Scrive, Canta E Suona…E Fa Tutto Bene! Rudy Parris – Makin’ My Way

rudy parris makin' my way

Rudy Parris – Makin’ My Way – Warrior CD

Rudy Parris, countryman californiano di origine pellerossa (e lo avevo capito ancora prima di documentarmi, basta guardarlo in faccia) è in giro da diversi anni, anche se Makin’ My Way è il suo esordio come musicista in proprio. Diventato famoso con la terza edizione del talent americano The Voice (ma niente paura, in America sono un filo meglio dei nostri)), Rudy ha subito dimostrato di non essere un burattino, ma anzi si è messo in mostra, inizialmente come chitarrista, diventando in breve tempo il solista della band di Hank III, uno che non scherza (quando non pubblica ciofeche pseudo-metal). E Makin’ My Way rivela un talento vero, non solo alla sei corde, ma anche come songwriter e cantante: Rudy è infatti in possesso di una bella voce, con sfumature soulful, che gli consente di essere incisivo anche nei brani più a sfondo sudista; in più, il suo è un country ad alto tasso elettrico e ritmico, che, un po’ come nel caso di Dwight Yoakam (ma non siamo ancora a quei livelli) parte dal Bakersfield Sound di Buck Owens e Merle Haggard, principali fonti d’ispirazione per Rudy, per costruire una serie di canzoni energiche, vigorose, piene di ritmo e feeling, mantenendo la guardia alta anche nelle ballate.

Il disco, prodotto da Parris stesso con Jim Ervin, e suonato da un gruppo non molto noto ma sicuramente tosto di turnisti, non è stato inciso neppure a Nashville, bensì nei leggendari studi Capitol di Los Angeles, ed anche questo è un indizio sul fatto che il nostro non è un fantoccio ma un musicista vero, fisicamente è la classica “personcina”. Rudy usa tutti gli strumenti canonici, come violino, steel e banjo, ma le chitarre prendono quasi sempre il sopravvento, assistite in ogni momento da una sezione ritmica rocciosa, come si evince dal brano d’apertura, la grintosa Party Out Back, dove violino e steel sono al loro posto ma l’assolo principale è di slide, ed il ritmo è parecchio sostenuto https://www.youtube.com/watch?v=-2SWVghPES0 . Cowboy Cry è più fluida e rilassata, comunque un solido esempio di country che sta dalla parte giusta, mentre la title track, introdotta da un suggestivo talkin’ di Michael Madsen (uno degli attori-feticcio di Quentin Tarantino) è uno dei pezzi centrali del disco, una gustosissima square dance song con interventi vocali proprio di Hank III, oltre che di Little Joe (musicista texano-messicano leader di Little Joe Y La Familia) e la chitarra del grande Pete Anderson: un brano che mette di buon umore con il suo ritmo coinvolgente e la melodia trascinante.

Angels Can Fly è una toccante ballata con elementi californiani (infatti ha qualcosa degli Eagles più romantici); per contro Miles Away è una pura rock song, introdotta da un riff di chitarra duro come la roccia, un brano robusto e decisamente southern, seguito a ruota dall’intrigante Mini Van, country rock elettrico puro e semplice, ancora con ritmo acceso e ritornello godibile. La vibrante Zombies Dressed In Abercrombie (bel titolo), ancora tesa e roccata, precede lo slow If I Could Only Have You, forse un po’ meno ispirata delle precedenti, anche se la sua melodia ruffiana potrà essere la chiave giusta per aprirsi diversi passaggi radiofonici. My Halo, preceduta ancora da un breve parlato di Madsen, è puro country, saltellante e solare, una delle più dirette del CD; disco che termina con la ruspante Sho Is Fine, la tosta ed altamente chitarristica Swamp Cooler (che dimostra la forza del nostro), e la tenue e bucolica Down The Road, anch’essa caratterizzata da uno squisito refrain.

Era tempo che Rudy Parris ci facesse sentire la sua voce, e Makin’ My Way è l’affermazione di un talento di cui, speriamo, sentiremo ancora parlare.

Marco Verdi

Palla Al Centro…E Una Bella Chitarra! Rosie Flores – Working’s Girl Guitar

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Rosie Flores – Working’s Girl Guitar – Bloodshot Records

Spiego subito il titolo (vero, Marco?). Nel 1986 usciva una bellissima compilation intitolata A Town South Of Bakersfield, l’etichetta era l’Enigma Records, poi sarebbe uscito anche il CD, per la Restless, con il secondo volume aggiunto (e ce n’è stato pure un terzo meno valido). Su quel disco muovevano i primi passi quelli che sarebbero stati i campioni del country “alternativo” degli anni a venire: c’erano Jim Lauderdale, Candye Kane, Katy Moffatt, Lucinda Williams, Dwight Yoakam e Rosie Flores (insieme a molti altri di cui si sono perse le tracce). La Warner, su etichetta Reprise, mise sotto contratto entrambi, e nel 1986 uscì il primo disco di Yoakam, Guitars, Cadillacs, Etc., Etc. mentre l’anno successivo usciva Rosie Flores, l’omonimo debutto della nostra amica, sempre con la produzione di Pete Anderson e Rosie veniva presentata dalla stampa (e dalla casa discografica) come la risposta femminile a Dwight. Inutile dire (la storia è sempre quella) che a seguito delle non congrue, per l’etichetta, vendite dell’album, la Flores venne mollata all’istante. Comunque quel disco è rimasto un piccolo classico del genere, ristampato più volte in CD, prima dalla Rounder nel 1997 con il titolo Honky Tonk Reprise e con 6 tracce aggiunte e nel 2008 dalla American Beat Records nella sua forma originale.

Già ma genere era? Un misto di country “californiano” per la spinta di Anderson, unito alle radici musicali della Flores, una nativa texana, con abbondantissime spruzzate di rockabilly, rock and roll, la giusta dose di roots music, il tutto condito da una bella voce squillante, innamorata di Elvis, della female Elvis (ma allora è un vizio!) Janis Martin (ma anche Wanda Jackson non scherzava!) e con una passione anche per i Beatles e le belle melodie in generale. E, il che non guasta, anche un notevole virtuosismo alla chitarra. Chitarra, una copia di Telecaster denominata James Trussart Deluxe Steel Topcaster, che troneggia anche nella copertina del suo nuovo CD, Working’s Girl Guitar, che la riporta in parte ai fasti dei primi dischi, oltre al già citato esordio anche gli ottimi After The Farm e Little Bit Of Heartache. Già il precedente Girl Of The Century, pubblicato sempre dalla chicagoana Bloodshot Records nel 2009, mostrava segnali di risveglio ma questo nuovo dischetto, nei suoi 33:18, mi sembra più che buono.

Dalle cavalcate chitarristiche (ma non solo) della “galoppante” title-track dove Rosie Flores, oltre alla sua perizia alla lead guitar mette a frutto l’eccellente gruppo che la accompagna, Tommy Vee e Noah Levy a basso e batteria, le tastiere affidate a T Jarrod Bonta e Red Young, oltre al grandissimo, come sempre, Greg Leisz alla pedal steel. La Flores, a dispetto dei 62 anni compiuti (sono veramente maleducato, sempre a dire l’età delle signore!), mostra ancora una grinta invidiabile. Le “libidini chitarristiche” vengono reiterate nella potente Little But I’m Loud, con i backing vocals di una brava Teal Collins. Ma anche quando i ritmi rallentano, come nella bellissima ballata Yeah yeah, dove il country di gran classe, contrassegnato dalla deliziosa pedal steel di Leisz, incontra le melodie di John Lennon, per un brano sognante e delicato che ricorda i brani della maturità del grande John. I titoli sono invertiti nella copertina ma Surf Demon #5, come da titolo, è un divertente strumentale a tempo di surf dove tutto il gruppo ha l’occasione di mettersi in mostra. Mentre Drugstore Rock And roll è il sentito omaggio al brano più celebre di quella Janis Martin citata prima, “it’s only R&R but we like it”.

Love Must Have Passed By è una cover di un vecchio brano, quelli romantici e strappalacrime dell’era pre-Beatles, scritto da tale Robert Thomas Velline, in arte Bobby Vee, che è presente anche in questa versione come seconda voce (in fondo ha più o meno l’età dei vari McCartney, Jagger, Richards, Dylan & co.). Se anche il brano successivo ha un’aria familiare è perche si tratta di uno dei brani del primo Elvis Presley (che sarebbe il “male Janis Martin”), classe ’56, e anche in questo caso Rosie Flores conferma di meritare il suo appellativo di controparte femminile di Dwight Yoakam con il suo stile sincopato e vigoroso. If (I Could Be With You) è una cover di un bel brano R&B scritto da Lavelle White e cantato con passione dalla Flores. Che nel finale estrae il classico cilindro dal coniglio (o è viceversa?) con una bella versione, jazzy e notturna, di While My Guitar Gently Weeps, sempre Beatles ma George Harrison, se il brano è bello lo puoi fare a tempo di tarantella, samba o flamenco, ma se hai talento viene sempre bene. E a Rosie Flores certo il talento non manca. Sarà il classico dischetto di “culto” ma si ascolta con piacere, palla al centro!

Bruno Conti

Tre Pere E Palla Al Centro! Dwight Yoakam – 3 Pears

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Dwight Yoakam – 3 Pears – Warner Nashville

Come già scritto da Bruno tempo fa in uno dei suoi post in cui annuncia le uscite future, in Italia il termine “3 pere” ha connotati calcistici, di solito irrisori nei confronti della squadra che ha subito la sconfitta incassando, appunto, tre reti (e meno male che le pere non erano due, se no si finiva a parlare di anatomia femminile…).

Titolo un po’ idiota a parte (e digiamolo, direbbe La Russa), e copertina perfettamente in linea…pure, sono molto contento di avere finalmente tra le mani il nuovo disco di Dwight Yoakam, sicuramente il miglior countryman degli ultimi 25 anni, a ben un lustro di distanza dalla sua precedente fatica, Dwight Sings Buck, composto però totalmente di covers del suo idolo Buck Owens: per avere un disco di brani originali, bisogna infatti risalire al 2005, quando uscì il discreto Blame The Vain, che precedeva a sua volta di due anni quel Population Me che è il preferito in assoluto del sottoscritto (assieme a Buenas Noches From A Lonely Room, If There Was A Way e This Time.

La cosa che mi fa più piacere è notare che Dwight non ha perso un’oncia del suo smalto: 3 Pears è un signor disco, suonato alla grande, cantato ancora meglio (ma la voce di Yoakam non la scopriamo oggi) e prodotto con grande pulizia e professionalità da Dwight stesso (da circa dieci anni infatti il nostro ha rinunciato alla collaborazione di Pete Anderson, e di conseguenza ha anche dovuto imparare a suonare meglio la chitarra, avvalendosi solo saltuariamente di contributi esterni, in questo disco Eddie Perez in pochi brani). In un paio di pezzi Dwight si è addirittura rivolto al reuccio del pop alternativo Beck (grande appassionato di country comunque), ma se la cosa non fosse specificata nelle note del booklet non ci si accorgerebbe neppure della differenza.

Dwight non cambia infatti di una virgola il suo suono, anche se rispetto ai primi dischi l’elemento honky-tonk è praticamente sparito: ormai Yoakam è un musicista completo, che trascende il genere country, ed i suoi brani sono una miscela vincente di rock, pop, rock’n’roll (come? Sì certo, anche country…), suonati con grinta da vero rocker e cantati con la gran voce che tutti conosciamo. Un ottimo album, dunque, che ci restituisce un artista in perfetta forma, cosa che non era scontata, specie alla luce degli anni di assenza e del fatto che Blame The Vain fosse un piccolo passo indietro rispetto a Population Me.

Il disco parte alla grande con la splendida Take Hold Of My Hand, un brano scintillante tra country e rock californiano, dal sapore anni ’60 (quasi una costante per lui) e strumentazione limpida: un inizio perfetto. Ancora atmosfere d’altri tempi con Waterfall, un lentaccio senza però momenti troppo languidi (anzi, le chitarre sono elettriche e la batteria pesta di brutto); Dim Lights, Thick Smoke è l’unica cover del disco (il classico per antonomasia di Joe Maphis, poi ripreso da decine di artisti, dai Flying Burrito Brothers a Marty Stuart), nel quale Dwight rocca e rolla di brutto: gran ritmo, voce pure, sembrano i Blasters dei bei tempi.

Trying, introdotta da un organo malandrino, è una ballata che avrebbe fatto gola anche a Roy Orbison, Dwight canta come sa e la band lo segue come un rullo; l’attacco elettrico di Nothing But Love è degno di Tom Petty, di country c’è poco, Dwight arrota che è un piacere e dimostra di essere molto migliorato nell’uso della sei corde; It’s Never Alright, pianistica e dai toni quasi gospel, è un lento da taglio delle vene, un’altra delle specialità della casa: strumentazione molto classica (i fiati sono la ciliegina sulla torta) e Yoakam che canta, indovinate?…benissimo!!!

A Heart Like Mine è il primo dei due brani prodotti da Beck, una rock song con accenni pop quasi beatlesiani (e forse qui si vede la mano del produttore), una deviazione piacevole e perfettamente in linea con il resto; Long Way To Go è puro country rock, arioso, fresco, limpido, un tipo di canzone che riesce facile al cappelluto Dwight (con due “p”, dato che se si toglie lo Stetson la fronte è spaziosa alquanto). Missing Heart (ancora con Beck) è una ballata molto classica, quasi crepuscolare, direi influenzata da Gram Parsons, con un ottimo intervento di steel guitar; 3 Pears (titolo ancor più strano dal momento che nel testo Dwight dice “3 pairs”, tre paia, e non tre pere) è ancora rock, pulito e fluido, con la batteria che picchia più che mai.Chiudono il disco la bellissima Rock It All Away, ancora puro rock dal riff granitico (almeno per un disco che trovate negli scaffali del country), anch’essa figlia di Petty e Springsteen, e la ripresa per voce e piano, decisamente toccante, di Long Way To Go, quasi un’altra canzone rispetto alla versione full band.

La battuta è troppo facile: Dwight Yoakam segna tre pere e porta a casa il risultato pieno…ma alla fine è proprio così!    

Bentornato.

Marco Verdi