e di vivere il presente in maniera esagerata, creando mode effimere che però nel periodo rischiarono di cancellare intere carriere (per fortuna gli anni novanta, sebbene lontani dall’essere definiti indimenticabili, rimisero parecchie cose al loro posto). Tra i musicisti più in difficoltà ci fu sicuramente Joan Baez, vera e propria icona della musica folk nei sixties, e titolare di una buona discografia “di gestione” nei seventies, che negli ottanta era considerata una vera e propria has been, buona solo per essere chiamata quando c’era da sfilare in qualche corteo e cantare canzoni di protesta in qualche evento specifico: Joan non interessava più come artista, discograficamente parlando, e per ben sette anni non pubblicò alcunché, priva com’era anche di un contratto (anche la sua partecipazione al tour europeo del 1984 di Bob Dylan e Santana finì solo con il compromettere definitivamente i rapporti tra lei e Bob). Nel 1987 la svolta: Joan accettò la proposta di Danny Goldberg, proprietario della piccola etichetta Gold Castle e grande appassionato di folk (altri artisti sotto contratto per la stessa label in quel periodo erano Peter, Paul & Mary, Judy Collins ed Eric Andersen), ed entrò in studio con il produttore Alan Abrahams ed un manipolo di sessionmen (tra cui Fred Tackett, Caleb Quaye ed Abraham Laboriel), uscendone con Recently, un discreto album che ci faceva ritrovare un’artista in buona forma e con una voce ancora eccezionale, disco che non fu un grande successo di pubblico ma ottenne buone critiche e contribuì a rimettere in circolo il nome della Baez, al punto che dopo due anni Joan bisserà con Speaking Of Dreams, un disco anche migliore del precedente, e che le darà la fiducia necessaria per continuare, anche se con altre etichette, fino ad oggi con la pubblicazione di un nuovo album ogni cinque anni (anche se è ormai ferma all’ottimo Day After Tomorrow del 2008, ma pare che stia lavorando ad un nuovo disco che potrebbe uscire nel 2018 e comunque qualche giorno fa è stata inserita nella Rock And Roll Hall Of Fame, come vedete nel video sotto).

Oggi la Razor & Tie (e la Proper in Europa) ripubblica in un triplo CD quei due dischi ormai fuori catalogo (la Gold Castle è fallita da tempo), aggiungendo quattro bonus tracks ed anche un disco dal vivo uscito all’epoca giusto in mezzo ai due album di studio, Diamonds & Rust In The Bullring. Recently (ed anche Speaking Of Dreams) propone, come d’abitudine per la Baez, una miscela di brani originali (pochi, Joan non è mai stata un’autrice prolifica), qualche traditional e diversi pezzi di autori contemporanei, con arrangiamenti al passo coi tempi, anche se talvolta un po’ fuori posto per lo stile della cantante. Joan sceglie di cominciare con il classico dei Dire Straits Brothers In Arms, in cui sopperisce con il pathos e la purezza della sua voce all’assenza della chitarra di Mark Knopfler (e poi il pezzo è già bello di suo). Quelli erano anche gli anni delle canzoni contro l’apartheid in Sudafrica, e la Baez non si chiama certo fuori, riprendendo Asimbonanga (del musicista sudafricano Johnny Clegg, all’epoca molto popolare), un canto che alterna cori di stampo tradizionale ad una veste sonora moderna (pure troppo) ed il celebre inno di Peter Gabriel Biko, in uno squisito arrangiamento dal sapore irlandese. Ci sono anche due canzoni non collegate direttamente al Sudafrica, ma usate ugualmente come canti di libertà: il medley tradizionale Let Us Bread Together/Oh Freedom, dal vivo e con un bel coro gospel alle spalle, e MLK degli U2, voce e synth, che sebbene sia dedicata a Martin Luther King non è una grande canzone. Completano il disco due brani scritti da Joan, Recently e James And The Gang, due cristalline ballate di stampo folk (meglio la seconda, la prima è un po’ zuccherosa) e due classici del songbook americano: The Moon Is A Harsh Mistress di Jimmy Webb, in un’intensa rilettura pianistica (anche qui gli archi sono superflui, ma non esagerano) ed un’ottima Do Right Woman, Do Right Man, famoso errebi scritto da Dan Penn, in una vibrante versione soul che è anche un tributo ad Aretha Franklin.

Paradossalmente il brano migliore è la bonus track pubblicata in questa ristampa, una cover di Lebanon, brano scritto da David Palmer (songwriter e musicista con un passato negli Steely Dan), una ballata di stampo quasi rock, dal suono classico ed elettrico ed una melodia coinvolgente, un mistero come sia rimasta inedita sino ad oggi. Speaking Of Dreams, sempre prodotto da Abrahams, è come ho già detto più bello di Recently, e con un suono migliore: ben tre canzoni sono scritte da Joan, la fulgida China, dedicata ai fatti di Tienanmen Square, il gradevole reggae di Warriors Of The Sun e la title track, raffinata ballata pianistica. Due sono i traditionals, un’intensissima versione piano e chitarra del brano popolare irlandese Carrickfergus ed il medley Rambler Gambler /Whispering Bells, con la partecipazione di Paul Simon, che ha anche arrangiato il brano in puro stile Graceland usando i suoi musicisti africani; splendida El Salvador, una sontuosa ballata di Greg Copeland, impreziosita dal duetto vocale con Jackson Browne, anch’egli in quel periodo molto impegnato politicamente con album come Lives In The Balance e World In Motion, mentre Fairfax County, del cantautore David Massengill, è una delicata folk song, con Joan perfettamente calata nel suo ambiente naturale. Pollice verso invece per Hand To Mouth: già la scelta di rifare un brano di George Michael (per di più un lato B di un singolo) è di per sé discutibile, ma poi la canzone è brutta e l’arrangiamento molto anni ottanta. Ben tre sono le bonus tracks (due già edite in una precedente antologia della Baez ed una nelle varie edizioni CD dell’album): una versione alternata di Warriors Of The Sun unita in medley con She’s Got A Ticket di Tracy Chapman, una Goodnight Saigon molto bella, potente e roccata, anche meglio dell’originale di Billy Joel, ed una rilettura in spagnolo di My Way di Paul Anka, intitolata A Mi Manera ed in cui Joan è accompagnata dai Gipsy Kings (bella? Ma anche no…).

Molto bello infine il live Diamonds And Rust In The Bulling (a parte il titolo da bootleg), registrato nel 1988 nella Plaza de Toros di Bilbao, in Spagna, un live elettrico con Joan in ottima forma e con una voce ancora potentissima. Nella prima parte (il vecchio lato A) troviamo splendide versioni di Diamonds And Rust, la più bella tra le canzoni scritte da Joan, una commovente No Woman, No Cry di Bob Marley ed una meravigliosa Let It Be (Beatles, of course) in versione gospel, oltre ad una rilettura a cappella del traditional Swing Low, Sweet Chariot ed una bellissima e toccante Famous Blue Raincoat di Leonard Cohen, cantata dalla Baez per la prima volta. La seconda parte propone cinque canzoni in spagnolo (Joan, grazie anche alle sue origini messicane, ha un’ottima padronanza della lingua ispanica) ed una, Txoria Txori, addirittura in basco: oltre alla nota Gracias A La Vida, appesantita un po’ dalla debordante presenza vocale di Mercedes Sosa, un’interessante Elles Danzas Solas, versione spagnola di They Dance Alone di Sting (brano di protesta contro il dittatore cileno Augusto Pinochet) ed una deliziosa El Preso Numero Nueve con un arrangiamento flamenco. The Gold Castle Masters è dunque un’ottima opportunità per riscoprire alcune pagine poco note, ma fondamentali per la sua carriera, di Joan Baez, considerando anche il fatto che costa come un doppio CD.

Marco Verdi

E Purtroppo Ci Ha Lasciato Anche Maggie Roche, La “Piccola” Grande Cantante Newyorkese, Aveva 65 Anni (E Anche Altri Due Lutti)

maggie roche the roches

Sabato 21 gennaio 2017 se ne è andata anche Maggie Roche, brillante cantante newyorkese, a lungo con le Roches, il trio della Grande Mela “famoso” per le loro armonie vocali che lasciavano senza respiro. La cantante era nata appunto a New York il 26 ottobre del 1951 ed era la maggiore di tre sorelle, le altre due erano Terre, e la più giovane Suzzy. Nel 1973 Maggie e Terre avevano cominciato la loro attività nel campo musicale cantando come background vocalist in There Goes Rhymin’ Simon, il disco di Paul Simon che le aveva fatte conoscere al grande pubblico.

Poi nel 1975 hanno pubblicato per la Columbia l’unico album come duo a nome Maggie & Terre Roche Seductive Reasoning, e in seguito è entrata nel gruppo anche Suzzy Roche, portando all’esordio come The Roches del 1979, pubblicato dalla Warner e prodotto da Robert Fripp, un piccolo gioiellino di equilibri sonori, tra lo splendido contralto di Maggie, il soprano di Terre e Suzzy che stava nel mezzo a fare da collante per le loro celestiali armonie vocali https://www.youtube.com/watch?v=6-LJX9IXiio, un disco che ancora oggi non risente del trascorrere del tempo, e che spero venga in futuro ristampato in CD, come ha fatto la Real Gone nel 2012 per il disco del 1975.

maggie and terre roche seductive reasoning the roches the roches

Poi le tre sorelle hanno pubblicato una serie di album, nove in tutto, compreso uno natalizio (tra i più belli nello specifico argomento) fino al 1995 in cui è uscito Can We Go Home Now l’ultimo album come trio della prima fase, visto che nel 1997 hanno messo la loro carriera come gruppo in pausa a tempo indeterminato. Anche se nel 2003 la Warner/Rhino ha pubblicato una eccellente antologia The Collected Works Of The Roches, e le sorelle, da sole o in duo, hanno continuato a pubblicare dischi, magari solo per la gioia dei fans più accaniti e degli appassionati della bella musica! Poi nel 2007, a sorpresa, è uscito un disco Moonswept, ancora a nome Roches, che ha rinnovato la magia di questo splendido gruppo familiare.

Ma a parte un breve tour l’avventura è finita quasi subito. Nel corso degli ultimi anni le tre sorelle hanno spesso collaborato con Amos Lee, le Indigo Girls e tutta la famiglia allargata McGarrigle/Wainwright, visto che Suzzy è stata la seconda moglie di Loudon Wainwright III e mamma di Lucy Wainwright Roche, altra promettente cantautrice.

E sabato, dopo una lunga lotta con il cancro, si è spenta la stella di Maggie Roche. Nell’augurio che anche lei Riposi In Pace, colgo l’occasione per rimarcare che anche se questi tributi postumi sono forse le uniche occasioni in cui si parla di artisti ed artiste che meriterebbero ben altro spazio, comunque su questo Blog i nomi che avete letto in questo Post non fanno la loro apparizione per la prima volta, visto che cerchiamo sempre di parlare anche dei nomi cosiddetti “minori”, magari non sempre riuscendoci.

A questo proposito, purtroppo ancora, vi segnalo che ieri, a seguito delle complicazioni di una polmonite, è morto anche Jaki Liebezeit, il batterista dei mitici Can. aveva 78 anni. 

Bruno Conti

P.s. Per la serie le disgrazie non vengono mai da sole, soprattutto ultimamente, e in tutti i campi, apprendo solo ora che ieri, domenica 22 gennaio, all’età di 69 anni è deceduto anche Overend Watts, lo storico bassista dei Mott The Hoople (e British Lions), anche lui affetto da qualche tempo da una grave forma di tumore alla gola, e a cui qualche tempo la band americana dei Mambo Suns aveva dedicato una canzone.

Sperando che per oggi non succeda altro!

Questo E’ L’Anno? Lo Spero Per Loro, Lo Meritano! Yarn – This Is The Year

yarn this is the year

Yarn – This Is The Year – Red Bush CD

In passato mi ero già occupato un paio di volte per il Buscadero (ma non ancora sul Blog) degli Yarn, quartetto originario di Brooklyn, e ne avevo parlato bene: il gruppo, attivo dal 2007, ha già alle spalle ben cinque album, più due collezioni di outtakes di studio (Leftovers Vol. 1 & 2) che erano allo stesso livello di un normale disco, e la qualità media è sempre stata piuttosto alta. La band è guidata da Blake Christiana, che scrive tutte le canzoni, le canta e suona la chitarra ritmica, coadiuvato da Roderick Hohl alla solista, Robert Bonhomme al basso e Rick Bugel alla batteria, e da sempre propone una intrigante miscela di country, folk e rock, senza pretendere di inventare nulla ma facendo molto bene quello che fa. Un gruppo di Americana al 100% dunque, con una capacità innata da parte di Christiana di scrivere canzoni di presa immediata, classiche nel suono e senza strani arzigogoli o velleità moderne: This Is The Year è il loro nuovissimo lavoro, e dopo un attento ascolto posso affermare che, fortunatamente, i ragazzi non hanno cambiato una virgola del loro suono, ma a mio parere hanno addirittura alzato ancora il livello, in quanto le canzoni qui sono decisamente migliori che negli album precedenti e la loro intesa si è ulteriormente perfezionata (merito pure dei circa 170 concerti che tengono durante l’anno, che hanno dato loro modo di crearsi anche un bel seguito).

Country-rock di ottima levatura, con un livello di songwriting eccellente ed una performance complessiva degna di nota: non ci sono altri sessionmen in studio, ed il disco è autoprodotto, a testimonianza del fatto che gli Yarn non vogliono perdere il controllo di quello che fanno, ed i fatti hanno dato loro ragione in quanto This Is The Year può tranquillamente essere messo tra i migliori dischi del genere usciti negli ultimi due-tre mesi. L’apertura è affidata a Carolina Heart, una tenue e soffusa ballata suonata in punta di dita e con uno stile che fonde country, rock e Paul Simon (dopotutto i ragazzi sono di New York), begli arpeggi chitarristici ed una melodia fresca e piacevole. La title track è più elettrica, con un non so che di Neil Young, ritmo secco ed un suono di chitarra ruspante, il tutto però rilasciato con garbo e misura; Love/Hate, per contro, ha un leggero sapore pop-errebi ma si fa apprezzare lo stesso (sorprende la capacità dei nostri di creare melodie semplici ed immediate), mentre Fallin’ è una splendida ballata lenta, di quelle che solo i grandi autori sanno scrivere, con un motivo fluido e toccante ed un’atmosfera crepuscolare di grande fascino. E siamo solo al quarto pezzo.

La spedita I’m The Man è una sorta di honky-tonk elettrico, gustosissimo e tra le più dirette del CD, cantata da Blake con uno studiato distacco, che ricorda l’approccio che caratterizzava le interpretazioni di Lowell George: il ritornello, poi, è irresistibile; Now You’re Gone ha un riff secco, alla Steve Earle, ed il brano è un country-rock elettrico decisamente accattivante, Sweet Dolly ha un’andatura saltellante ed ancora rimandi ad un certo cantautorato classico, anche questa ben costruita ed assolutamente valida. Ma non c’è un solo brano sottotono: la mossa Easy Road è bellissima, coinvolgente, da canticchiare al primo ascolto, Long Way To Texas è un rockabilly d’altri tempi, con un buon pickin’ chitarristico, ed anche Life Is Weird fa restare il disco in territori bucolici, con un leggero retrogusto folk ed il solito refrain da applausi. L’album si chiude con la classica (nel suono) Simple Life I Ride, altra cristallina country ballad, e con la gentile e rilassata I Let You Down.

This Is The Year: speriamo che per gli Yarn questo titolo sia di buon auspicio, se lo meriterebbero.

Marco Verdi

 

75 Anni Così? Da Farci La Firma Subito! Joan Baez – 75th Birthday Celebration

joan baez 75th celebration

Joan Baez – 75th Birthday Celebration – Razor & Tie CD – DVD –  2CD/DVD

Quest’anno non solo Bob Dylan ha festeggiato il raggiungimento del settantacinquesimo anno di età, ma ancora prima di lui (il 9 Gennaio) è stata la volta di Joan Baez, che ancora oggi qualcuno associa al grande cantautore di Duluth nonostante i due non abbiano rapporti di alcun genere da almeno trent’anni, a causa del legame fortissimo, sia artistico che sentimentale, che unì Dylan e la Baez all’inizio degli anni sessanta, quando venivano identificati entrambi come i leader del movimento folk di protesta. Come sappiamo Bob deviò presto verso altre strade, mentre Joan ha sempre continuato con le sue battaglie fino ad oggi, con una coerenza rara nel mondo della musica, ma che le fa senz’altro onore, anche se qualcuno potrebbe etichettarla come personaggio anacronistico. A differenza di Dylan, da sempre refrattario alle auto-celebrazioni, Joan ha deciso di festeggiare il compleanno con qualche giorno di ritardo (il 27 Gennaio), con un concerto al Beacon Theatre di New York e con una serie incredibile di grandi ospiti presenti (tranne Bob, naturalmente, ma anche Joan aveva mancato la famosa BobFest al Madison Square Garden nel 1992), tutti in fila rispettosamente ad omaggiare una vera e propria leggenda vivente della nostra musica. E Joan, come si evince dal DVD allegato al doppio CD pubblicato da pochi giorni, per l’occasione (intitolato semplicemente 75th Birthday Celebration) è apparsa in forma eccezionale, sia fisica che vocale, intrattenendo magnificamente per tutti i cento minuti circa dello spettacolo, cantando da sola o con l’aiuto degli amici che vedremo tra breve una bella serie di classici del passato, suoi e di altri, oltre a diverse chicche https://www.youtube.com/watch?v=CvxdtlG3Q9g .

Vocalmente forse Joan non ha più la potenza dei primi anni (quando si diceva potesse rompere un bicchiere di cristallo solo con l’uso della voce), ma la purezza è rimasta intatta, ed in questa serata dimostra anche di essere una padrona di casa splendida, muovendosi sul palco con una classe immensa ed introducendo i vari ospiti con presentazioni brevi ma efficaci (ed è anche un’ottima chitarrista, il che non guasta). Il concerto è al 100% acustico, con pochi brani suonati full band, ma il feeling è talmente alto e le canzoni sono talmente belle che non solo la noia è totalmente assente, ma non si contano i momenti emozionanti o addirittura commoventi. Inizio splendido con l’intensa God Is God, un brano di Steve Earle che Joan esegue in perfetta solitudine, voce limpidissima e grande feeling, due strofe e ho già i brividi; There But For Fortune è uno dei classici assoluti di Phil Ochs, una delle più belle canzoni dello sfortunato folksinger, mentre Freight Train, il noto evergreen di Elizabeth Cotten, vede entrare il primo ospite, cioè il grande David Bromberg, che non canta ma si fa sentire eccome con il suo splendido pickin’. Per Blackbird, nota canzone dei Beatles, Joan è raggiunta sul palco, con acclusa prima grande ovazione, da David Crosby (e da Dirk Powell alla chitarra): i due armonizzano in maniera superlativa, anche perché David questo brano dal vivo con CSN lo fa da una vita; She Moved Through The Fair è una delle più famose ballate irlandesi, ed a Joan si unisce Damien Rice (che è irlandese pure lui), solo due voci ed un harmonium, ma che intensità! Joan omaggia anche Donovan con Catch The Wind (il brano più noto del periodo folk del cantautore, quando veniva chiamato il “Dylan inglese”), ed alla padrona di casa si aggiunge la bravissima Mary Chapin Carpenter per una buona versione, molto rigorosa.

Anche Hard Times, è stata fatta dalla metà di mille (è una canzone popolare composta da Stephen Foster, lo stesso di Oh, Susannah!), e qui Joan divide il microfono con Emmylou Harris, una delle poche che come voce non ha paura della Baez (e Powell si sposta al piano), altra rilettura da pelle d’oca; Joan ed Emmylou vengono poi raggiunte da Jackson Browne (che somiglia sempre di più a Carlo Massarini con la parrucca, ed i due tra l’altro sono amici), per una strepitosa versione a tre voci e tre chitarre di Deportee, una delle più belle canzoni di Woody Guthrie, ed uno dei momenti top della serata. Ed ecco Dylan (inteso come autore), ma Joan, dopo un’introduzione in cui sfotte bonariamente il vecchio Bob, sceglie un pezzo poco conosciuto, Seven Curses, suonato in totale solitudine, come anche la canzone successiva, una fluida interpretazione del traditional Swing Low, Sweet Chariot; la prima parte del concerto (e primo CD) si chiude con la grande Mavis Staples che si unisce a Joan per un medley di puro gospel eseguito a cappella dalle due artiste, Oh, Freedom/Ain’t Gonna Let Nobody Turn Me Around, dove spicca il contrasto tra la potenza di Mavis ed il timbro cristallino di Joan.

The Water Is Wide è un altro splendido traditional che la nostra avrà cantato mille volte, ma stasera con le Indigo Girls (cioè Amy Ray ed Emily Saliers) ed ancora la Chapin Carpenter è tutta un’altra storia; le Ragazze Indaco restano sul palco per un altro pezzo di Dylan, la grandissima Don’t Think Twice, It’s All Right, altra versione da manuale, voci perfette e pathos a mille, un altro magic moment del concerto. Ed ecco il primo brano full band, ed è una eccezionale rilettura del classico House Of The Rising Sun, resa imperdibile dalla presenza di due chitarristi come David Bromberg e Richard Thompson, dire strepitosa è riduttivo. Thompson rimane per una versione a due di quello che è il brano più recente tra quelli proposti: infatti She Never Could Resist A Winding Road era una delle canzoni di punta dello splendido Still, album dello scorso anno del chitarrista inglese http://discoclub.myblog.it/2015/06/30/altro-disco-richard-thompson-still/ , ma la sua presenza in scaletta ha senso in quanto Joan preannuncia che sarà uno dei pezzi presenti sul suo prossimo disco di studio, e se il livello si manterrà così ci sarà da divertirsi; ancora Jackson Browne per una toccante versione di una delle sue signature songs, Before The Deluge (che Joan aveva inciso negli anni settanta), con solo Jackson al piano, più un violino ed una percussione: magnifica. Diamonds And Rust è sicuramente la più bella e famosa tra le (poche) canzoni scritte dalla Baez, e qui è riproposta con un’intensità incredibile, e con l’aiuto di Judy Collins, che ha solo due anni in più di Joan ma sembra sua nonna, anche se è sempre in possesso di una grande voce.

Gracias A La Vida, il noto brano di Violeta Parra ed uno dei maggiori successi di Joan, vede la nostra in compagnia del musicista cileno Nano Stern, per una scintillante versione che parte lenta ma poi si trasforma in un brano dalla ritmica molto vivace e “latina” che piacerà sicuro anche ai fans dei Los Lobos. Ci avviciniamo alla fine, ma c’è il tempo per una stupenda The Boxer eseguita proprio in compagnia di Paul Simon (e di Richard Thompson), un brano tra i più belli di sempre rifatto in maniera sublime; The Night They Drove Old Dixie Down, oltre ad essere uno dei classici assoluti di The Band, è stato anche il più grande successo commerciale di Joan a 45 giri, ed è perfetta per chiudere la serata in questa versione full band, con la Baez visibilmente emozionata quando il pubblico le canta spontaneamente “Happy Birthday To You”; come bis Joan sceglie ancora Dylan, e non poteva esserci canzone più appropriata per l’occasione di Forever Young, eseguita per sola voce e chitarra.

Un concerto magnifico, un atto dovuto per una cantante splendida: ritenendo che Totally Stripped degli Stones ed i volumi 2, 3 e 4 di It’s Too Late To Stop Now di Van Morrison siano comunque da considerarsi ristampe, a mio parere questo 75th Birthday Celebration è, fino a questo momento, il live dell’anno.

Marco Verdi

Sempre Il Solito Simon, Complesso E Moderno, Ricco Di Suoni “Stranieri”. Paul Simon – Stranger To Stranger

paul simon stranger to stranger

Paul Simon – Stranger To Stranger – Concord/Universal

Quell’occhio, benevolo ma inquietante, che ti scruta dalla copertina di questo nuovo Stranger To Stranger è quello di un signore di 75 anni (a metà ottobre) che, a differenza per esempio di Dylan, ha preferito rivolgere il suo sguardo verso il “futuro”, con un album costruito su sonorità “moderne”, forse con più grooves e ritmi rispetto alle melodie del passato, ma sempre ricco di fascino e complessi intrecci sonori. Che poi ci riesca completamente magari è soggetto ai diversi punti di vista degli ascoltatori, ma sicuramente ci prova. Questo disco in fondo è “solo” il tredicesimo album di studio in una carriera solista iniziata nel lontano 1972 (e contando anche il Paul Simon Songbook, pre-Simon & Gafrunkel, del 1965 e la colonna sonora di One Trick Pony): quindi non una carriera particolarmente ricca di prove discografiche, e in questo senso ogni nuovo CD di Paul Simon è un evento. Il precedente album So Beautiful Or So What era un buon disco, magari non un capolavoro (http://discoclub.myblog.it/2011/04/10/temp-d60b04cfdc8f0c74be0a93f5c8899c81/), e, a mio modesto parere, neppure questo Stranger To Stranger lo è, pur se superiore a quel disco e non così formidabile come lo sta dipingendo la parte della critica musicale mondiale che ne ha già parlato.

Nell’ambito della “modernità” dei suoni è sicuramente superiore a Surprise, il disco del 2006 registrato con Brian Eno, che non aveva retto alle aspettative della strana coppia, e come contenuti musicali a You’re The One, il disco del 2000 e al pasticciato musical Songs From The Capeman, quindi forse il miglior disco di Simon dai tempi di The Rhythms Of The Saints, ma comunque nettamente inferiore sia a quel disco, come ai capolavori Graceland Hearts & Bones (quello che prediligo in assoluto). A proposito di modernità per l’occasione Simon rispolvera l’ottuagenario Roy Halee, il produttore ed ingegnere del suono dei suoi dischi migliori, non più avvezzo al suono di pro-tools ed altre diavolerie elettroniche (e Paul ha dovuto fargli da tramite verso le nuove tecnologie) ma che non sembra avere perso il tocco magico nel fondere nuovi suoni con il calore del suono analogico. Come al solito (da cui il titolo del post) Paul Simon non ha perso il vizio di sperimentare ardite e, in parte, riuscite aggregazioni di diverse sonorità: lo spirito folk e melodico della sua tradizione, la musica popolare di diversi paesi e continenti, dal folklore del Perù al flamenco della Spagna, passando per l’amata Africa, e anche i beat elettronici dell’italiano Clap! Clap (Digi D’Alessio, con la D, all’anagrafe Stefano Crisci da Firenze), oltre all’utilizzo di strumenti mutuati dalla musica contemporanea di Harry Partch e alla batteria di Jack De Johnette e la voce di Bobby McFerrin, da un ambito jazz. Ed ecco quindi apparire, nei vari brani, strumenti come il gopichand, la Hadjira, la trombadoo, il Big Bong Mbira, il chromelodeon, lo zoomoozophone, accanto a glockenspiel, celeste, marimba e flamenco dancing (prego?!?).

Ebbene sì, perché è il groove, l’afflato ritmico, quello che vince in questo Stranger To Stranger, ogni tanto la volontà di sperimentare nuovi suoni va a scapito della melodia, spesso in passato protagonista principale delle canzoni più belle di Paul Simon, e qui ce ne sono comunque alcune notevoli. Però, andando a stringere, due brani sono strumentali, The Clock, che è un breve sketch di un minuto per orologio, mbira e chitarra acustica e la delicata e deliziosa In The Garden Of Edie, dedicata alla moglie Edie Brickell, una sorta di ninna nanna pastorale sussurrata a bocca chiusa su uno strato di strumenti suonati dallo stesso Paul. Poi ci sono i tre brani dove appare l’elettronica di Clap! Clap!, molto presente ma non troppo invasiva, utilizzata con giudizio ed un certo gusto: nell’iniziale The Werewolf dove viene incorporata in un maelstrom di percussioni etniche, batterie elettroniche, fiati, organo, celeste, chitarra slide, battiti di mano, schiocchi di dita, inserti di fiati e mille altri particolari che la rendono affascinante e unica. Wristband, molto ritmata, viaggia sul suono del basso di Carlos Henriquez, strumento sempre molto amato da Paul, gli inserti vocali di Keith Montie, i fiati di Andy Snitzer CJ Camerieri e di mille percussioni, per un altro intreccio non inconsueto nella musica del nostro, mentre la breve Street Angel è costruita solo sul groove di vari strumenti e percussioni, il campionamento delle voci del Golden Gate Quartet (che qualcuno ha inserito tra i musicisti del disco, peccato che quelli originali non esistono più da una cinquantina di anni), ma mi sembra più irrisolta rispetto alle due precedenti.

La title-track Stranger To Stranger è una canzone splendida, sognante ed avvolgente, un classico di Simon, con la chitarra intrigante del fedele Vincent Nguini, l’apporto ritmico del bravissimo batterista (e polistrumentista) Jim Oblon, il flauto di Alex Sopp e gli inserti dei fiati di C.J. Camerieri, oltre al flamenco dancing sinuoso di Nino De Los Reyes, affascinante. Particolare anche la breve In A Parade (uno dei quattro brani che faticano ad arrivare ai due minuti), solo la voce di Paul e le percussioni di Oblon, canzone che è “interpretata” dallo stesso carattere del brano Street Angel, ma non mi acchiappa particolarmente nella sua sequenza di liriche di cui non afferro a fondo il senso. Proof Of Life, viceversa, è un altro brano splendido, intenso ed incalzante, ma al tempo stesso soffuso, con un cantato tipico di Simon ed una ricca strumentazione, dove fiati, percussioni e tratti orchestrali si integrano perfettamente con le chitarre del nostro e di Vincent Nguini, questa volta alle acustiche. Molto bella anche Riverbank, una canzone vivace ed elettrica, caratterizzata da un doppio basso, acustico ed elettrico, dalla chitarra circolare dello stesso Simon e dal tocco magico della batteria di Jack De Johnette, che si unisce ai mille percussionisti impiegati nel disco, con viola e cello, oltre alla marimba, a dare tocchi di colore al sound. E splendida Cool Papa Bell, dove ci rituffiamo nei suoni e nei ritmi africani di Graceland, di nuovo con la chitarra elettrica di Vincent Nguini a menare le danze, il basso tuba di Marcus Rojas a fornire la quota New Orleans del sound e tutti gli strati di percussioni che avvolgono, questa volta senza soffocarla o nasconderla troppo, la melodia della canzone. Ottima anche la conclusiva, dolcissima Insomniac’s Lullaby, di nuovo una ninna nanna minimale, costruita intorno alla chitarra e alla voce di Paul Simon, circondate comunque da mille strumenti appena accennati e dalla voce di McFerrin, impegnati a dare profondità e spessore al suono.

Esiste anche una immancabile e costosa versione Deluxe (singola) che aggiunge altri cinque brani: Horace and Pete, l’unico inedito, Duncan ( Live) bellissima https://www.youtube.com/watch?v=IPjzRZCCAPA , Wristband ( Live), entrambi registrati nel febbraio del 2016 nella nota trasmissione televisiva A Prairie Home Companion, Guitar Piece 3 ( un altro breve brano strumentale), e New York is My Home con Dion, già apparso nell’omonimo disco del cantante newyorkese. Quindi, concludendo, un bel disco, a tratti ottimo, ma, almeno per il sottoscritto, non un capolavoro assoluto. Poi ce lo dirà il tempo, se rimarrà come questa canzone https://www.youtube.com/watch?v=T0tmgmBBm4E

Esce oggi 3 giugno.

Bruno Conti

Novità Di Giugno, Prima Decade. Paul Simon, Spain, Train, Dexys, Boo Hewerdine, Joan Baez, Shawn Colvin & Steve Earle, William Bell, Eli Paperboy Reed, Band Of Horses, Rolling Stones, Van Morrison

rolling stones totally stripped european versionvan morrison it's too late 3cd+dvd

Torna la rubrica delle anticipazioni sulle novità. Queste sono le più importanti ed interessanti tra quelle previste per il 3 e 10 giugno. Dei cofanetti dedicati ai Rolling Stones, Totally Stripped e a Van Morrison, It’s Too Late To Stop Now…Volumes II, III, IV & DVD vi ho già riferito nelle settimane scorse, basta andare a cercare a ritroso nel Blog e trovate tutte le informazioni. Vediamo le altre uscite.

paul simon stranger to stranger

Nuovo album per Paul Simon Stranger To Stranger, il secondo che esce per la Concord/Universal dopo il buono ma non eccelso (per chi scrive) So Beautiful Or So What del 2011 http://discoclub.myblog.it/2011/04/10/temp-d60b04cfdc8f0c74be0a93f5c8899c81/ , mentre nel 2012 è uscito l’eccellente CD+DVD Live In New York City. Anche il nuovo lavoro, da quello che ho sentito e da quello che ha detto chi ha ascoltato l’album nella sua interezza, è un buon lavoro, eclettico e ricco di spunti musicali, con mille generi fusi insieme: però il terzetto di brani con l’artista electro-dance italiano Clap! Clap!, presente in tre brani in modo per fortuna non troppo invasivo (ovvero non si sente troppo) è bilanciato dal ritorno del produttore storico di Simon, Roy Halee (quello dei dischi più belli di Simon & Garfunkel e di Graceland). Nel disco confluiscono anche elementi di musica africana, folk peruviano, ritmi flamenco (grazie alla presenza in alcuni brani di alcuni ballerini usati a mo’ di percussione) e anche elementi quasi “contemporanei” grazie alla presenza di strumenti provenienti dal repertorio di Harry Partch. Ci sono anche un paio di brani strumentali e l’immancabile versione Deluxe, singola e molto costosa, con cinque tracce extra: 2 brani Live, un altro strumentale, un inedito e il duetto con Dion New York Is My Home, tratto dal disco di quest’ultimo. Al solito poi ne parliamo con più calma dopo l’uscita ufficiale, prevista per il 3 giugno.

spain carolina

Tornano anche gli Spain di Josh Haden che, sempre il 3 giugno, pubblicheranno il loro ottavo album (compreso il best), ma quinto effettivo di studio, intitolato Carolina, sempre su etichetta Glitterhouse in Europa (in America è su Diamond Soul Recordings), con la produzione di Kenny Lyon, che nel disco suona di tutto, chitarre elettriche ed acustiche, tastiere, piano, banjo, lap e e pedal steel. Josh Haden ha scritto i dieci brani, suona il basso ed è affiancato dalla sorella Petra Haden al violino e alle armonie vocali, e dall’altro nuovo componente del gruppo, Danny Frankel batterista newyorkese in pista già agli albori del CBGB e poi con Lou Reed, Kd Lang, Rickie Lee Jones, Fiona Apple, John Cale, Laurie Anderson e mille altri. Il disco è stato registrato ai Gaylord Studios di Los Angeles, di proprietà di Lyon, nell’edificio di fronte al club dove il padre di Josh, Charlie Haden guardava Ornette Coleman inventare il suo jazz. Il genere della band è stato definito Alternative, Indie Rock, slowcore, ma secondo me fanno semplicemente buona musica, al di là delle etichette http://discoclub.myblog.it/2014/02/25/i-notturni-josh-haden-spain-sargent-place/ . E questo Carolina lo conferma ancora una volta.

train does led zeppelin II

Di solito (le jam band soprattutto) capita che gruppi importanti eseguano nei concerti di Halloween o di Capodanno, album importanti e storici nella loro interezza, penso a band come Phish Gov’t Mule, ma è raro che un gruppo pubblichi un intero album di studio dedicato ad un disco specifico del passato, però in questo caso il titolo non lascia dubbi Train Does Led Zeppelin II. 

E i Train Led Zeppelin II lo fanno davvero bene, forse fin troppo fedele all’originale, ma a giudicare dai brani che potete ascoltare sopra, magari vale la pena di fare un ripasso. 1. Whole Lotta Love 2. What Is and What Should Never Be 3. The Lemon Song 4. Thank You 5. Heartbreaker 6. Living Loving Maid (She’s Just a Woman) 7. Ramble On 8. Moby Dick 9. Bring It On Home https://www.youtube.com/watch?v=PwhF_LkSJqo Non ho sentito le versioni di Whole Lotta Love Heatrbreaker, ma il resto non è male e Pat Monahan conferma di avere una gran voce. Sempre il 3 giugno la data di uscita, etichetta Crush/Atlantic (la stessa degli Zeppelin).

dexys let the record show

Nel 2014 Kevin Rowland aveva pubblicato un voluminoso (e costoso) cofanetto, soprattutto nella versione in 4 DVD + 2 CD, ma esistevano anche le versioni divise in 3 CD o 2 DVD, il tutto intitolato Nowhere Is Home era la riproduzione di un concerto al Duke Of York’s Theatre, dove si ripercorreva il meglio della sua storica band dei Dexys (una volta anche Midnight Runners) http://discoclub.myblog.it/tag/kevin-rowland/ . Il gruppo, nella prima tribolata incarnazione, si era diviso intorno alla metà degli anni ’80, dopo averci regalato una breve serie di ottimi album, che fondevano soul, o meglio celtic soul alla Van Morrison, rock, musica irlandese, pop di grande qualità, R&B e molto altro, in dischi come Searching For TheYoung Soul Rebels, Too-Rye-Ay e il sottovalutato, ma splendido, Don’t Stand Me Down. Poi le manie di grandezza di Rowland e un evidente calo di ispirazione avevano posto fine alla storia. La storia venne ripresa nel 2012 con l’ottimo One Day I’m Going To Soar ed ora con questo album che riprende un progetto che avrebbe dovuto essere il quarto album di studio della band, Let The Record Show: Dexys Do Irish and Country Soul. Mi piacciono questi titoli dove si capisce subito il contenuto del disco.

Esce per la Warner Music in varie edizioni e contiene classici della musica irlandese e del country (ma non solo, direi che la peraltro bellissima Both Sides Now di Joni Mitchell difficilmente appartiene alle due categorie), ma comunque ecco la lista completa dei contenuti del disco, che esce anche in una versione tripla Deluxe, forse superflua, ma non essendo particolarmente costosa un pensierino si può fare, dove c’è un secondo CD di versioni accapella solo voce o brani strumentali, e un DVD con il consueto Making Of.

Tracklist 1. Women Of Ireland 2. To Love Somebody 3. Smoke Gets In Your Eyes 4. Curragh Of Kildare 5. I’ll Take You Home Kathleen 6. You Wear It Well 7. 40 Shades Of Green 8. How Do I Live 9. Grazing In The Grass 10. The Town I Loved So Well 11. Both Sides Now 12. Carrickfergus [Deluxe Edition Bonus CD2] 1. To Love Somebody (Solo Vocal) 2. Smoke Gets in Your Eyes (Solo Vocal) 3. Curragh of Kildare (Solo Vocal) 4. I’ll Take You Home Again, Kathleen (Solo Vocal) 5. How Do I Love (Solo Vocal) 6. Grazing in the Grass (Solo Vocal) 7. The Town I Loved So Well (Solo Vocal) 8. Carrickfergus (Solo Vocal) 9. How Do I Live (Instrumental) 10. Grazing in the Grass (Instrumental) 11. Both Sides Now (Instrumental) [Deluxe Edition Bonus DVD] 1. 50 Minute Film

A giudicare dalla cover della Mitchell e di Carrickfergus il CD promette molto bene!

boo hewerdine born ep

Boo Hewerdine è un artista di culto, un “beautiful loser” che piace molto agli estensori di questo Blog, soprattutto al sottoscritto. Una carriera iniziata negli anni ’80 con i misconosciuti Bible, poi collaborazioni con un altro “piccolo grande artista” come Darden Simth, e con molti dei migliori talenti del nuovo folk anglosassone, Kris Drever, Eddie Reader, Heidi Talbot, John McCusker, gli State Of The Union e altri. Ogni tanto pubblica un album nuovo, l’ultimo Open, lo scorso anno. Ora esce, per l’etichetta Reveal, un nuovo EP Born, che dovrebbe essere preludio ad un album intero.

Io ve lo segnalo sempre, perché secondo me merita, poi non so se questo EP con cinque brani, tiratura limitata di 1.000 copie, in uscita il 3 giugno, sarà recuperabile, ma i fans sono avvisati.

joan baez 75th celebration

Quest’anno oltre a Bob Dylan un’altra icona della musica americana ha festeggiato il suo 75° compleanno, parliamo di Joan Baez, la quale, a differenza del menestrello di Duluth, ha deciso di festeggiare l’evento in pompa magna, con un mega concerto registrato al Beacon Theatre di New York il 27 gennaio scorso. Ora la Razor & Tie pubblica, il 10 giugno, questo 75th Birthday Celebration in vari formati. C’è il doppio CD, il DVD, o la versione deluxe 2 CD+DVD e il contenuto è fantastico, sia per la scelta dei brani che per ospiti presenti alla serata. Vedete un po’ chi c’era e cosa hanno cantato:

God is God – Joan Baez
There But For Fortune – Joan Baez
Freight Train – Joan Baez and David Bromberg
Blackbird – Joan Baez and David Crosby
She Moved Through the Fair – Joan Baez and Damien Rice
Catch the Wind – Joan Baez and Mary Chapin Carpenter
Hard Times Come Again No More – Joan Baez and Emmylou Harris
Deportee (Plane Wreck at Los Gatos) – Joan Baez, Emmylou Harris, and Jackson Browne
Seven Curses – Joan Baez
Swing Low, Sweet Chariot – Joan Baez
Oh Freedom / Ain’t Gonna Let Nobody Turn Me Around – Joan Baez and Mavis Staples
The Water Is Wide – Joan Baez, Indigo Girls, and Mary Chapin Carpenter
Don’t Think Twice, It’s All Right – Joan Baez and Indigo Girls
House of the Rising Sun – Joan Baez, Richard Thompson, and David Bromberg
She Never Could Resist A Winding Road – Joan Baez and Richard Thompson
Before The Deluge – Joan Baez and Jackson Browne
Diamonds & Rust – Joan Baez and Judy Collins
Gracias a la Vida – Joan Baez and Nano Stern
The Boxer – Joan Baez and Paul Simon
The Night They Drove Old Dixie Down – Joan Baez
Forever Young – Joan Baez
 

shawn colvin & steve earle

Altra formidabile ed imprevedibile accoppiata, Shawn Colvin & Steve Earle pubblicano il 10 giugno il loro disco di duetti Colvin & Earle per la Fantasy del gruppo Universal. Per i misteri della discografia internazionale, la versione singola, ma Deluxe, con tre brani in più, già di per sé fin troppo costosa, uscirà solo per il mercato americano (niente Europa ed Italia), quindi pure di difficile reperibilità.

Il disco, prodotto da Buddy Miller e registrato nel suo studio privato e casalingo, consta di dieci brani nella versione standard, sei scritti dalla coppia Earle e Colvin, più quattro cover, un brano di Emmylou Harris, uno di Sylvia Fricker, Tobacco Road Ruby Tuesday degli Stones. Tredici i brani della Deluxe edition: 1. Come What May 2. Tell Moses 3. Tobacco Road 4. Ruby Tuesday 5. The Way That We Do 6. Happy & Free 7. You Were on My Mind 8. You’re Right (I’m Wrong) https://www.youtube.com/watch?v=QnUktPxUxbU 9. Raise the Dead 10. You’re Still Gone Deluxe Edition Bonus Tracks: 11. Someday 12. That Don’t Worry Me Now 13. Baby’s in Black

Nel disco suonano anche Fred Eltringham alla batteria, Chris Wood (Medeski, Martin & Wood Wood Brothers) al basso e Richard Bennett alle chitarre. Ottimo ed abbondante!

william bell this is where i live

William Bell è stato uno dei primi artisti ad essere messo sotto contratto dalla Stax: il suo primo singolo You Don’t Miss Your Water, una splendida soul ballad, risale al 1961, e il suo ultimo album per l’etichetta di Memphis al 1974. Ora, 42 anni dopo e all’età di 76 anni ritorna su etichetta Stax per questo bellissimo This Is Where I Live.

  https://www.youtube.com/watch?v=dbXMYJSvddk

Dodici brani di soul music senza tempo: 1. The Three Of Me 2. The House Always Wins 3. Poison In The Well 4. I Will Take Care Of You 5. Born Under A Bad Sign 6. All Your Stories 7. Walking On A Tightrope 8. This Is Where I Live 9. More Rooms 10. All The Things You Can’t Remember 11. Mississippi-Arkansas Bridge 12. People Want To Go Home

Le note del disco sono firmate da Peter Guralnick, uno dei decani e tra i più grandi giornalisti musicali americani e nell’album, prodotto da John Leventhal, appaiono brani scritti appositamente per l’occasione da Rosanne Cash, Marc Cohn, Cory Chisel Scott Bomar, oltre che da Leventhal che ha scritto molto dei brani con lo stesso Bell. Oltre ad una ripresa del suo super classico Born Under A Bad Sign, scritta ai tempi insieme a Booker T Jones per Albert King e suonata anche dai Cream. Per gli amanti della soul music che godranno come ricci, sono solo tre parole: gran bel disco!

eli paperboy reed my way home

Un altro che fa grande soul music, “bianca”, mista a rock, è questo signore di belle speranze Eli Paperboy Reed, di cui ,i era piaciuto moltissimo il terzo album http://discoclub.myblog.it/2010/04/29/soul-music-con-l-a-nima-maiuscola-eli-paperboy-reed-come-and/, meno il successivo Night Like This uscito per la Warner Bros nel 2014, dove la voce e le canzoni c’erano ma il suono era drasticamente cambiato. Ora il nostro amico passa alla Yep Rock per questo nuovo My Way Home, in uscita il 10 giugno e sembra avere messo di nuovo la testa a posto. con un disco solido e ben suonato.

Ecco i brani contenuti: 1. Hold Out 2. Your Sins Will Find You Out 3. Cut Ya Down 4. Movin’ 5. Tomorrow’s Not Promised 6. My Way Home 7. Eyes On You 8. The Strangest Thing 9. I’d Rather Be Alone 10. A Few More Days 11. What Have We Done

E un altro estratto, strepitoso, questa volta dal vivo, dal nuovo disco. Dimensione Live dove emerge il suo talento veramente notevole, sentite che roba.

band of horse why are you ok

Nuovo album anche per i Band Of Horses dopo l’interessante Live At the Ryman del 2014 http://discoclub.myblog.it/2014/02/17/cavalli-razza-versione-unplugged-band-of-horses-acoustic-at-the-ryman/, uscito per una etichetta indipendente, tornano ad una major la Interscope/Universal che pubblica loro il nuovo album Why Are You Ok, prodotto da Jason Lyttle dei Grandaddy, e con la supervisione esecutiva di Rick Rubin (che sarà anche il produttore del nuovo Avett Brothers in uscita il 24 giugno), oltre al mixaggio di Dave Fridmann dei Mercury Rev.

Questi i titoli delle canzoni: 1. Dull Times/The Moon 2. Solemn Oath 3. Hag 4. Casual Party 5. In A Drawer 6. Hold On Gimme A Sec 7. Lying Under Oak 8. Throw My Mess 9. Whatever, Wherever 10. Country Teen 11. Barrel House 12 Even Still

E comunque anche l’ultimo disco del 2012 Mirage Rock aveva avuto un ottimo produttore nella persona di Glyn Johns e pure quelli precedenti, con Phil Eck (Fleet Foxes, Modest Mouse, Shins). Il disco sembra buono ad un veloce ascolto. Sempre ottimi dal vivo https://www.youtube.com/watch?v=xEFGGChcivg

Direi che è tutto, alla prossima lista di uscite.

Bruno Conti

P.s Scusate, ma c’era stato nei giorni scorsi un problema tecnico nella impaginazione di questo Post, ora risolto.

Tre Quarti D’Ora Di “Piacevolezze” Musicali! Edward Sharpe & The Magnetic Zeros – PersonA

edward sharpe persona

Edward Sharpe & The Magnetic Zeros – PersonA – Community Music CD

Edward Sharpe & The Magnetic Zeros sono un gruppo molto particolare. Tanto per cominciare, Edward Sharpe non esiste, almeno non nel senso letterale del termine, perché il leader del combo di Los Angeles, Alex Ebert, usa il nome di Sharpe come pseudonimo: lui si presenta col suo nome vero, mentre Sharpe è un personaggio inventato da Ebert stesso, in un libro da lui scritto ma mai pubblicato. Poi c’è il tipo di musica proposta dalla numerosa band (sono circa una decina, e le porte sono abbastanza girevoli, tanto il “deus ex machina” è sempre Ebert), un mix assolutamente eterogeneo di rock, folk, pop, gospel e psichedelia anni sessanta, un cocktail incredibilmente creativo e stimolante che nelle mani sbagliate potrebbe essere un’arma a doppio taglio, ma che i nostri sono sempre riusciti a trattare con estremo equilibrio e con risultati egregi, fin dal loro esordio del 2009, Up From Below, ma soprattutto con i due lavori successivi, i bellissimi Here del 2012 e l’album omonimo del 2013 http://discoclub.myblog.it/2013/09/10/la-nuova-hippie-generation-edward-sharpe-and-the-magnetic-ze/ . Una musica senza confini, con cambi di tempo e di melodia spesso anche all’interno della stessa canzone, ma che i nostri riescono a gestire benissimo ed a rendere fruibile e quasi mai ostica: da quando li ho scoperti, li ho paragonati ad altri gruppi a 360 gradi come Arcade Fire (che però con l’ultimo disco hanno preso una direzione che non mi piace per niente), i Fleet Foxes (che sto aspettando al varco, in quanto devono ancora dare un seguito all’ottimo Helplessness Blues del 2011) e, se torniamo indietro di qualche anno, ai Rusted Root (che però mi piacevano meno).

Anche la figura di Ebert è particolare, in quanto sembra quasi un hippy fuori tempo massimo, un personaggio d’altri tempi che vive in una realtà parallela, ed in questo è molto simile al leader dei Foxes, Robin Pecknold: anche per quest’ultimo disco, PersonA (uscito un po’ a sorpresa), Alex ha voluto darci un segno della sua stranezza, cancellando dalla copertina il nome di Edward Sharpe ed intitolandolo solo ai Magnetic Zeros, sostenendo che, essendo Sharpe un parto della sua fantasia, si sente libero di farlo morire e rivivere a suo piacimento. Ma la cosa più importante del CD è il fatto che si nota un piccolo cambiamento nel tipo di musica proposta: intendiamoci, Ebert ed i suoi pards (non li nomino per brevità, sono tantissimi) non hanno cambiato stile, nelle loro canzoni convivono sempre diverse anime ed influenze, ma in questo lavoro c’è una maggior predisposizione al pop, ed i brani stessi risultano più diretti, fruibili e meno dispersivi di quanto non lo fossero in precedenza. Non hanno banalizzato la loro musica, ma hanno semplicemente reso i brani più immediati e con una struttura più lineare, anche se lo stile vulcanico di Ebert è sempre presente: non so quanto questa piccola svolta piacerà a coloro che hanno apprezzato i dischi precedenti, ma per quanto mi riguarda PersonA è il loro album che preferisco (e cresce ad ogni ascolto).

https://www.youtube.com/watch?v=BvWVccy1QrE

L’avvio del disco è subito con il brano più lungo (sette minuti abbondanti) e strutturato: Hot Coals inizia come una ballata acustica ad ampio respiro, con la voce eterea di Ebert protagonista, chiari sentori di Laurel Canyon sound, un eccellente pianoforte sullo sfondo (Mitchell Yoshida, uno dei più brillanti componenti della band), soluzioni melodico-ritmiche non banali ed un suggestivo finale strumentale in crescendo. Sicuramente il brano più legato al suono dei dischi precedenti. Uncomfortable è un po’ verbosa e forse la meno immediata di tutto l’album, e anche quella in cui la personalità debordante del leader viene tenuta meno a bada, ma con Somewhere inizia il disco vero e proprio: una strepitosa ballata di puro pop elettroacustico, con punti in comune con Here Comes The Sun di George Harrison (o dei Beatles se preferite), un arrangiamento classico (compresa una Rickenbacker dal suono molto jingle-jangle) ed una melodia limpida e fluida. Anche No Love Like Yours è decisamente immediata, con un bellissimo ritornello corale molto sixties (ed anche il suono risente dell’influenza delle canzoni di 50 anni fa, pensate per esempio ai Moody Blues), un brano che ad ogni ascolto diventa sempre più bello; Wake Up The Sun si apre con una ritmica pulsante ed il solito notevole pianoforte, un pezzo più attendista e con la voce di Alex in modalità vibrato, ma comunque un brano gradevole dove trovo anche qualcosa di Paul Simon.

Free Stuff è una delle più belle del CD, uno squisito pop saltellante degno del miglior McCartney, un motivo che si canticchia dopo solo mezzo ascolto: se programmato a dovere nelle radio giuste potrebbe anche diventare un successo, io l’ho ascoltata circa tre ore fa e ancora ce l’ho in testa; Let It Down è molto meno allegra, ma ha una melodia dalla struttura più complessa ed il solito gran lavoro di piano (vero protagonista del brano), con un ritornello profondamente evocativo ed i suoni che aumentano di intensità man mano che il pezzo procede, quasi stratificandosi attorno alla struttura iniziale. Una tromba introduce Perfect Time, una sontuosa slow ballad che rimanda ai primi Bee Gees, con un motivo lineare ma dal grande pathos, altra canzone che merita di entrare nel novero delle migliori; il CD si chiude con la dolce Lullaby, solo voce e piano, che rivela l’influenza classica di uno come Randy Newman, soprattutto quando l’occhialuto pianista scrive le sue musiche per i film della Disney, e con la deliziosa The Ballad Of Yaya, altro splendido pop-rock di grande freschezza, con un magnifico refrain beatlesiano pieno di suoni e colori, forse il brano più bello dell’album.

I dischi aumentano e Edward Sharpe/Alex Ebert ed i suoi ottimi Magnetic Zeros non accennano a mollare il colpo, anzi, con PersonA arrivano quasi a rasentare il concetto di “pop perfetto”.

Marco Verdi

Vecchie Glorie Alla Riscossa! Dion – New York Is My Home/Jack Scott – Way To Survive

dion new york is my home

Dion – New York Is My Home – Instant CD

Jack Scott – Way To Survive – Bluelight CD

Questo post fa parte della serie “due al prezzo di uno”, in quanto questi due arzilli vecchietti appartenenti alla “golden age of rock’n’roll” (per dirla con Ian Hunter, che anche lui ha i suoi annetti) hanno pubblicato quasi in contemporanea i loro due nuovi lavori e, se il primo è sempre stato molto attivo durante tutta la sua carriera, il secondo ritorna a sorpresa dopo una lunghissima assenza dalle scene.

https://www.youtube.com/watch?v=xuqI7yid3ew

Dion Di Mucci, 77 anni a Luglio, non ha mai smesso di fare dischi, dagli esordi newyorkesi (è del Bronx) con i Belmonts, gruppo con il quale mosse i primi passi ed ebbe i primi successi di classifica, fondendo elementi di rock and roll, doo-wop e rhythm’n’blues, passando per i primi anni sessanta (il momento di maggior fama), con singoli di grande popolarità quali Runaround Sue, Ruby Baby e The Wanderer, per poi attraversare lunghe fasi con poche soddisfazioni commerciali, nelle quali si reinventò folksinger, si fece produrre da Phil Spector (Born To Be With You, 1975) e, in seguito ad un’importante crisi mistica, incise anche diversi album a sfondo religioso. Nel 1989 il clamoroso comeback con lo splendido Yo Frankie!, un disco che ci faceva ritrovare un rocker tirato a lucido e ancora capace di fare grandi cose (e con ospiti come Lou Reed e Paul Simon, altri newyorkesi doc e suoi grandi fans); da allora, Dion non ha mai smesso di pubblicare album, tutti di livello dal discreto al buono, con un progressivo avvicinamento negli ultimi anni a sonorità più blues (e ben tre CD dedicati alla musica del diavolo).

New York Is My Home è il suo album nuovo di zecca, un disco che, come suggerisce il titolo, è un sentito e sincero omaggio alla sua città, da lui sempre amata e mai abbandonata: otto nuove canzoni e due cover, il tutto cantato con la solita voce giovanile (davvero, non sembra un quasi ottantenne) e suonato in maniera diretta da una manciata di musicisti tra i quali spicca Jimmy Vivino, grande chitarrista (e pianista), già collaboratore di vere e proprie icone quali Al Kooper, Phoebe Snow, Levon Helm, Laura Nyro, Johnnie Johnson e Hubert Sumlin, e coadiuvato da Mike Merritt al basso, James Wormworth alla batteria e Fred Walcott alle percussioni. Un buon disco, che ci conferma il fatto che Dion ha ancora voglia di fare musica e non ci pensa minimamente a tirare i remi in barca, anche se qualche calo durante i 38 minuti di durata c’è (pur non scendendo mai sotto il livello di guardia) e, cosa strana dato che è nelle mani dell’esperto Vivino, la produzione è un po’ troppo statica e rigida, laddove alcuni brani avrebbero beneficiato di una maggiore profondità del suono.

Aces Up Your Sleeve apre il disco con un rock urbano diretto e potente, una chitarrina knopfleriana e la solita voce chiara e limpida del leader, un bell’inizio; Can’t Go Back To Memphis è un rock-blues solido e chitarristico, con un gran lavoro di Vivino alla slide e Dion (che non è mai stato un bluesman) che risulta convinto e convincente. Ed ecco la tanto strombazzata title track, brano in cui il nostro duetta con Paul Simon, e sinceramente date le attese pensavo a qualcosa di meglio: la canzone è sinuosa, fluida e ben suonata, ma è priva di una melodia che rimanga in testa e, nonostante la voce inconfondibile di Paul, fa fatica ad emergere. The Apollo King è puro rock’n’roll, e anche se non è un brano epocale ha ritmo e groove a sufficienza; Katie Mae è un blues di Lightnin’ Hopkins, uno shuffle di buona fattura, forse un tantino scolastico (anche se uno come Vivino è nel suo ambiente naturale), mentre I’m Your Gangster Of Love torna su territori rock, un brano gradevole e con un’ottima chitarra, anche se è in pezzi come questo che sarebbe servito un maggior lavoro di produzione.

La grintosa e rocciosa Ride With You, un altro rock’n’roll tutto ritmo e slide, precede I’m All Rocked Up, altro saltellante rock tinto di blues, non male; chiudono il CD la bella Visionary Heart, una ballata elettrica molto ben costruita ed evocativa, un pezzo che ci fa ritrovare per un attimo il Dion di Yo Frankie!, e I Ain’t For It (un classico di Hudson Whittaker alias Tampa Red), jumpin’ blues divertente e spigliato, tra i più riusciti del lavoro. Non il miglior disco di Dion quindi, ma un album più che discreto che ci fa comunque apprezzare nuovamente un artista che dovremmo ringraziare solo per il fatto che continui a fare dischi e non sia andato in pensione come altri suoi coetanei ancora in vita.

jack scott way to survive

In pensione era invece dato Jack Scott, rock’n’roller canadese che con Dion condivide le origini italiane (si chiama infatti Giovanni Domenico Scafone), il quale ebbe il suo momento d’oro tra il 1959 ed il 1964, periodo in cui pubblicò sei album ed una serie di singoli che ebbero un buon successo (My True Love, What In The World’s Come Over You, Burning Bridges, oltre alla bellissima The Way I Walk, della quale ricordo una cover strepitosa di Robert Gordon con Link Wray https://www.youtube.com/watch?v=WBa1JPXuWAE ) e che gli fecero guadagnare il soprannome di “miglior cantante rock’n’roll canadese di tutti i tempi” (anche perché Ronnie Hawkins era americano di origine). Oggi, a 80 anni suonati, ed a più di cinquanta dall’ultimo LP (solo pochi singoli negli anni 60/70), Scott torna a sorpresa con un nuovo lavoro, un disco intitolato Way To Survive, che ci riporta un artista dimenticato ma ancora in grado di dire la sua, con una voce calda ed estremamente giovane (altro punto in comune con Dion), ed una serie di canzoni (perlopiù covers) gradevoli e suonate con classe da un manipolo di musicisti sconosciuti ma validi (l’album è inciso in Finlandia, dove a quanto pare Jack è ancora popolare, con sessionmen locali di cui non dico i nomi anche perché sono più degli scioglilingua che altro). Un disco raffinato e volutamente old fashioned, nel quale spiccano maggiormente le ballate, vero punto di forza per Scott anche in gioventù, ma dove non mancano di certo i pezzi più mossi e rock, anche se in molti momenti si respira una piacevole atmosfera country.

Anzi, diciamo pure che Way To Survive è quasi un country album, a cominciare dalla fluida I Just Came Home To Count The Memories (scritta da Glenn Ray ed incisa, tra gli altri, da Bobby Wright e in anni recenti da John Anderson), per proseguire con la splendida Ribbon Of Darkness (Gordon Lightfoot), arrangiata alla maniera di Johnny Cash, il classico di Hank Williams Honky Tonk Blues, il rockabilly Hillbilly Blues (Little Jimmy Dickens) e l’oscura ma bella You Don’t Know What You’ve Got (unico successo di Ral Donner, un misconosciuto rocker dei primi anni sessanta). Sul versante rock abbiamo l’iniziale Tennessee Saturday Night, un vivace pezzo suonato alla Jerry Lee Lewis (che pure l’ha incisa in passato), il remake di Wiggle On Out, un boogie che Jack aveva già pubblicato in passato, ed una versione di Trouble molto vicina a quella più famosa ad opera di Elvis Presley, anche se più rallentata. Per chiudere con il brano più bello del CD, la sontuosa Woman (Sensuous Woman), di Don Gibson, una fantastica country ballad suonata e cantata alla grande, con un evocativo coro alle spalle di Jack ed una melodia toccante.

In definitiva, due dischi gradevoli, anche se siamo lontanissimi dal capolavoro: meglio Jack Scott di Dion (che però ha scritto quasi tutte le canzoni di suo pugno), e ci mancherebbe dato che ha avuto 50 anni di tempo!

Marco Verdi

Piccoli Grandi Secreti Dalla Scena Musicale Americana, Anche In Veranda! Kate Campbell – The K.O.A. Tapes (Vol.1)

kate campbell k.o.a. tapes

Kate Campbell – The K.o.a. Tapes (Vol.1) – Large River Music

Avevo lasciato Kate Campbell con il delicato e pianistico 1000 Pound Machine (12) http://discoclub.myblog.it/2012/05/21/un-fiore-dal-sud-kate-campbell-1000-pound-machine/ , e me la ritrovo a distanza di quattro anni con questo nuovo lavoro, composto da un mix di canzoni sue rivisitate, e altre di autori importanti (amati in gioventù, e non solo, da Kate), proposte e suonate in modo intimo e scarno solo con strumenti a corda, e con l’accompagnamento di una vecchia tastiera Wurlitzer. Per questo suo dodicesimo album The K.o.a. (Kate On America) Tapes (Vol.1), la Campbell (registrando anche sul proprio iPhone 5) ha radunato sulla sua veranda e nel salotto di casa musicisti “stellari” di area folk e bluegrass quali Missy Raines al contrabbasso e armonie vocali, Laura Boosinger al banjo, Steve Smith al mandolino, Joey Miskulin alla fisarmonica, John Kirk al violino, Sally Van Meter al dobro, Ben Surrat al tamburello, e l’amico di vecchia data, il grande Spooner Oldham, alle tastiere (recuperate il magnifico For The Living Of These days (06), inciso con Oldham), con la produzione di David Henry che ha fatto il resto, assemblando il tutto, per una cinquantina scarsi di minuti deliziosamente senza pretese, ma con forti riferimenti al catalogo folk americano.

Mi sembra cosa giusta, elencare la  tracklist e gli autori dei brani:

1 –  Some Song (Elliott Smith)

2 –  America (Paul Simon)

3 –  Greensboro (Kate Campbell)

4 –  Lay Back (Kate Campbell The Darkness da Blues And Lamentations)

5 –  I Am A Pilgrim (Johnny Cash)

6 –  From Galway To Graceland (Richard Thompson)

7 –  Porcelain Blue (Kate Campbell da Rosaryville)

8 –  Me And Bobby McGee (Kris Kristofferson)

9 –  Hope’s Too Hard (Kate Campbell da Bird Songs)

10 – Jesus, Savior, Pilot Me (Traditional)

11 – Passing Through (Leonard Cohen)

12 – The Locust Years (Kate Campbell da Songs From The Levee)

13 – Strangeness Of The Day (Kate Campbell da Monuments)

14 – Seven Miles Home (Bobby Bare)

15 – Freebird (Ronnie Van Zant)

Tralasciando le sue canzoni rivisitate nell’occasione in questa forma “agreste”, il viaggio di Kate parte omaggiando autori come Elliott Smith con il bluegrass di Some Song, il Paul Simon di una pianistica e delicata America, passando poi ad un classico di Johnny Cash I Am A Pilgrim in una versione country-gospel, andando poi a pescare dal repertorio di Richard Thompson la tenue e dolce melodia di From Galway To Graceland, e il famosissimo brano Me And Bobby McGee di Kris Kristofferson, inno di una generazione. Dal sole della California, il viaggio prosegue verso New Orleans con il vecchio inno “spiritual” Jesus, Savior, Pilot Me, facendosi accompagnare dal bravissimo Spooner Oldham in una pianistica Passing Through, del mio autore preferito Leonard Cohen, e andando a chiudere il viaggio dei ricordi giovanili di Kate, con una delicata versione di un brano meraviglioso come Seven Miles Home di Bobby Bare, impreziosito dal commovente violino di John Kirk, e infine una sorprendente e intrigante versione di Freebird dei Lynyrd Skynyrd (in ricordo di un lontano ballo del liceo della protagonista).

The K.o.a. Tapes (Vol.1) è un disco splendido nella sua semplicità, realizzato con rigorosità e coerenza, un affascinante lungo e tortuoso cammino attraverso le radici americane, con Kate Campbell nella veste di meravigliosa compagna di viaggio, e sono certo che questo lavoro contribuirà a garantire a questa bravissima cantante del profondo Sud, un piccolo posto speciale nella storia della musica Americana. Attendiamo altri capitoli!

Tino Montanari