Una Giovane “Vecchia”? Meschiya Lake And The Little Big Horns – Foolers’ Gold

meschyia lake - fooler's gold

Meschiya Lake & The Little Big Horns – Foolers’ Gold – Continental Song City/IRD

Una giovane “vecchia” o una vecchia “giovane”? Direi ovviamente la prima! E comunque come li vogliamo chiamare questi gruppi? Neo-revivalisti, neo-tradizionalisti, ammesso che ci sia differenza! Sicuramente, nonostante il nome della band, non credo ci siano riferimenti al Generale Custer, ma mai dire mai. E’ il secondo disco che pubblicano con questa “ragione sociale”: il primo Lucky Devil, ora questo Foolers’ Gold, anche se Meschiya Lake, come solista, ha pubblicato pure un disco dal vivo in coppia con Tom McDermott. Nata e cresciuta a Rapid Lake, North Dakota, la nostra amica ha un passato anche da artista da circo ed ha girato l’America in lungo e in largo prima di stabilirsi a New Orleans dalla metà degli anni duemila. Nel 2007 ha iniziato a lavorare con i Loose Marbles e nel 2009 sono nati i Little Big Horns http://www.youtube.com/watch?v=7qhn7qN2mPk .

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La signorina Lake, che ora ha 33 anni (perderò mai questo vizio di dire l’età delle signore?), si è “inventata” una piacevole miscela di jazz vecchio stile alla Bessie Smith o Billie Holiday primo periodo, musica tradizionale dal Cotton Club anni ’20 e ’30, Duke Ellington e Jelly Roll Morton, un po’ di blues, del vecchio Rhythm & Blues,  forse più jump music, in definitiva New Orleans Music. Il tutto cantato con una voce pimpante e spiritata, che pesca qui e là tra i nomi citati, ma può ricordare anche una Amy Winehouse meno “moderna” e trasgressiva o Sharon Jones, che condividevano tra l’altro lo stesso gruppo di accompagnatori. Il materiale è molto “Traditional arranged” con qualche puntatina verso Cole Porter, Miss Otis Regrets, vecchio gospel, Satan, Your Kingdom Must Come Down, trovata recentemente anche sul live dei Sacred Shakers, ma era pure nel disco della Band Of Joy di Robert Plant, rischia di diventare uno standard della canzone “moderna”. Ormai gruppi e solisti che si impossessano di nuovo della grande tradizione della canzone di prima della seconda guerra mondiale impazzano negli Stati Uniti, vedi anche Pokey LaFarge o Luke Winslow-King, per non parlare della Preservation Hall Jazz Band che a New Orleans è una sorta di istituzione. Volendo, in un ambito più “leggero”, anche l’olandese Caro Emerald, a grandi linee, fa parte della stessa famiglia.

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Meschiya Lake, super tatuata ovunque, anche sulla sopracciglia (?!), ha quel quid che marchia i talenti, una bella voce che piace soprattutto (almeno al vostro recensore) nei brani lenti: il blues di Don’t Start With Me, la stupenda Midnight On The Bayou, perfetta per una gita per le strade della Big Easy, cantata con una voce che raccoglie decadi di grandi voci femminili del passato, la delicatissima The Fragrance, con un’aria quasi tzigana grazie ad un violino strappalacrime che si insinua tra i “piccoli grandi fiati”, la cadenzata Organ Grinder http://www.youtube.com/watch?v=9LqnlD1gxtU Il resto è perlopiù travolgente: dai ritmi irresistibili di Catch ‘Em Young, cantata con uno swing nella voce che replica quello che giunge dalla musica, una My Man che ricorda molto le atmosfere del Cab Calloway di Minnie The Moocher http://www.youtube.com/watch?v=3B9snMFflOM , o il dixieland alla Louis Armstrong (non lo avevamo ancora menzionato!) di It’s The Rhythm In Me. E ancora la struggente I’ll Wait For You o i ritmi latineggianti di Foolers’ Gold, vai con la rhumba.

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Young Woman’s Blues, come da titolo, è quel blues meticciato con il jazz che andava nei quartieri francesi già un centinaio di anni fa e ancora oggi ha un effetto corroborante. La già citata Satan, Your Kingdom Must Come Down comunque la arrangi è sempre una gran canzone http://www.youtube.com/watch?v=XUVIuE-YvdI e in Miss Otis Regrets per non seguire il tempo ti devi fare legare le gambe http://www.youtube.com/watch?v=VYGcVZuO67Q . La conclusiva I Believe In Music è New Orleans Sound allo stato puro, con un basso tuba che scandisce il tempo e gli altri fiati che lo seguono http://www.youtube.com/watch?v=wAk_lQAHw_0 , ha perfino un tocco più contemporaneo o come dicono quelli che parlano bene, “modernità nella tradizione”, un motto che vale per tutto il disco. E, particolare non trascurabile, lei è veramente brava, canta alla grande in tutto il disco.

Bruno Conti

Un Tipo “Strano”, Bravo Però! Pokey LaFarge.

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Pokey LaFarge – Pokey LaFarge – Third Man Records

Un tipo “strano” questo Pokey LaFarge,  forse non “unico” ma certamente originale, anzi, come diceva la mia mamma, “un originale”. Se gli aggiungete un paio di baffetti, un cravattino e un panama (e secondo me li ha) potrebbe trasformarsi anche in Leon Redbone. Altro personaggio, peraltro tuttora in attività, che circa 35, 40 anni fa, ebbe un notevole successo di critica, ma anche di pubblico ( i suoi dischi entrarono nelle classifiche di vendita, fino alla Top 40 di Double Time nel 1977) con una miscela di jazz, ragtime, vaudeville, blues, folk, il tutto solidamente fondato nella musica degli anni ’20 e ’30, quelli subito prima, durante e dopo la Grande Depressione. E prima ancora c’era stato Dan Hicks e andando a ritroso Jim Kweskin con la sua jug band e tanti altri che nel corso degli anni si sono appassionati a questo recupero delle tradizioni della musica popolare americana.

In questi tempi da Seconda Grande Depressione si assiste ad un ritorno alla musica acustica, nelle sue varie forme, musicisti come i Carolina Chocolate Drops o Luke Winslow-King si possono considerare dei “neo-tradizionalisti”, come pure gli Old Crow Medicine Show nel loro ambito più country e bluegrass, con un pizzico di old time music. E, non a caso, il loro leader Ketch Secor produce questo omonimo Pokey LaFarge, che è già il suo nono disco (compreso un 45 giri per la Third Man Records di Jack White, alla quale sono tornati per questo CD) in vari formati e formazioni e in meno di sette anni di carriera. Dalla ragione sociale della formazione è sparito quel South City Three che aveva caratterizzato tutti i dischi della formazione dal 2009 ad oggi, compreso il Live In Holland, uscito lo scorso anno in Europa per la Continental Song City, comunque la formazione si è ampliata e si sono aggiunti al trio originale di chitarra, contrabbasso e armonica, anche una cornetta e un clarinettom Chloe Feoranzo, anche voce femminile aggiunta. Quindi sempre più anni ’30 ma senza dimenticare quella patina country, old time che lo differenzia parzialmente, ma non troppo, dal citato Redbone, per un genere che è stato definito Riverboat Sound.  Lui, il nostro amico Andrew Heissler, 30 anni, da Bloomington, Illinois, viene da una passione giovanile per il blues (in fondo è nativo dello stato dove si trova Chicago, una delle capitali del Blues), ma anche per il bluegrass di Bill Monroe, suona il mandolino e la chitarra e canta con una bella voce che  si ispira soprattutto al country, ma ha naturalmente retrogusti jazz e blues.

La musica è veloce e ritmata, con gli strumentisti che si alternano alla guida del piccolo combo e supportano LaFarge con brio e tecnica, come nella iniziale Central Time che è subito indicativa di quanto ascolteremo nel resto del disco. Divertente l’old time swing di The Devil Ain’t Lazy con l’armonica frenetica di Ryan Koenig (è lui Leon Redbone, guardatelo) in alternativa alla chitarra di Adam Hoskins e la voce di Pokey che ci riporta al suono dei vecchi 78 giri dell’epoca,  riprodotti con la tecnologia di oggi, con testi che parlano di quanto ci succede intorno, forse anche per questo si può parlare di modernismo retrò. Quando entrano il clarinetto e la cornetta, come nella bella ballata malinconica What The Rain Will Bring, si accentua questo spirito jazzato da bei tempi andati, non guastano in questo senso anche le saltuarie ma precise armonie vocali che accompagnano l’incedere del cantato del leader in quasi tutti i brani. Il tenore nasale di LaFarge (ma gustatevi il falsetto della deliziosa Let’s Get Lost) ci scaraventa in questi brani che profumano di inizio secolo (quello scorso), come Woncha Please Don’t Do It e l’effetto è più quello dei musicisti bianchi di quell’epoca, un Jimmie Rodgers, o a livello strumentale, Django Rheinhardt e Stephane Grappelly, quando Ketch Secor aggiunge il suo violino alle procedure come in One Town At A Time, che per la presenza di una steel guitar ante litteram potrebbe avvicinarsi allo swing di Bob Wills.

In Kentucky Mae, sempre malinconica si aggiunge un quartetto archi e torna la coppia di fiati, piccoli interventi di una chitarra elettrica che insinua la sua modernità apportano leggere correzioni al sound del disco che per il resto è abbastanza atemporale. Doveva essere nel preambolo ma lo dico qui, ovviamente per ascoltare questa musica avete due opzioni: o siete grandi appassionati del genere e in questo caso potete aggiungere anche una stelletta al giudizio critico dell’album, oppure vi dovete calare in un mondo musicale dove il rock o il blues, ma anche il country non hanno nulla del suono dal R&R in avanti, magari da prendere in piccole dosi. Nella frenetica Bowlegged Woman fa anche capolino un pianino indiavolato, ci spingiamo fino al boogie woogie ma il suono rimane rigorosamente unplugged e old time come in City Summer Blues che ti può ricordare sinuose donnine in gonnellino in vecchi locali di un’epoca che non c’è più, ma potrebbe ritornare! Insomma ci siamo capiti, forse, “vecchia musica per giovani” o “musica giovane per vecchi”?  Boh. Bravo, però!

Bruno Conti