Visto Il Nome, Si Parla Di Veterani Di Una Sorta Di Folk-Rock In “Salsa” Celtica! Gaelic Storm – Matching Sweaters

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Gaelic Storm – Matching Sweaters – Lost Again Records

I Gaelic Storm sono un band attiva ormai da diversi anni (direi una carriera quasi ventennale), giunti con questo ultimo lavoro Matching Sweaters al loro decimo album in studio. La formazione nasce e si forma nei “beach bars”, sulle spiagge californiane di Santa Monica (suonando a volte per pochi intimi), uscendo poi dall’anonimato grazie alla partecipazione al pluridecorato film Titanic, dove la band interpretava il gruppo musicale imbarcato sul celebre transatlantico per allietare il soggiorno degli ospiti https://www.youtube.com/watch?v=oSciEyzJSsM . Naturalmente i Gaelic Storm non hanno ottenuto una particolare fama da quella scrittura, ma è stata la rampa di lancio per esordire con l’omonimo Gaelic Sorm (98), e i successivi Herding Cats (99) e Tree (01). Con How Are We Getting Home (04) il gruppo mantiene una “line-up” stabile di sei musicisti, con una proposta musicale più vicina a quella degli indimenticati (e ancora attivi) The Men They Couldn’t Hang, piuttosto che a quella dello “sdentato” Shane MacGowan e i suoi Pogues, certificata dai successivi Bring Yer Wellies (06), What’s The Rumpus? (08), Cabbage (10), l’ottimo Chicken Boxer (12), e l’ultimo lavoro in studio The Boathouse (13), passato inosservato dalle nostre parti, tutti con tematiche di matrice celtica che riflettono l’origine irlandese del fondatore Patrick Murphy (mentre gli altri componenti sono inglesi, canadesi e americani). La formazione attuale è composta oltre che dal leader Murphy, fisarmonica, armonica e voce, dallo storico chitarrista Steve Twigger, anche al  bouzouki e mandolino, Ryan Lacey alle percussioni, il bravo polistrumentista Peter Purvis, e la nuova arrivata Katia Weber al violino e mandolino (che ha sostituito al meglio la veterana Jessie Burns), per un nuovo lavoro composto da dieci pezzi originali e due brani strumentali.

Tra essi spiccano Another Stupid Drinking Song, il brano d’apertura dalla netta impronta irlandese, a cui fanno seguito una pimpante Girl’s Night In Galway, una Whiskeyed Up And Womaned Out dal suono delizioso, condotto da fisarmonica e banjo, il primo brano strumentale The Narwhaling Cheesehead (da ballare sui tavoli dei Pub), la trascinante aria festaiola di Paddy’s Rubber Arm, e una nostalgica e lenta canzone d’atmosferacome Six Of One, con il violino di Kiana in evidenza. L’anima irlandese si manifesta ancora nella convincente The Rustling Gost Gang, mentre Dancing In The Rain parte piano, per poi svilupparsi attraverso un ritornello subito orecchiabile, seguita dal secondo strumentale in versione “giga”, The Teachers’ Snow Day, il delizioso violino che dà il ritmo ad una danzante What A Way To Go, passando ancora per le note più acustiche di Son Of A Poacher, con il violino, la fisarmonica e il mandolino a disegnare il tappeto sonoro, andando poi a chiudere con l’intrigante If You’ve Got Time, dove spuntano inaspettati fiati e la tenue “vocina” della Weber.

La loro proposta musicale non è certo originale, ma senza alcun dubbio è molto energica e a tratti coinvolgente, infatti i Gaelic Storm suonano una musica caratterizzata da una ritmica molto sostenuta, con gli inserimenti degli strumenti classici dell’isola di smeraldo (i famosi bodhràn, whistles e pipes), quindi etichettabile in un folk-rock di stampo irlandese, suonato e cantato al meglio. Matching Sweaters è un disco che si ascolta tutto d’un fiato, con la velocità di certe esecuzioni accompagnate da un suono a tratti eccitante che vi terrà incollati al lettore sino alla fine. Per chi scrive, è giunta l’ora di dargli finalmente l’attenzione che si meritano. Per chi ama il genere, indispensabile!

Tino Montanari

Uno Stevie Ray Vaughan D’Annata! Live At The Spectrum, Philadelphia 23rd May 1988

stevie ray vaughan spectrum philadelphia

Stevie Ray Vaughan – Spectrum, Philadelphia 23rd May 1988 Echoes

Nel 1988 Stevie Ray Vaughan, inconscio di tutto ciò, si avvicinava a grandi passi agli ultimi anni della sua breve vita (sarebbe scomparso, all’età di 35 anni, nel tragico incidente di elicottero del 27 agosto 1990 a East Troy, nel Wisconsin), ma nello stesso tempo, per la prima volta da lunga pezza, era libero dai fantasmi della tossicodipendenza, o almeno così si diceva e si legge nelle sue biografie. Però chi vi scrive si ricorda di essere stato presente ad una delle due date milanesi che SRV tenne al Palatrussardi di Milano nel luglio di quell’anno, ed in particolare, il 7, la serata in cui si esibì insieme a Pogues e Los Lobos. Ora, forse, la memoria mi inganna, sono passati 27 anni, ma non mi pare di ricordare un concerto memorabile, al di là della solita acustica orrida del palazzetto milanese, quella che doveva essere una serata eccezionale per la presenza contemporanea di tre grandi formazioni, alla fine non fu tale. O così ricordo io: Shane MacGowan era l’ombra di sé stesso e anche il musicista texano non fece un set fantastico (altri ricordano diversamente), forse penalizzati dall’acustica pessima e per il tempo ridotto, Los Lobos esclusi, nessuno mi parve all’altezza della propria fama.

Il buon Stevie, dopo la partenza fulminante con Texas Flood, e prima ancora con la esibizione al Festival di Montreux del 1982, dove venne peraltro contestato da alcuni dementi fondamentalisti del jazz festivaliero (ma il filmato in rete e il doppio CD con le due esibizioni dell’82 e dell’85, raccontano una storia diversa) e testimoniano di un musicista in forma strepitosa, poi replicata nel Rockpalast alla rocca di Lorelei dell’agosto del 1984, in una epoca in cui internet era ancora solo un’idea, l’esibizione venne mandata in Eurovisione, anche in Italia su Rai Tre, e permise a chi era rimasto folgorato dal suo primo album, da poco replicato con l’eccellente Couldn’t Stand The Weather, di godere la presenza scenica e sonora di questo “Zorro” della chitarra, un musicista fantastico che convogliava nella sua persona lo spirito di Jimi Hendrix, e di molti altri “eroi” della chitarra, bianchi e neri, che lo avevano preceduto. Non c’è né il tempo né lo spazio in questa breve recensione per ricordarlo, ma probabilmente Stevie Ray Vaughan è stato l’ultimo vero grande chitarrista della storia del rock, scomparso troppo presto, mentre avrebbe potuto dare ancora molto al mondo della musica. Comunque nel 1988, anno in cui viene registrato, e poi trasmesso nell’etere questo concerto radiofonico di Filadelfia, il nostro amico si sta preparando a registrare quello che sarà il suo ultimo album di studio, In Step, probabilmente il migliore della discografia insieme al primo, e regala ai fans accorsi allo Spectrum il 23 maggio del 1988, uno show nettamente superiore a quelli utilizzati per il doppio Live ufficiale Live Alive di due anni prima. La qualità del suono di questo CD è ottima, cruda ma bel delineata, così come il repertorio scelto per l’occasione: Vaughan, accompagnato dai fidi Double Trouble in versione quartetto, con Reese Wynans, Tommy Shannon e Chris Layton, sciorina, con nonchalance e classe immensa, undici brani di notevole spessore, che se non costituiscono un concerto completo, per le restrizioni di tempo applicate al broadcast radiofonico, cionondimeno rimangono un documento notevole del suo enorme talento di chitarrista.

Si parte con un medley di Dust My Blues che si riversa nell’inconfondibile riff di Love Struck Baby, per una versione fantastica, con Shannon che pompa sul basso come ne andasse della sua vita e Wynans e Layton travolgenti ai rispettivi strumenti, mentre Stevie strapazza la sua vecchia Fender e ne estrae citazioni di Johnny Be Goode e altre mirabilie del R&R e del blues. Look At Little Sister, il classico di Hank Ballard da Soul To Soul, è puro Rock’n’blues texano e anche You’ll Be Mine, dallo stesso album, è carica di una energia strabordante, poi veicolata nell’uno-due micidiale dell’accoppiata Mary Had A Little Lamb, dal repertorio di Buddy Guy e Texas Flood, entrambe in versioni dove le mani di SRV sembrano volare sul manico della sua chitarra; Superstition non raggiunge forse i vertici di quelle di Stevie Wonder e Jeff Beck, ma è sempre un bel sentire. Willie The Wimp è una rara esibizione dell’altrettanto raro singolo, scritto dall’amico di Austin Bill Carter, un rock verace e grintoso nella migliore tradizione texana, seguito da una vorticosa Cold Shot, con la sua ciondolante andatura, e poi dall’hendrixiana Couldn’t Stand The Weather, con i classici stop and go, e da una versione lunghissima, oltre i 9 minuti, di Life Without You, uno slow blues atmosferico e scintillante che anticipa la svolta dell’imminente In Step ed è seguita da una sontuosa Voodoo Chile (Slight Return) di mastro Jimi, solo Hendrix la faceva meglio. Grande concerto comunque, sarà anche un ex bootleg, ma che ci frega!

Bruno Conti

Non Sono Di “Miami”, Ma Sono Veramente Bravi ! Miami & The Groovers – The Ghost King

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Miami & The Groovers – The Ghost King –M&G distr. Ird Records

Nonostante lo si dia per morto e sepolto, il rock’n’roll dal taglio più “stradaiolo” continua ad avere i suoi seguaci anche dalle nostre parti. Lo dimostra una scena italiana che forse non sarà un vero e proprio movimento, eppure mai come in questa ultima decade ha dato segni di crescita a livello strettamente professionale, con suoni e dischi che riportano ai nomi dei Cheap Wine, i Lowlands del mio amico Ed Abbiati, i Mandolin’ Brothers, i Rusties e sicuramente anche i Miami & The Groovers guidati da Lorenzo Semprini, tutte band che provengono dall’albero “genealogico” dei Rockin’ Chairs di Graziano Romani (che per fortuna sono tornati, e sono in tour fino a Luglio).

A 10 anni dall’esordio discografico con Dirty Roads (05), seguito da altri buoni lavori come Merry Go Round (09), Good Things (12), e l’ottimo live No Way Back (13) (uscito in formato CD+DVD) http://discoclub.myblog.it/2013/11/23/sempre-piu-italiani-caso-dalla-east-coast-romagna-shore-ora-anche-dvd-piu-cd-dal-vivo-miami-the-groovers-way-back/ , i Miami tornano con questo nuovo lavoro The Ghost King sempre nella formazione tipo, composta dall’indiscusso leader, autore e cantante Lorenzo Semprini alle chitarre ritmiche, Marco Ferri alla batteria, Luca Angelici al basso, Beppe Ardito alle chitarre acustiche e elettriche, Alessio Raffaelli (anche nei Cheap Wine) alle tastiere e pianoforte, con l’apporto alle registrazioni di Federico Mecozzi al violino, Massimo Marches al mandolino, e ai cori Michele Tani e Marcello Dolci.

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Le canzoni del “Re Fantasma” partono con la potente scarica di energia di The King Is Dead, con un bel lavoro del violino di Mecozzi (il sesto uomo, che parte dalla panchina della formazione), seguita dalla pianistica e letterata On The Rox (ispirata alla biografia di John Belushi) e dalla saltellante Hey You, passando per la splendida ballata pianistica Back To The Wall, le gioiose atmosfere balcaniche di Hallelujah Man, e per la dolcissima danza di The Other Room. I “ghostbusters” di Lorenzo ripartono con la tirata Don’t (The Tuxic Waltz), il folk-rock notturno violinistico di We Can Rise, mentre nella rurale Waiting For My Train con il mandolino di Marches in spolvero, si viaggia dalle parti degli Old Crow Medicine Show, andando a chiudere con un’altra ballata di spessore come Spotlight, e infine la bonus-track Heaven Or Hell (uscita dalla penna di Beppe Ardito), un trascinante brano da “pub irlandese”, dove i Pogues incontrano Joe Strummer per una sana bevuta.

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Partiti come una “cover band” di Bruce Springsteen, i riminesi Miami & The Groovers al quinto giro di giostra sono diventati una realtà del rock&folk italiano (e internazionale), rockers di provincia per vocazione che vivono di prestazioni dal vivo (come testimoniano gli innumerevoli concerti fatti ogni anno), con canzoni che vanno a prendersi dalla strada alla maniera dei grandi Del Fuegos di Boston Mass, piene di musica e energia. Lorenzo Semprini e i suoi Miami & The Groovers, (come gli altri gruppi citati all’inizio), sono ragazzi nati per correre e cantare storie di vagabondi e sognatori in nome del rock, perché per fare della buona musica non è necessario nascere in America e suonare al Fillmore o al Beacon Theatre, lo si può fare benissimo dalle nostre parti (specialmente per le band in questione) nella nostra bella, ma musicalmente immatura Italia.

Tino Montanari

Dopo Una “Breve” Pausa Eccoli Di Nuovo, Dall’Irlanda Goats Don’t Shave – Songs From The Earth

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Goats Don’t Shave – Songs From Earth – Goats Don’t Shave Music

Circa tre anni fà (il giorno di Natale per la precisione http://discoclub.myblog.it/tag/pat-gallagher/ ), recensivo su queste pagine gli ultimi lavori di Pat Gallagher (acquistati direttamente dal suo sito) When I Grow Up e The Collection (11), e la speranza (di chi scrive) era che prima o poi il buon Pat tornasse in sala d’incisione con la sua storica band Goats Don’t Shave (le capre che non si radono), e come regalo di Natale anticipato mi trovo sul mio lettore questo Songs From Earth (arrivato come gli altri direttamente da casa sua, anche se per la verità il CD era già uscito questa primavera), disco che è solamente il quarto in una carriera (con pause) più che venticinquennale, in un arco di sette anni dal ’92 al ’98 sono stati (sempre per il sottoscritto, parziale verso questo tipo di musica) stelle di prima grandezza nel panorama del nuovo folk-rock irlandese, alfieri di un suono intrigante che recuperava elementi popolari e li mescolava con robuste dosi di sanguigno rock. Le “Capre,” formatisi nel lontano 90, su iniziativa del capo pastore Pat Gallagher provengono dai pascoli di Dungloe nella bellissima contea del Donegal, Irlanda, e con il contributo dei “pastori” aggiunti Jason Phibin al violino, Charlie Logue alle tastiere, Declan Quinn al mandolino, Gerry Coyle al basso, Shaun Doherty alle chitarre e Michael Gallagher alla batteria, esordiscono con The Rusty Razor (92) considerato ancora oggi un piccolo capolavoro, dove tra i brani a tutto ritmo spiccano le famose Las Vegas  https://www.youtube.com/watch?v=dL_PXBt85rY e Mary Mary https://www.youtube.com/watch?v=Wjx8ecFub_Q , la corposa What She Means To Me con il suono robusto della batteria, passando per le ballate When You’re Dead e la bellissima Closing Time, un lento accompagnato dalle pennellate di un dolce violino https://www.youtube.com/watch?v=1K0IBH0psZs , e la conclusiva, strumentale, Biddy From Sligo/Connaught Man’s Rambles, una country-song con il banjo sugli scudi e un violino che pare voglia mettersi in competizione con quello del grande Dave Swarbrick (Fairport Convention e numerose collaborazioni con Martin Carthy).

Il “pascolo” successivo si manifesta con Out In The 94) con la “leadership” sempre nelle mani del “capopastore” Pat che firma tutti i brani che compongono il disco, a partire dall’iniziale, corrosiva, Coming Home, il ritmo accelerato di Last Call For Help con il violino a recitare la parte principale, mentre Children Of The Highways è una folk ballad lineare che introduce le più tirate Rose Street e Arranmore, dove si viaggia dalle parti dei Pogues https://www.youtube.com/watch?v=fCmf4N_sZLI , il folk-rock indiavolato di War, una song carica di emozione come She’s Leaving, e il lato romantico del disco con Song For Fionnuala, una grande ballata alla Hothouse Flowers, con tanto di sax e influenze “soul” https://www.youtube.com/watch?v=UiRKVbgyk7g , e le conclusive Let It Go e Lock It In, con un buon fraseggio tra violino e sax.

Dopo un periodo sabbatico di qualche anno, Pat Gallagher torna in sala d’incisione aiutato sempre dai suoi fedeli “caproni” per dare alle stampe Tor (98) (il nome proviene dal luogo, sempre nel Donegal, dove è stato registrato il disco), con un lavoro decisamente positivo che parte con la toccante Song For Pat (la canzone è dedicata ad una mamma morta suicida dopo aver contratto la malattia dell’AIDS), e prosegue con A Woman Like You, una acustica e nostalgica love song, una eccellente ballata Love Will Find Its Way, con un grande spunto di sax nel finale, passando per Ode To A Bich dove sono le chitarre e il basso a dettare il ritmo acustico, che si ripete sostanzialmente nella seguente Super Hero, chiusa da uno spunto di armonica, al pregnante sound chitarristico di These Walls, andando a chiudere con Gola (ribadendo il suo immenso amore per il mare) un bello ed ispirato folk rock che a tratti suona come una “western ballad” (descrive la splendida veduta della baia dell’isola omonima)  , e il recitativo A Returning Islander tenue brano sull’oceano Atlantico.

I Goats Don’t Shave si sono sciolti alla fine del ’90, quando la tensione è cresciuta fino a diventare insopportabile tra i membri della band, salvo poi ripresentarsi per l’ultimo concerto nel 2003 al Mary Dungloe International Festival (nonostante i tentativi successivi di Pat fino al 2006 di riformare il gruppo). Poi (fortunatamente) a causa della grande richiesta dei “fans” , i “Goats” hanno deciso di riformarsi e sono stati subito invitati a suonare nei migliori Festival Irlandesi e non (favoloso quello al Celtic Park di Glasgow, con una folla oceanica di 40.000 persone), e quindi ritornare di nuovo in studio per incidere questo Songs From Earth, che anche se non si può certamente paragonare a quelli precedenti, contribuisce a mantenere la loro meritata reputazione di grande band https://www.youtube.com/watch?v=wFGkmwmoi5A . L’attuale line-up del gruppo è composta oltre che da Pat voce, chitarra e banjo, dai veterani Shaun Doherty alle chitarre e Michael Gallagher alla batteria, Kevin Breslin alle tastiere, John Foggy Boyle al basso e Stephen Campbell al violino, per una nuova raccolta di belle canzoni popolari scritte in tempi recenti da Gallagher.

Le canzoni dalla terra iniziano con le dolci melodie folk di Walk Away e Long Time Gone, per poi passare alla prima ballata del lavoro, una The Evelyn Marie (la storia tragica di un peschereccio in cui persero la vita delle persone) cantata da Pat un po’ alla Christy Moore, cambiando subito il ritmo con la danzante Glasgow Bus, parente stretta dei migliori Pogues. Con I Driftaway arriva la seconda ballata, con un’altra bella melodia intessuta dal violino, a cui segue il folk country  di Train, condotto sempre dal violino e dal banjo, un duetto con la figlia Sarah nella delicata Strange Star, il singolo The Little King (dedicato al pugile di Glasgow Benny Lynch), un’epica ballata folk con largo uso di violino e cornamuse . Ancora le note di un violino aprono un’eccellente ballata come Sail With Me, un brano a tratti toccante che apre il cuore, mentre si cambia ancora ritmo con il folk campagnolo di You Took It All, andando a chiudere con l’ennesima ballata carica di emozioni ,She Looked My Way, che come ai vecchi tempi il cantato di Gallagher riesce a comunicare pienamente.

Da Tor a questo Songs From Earth ne sono passati di anni (quasi venti), ma per i Goats Don’t Shave è valsa la pena aspettare, in quanto ci regalano un disco fatto con passione, con alcune canzoni decisamente sopra la media, e se ancora non li conoscete cercate almeno i CD precedenti (si trovano a buoni prezzi), o contattate il buon Pat sul loro sito http://www.goatsdontshave.ie/shop.htm , è l’occasione migliore per entrare in contatto con una delle più interessanti band irlandesi di musica folk dell’ultimo ventennio. Per quanto mi riguarda, grazie!

Tino Montanari

Prima O Poi Li Impiccheranno? The Men They Couldn’t Hang – The Defiant

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The Men They Couldn’t Hang – The Defiant – Vinyl Star Records

Come vi avevo preannunciato alcuni mesi fa recensendo l’EP The Night Ferry ( e la ristampa del Live Tales Of Love And Hate http://discoclub.myblog.it/2014/07/18/festeggiando-30-anni-storie-amore-odio-men-they-couldnt-hang/ ), ero in attesa del nuovo lavoro dei TMTCH, che puntualmente è arrivato per festeggiare degnamente il loro 30° anniversario di carriera. Nel corso di questi trenta anni il gruppo, attraversando anche alcuni cambi di formazione, ha pubblicato la bellezza di 14 album in studio e 2 album dal vivo, e pure alcuni membri della band, in particolare Phil Odgers e Paul Simmonds, hanno pubblicato lavori da solisti durante questo periodo, mantenendo però sempre il marchio di fabbrica dei Men They Couldn’t Hang.

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The Defiant (finanziato attraverso la ormai consolidata campagna del sito web Pledge Music), vede come sempre alternarsi nella scrittura dei brani Paul Simmonds al mandolino e bazouki, oltre che alle parti vocali, Phil (Swill) Odgers alla chitarra acustica e Stefan Cush alla chitarra elettrica, con il resto dei “non impiccati” composto da Ricky McGuire al basso, Tom Spencer al banjo, Sputnik Weazel al piano e tastiere, e, come ospiti, musicisti rodati come l’immancabile Bobby Valentino al violino, David Carroll al dulcimer, Nick Reynolds all’armonica e Jo Cush alla tromba, il tutto sotto la produzione del veterano Pat Collier.

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Questa nuova “sfida” parte con la galoppante Raising Hell, che ricorda per certi versi l’epopea del mitico telefilm Bonanza https://www.youtube.com/watch?v=gsDhOLncY6M , seguita dalla tradizionale marcetta Bonfires, e dalle ballate folk Scavengers e Carrying The Flame, con gli strumenti a corda in evidenza. Si prosegue con una gioiosa Turquoise Braceled Bay, passando per le atmosfere leggermente bluegrass di Silver Chains, poi una Night Ferry (già sentita sull’EP, ma qui in una versione alternata) perfetta da ballare sull’aia (ce ne sono ancora?), mentre Tavarado è il resoconto di una triste storia realmente avvenuta. Sul fronte delle ballate arriva il momento di Bobby Valentino con il suo violino nella splendida Atheni Dreams, a cui fanno seguito il sorprendente rock’n’roll di Fail To Comply, con l’armonica di Reynolds sugli scudi, e il folk-country di Hardworking People, andando infine a chiudere con le iniziali note della pioggia che fanno da preludio ad una folk-ballad meravigliosa come Twilight Road.

“Gli uomini che non poterono essere impiccati” in questi trent’anni di militanza musicale non hanno perso nulla della loro energia contagiosa, anzi, il “sound” rimane intatto, mescolando una serie di generi (come hanno fatto gruppi contemporanei come i rivali Pogues e Oysterband), tutti distribuiti in un lungo viaggio, come sempre senza compromessi. Per chi ama il genere, diciamo british folk-rock, imperdibile!

NDT: Nell’ambito delle celebrazioni per il trentennale, i TMTCH sono stati immortalati in un live tenuto allo 02 Empire in Londra, per un CD+DVD di prossima uscita. Attendiamo fiduciosi!

Tino Montanari

Il Loro “The Last Waltz”? Lucero – Live From Atlanta

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Lucero – Live From Atlanta – Liberty And Lament Records – 2 CD

I Lucero, dopo oltre quindici anni “on the road” (sono passati anche a Pavia nel mitico locale Spazio Musica, durante il tour italiano nel 2007), e dieci album pubblicati, arrivano al primo live vero e proprio, registrato in tre serate consecutive al Terminal West di Atlanta, Georgia nel Novembre 2013, e che purtroppo, come si vocifera, potrebbe essere il “canto del cigno” della rock band di Memphis https://www.youtube.com/watch?v=MDQ7DKB6-kE .

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La prima apparizione pubblica dei Lucero risale al lontano ’98, quando Ben Nichols e Brian Venable decisero di mettere insieme un gruppo ispirandosi a “personaggi” come Gram  Parsons, Johnny Cash e a band come i Pogues, e nel giro di circa un anno, grazie anche all’amicizia con la famiglia di Jim Dickinson e dei suoi figli, ovvero i North Mississippi All Stars, incidono i loro dischi d’esordio, prima l’omonimo Lucero e subito dopo The Attic Tapes (ristampato nel 2006 per la loro personale etichetta Liberty And Lament), quest’ultimo una raccolta di spartane versioni e demo incise letteralmente nell’attico della casa del padre di Brian Venable;  dopo questa partenza i Lucero costruiscono una loro personale ode alla propria terra, dal titolo inequivocabile di Tennessee (02), per poi fare il salto di qualità con il trittico That Much Further West (03), Nobody’s Darlings (05) e la definitiva maturazione con Rebels, Rogues & Sworn Brothers (06), intervallati da un primo album dal vivo Dreaming In America (CD+DVD), dove sono catturati sul palco sia nei concerti come nel privato, in forma di documentario per la parte video. Con 1372 Overton Park (09) e Women & Work (12) avviene il debutto della band di Ben Nichols con delle etichette più importanti come la Universal Republic e la Ato Records (di proprietà di Dave Matthews), affidandosi per la produzione a Ted Hutt (Gasllight Anthem, Flogging Molly e Chuck Regan) e quindi percorrendo una strada meno roots e più rock, confezionando un “sound” più diretto, sul quale innestare anche arrangiamenti fiatistici.

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I Lucero (stella luminosa in spagnolo) salgono sul palco di Atlanta nella formazione attuale, che vede il leader e frontman Ben Nichols voce e chitarra, Brian Venable alla chitarra solista, Roy Berry alla batteria e percussioni, John C.Stubblefield al basso, Rick Steff al piano, organo e fisarmonica, e la sezione fiati composta da Jim Spake al sassofono e clarinetto e Scott Thompson alle trombe, presentando 32 canzoni che coprono il loro intero catalogo musicale, per oltre due ore di grande musica, il tutto registrato nell’arco di tre torride serate e sotto la produzione di Kevin Houston.

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Il set iniziale inizia immancabilmente con due dei classici del gruppo I Can Get Us Out Of Here e On My Way Downtown, dove la sezione fiati diventa subito protagonista (e lo sarà per tutta la durata del concerto), seguite subito dalle ballate urbane Nights Like These https://www.youtube.com/watch?v=4xqODo6y9lw , I’ll Just Fall https://www.youtube.com/watch?v=0tSWpOSbY-M  e Union Pacific Line, le esplosioni rock di Sounds Of The City, Sweet Little Thing e Raising Hell, passando per il “country alternativo” di Texas & Tennessee https://www.youtube.com/watch?v=lCGhcPu-mWg , il “memphis soul” di Breathless Love, cambiando nuovamente ritmo con il boogie-rock di Women & Work e Juniper, il punk furioso di Tonight Ain’t Gonna Be Good, andando a chiudere la prima parte con le atmosfere sofferte di Slow Dancing, Goodbye Again e una My Best Girl cantata con rabbia da Nichols https://www.youtube.com/watch?v=kOyIM_uGDmY . Dopo una meritata pausa e una buona birra si riparte con i fiati in spolvero di una grintosa Like Lightning, seguita subito da un trittico di ballate di spessore quali Summer Song, It Gets The Worst At Night https://www.youtube.com/watch?v=Jx_Q_kRkxug  e una Mom solo voce, chitarra e piano. In That Much Further West la batteria martella, le chitarre rispolverano dei “riff” alla Clash, per un brano che in questa versione live si arricchisce della sezione fiati, seguita dalla fisarmonica di Rick Steff che supporta una perfetta folk-song come The War, passando per il boogie “old-time”  di All Sewn Up e Rick’s Boogie, la forza evocativa di un classico come What Else Would You Have Me Be?, la travolgente energia di Tears Don’t Matter Much, per poi mettere sul piatto della bilancia un ulteriore trittico di ballate, a partire dalla splendida Drink Till We’re Gone cantata con il cuore da Ben, le note di un piano in Bastard’s Lullaby ad introdurre le influenze soul di It May Be Too Late, la struggente bellezza che si snoda in A Dangerous Thing, fino ad arrivare alle atmosfere hard e psichedeliche di The Last Song e andando a chiudere (con qualche lacrima) con la dolce e pianistica Fistful Of Tears, degna chiusura di una lezione di rock’n’roll che andrebbe mandata a memoria da tutti quelli che non hanno ancora capito bene come dare vita a questa musica, mentre i Lucero hanno afferrato il concetto molto bene.

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Ben Nichols (che ha talento da vendere, autore anche di un notevole esordio da solista, il mini album, Last Pale Light In The West (09), di difficile reperibilità) è la voce e l’anima dei Lucero fin dal primo giorno, ma il resto della formazione non è di mero contorno, in quanto Brian Venable è un chitarrista rock, degno epigono di Neil Young nel periodo Crazy Horse, mentre il batterista Roy Berry è veramente un valore aggiunto, assecondato da un bassista John C.Stubblefield molto lineare, e il nuovo membro (2006) Rick Steff ( già con Cat Power) che con piano, organo e fisa, ha cambiato in modo non indifferente il “sound” del gruppo.

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Nel tempo, i Lucero, e con loro i Drive By Truckers, Gaslight Anthem, Hold Steady e altri di cui si sono perse le tracce (Marah, Slobberbone, Cross Canadian Ragweed), si sono presi il loro spazio e la loro voce, in quanto accomunati da un “background” che affonda le sue radici anche nel punk e nei circuiti indipendenti, con cui il rock americano si è rifondato. Alla fine (forse, ma mai dire mai) del loro percorso, questo Live From Atlanta, potrebbe rappresentare una meravigliosa retrospettiva sulla carriera di una grande rock’n’roll band che nelle “performances” dal vivo (come quasi sempre succede) si esalta e lascia il segno. Per quanto mi riguarda, lunga vita ai Lucero di Ben Nichols e al grande sogno chiamato Rock’n’Roll.

NDT: Se acquisterete, come spero, questo CD, fate come il sottoscritto, sedetevi nel salotto di casa, sorseggiate un buon Whisky o Bourbon (o se siete astemi, un succo di frutta), e ascoltate con il volume a manetta due ore di grande musica! Per una volta chi se ne frega dei vicini.

Tino Montanari

Il “Canto Del Cigno” Di Una Grande Folk-Rock Band? Black 47 – Last Call

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Black 47 – Last Call – BLK Records – Self Released

Ogni uscita discografica dei Black 47 rappresenta per il sottoscritto un evento particolare: amo la loro musica, l’accavallarsi di culture e di stili diversi che si incontrano nella loro proposta, e la  bravura con cui riescono a far convivere umori così forti e così differenti tra di loro. Essendo un “irlandese” di cultura (nato per sbaglio a Pavia), sono totalmente coinvolto da questa musica che prende le mosse dalla tradizione celtica, e più precisamente dalla storia del suo popolo, che si fonde con le sonorità urbane della Grande Mela, un autentico miscuglio di ritmi e colori provenienti da tutto il resto del mondo. Quindi ogni mio giudizio sull’opera del gruppo, pur tendendo ad essere il più oggettivo possibile, risente inesorabilmente di questa sfrenata passione, a maggior ragione per questo Last Call, (che dopo 25 anni di carriera e 15 album), viene annunciato con una e-mail dallo stesso leader della band Larry Kirwan come “l’ultima chiamata” del gruppo, che staccherà la spina con un ultimo concerto a New York nel Novembre di quest’anno https://www.youtube.com/watch?v=80kXCFSdNiQ .

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La band (che prende il nome dalla carestia che colpì l’Irlanda nello scorso secolo) è stata fondata dal commediografo Larry Kirwan e dall’ex poliziotto Chris Byrne, entrambi di origine irlandese, ma ormai definitivamente trapiantati a New York come il resto della “ciurma”, e propone un suono inimitabile in cui convogliano tutti gli umori metropolitani, dal rock al reggae, dal rap all’hip-hop (poco), senza assolutamente dimenticare la tradizione folk dell’isola dello smeraldo, con uso di chitarre distorte e cornamuse. La saga inizia nel lontano ’91 con l’esordio dell’omonimo Black 47, a cui faranno seguire un trittico di album Fire Of Freedom (93), Home Of The Brave (94), Green Suede Shoes (96) di un livello entusiasmante, dove la tradizione celtica riveste un ruolo più importante. Il gruppo in quel periodo suonava quasi tutte le sere nei locali di New York, e questa frenetica attività live li porta ad incidere due ottimi lavori “on stage” Live In New York City (99) e On Fire (01) con un suono potente e elettrico che coinvolge l’ascoltatore, intervallato dallo splendido Trouble In The Land (00) dove svettava una granitica sezione ritmica composta da Andrew Goodsight e Thomas Hamlin. Dopo una breve pausa si ripresentano con New York Town (04), Elvis Murphys’ Green Suede Shoes (05) e una raccolta di canzoni popolari e rarità Bittersweet Sixteen (06). L’ultimo periodo li vede affrontare tematiche politiche con un disco coraggioso come Iraq (08), la svolta con il “rhythm and blues” di Bankers And Gangsters (10) e un’introvabile raccolta A Funky Cèilì (11), con diciotto brani scelti dagli stessi componenti, da suonare sempre con il volume al massimo.

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L’attuale line-up del gruppo oltre al leader indiscusso e letterato Larry Kirwan (autore di romanzi e buoni lavori solisti Kilroy Was Here e Keltic Kids), è formata dal nucleo storico con Geoffrey Blythe (membro fondatore dei Dexys Midnight Runners) ai sassofoni, Thomas Hamlin alla batteria e percussioni, Fred Parcells al trombone e tin whistle, e il duo Joe Burcaw al basso e Joseph Mulvanerty al flauto, bodhràn e uilleann pipes, che hanno sostituito brillantemente gli ex-componenti Chris Byrne e Andrew Goodsight, con l’apporto delle belle e brave (un po’ di sano femminismo!) coriste Christine Ohlman, Oana Roche e Mary Ann O’Rourke.

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Il disco si apre con i fiati di Salsa O’keefe e Larry è sempre lo stesso, con la sua voce acuta, calda e confidenziale https://www.youtube.com/watch?v=hURcX53Gieg (che si avvicina a quella del miglior Kevin Rowland dei Dexys Midnight Runners), seguito dalle note irlandesi di Culchie Prince con tanto di cornamuse, e un brano imperioso come Dublin Days in cui tutta la band gira a mille (con un ritornello che ricorda la Thunder Road del Boss), mentre Us Of A 2014 è uno spaccato dell’America attuale, raccontato con un brillante suono con sottofondo“ska”. The Night The Showbands Died (drammatico racconto dell’assassinio di una gruppo musicale) è una ballata lenta in cui la voce assume toni caldi e confidenziali, per poi diventare aggressiva nella parte centrale, e tornare di nuovo gentile sul finire https://www.youtube.com/watch?v=ScoCAZQ39Gc , seguita da una Johnny Comes A’Courtin (sul tema della schiavitù irlandese) https://www.youtube.com/watch?v=H1ZwD-i_2ow  che viene introdotta e cantata in coppia con la delicata voce della Roche, dai ritmi giamaicani, per passare ancora al groove funky-rap di Let The People In sull’immigrazione. Il breve brano cornamusa Lament For John Kuhlman introduce St. Patricks Day, brano dalla tipica spavalderia irlandese che scorre come un fiume in piena https://www.youtube.com/watch?v=lKYyVMsIHIc , assieme alla seguente Queen Of Coney Island dove Mary Ann O’Rourke presta la sua voce per un divertente duetto. Con Shanty Irish Baby, con i fiati in spolvero, si respira un’aria quasi “dixieland”, mentre Ballad Of Brendan Behan ci riporta in Irlanda, una ballatona da pub , marchio di fabbrica dei migliori Pogues, andando infine a chiudere un grande disco con una cover di Stephen Foster (riconosciuto come “il padre” della musica americana), Hard Times. una canzone sofferta dove Larry Kirwan domina la scena con la sua splendida voce, e la band sembra seguirlo in punta di piedi.

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La loro storia è iniziata con quel primo concerto nel Bronx nel novembre del lontano ’89, e sono stati negli ultimi 25 anni una delle più originali e valide band venute alla ribalta negli States, non hanno ceduto un millimetro dalla linea musicale intrapresa, divertenti, eccessivi e generosi con un leader, Kirwan, irlandese vero (cantante, autore e scrittore di pieces teatrali, come già detto), che continua a cantare e declamare con la stessa forza e allo stesso tempo comporre canzoni dagli spunti autobiografici, da ascoltare sempre con il volume al massimo. Last Call è un addio inebriante (se così sarà, mai dire mai), e non posso che consigliare l’ascolto di questo disco a tutti, sia a quelli che già li conoscono, ma in particolar modo a quanti ancora non sono entrati in contatto con un mondo inimitabile, e quindi si lasceranno trasportare da questa “miscellanea” di suoni esaltante. Per quel che mi riguarda, grazie ragazzi e in alto i calici!

NDT:  Disco di difficilissima reperibilità, comunque si può acquistare come ha fatto il sottoscritto in download, attraverso le piattaforme abituali in rete, oppure sul loro sito http://www.black47.com/ Ne vale la pena!

Tino Montanari

Festeggiando 30 Anni Di Storie Di Amore E Odio! The Men They Couldn’t Hang

the men they couldn't hang tales

Men They Couldn’t Hang – Tales Of Love And Hate – Secret Records – CD/DVD

Men They Couldn’t Hang – The Night Ferry – Vinyl Star Records – EP

Ci sono certi dischi che, a prescindere dal loro oggettivo valore, rimangono impressi nel tempo per altri motivi: nel mio caso il discorso vale per How Green Is The Valley (86), un album che comprendeva almeno due brani semplicemente strepitosi, il folk rock di Going Back To Coventry e la straordinaria ballata Shirt Of Blue, che si trovano puntualmente, e fortunatamente, in questo live fatto (ri)uscire nell’ambito delle celebrazioni per i loro 30 anni di carriera. Ma partiamo dall’inizio: gruppo sfortunato e simpatico quello dei TMTCH, che ha avuto solo un grande “sfiga”, quella di trovarsi sulla strada dei Pogues, che negli anni ottanta venivano ritenuti “l’alternativa”, e di non riuscire di conseguenza a trovare un proprio spazio “al sole” nel vasto mercato del folk-rock anglofilo e internazionale, anche se, sinceramente, forse la loro proposta musicale non possedeva l’inventiva della band dello “sdentato” Shane McGowan. I Men They Couldn’t Hang si formano nel lontano ’84 per iniziativa di Stefan Cush e Phil Odgers alle voci e chitarre, Paul Simmonds alla chitarra, Shanne Bradley al basso e Jon Odgers alla batteria, dei bei tipi che musicalmente apparivano, a prima vista, un bizzarro incrocio tra i citati Pogues, i Long Ryders e i Clash.
http://discoclub.myblog.it/tag/men-they-couldnt-hang/

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In ogni caso il gruppo inglese dopo l’esordio Night Of A Thousand Candles (85) e il già menzionato How Green Is The Valley (86), aveva fornito delle più che buone prove con dischi come Waiting For Bonaparte (88), Silvertown (89), Domino Club (90), passando per il live Alive,Alive-O (91), e, dopo alcuni anni di riflessione a causa di una separazione affrettata e poco convinta, tornavano con Never Born To Follow (96), un EP Big Six Pack (97), The Cherry Red Jukebox (03), un altro live Smugglers And Bounty Hunters (05), e dopo un’altra ulteriore breve pausa eccoli di nuovo con Devil On The Wind (09) e il doppio 5 Go Mad On The Other Side (11), una raccolta di demos, b-sides e rarità del periodo 84-96.

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Veniamo a questo Tales Of Love And Hate, che è stato registrato al The Islington Academydi Londra nel 2004, a completare la formazione, oltre ai componenti principali sopracitati, troviamo sul palco  anche Bobby Valentino al violino, Dan Swift alla batteria, Ricky McGuire al basso, Nick Muir al piano, per una scaletta che contiene 22 delle canzoni più amate dei TMTCH, compresi naturalmente tutti i grandi successi. (Il CD contiene 19 brani, il DVD, oltre al concerto completo, è pure arricchito da interviste al gruppo, per un totale di ben 154 minuti). Di seguito vi elenco la tracklist della serata:

The Day After

The Ghosts Of Cable Street

Wishing Well

Bounty Hunter

Ride Again

Shirt Of Blue

Company Town

Dogs Eyes Owl Meat And Man Chop

Australia

Barratt’s Privateers

The Bells

Silver Dagger

Singing Elvis

Rosettes

Smugglers

Nightbird

Silver Gun

The Colours

Summer Of Hate

Ironmasters

Going Back To Coventry

Green Fields Of France

Quella sera del 30 Luglio 2004, i TMTCH festeggiavano il ventennale di carriera ed erano particolarmente “pimpanti”, sciorinando nell’arco del concerto composizioni piacevoli e scorrevoli, con un “sound” attraente e invitante, baldanzoso e vivace, spesso irresistibile. I brani scelti per la scaletta furono un buon mix di vecchio e nuovo (ma purtroppo nulla dal loro album Never Born To Follow), e la partenza, “a rotta di collo”, con il trittico iniziale The Day After, The Ghosts Of Cable Street https://www.youtube.com/watch?v=t5-3dSrx3rQ  e la Wishing Well di Nick Lowe, proseguendo con brani “tirati” in stile Pogues come Dogs Eyes Owl Meat And Man Chop, Singing Elvis https://www.youtube.com/watch?v=17hnPasSyqk , Summer Of Hate, il folk-rock di Bounty Hunter, Company Town e la galoppante Nightbird, rispolverando i brani tradizionali Silver Dagger e Smugglers, intermezzati dai grandi “classici” Shirt Of Blue, Rosettes e The Colours, senza dimenticare le ballate di Paul Simmonds (che resta la penna più prolifica e autorevole del gruppo), le meravigliose Australia https://www.youtube.com/watch?v=A4APLaWGMEY  e The Bells, andando a chiudere doverosamente con la grandissima Green Fields Of France, un vero “inno” generazionale.

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Night Ferry è un EP di quattro brani (due brani originali e due cover), un’anticipazione del nuovo disco dei The Men They Couldn’t Hang The Defiant in uscita a Settembre (grazie alla raccolta fondi avviata dai “fans” ), prodotto da Mick Glossop. Il mini-traghetto parte con il punk-folk-rock della title track The Night Ferry, seguita da Raising Hell che vira verso una sorta di folk acustico, arrivando a riva con le cover di I Knew The Bride di Nick Lowe (autore che amano molto), rifatta con lo spirito dei Pogues, e una versione ruggente di Shoals Of Herring di Ewan MacColl, una ballata che profuma d’Irlanda.  

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L’energia che sprigiona Tales Of Love And Hate, ristampato in confezione CD+DVD a dieci anni dalla data originale di uscita (era uscito, solo il DVD, come 21 Years of Love And Hate), è assolutamente positiva e attanaglia l’attenzione dell’ascoltatore, e se amate il genere e non avete neanche un loro disco, beh direi che è praticamente indispensabile, se non lo amate, ma ogni tanto vi va di ascoltare un disco in relax per un ascolto non impegnativo, queste canzoni possono anche servire. Se volete il mio umile consiglio, questo è un gruppo da non farsi scappare, ricchi di grinta e anima, nell’attesa del prossimo imminente lavoro.

Tino Montanari

Una Bella “Scoperta” Per il Nuovo Anno (Anche Se E’ Uscito Nell’Estate 2013)! Paul Handyside – Wayward Son

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Paul Handyside – Wayward Son – Malady Music

Preparate il portafoglio, perché tra poco vi sentirete più leggeri. Non sempre per il sottoscritto è facile accostarsi ai nomi ”minori”, la tentazione ed il desiderio insieme, è quello di voler scoprire nuovi artisti e sottoporli al pubblico degli appassionati per farne oggetto di “culto”. Oltretutto la difficile reperibilità degli autori di volta in volta scoperti (come in questo caso), aumenta la curiosità ed il gioco di complicità che ne scaturisce. Fatta dunque questa precisazione, vorrei consigliare l’ascolto di tale Paul Handyside, inglese di Newcastle, ex leader di una delle tante misconosciute formazioni pop-rock degli anni ’80 (gli Hurrah!, una formazione post-punk http://www.youtube.com/watch?v=kH69uYYXLlA , e in seguito dei Bronze http://www.youtube.com/watch?v=5rj0fXCUvyw ), ma il sottobosco musicale inglese è talmente fertile e ricco di talenti (come il nostro Paul), che da solo basterebbe a riempire il sempre più vacuo panorama nostrano. Dopo anni a bazzicare infami clubs e piano bar londinesi e non, un po’ a sorpresa, a quasi vent’anni dallo scioglimento del primo gruppo, Handyside pubblica il suo primo disco solista Future’s Dream (07), un lavoro pop–folk colpevolmente passato quasi inosservato, composto da ballate cristalline con influenze gospel, accompagnate da un pianoforte e una chitarra, e dominate dal tono austero della sua voce, che svelano tutta la loro bellezza http://www.youtube.com/watch?v=_mAyQxF5rjw . Come il precedente lavoro anche questo Wayward Son è prodotto dal bravo Rob Tickell, che troviamo anche al basso e chitarre, con l’apporto dell’amico David Porthouse alla batteria e strumenti vari, ad assecondare Paul al pianoforte, chitarra e voce.

paul handyside future's dream

L’iniziale Glory Bound dall’incedere quasi country è un inno all’ipocrisia della guerra http://www.youtube.com/watch?v=2ip6wc4GxHE , mentre la seguente Carnival Girl è un valzer cadenzato, con organetto e armonica, perfetta da cantare in un “bistrot” parigino. He Loves Her Now è una grande canzone d’amore di altri tempi (che purtroppo tanti più blasonati colleghi non sanno più scrivere), mentre per l’ascolto di Precious And Rare con l’accompagnamento della chitarra di Rob, dovete procurarvi una buona scorta di fazzolettini, per riuscire a superare la commozione di una melodia di una bellezza disarmante (fin d’ora la segnalo come probabile canzone dell’anno) http://www.youtube.com/watch?v=QNMHCgwYb0g . La scaletta riparte con When The Good Times Roll Again, che viene arrangiata con strumenti “irish” e richiama alla mente certe ballate dei Pogues http://www.youtube.com/watch?v=_FdDfwSr1s4 , seguita dalla ballata pianistica Man Overboard, dal profumo retrò. Si cambia ancora ritmo con la spumeggiante Love Lies Elsewhere, mentre echi lontani del grande John Martyn si manifestano nella dolce Still Time Away, per poi passare al canto potente di Passing Through, dove viene evocata la morte di una persona cara. Chiudono un disco magnifico il madrigale riflessivo di Rose Of The Street  http://www.youtube.com/watch?v=PeBMh6RfdJM e la title track Wayward Son, una maestosa folk-song, dal crescendo turbinante, valorizzata da coretti quasi gospel.  

paul handyside 

Quello di Paul Handyside è un viaggio di vita e di musica che profuma di antico, cominciato negli anni ’80 e proseguito attraverso vari generi, fino ad approdare oggi con questo Wayward Son ad un songwriting più folk, più tradizionale, perché Handyside ha la voce di chi canta avventure e storie di sentimenti lontani, e personalmente spero di vederlo suonare le sue ballate in un ipotetico e lontano paradiso.

Tino Montanari

Un Ennesimo Terzetto Western-Roll Dalla Lombardia, Prendere Appunti: Sugar Ray Dogs – Sick Love Affair

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Sugar Ray Dogs – Sick Love Affair – sugarraydogs.com/Ird Distribution

Un’altra band che proviene da quella inesauribile fucina di talenti che si sta rivelando la Lombardia (Pavia e dintorni anche in questo caso) per il roots-rock, ma anche blues, folk, rockabilly, tanto country, un pizzico di cajun e tante belle canzoni. Il trio di baldi musicisti consta di due “vissuti” ex giovanotti e di un bel fieu (si dice così da queste parti), dediti alla nobile arte della musica già da qualche anno, sia on the road che su disco (questo Sick Love Affair è il secondo che pubblicano, dopo un Vaudeville’n’Roll, uscito per una etichetta tedesca, la Vampirette Records (!)): rispondono al nome di Sugar Ray Dogs, in onore del grande pugile “Sugar Ray Leonard, ma non sono degli zuccherini, hanno un sound che ricorda più l’ultima parte del loro patronimico, cioè quella dei “cagnacci” che non mollano l’osso quando lo hanno individuato, anche se la dolcezza di un paio di ballate illustra pure il loro lato più romantico.

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Ernani “Ray” Natarella (qualche familiare melomane verdiano?), si adopera al basso acustico e mandolino, oltre ad essere il principale autore di tutto il materiale, in una teoria di bassisti e cantanti che discende da illustri predecessori come Paul McCartney e Jack Bruce, ma anche Sting volendo, Alberto “John” Steri maneggia i vari tipi di chitarre, acustiche ed elettriche e Andrea “Bisteur”Paradiso, siede sullo sgabello del batterista, oltre ad essere aiutati da un gruppetto di musicisti di sicuro talento. Chiara Giacobbe, ex Lowlands, suona il violino nei concerti, come membro aggiunto, ed in alcuni brani del CD, dividendosi i compiti agli archi, con Anga Persico, del giro Van De Sfroos e Fred Koella, anche alle chitarre, il cui nome vi sarà capitato di avvistare su molti dischi e sui palchi con gente come Willy DeVille (basterebbe Victory Mixture per dargli imperitura gloria, ma ha pubblicato anche un paio di dischi da solista), Dylan, KD Lang, Dr. John, mica gente qualunque e che è il valore aggiunto di questo dischetto, anche se sono bravi di loro http://www.youtube.com/watch?v=UySmmMaF8FQ

L’album, in effetti, sarebbe uscito, autogestito, già da alcuni mesi, ma ora con l’aiuto distributivo della IRD, dovrebbe raggiungere più facilmente le abitazioni ed i cuori degli appassionati della buona musica. Sono tredici brani, tutti rigorosamente originali, ottimamente registrati e prodotti, che toccano un poco tutti i lati del rock e non solo: dal’iniziale Time On The Run, che grazie alle bagpipes di Davide Bianco, evoca scenari celtici che subito confluiscono nelle pianure del country, senza dimenticare le origini folk, grazie al violino di Persico, ma il brano in un tourbillon di continui cambi di tempo mette sul piatto anche una chitarra tra county e rockabilly, il vocione rasposo ed evocativo di Natarella, una ritmica che viaggia spedita e vigorosa. Road Of 7 Sins è il primo detour nel blues, le dueling guitars di Matteo Cerboncini e Steri, più la slide di Koella, si dividono il proscenio con l’armonica di Marco Simoncelli e spesso sfociano nelle parti strumentali in un rock autorevole.

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Fall In Love è troppo bella http://www.youtube.com/watch?v=1LopibQRmaw, sembra un brano apocrifo di Willy DeVille, una canzone romantica e sentimentale che lo zingaro newyorkese era in grado di sciorinare con assoluta nonchalance e che Natarella “duplica”, anche alla voce, con rispetto e sicuro talento, grande brano, le chitarre di Steri e il violino di Koella ricamano. Nocturnal, con Chiara Giacobbe ai violini, è una vorticosa cavalcata tra folk and roll, mentre Baby No Mercy  http://www.youtube.com/watch?v=q11Mp-2bEHw, di nuovo con Koella in formazione, è una ballata bluesata e sincopata quasi waitsiana, impreziosita anche dai mandolini di Natarella. Red Dog, con bodhran, mandolini e violini sugli scudi è una breve intramuscolare folk che potrebbe ricordare certe cose dei Jethro Tull di Stand Up o i primi Steeleye Span.Tonight vira nuovamente con classe su sonorità western (anche morriconiane, grazie all’armonica di Simoncelli) miste ad un rock delle radici di sicuro appeal, tutto molto raffinato http://www.youtube.com/watch?v=FUzc8OW2svw

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Every Man Has His Jail è un valzerone celtic-country con violino in evidenza. See You Day ha un piglio blues-rock che sarebbe piaciuto a Mr. DeVille e la raccolta Story Without Glory, quasi sussurrata, solo le voci del gruppo e le chitarre di Koella è un’altra piccolo delizia sonora. We’re All Irish si svela fin dal titolo, altra traccia dai profumi celtici, ma ricca di grinta e ritmo, vagamente alla Pogues, Mortally wounded, potrebbero essere i primi Dire Straits incrociati con i Calexico, ritmo incalzante e un ottimo lavoro della chitarra di Steri e qualche retrogusto gospel con finale da film western e chitarre alla Thin Lizzy (che sempre irlandesi erano), epica  http://www.youtube.com/watch?v=VeiQJnOB8bk. Till The End Of Time parte come una mandolinata folk e finisce come un rock grintoso. Eclettico e bello, come tutto il resto del disco. Prendete appunti!

Bruno Conti