George, Se Puoi, Perdonalo Da Lassù! Randy Bachman – By George-By Bachman: Songs Of George Harrison

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Randy Bachman – By George-By Bachman: Songs Of George Harrison – 12 Hit Wonder/Universal CD

George Harrison, il “Beatle Tranquillo” come lo chiamavano gli addetti ai lavori ed i fans, ha avuto molti più riconoscimenti ed apprezzamenti dopo la morte avvenuta nel 2001 che in vita: il fatto di essere oscurato dalle carismatiche ma ingombranti presenze di John Lennon e Paul McCartney ha spesso fatto passare sotto silenzio che, tra i Beatles, il musicista tecnicamente più preparato fosse proprio lui, chitarrista dallo stile raffinato e sopraffino, ed anche notevole songwriter, pur se poco prolifico (ed io l’avevo eletto da sempre a mio Beatle preferito, già in tempi non sospetti). Tra gli estimatori di George figura anche Randy Bachman, singer, songwriter e chitarrista canadese oggi quasi dimenticato, ma che negli anni sessanta e settanta ebbe il suo periodo di successo prima con i Guess Who e poi con i Bachman Turner Overdrive, titolari di un godibile rock basato su riff di chitarra diretti e melodie orecchiabili, con canzoni come These Eyes, American Woman, Taking Care Of Business e You Ain’t Seen Nothin’ Yet. Bachman negli ultimi anni è stato poco attivo (il suo ultimo lavoro è del 2015, Heavy Blues, un disco appena discreto nonostante i grandi ospiti coinvolti) http://discoclub.myblog.it/2015/05/02/vecchie-glorie-canadesi-amici-randy-bachman-heavy-blues/ .

Quindi ho salutato con piacere questa sua nuova fatica, By George By Bachman, dedicata appunto alle canzoni di Harrison, con la particolarità di prendere in esame quasi esclusivamente i pezzi scritti per i Beatles e con appena due canzoni tratte dal suo periodo solista. Randy non è mai stato un fuoriclasse, ma uno che nel periodo di massima popolarità ha cavalcato abbastanza bene l’onda di quello che oggi viene chiamato “classic rock”, ma ero comunque convinto che, alle prese con un songbook di tutto rispetto come quello del musicista di Liverpool, potesse creare un disco piacevole e riuscito. Ebbene, niente di più sbagliato: Randy ha avuto la malaugurata idea, per non dire la supponenza, di cambiare radicalmente quasi tutti gli arrangiamenti dei pezzi scelti, con risultati il più delle volte da mani nei capelli: non sto qui a dire che io amo le cover-fotocopia degli originali, ma se vuoi stravolgere completamente una canzone o sei Jimi Hendrix, o comunque hai classe e personalità adatte per farlo, oppure lascia perdere. Le parti di chitarra andrebbero anche bene, ma è il resto che non funziona: arrangiamenti a parte, Bachman non è mai stato un cantante espressivo, il suo timbro è sempre stato piuttosto qualunque e poco personale, e qui infatti si fa aiutare parecchio dagli altri membri della band (Brent Knudsen, chitarra, Mick Dalla, basso e tastiere, Marc LaFrance, batteria), creando però un fastidioso effetto karaoke collettivo: neppure Harrison era un vocalist potentissimo, ma aveva un suo stile ed un suo particolare carisma.

L’iniziale Between Two Mountains non è di George, ma un brano nuovo di Randy eseguito però nello stile dell’ex Beatle: avvio con sitar e tabla indiani, poi entra una strumentazione rock guidata da una bella slide, per una discreta canzone dal ritmo sostenuto e con un buon ritornello doppiato dal riff chitarristico (ed il testo non manca di parlare di amore universale e spirituale tra un “Hallelujah” ed un “Hare Krishna”). If I Needed Someone è quasi irriconoscibile, dato che Bachman le riserva uno strano arrangiamento tra pop e funky, non molto riuscito a mio parere, anzi quasi irritante. You Like Me Too Much, uno dei brani meno noti dei Beatles (era su Help!), diventa una pop song solare dal ritmo quasi da bossa nova, abbastanza gradevole e ben suonata, anche se il cantato della band all’unisono viene un po’ a noia; While My Guitar Gently Weeps è materia pericolosa, probabilmente il miglior brano rock mai scritto da George, che nella versione originale dei Beatles aveva il marchio indelebile di Eric Clapton: Randy accelera notevolmente il ritmo e ne aumenta ancora la potenza chitarristica, facendosi aiutare da Walter Trout, ma l’esito è piuttosto sconfortante, come rovinare un pezzo leggendario premendo solo sull’acceleratore ma senza un minimo di finezza (anche se le chitarre fanno indubbiamente il loro porco lavoro). Handle With Care è il brano che diede il via alla meravigliosa avventura dei Traveling Wilburys, altra grande canzone che qui non sarebbe neanche male, in quanto il nostro mantiene intatto l’approccio melodico originale, peccato per la sua voce piatta e senza spessore che finisce per ammosciare il tutto.

Taxman non mi è mai piaciuta molto neanche nella versione dei Fab Four, e Bachman non ha certo le capacità per farmi cambiare idea, anche se apprezzo il tentativo di farla diventare un boogie alla ZZ Top, I Need You è un brano minore del gruppo di Liverpool, ma l’originale aveva un sapore byrdsiano che qua sparisce a scapito di un arrangiamento roccioso ma abbastanza campato per aria (ed il feeling è totalmente assente), mentre Something fa letteralmente pena, per non dire di peggio, ritmo più sostenuto, un mood da pop song di basso livello, da sottofondo per ascensori (sembra il peggior Santana), con la magia della ballad originale totalmente sparita. Faccio persino fatica a proseguire nell’ascolto (ed inizio a rimpiangere i soldi buttati): Think For Yourself stranamente non è male, è decisamente più rock, con le chitarre in palla ed il motivo del brano che ben si adatta a questa veste, ma con la splendida (in origine) Here Comes The Sun si ripiomba negli inferi del buon gusto, in quanto viene trasformata in un reggae sconclusionato e bislacco: già il genere a me non piace, ma qui si sconfina nel ridicolo, complice un assurdo finale simil-flamenco degno dei Gipsy Kings. Don’t Bother Me è la prima canzone che George scrisse per i Beatles, che già in origine non era un capolavoro, ma qui ha un bel tiro rock e forse, caso unico, migliora, anche se poi Randy rimette tutto a posto (in negativo) con una Give Me Love (Give Me Peace On Earth) che sembra pensata da un bambino di dieci anni, prima di concludere il tutto con una breve e tutto sommato inutile ripresa di Between Two Mountains.

Credo di aver parlato anche troppo di questo disco, per il sottoscritto finora il più brutto tra quelli ascoltati nel 2018 (ben più di quello dei Decemberists): se volete delle cover di George Harrison fatte come Dio comanda, andate a risentirvi (o rivedervi) lo strepitoso Concert For George, uno dei più bei tributi di sempre, tra l’altro appena ristampato (anche in BluRay) per chi se lo fosse perso all’epoca.

Marco Verdi

Vecchie Glorie Canadesi, Con Amici! (Randy) Bachman – Heavy Blues

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Bachman – Heavy Blues – Linus/True North/Ird

Randy Bachman è uno dei musicisti “storici” più importanti del rock canadese: fondatore prima dei Guess Who (con Burton Cummings, che era il pianista e cantante della band) e poi dei Bachman-Turner Overdrive, BTO per tutti, due vere fabbriche di riff, e di successi, grazie alla penna prolifica del nostro. American Woman https://www.youtube.com/watch?v=gkqfpkTTy2w  e No Sugar Tonight per i primi, You Ain’t Seen Nothing Yet https://www.youtube.com/watch?v=7miRCLeFSJo  e Roll On Down The Highway per i secondi, non possono non dire nulla all’appassionato del rock classico e schietto, quello appunto costruito attorno ad un riff di chitarra. Le due band hanno avuto i loro picchi di popolarità negli anni ’70, ma poi di fatto sopravvivono a tutt’oggi, anche se le ultime prove discografiche di Bachman, con Cummings in Jukebox del 2007 e con Fred Turner, in un live del 2012, non possono essere definite memorabili. Anche questo Heavy Blues, volendo, non brilla per originalità, ma quanto meno lo spunto, l’idea che sta alle spalle del progetto, se non innovativa, è comunque intrigante. Tutto nasce da un colloquio con il suo vecchio amico Neil Young, che ha detto a Randy: “Ascolta un consiglio! Non fare la solita vecchia robaccia e chiamarla poi qualcosa di nuovo. Non suonare sempre le solite cose e poi dire che è un nuovo album. Fermati e pensa a un qualcosa senza paura, fiero, feroce, reinventati. Prendi un produttore esterno e fatti aiutare!” (notoriamente tutte cose che Young fa abitualmente!?!).

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Però Bachman lo ha stranamente preso in parola, prima si è cercato una nuova etichetta, l’indipendente True North, poi ha scelto un produttore che nell’ambito rock va per la maggiore, Kevin Shirley, e infine ha deciso di puntare su una nuova formazione per creare questo power rock trio: caso ha voluto che la scelta sia caduta su due donne, prima Dale Ann Brendon, la batterista, vista ad una esibizione della rock opera Tommy, insieme al produttore dello spettacolo, che non sapeva fosse una donna, e scoprendo che la signora aveva studiato a memoria tutte le parti di batteria originali di Keith Moon, con lei Bachman voleva fare un duo alla White Stripes o Black Keys. Dissuaso dai suoi nuovi discografici ha deciso di cercarsi un bassista, e la scelta è caduta su Anna Ruddick, che suonava in un gruppo canadese di country-rock chiamato Ladies Of The Canyon, ma che si è presentata all’audizione con una maglietta di John Enwistle. A questo punto con una sezione ritmica così, un produttore come Shirley ed una serie di amici chitarristi pronti ad offrire i loro servigi era quasi inevitabile che questo Heavy Blues risultasse un album fortemente influenzato dal classico rock-blues britannico degli anni ’70, il power trio di gente come Who, Cream, Led Zeppelin (l’altra passione di Randy dopo Presley e Beatles). Il nostro un riff sa come crearlo, e questo CD è un vero festival del riff: in un blind test potreste fare ascoltare il brano di apertura The Edge e spacciarlo per un brano degli Who, tale è la carica di Brendon e Ruddick che sembrano veramente delle novelle Moon ed Entwistle, in un brano che ha tutta l’energia degli Who più classici, anche se Bachman purtroppo non può competere con Daltrey, e la parte vocale è in effetti il punto debole di tutto il disco, ma quanto a chitarre ed energia ci siamo, l’inizio (e anche il resto) sembra Won’t Get Fooled Again, ma non sottilizziamo https://www.youtube.com/watch?v=xa_pOrgh47c .

Ton Of Bricks sembra Kashmir, o qualche altre pezzo dei Led Zeppelin, ma la cosa è voluta, quindi non scandalizziamoci, i musicisti si sono sempre copiati tra loro, basta dirlo https://www.youtube.com/watch?v=8hsIUDYG7E8 , Bachman duella gagliardamente con Scott Holiday, solista dei Rival Sons, grandi ammiratori degli Zeppelin. Bad Child  è un altro poderoso rock-blues, un duetto con Joe Bonamassa, per cui Randy ha speso delle belle parole. Little Girl Lost, il pezzo con Neil Young è un’altra costruzione ad alta densità rock e sembrano i BTO accompagnati dai Crazy Horse, chitarre a manetta e vai https://www.youtube.com/watch?v=clVbqpeViyg . Learn To Fly è uno dei rari brani veramente blues, con un giro alla Jimmy Reed, ma coniugato all’immancabile rock, anche se la parte cantata non è memorabile. Oh My Lord, con il maestro della sacred steel Robert Randolph in azione, vive sempre sul lavoro delle chitarre https://www.youtube.com/watch?v=vUMRjZF7qf0 ; in Confessin’ To The Devil Bachman e Shirley hanno costruito il brano partendo da un assolo di Jeff Healey tratto da un concerto alla Massey Hall di Toronto di parecchi anni fa, un ritmo alla Bo Diddley e il gioco è fatto https://www.youtube.com/watch?v=bgpER5MtTJA . Heavy Blues, il brano, con Peter Frampton, “casualmente” sembra un brano degli Humble Pie o dei Cream https://www.youtube.com/watch?v=xa_pOrgh47c , mentre Wild Texas Ride è un altro classico rifferama con accenti sudisti e Please Come To Paris, con il canadese Luke Doucet alla seconda solista, è l’omaggio inevitabile al grande Jimi https://www.youtube.com/watch?v=w20jcIyJf5M . We need to talk, posta in chiusura, è una discreta ballatona a tempo di valzer, ma spezza il ritmo serrato del resto del disco.

Bruno Conti

Vecchie Glorie 2. Bachman & Turner

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Bachman & Turner – Bachman & TurnerCadiz/Edel

A volte ritornano. Mi asterrei, comunque senza infamia e senza lode. Non c’è più l’overdrive watch?v=rVtX_lfZTzA, in tutti i sensi. Però piacevole, ricordano molto i vecchi tempi (c’è in giro molto di peggio)!

Bruno Conti

Cassaforte Sulla Sabbia! Prego?!? Great Big Sea – Safe Upon The Shore

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Great Big Sea – Safe Upon The Shore – Warner Music Canada

Ogni tanto in rete si trovano degli esempi di umorismo involontario quando i programmi di traduzione istantanea si sbizzarriscono in ilari alzate d’ingegno: certo che da “Sicuro sulla riva” a “Cassaforte sulla spiaggia” c’è una leggerissima differenza.

Comunque niente paura, in ogni caso stiamo parlando del nono album di studio (live, DVD e compilations escluse) dei Great Big Sea, canadesi di Newfoundland che approdano a questo Safe Upon The Shore dopo 17 anni di onorata carriera. Ricca di soddisfazioni nel loro paese d’origine (dove l’album, uscito a metà luglio, è andato direttamente al 2° posto delle classifiche canadesi) e negli States, un po’ più di culto, ma sempre apprezzati a livello critico, nel vecchio continente. Questo album (sempre ammesso che qualche volonterosa etichetta lo pubblichi pure da noi) non farà nulla per cambiare lo cose, ma rimane comunque un bel sentire.

I Great Big Sea che fin dal loro apparire con un omonimo album nel 1993, seguito dagli ottimi Up nel 1995 e Play nel 1997, si sono prefissati di realizzare una sorta di ibrido tra le “sea shanties” che pescano a piene mani dalla musica popolare delle loro zone che deriva dal folk britannico, irlandese e francese tradizionale unito a un rock, quasi punk, grintoso, veloce, antemico anche facilmente assimilabile ma suonato con grande glasse e gusto, una sorta di Pogues misti ai Waterboys della “Big Music” di Mike Scott con abbondanti spruzzate di country, bluegrass e musica popolare americana.

Ebbene direi che in questo nuovo album ci sono riusciti alla perfezione. Lasciate le virate pop-rock dell’ultimo Fortune’s Favour si sono lanciati decisamente verso lidi (o spiagge) più orientate alla roots music e sotto la produzione di Steve Berlin (in libera uscita dai Los Lobos) e registrando questo materiale tra St.John nel Newfoundland canadese e le “paludi” della Lousiana e di New Orleans, hanno realizzato, forse, il loro miglior album.

Già dall’iniziale Long Life (where did you go) con la slide fantastica dell’ospite Sonny Landreth ad impreziosire le trame sonore dell’ottimo Sean Mc Cann, uno dei tre leader e vocalist del gruppo, per intenderci quello con la voce più roca e vissuta, si respira ottima musica.

Alan Doyle, quello con la voce più antemica e da hit singles, canta l’ottimo singolo Nothing But A Song e qui i pugnettini in concerto inevitabilmente si alzeranno.

Se vogliamo, i nostri amici canadesi e in particolare Alan Doyle sono anche un po’ ruffiani e si tengono stretti i “vicini Americani” nella quasi traditional Yankee Sailor (con flautini, fisarmoniche, violini e mille altri strumenti del folk) e un testo che recita “You say America is beautiful /And I sure hope you’re right/ If I could see you across the water/ I’d say America is beautiful tonight” senza neppure sembrare troppo retorici.

Good People è una piacevole country-folk song di Sean McCann con delle pregevoli armonie vocali, che non aggiungerà nulla al canone del genere ma è assai ben eseguita e si lascia ascoltare con piacere mentre Dear Home Town con un tema di armonica ricorrente è una collaborazione con il connazionale Randy Bachman (proprio quello di Guess Who e Bachman Turner Overdrive) e Alan Doyle rivela le sue abilità pop rinforzate dalle virtù orecchiabili di Bachman. Over The Hills And Far Away è un tradizionale celtico arrangiato dal terzo vocalist del gruppo, Bob Hallett, polistrumentista di classe, che in questo brano e nell’album in generale si cimenta con accordion, concertina, whistle, armonica, bouzouki, mandolino, violino, banjo e cornamuse, alla faccia dell’ecelettismo e canta pure bene!

Il co-autore con Alan Doyle di Hit The Ground and Run non è un omonimo è proprio “quel” Russell Crowe, e sapete una cosa? Si tratta di un fantastico e travolgente bluegrass con il gruppo che diverte e si diverte alla grande con un frenetico tourbillon di voci e strumenti nella migliore tradizione del genere. Safe Upon The Shore uno straordinario brano cantato a cappella da Doyle e dal gruppo si inserisce in quel gruppo di canzoni dedicate al mare nel corso degli anni e cha fa onore al loro nome, non è un antico canto perso nelle nebbie del tempo ma una canzone scritta oggi per rinverdire una grande tradizione.

Have A Cuppa Tea è una cover dal repertorio del Kink Ray Davies, che subisce piacevolmente il trattamento GBS per trasformarsi in un divertertente brano che avrebbe potuto tranquillamente far parte del repertorio della Albion Dance Band, folk rock allo stato puro. Wandering Ways che viaggia a mille all’ora avrebbero potuto farla i Pogues ma la trovate in questo album e non per questo è meno bella e coinvolgente.

Follow me back è una sonnacchiosa ballata cantata da Hallett in duetto con la cantante Jeen O’Brien e francamente mi sembra abbastanza superflua. Road to ruin è un altro invito alle danze celtiche, vogliamo chiamarla giga?

L’ultima cover è fantastica: già si trattava di un traditional riarrangiato e infatti all’inizio mi sono detto, ohibò ma questa la conosco! In effetti si tratta di Gallows Pole, firmata Page-Plant faceva il suo figurone su Led Zeppelin III, non potendo competere con la potenza della batteria di Bonham i Great Big Sea la buttano sul folk ma poi non resistono al ritmo irresistibile del brano e ci regalano un finale travolgente.

Finale leggero con la piacevole I Don’t Wanna Go Home. Al solito le versioni per iTunes hanno un paio di bonus tracks tra cui una ottima Protest song. Non salveranno la crisi mondiale del disco ma quei tre quarti d’ora di buona musica sicuramente te li regalano.

Bruno Conti