Come Si Suol Dire: Bravo, Bella Voce, Ma Basta? Ben Arnold – Lost Keys

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Ben Arnold – Lost Keys – Blue Rose/Ird 

Ben Arnold non è uno nuovo, anzi, da venticinque anni sulle scene, sette album alle spalle, questo Lost Keys sarà l’ottavo, il secondo per la Blue Rose, l’etichetta tedesca che pubblica anche i dischi degli US Rails, il mini supergruppo dove Arnold milita insieme a Tom Gillam, Joseph Parsons, Scott Bricklin, che suona anche il basso in un brano del disco e Matt Muir, che suona la batteria in tutto l’album. Gli US Rails sono nati come una sorta di versione 2.0 di CSN&Y, fatte le dovute proporzioni (ma comunque i dischi sono belli). sia come genere, sia per il fatto che tutti i 5 componenti della band cantano e scrivono le canzoni. Ora che il gruppo si è preso un periodo sabbatico, Arnold ne ha approfittato per pubblicare il suo ennesimo disco da solista e a breve seguiranno anche quelli di Bricklin (addirittura in uscita in contemporanea lo stesso giorno) e Gillam, anche questo già uscito, e probabilmente il migliore del lotto. Il cantautore di Philadelphia (dove in vari studi della zona è stato registrato il CD), continuando il parallelo con Crosby e Co., potrebbe essere lo Stills della situazione: voce roca, sofferta e vissuta, ma a ben guardare, anzi ascoltare, Arnold appartiene più alla categoria blue eyed soul, Memphis rock, perfino blue collar, con reminiscenze vagamente springsteeniane – forse nell’insieme le “chiavi musicali perdute” citate nel titolo del disco? – ma gli artisti a cui è più vicino, sia come tipo di voce che come stile direi che sono Joe Cocker e Randy Newman, e anche qualche tocco alla John Hiatt https://www.youtube.com/watch?v=2plFWM2xvBQ

Soprattutto con il secondo ci sono molti punti di contatto: entrambi suonano il piano, hanno una voce che a tratti suona sardonica e anche quando canta d’amore, come Ben  fa spesso, le sue canzoni sembrano arrivare a sorpresa da una strada laterale. Prendiamo il brano d’apertura Stupid Love https://www.youtube.com/watch?v=4cHdeV9vnHQ , che pare provenire da una session di Little Criminals, Trouble in Paradise o Bad Love, comunque dagli album più “rock” di Newman, però con una forte patina di musica nera, arrangiamenti di archi e fiati, pezzi ricchi di armonie vocali e suggestioni Tamla Motown o Philly sound, vista la città di provenienza di Arnold, con tastiere molto presenti e le chitarre di Matt Kass e Eric Bazilian (esatto, proprio quello degli Hooters) che punteggiano la voce leggermente passata con la carta vetrata del nostro amico. Cannonball potrebbe in effetti essere un brano del Joe Cocker anni ’80, quello di You Can Leave Your Hat On, non a caso scritta da Newman, mentre Don’t Wanna Loose You, con Bricklin al basso, e organo Hammond e un altro chitarrista aggiunti alla band, vira verso un blue eyed soul quasi alla Donald Fagen, magari senza la classe e l’inventiva del leader degli Steely Dan, ma ciò nondimeno molto piacevole ed accattivante, che è un poco la caratteristica di tutto l’album, al quale probabilmente mancano quelle sferzate di genio per alzarne il livello qualitativo.

Nobody Hurtin’ Like Me è una bella ballata, di nuovo con quella aria falsamente svagata delle canzoni di Newman e Detroit People un omaggio alle persone che lavorano nella Motor City, ma anche alle classiche canzoni Motown come avrebbe potuto cantarle Joe Cocker se si fosse cimentato con quello stile. One Heart ha un che di vagamente springsteeniano nel suo andamento, le ballate piano-organo del periodo di The River, al solito arricchita da fiati ed archi, anche se manca quel guizzo che contraddistingue il fuoriclasse, bello l’assolo di chitarra comunque. Forbidden Drive è un’altra languida soul ballad, un filo troppo zuccherosa e Freedom schiaccia ancora di più il pedale verso un moscio sound anni ’80 alla Michael McDonald e l’aggiunta dell’armonica non è sufficiente a salvare il risultato. It’s a jungle out there, con un sax alla Clarence Clemons cerca di nuovo di evocare lo spirito delle canzoni più piacevoli del Boss citato poc’anzi, e questa volta in parte ci riesce. A concludere When Love Fades Away, un brano che come ha evidenziato qualcuno ricorda quel sound alla Hall & Oates, o alla Simply Red, aggiungo io, che forse non è proprio il massimo della vita, anche se ha i suoi estimatori. Quindi, sufficienza globale per l’album, soprattutto per la prima parte, ma poi nel prosieguo, come diceva Arbore, s’ammoscia, s’ammoscia.

Bruno Conti

Se Sono Bravi Li Troviamo Sempre! D.L. Duncan – D.L. Duncan

d.l. duncan

D.L. Duncan – D.L. Duncan – 15 South Records

Dave Duncan, per l’occasione D.L. Duncan, è uno dei tanti “piccoli segreti” che costellano la scena musicale americana, con una carriera lunga più di 35 anni (o così riportano le sue biografie), anche se discograficamente è attivo solo dagli anni duemila, con un paio di album a nome proprio e uno come Duncan Street, in coppia con l’armonicista Stan Street, uno stile che partendo dal blues incorpora anche alcuni elementi country (in fondo vive e opera a Nashville) e di Americana music, oltre a sapori soul e R&B, presi da Lafayette, Louisiana, l’altra città in cui è stato registrato questo album. Duncan si è sempre circondato di musicisti di pregio, e se nei dischi precedenti apparivano Jack Pearson, del giro Allman, Reese Wynans e Jonell Mosser, oltre a Kevin McKendree e il suo datore di lavoro Delbert McClinton, in questo nuovo lavoro, in aggiunta agli ultimi due citati, appaiono anche Sonny Landreth, David Hood. Lynn Williams e le McCrary Sisters, oltre ad una pattuglia di agguerriti musicisti locali; produce lo stesso D.L. Duncan, con l’aiuto dell’ingegnere del suono Tony Daigle, più volte vincitore di Grammy Awards, recente produttore anche dell’ultimo disco di Landreth.

Il suono è quello classico che ci piace, molto blues e country (poco tradizionale) molto got soul, ma anche rock chitarristico e non mancano neppure vivaci ballate tra New Orleans e il Randy Newman più elettrico, il tutto condito dalla voce laconica ma efficace di Duncan, che è pure ottimo chitarrista. Si passa dal ciondolante e divertente groove dell’iniziale I Ain’t The Sharpest Marble, con il piano di McKendree e l’armonica di McClinton a dare man forte alla solista efficace e variegata di Duncan, al poderoso e tirato rock-blues di Dickerson Road, dove la chitarra del nostro si colloca tra il Santana più bluesy e Mark Knopfler dei primi Dire Straits, con continui lancinanti rilanci e un efficace lavoro di raccordo di McKendree, oltre a Hood che pompa di gusto sul suo basso. You Just Never Know è puro Chicago blues elettrico, di nuovo con McClinton all’armonica e McKendree che passa al piano, oltre alle McCrary Sisters che aggiungono la giusta dose di negritudine, il resto del lavoro lo fa una slide tagliente. Che torna, presumo nella mani di Landreth, per una vigorosa Your Own Best Friend, dove tutta la band conferma ancora una volta il suo valore, Duncan e le McCrary cantano con grande impegno, la ritmica e le tastiere lavorano di fino e il pezzo si ascolta tutto di un fiato https://www.youtube.com/watch?v=P_NDU1bA68M . I Know A Good Thing, scritta con Curtis Salgado (il resto dell’album è quasi tutto firmato dallo stesso Duncan) è un altro minaccioso blues d’atmosfera, costruito intorno a un giro di basso di David Hood che ti arriva fino alle budella, sempre con ottimo lavoro alla bottleneck del nostro amico, che pure lui non scherza come slideman.

Sending Me Angels è una bellissima ballata country-blues, scritta da Frankie Miller (altro grandissimo pallino di chi vi scrive) e cantata in passato anche da McClinton, eccellente il lavoro al dobro di Duncan e di McKendree all’organo con le McCrary che aggiungono una quota gospel con le loro deliziose armonie vocali, una sorta di Romeo & Juliet in quel di Nashville https://www.youtube.com/watch?v=xE3LGA7jyNY . Orange Beach Blues, una specie di autobiografia in musica, è comunque grande musica sudista, profumo di blues, di Texas e Louisiana, quella anche delle canzoni di Randy Newman a cui Duncan assomiglia moltissimo nel cantato di questo brano, che poi è un quadretto sonoro che rasenta la perfezione, e con un finale chitarristico di grande fascino. St. Valentine’s Day Blues è la slow ballad avvolgente e malinconica alla B.B. King che non può mancare in un disco come questo, sempre con la chitarra di Duncan in grande evidenza. Sweet Magnolia Love sembra un pezzo di Ry Cooder da Bop Till You Drop o quelli con la coppia di compari Bobby King e Terry Evans, qui sostituiti dalle voci delle bravissime sorelle McCrary, e la chitarra viaggia sempre che è un piacere https://www.youtube.com/watch?v=QEkp3aAcGOc . E a chiudere il tutto All I Have To Offer You Is Love, una bella ballata di stampo knopfleriano scritta da Craig Wiseman, noto autore di brani country in quel di Nashville, di nuovo eccellente il lavoro di Duncan, qui ancora a dobro e mandolino e con il prezioso contributo di David Pinkston alla pedal steel https://www.youtube.com/watch?v=wnx9YqRyATI . Sarà pure piccolo, ma rimane un gioiellino di disco, non facile da recuperare ma la vale la pena cercarlo!

Bruno Conti    

Uno Dei Tanti “Piccoli Segreti” Musicali Americani, Può Sbagliarsi John Fogerty? Bob Malone – Mojo Deluxe

bob malone mojo deluxe

Bob Malone – Mojo Deluxe – Delta Moon 

Un altro dei tanti piccoli “segreti” della scena musicale indipendente americana: si chiama Bob Malone, è nato nel New Jersey, ha studiato al Berklee College Of Music e vive in California, suona le tastiere nella band di John Fogerty dal 2010, ha già otto album solisti al suo attivo, compreso questo Mojo Deluxe. Che altro? Ah, il disco è assolutamente delizioso, quegli album dove si mescolano Rhythm & Blues, soul, rock, uno stile da cantautore a tutto tondo, con tocchi “indolenti” alla Randy Newman, Dr. John o il miglior AJ Croce, uniti al gusto per le belle canzoni, un florilegio di tastiere, piano elettrico Wurlitzer e clavinet, piano a coda, organo Hammond, se serve la fisarmonica: in più è in possesso di una voce espressiva, duttile e vibrante, in grado di districarsi tanto in una morbida ballata, quanto in un rock tirato, o in un blues sporco e cattivo https://www.youtube.com/watch?v=GQUYRVsM2m8 . Non bastasse tutto questo si circonda di ottimi musicisti, a partire da Kenny Aronoff, batterista dal tocco poderoso e compagno di avventura nella band di Fogerty, presente solo nell’iniziale Certain Distance, un bel rock deciso a trazione blues con in evidenza la chitarra, anche slide, del produttore Bob De Marco, che è l’altro grande protagonista del disco e potrebbe essere il Lowell George della situazione, di fronte al Bill Payne impersonato da Malone (perché c’è anche questo aspetto Little Featiano nel suono, in piccolo e con i dovuti distinguo, ma c’è).

Oltre ad Aronoff  sullo sgabello del batterista troviamo l’ottimo Mike Baird, un veterano che ha suonato con tutti, (dai Beach Boys a Joe Cocker e persino nella colonna sonora di Saturday Night Fever e anche una veloce comparsata con Dylan in Silvio), Jeff Dean e Tim Lefebvre si dividono il compito al basso, Stan Behrens (War e Tom Freund) con la sua armonica aggiunge un tocco bluesy alle procedure e, di tanto in tanto, una sezione fiati e un nutrito gruppo di voci femminili aggiungono un supporto speziato al variegato suono del disco. Che è uno dei tanti pregi del disco: dal vivace e tirato rock-blues dell’iniziale Certain Distance, con Aronoff che picchia di gusto, armonica, chitarre e tastiere si dividono gli spazi solisti, la voce di Malone è grintosa e ben supportata dalle armonie vocali di Lavone Seetal e Karen Nash, per un notevole risultato d’insieme. Ambiente sonoro blues confermato nella successiva Toxic Love, più felpata e d’atmosfera, con piano elettrico, un dobro slide e l’armonica che creano sonorità molto New Orleans, sporcate dal rock. Anche le scelta delle cover è quasi “scientifica”: Hard Times di Ray Charles, oscilla sempre tra il classico ondeggiare del “genius” e ballate pianistiche à la Randy Newman, con De Marco che ci regala un breve e scintillante solo di chitarra e Malone che canta veramente alla grande. Anche I’m Not Fine, va di funky groove, con piani elettrici ovunque e il solito bel supporto vocale delle coriste, e De Marco e Malone che aggiungono tanti piccoli ricercati particolari sonori.

Paris è una bellissima ballata pianistica, malinconica e sognante, con il tocco della fisarmonica sullo sfondo, contrabbasso e archi a colorare il suono, elettrica con e-bow e percussioni ad ampliare lo spettro sonoro, e la voce vissuta di Malone a navigare sul tutto, un gioiellino. Eccellente anche Looking For The Blues, di nuovo New Orleans style con fiati scuola Dr.John, ma anche quei pezzi movimentati tra R&B e rock del vecchio Leon Russell o di Joe Cocker, e la slide, questa volta nelle mani di Marty Rifkin, è il tocco in più, oltre alle solite scatenate ragazze ai cori. E anche Rage And Cigarettes, con i suoi sette minuti il brano più lungo, ha sempre quel mélange di R&B, rock e blues, tutti meticciati insieme dalla vocalità quasi nera di Malone che al solito divide gli spazi strumentali con l’ottima chitarra di De Marco https://www.youtube.com/watch?v=iSOdsWsVwqo . Il “vero” blues è omaggiato in una rilettura notturna della classica She Moves Me, solo piano, armonica, contrabbasso e percussioni, per un Muddy Waters d’annata.

Don’t Threaten Me (With A Good Time) di nuovo con un funky clavinet e una sezione fiati pimpante, oltre alla solita chitarra tagliente e al pianino folleggiante di Malone, ricorda di nuovo quello stile in cui erano maestri i citati Leon Russell e Joe Cocker una quarantina di anni fa, rock blues and soul. Di nuovo tempo di ballate con Watching Over Me che potrebbe essere uno dei brani meravigliosi dell’Elton John “americano”, delizioso, quasi una outtake da Tumbleeweed Connection. Chinese Algebra, un boogie rock strumentale scatenato, potrebbero essere quasi i Little Feat in trasferta a New Orleans, con il vorticoso pianismo di Malone in primo piano e per concludere in bellezza un’altra ballatona ricca di pathos come Can’t Get There From Here, altra piccola meraviglia di equilibri sonori come tutto in questo sorprendente album. Grande voce, ottimi musicisti, belle canzoni, che volete di più?

Bruno Conti  

I Primi Passi Di Bonnie Raitt – Under The Falling Sky

bonnie raitt under the falling sky

Bonnie Raitt – Under The Falling Sky – 2 CD FMIC Records

Altra eccellente uscita per questa FMIC Records (??), la stessa che ha pubblicato di recente il bellissimo Carnegie di James Taylor http://discoclub.myblog.it/2015/01/10/altro-live-forse-il-piu-bello-james-taylor-carnegie/ , anche in questo caso di tratta di un doppio, però vero, come durata, che riporta due diverse esibizioni di Bonnie Raitt, registrate per dei broadcast radiofonici, quindi qualità sonora ottima, il 22 febbraio del 1972 ai Sigma Studios di Filadelfia la prima, e il 9 dicembre 1973 ai Record Plant di Sausalito, California, la seconda. Per i fans di Bonnie Raitt, questa volta, a differenza del pur ottimo Ultrasonic Studios 1972 https://www.youtube.com/watch?v=1GALqVg3biE  dove la rossa californiana divideva la scena con Lowell George e John Hammond, entrambe le esibizioni sono a tutti gli effetti suoi concerti. E sono uno più bello dell’altro: nel primo, benché le note riportino “Bonnie Raitt, Guitar Vocals, Solo Performance”, la nostra amica è accompagnata dall’inseparabile Freebo al basso, oltre che, saltuariamente, anche da T.J. Tindall alla chitarra elettrica e da John Davis all’armonica.

bonnie raitt 1° bonnie raitt give it up

La Raitt all’epoca, nonostante avesse poco più di 22 anni, era già una formidabile cantante e una bravissima chitarrista, soprattutto alla slide, e anche una discreta pianista. Il repertorio, come nei primi due dischi, Bonnie Raitt e Give It Up, accolti giustamente in modo entusiastico dalla critica, era un’eccitante miscela di blues, brani scritti da cantautori emergenti (e non, la title-track del CD porta la firma di Jackson Browne) e ballate dall’aura soul degna delle migliori cose di Laura Nyro, ma anche canzoni da cantautrice alla Joni Mitchell (ovviamente una non elide l’altra) La voce delle Raitt era chiara e squillante, con appena un accenno di quella raucedine che l’avrebbe resa una delle voci di riferimento della musica americana. Giustamente, ancora oggi, quando si vuole fare un complimento ad una nuova cantante che si muove tra rock e blues, si dice “sembra Bonnie Raitt”!

bonnie raiit young Bonnie Raitt live 2

Nei due dischetti in oggetto si ascolta una giovane signora, in bilico tra timidezza e, probabilmente, una “leggera ebbrezza” da sostanze varie, che avrebbe condiviso negli anni a venire con il moroso Lowell George, presente in forza con i suoi Little Feat nel terzo album del 1973, Takin’ My Time, altro disco splendido uscito nell’ottobre del 1973, un paio di mesi prima del secondo concerto radiofonico, quello elettrico di nuovo con Freebo, più David Maxwell al piano, Joel Tepp alla chitarra e clarinetto e Dennis Whitted alla batteria. Premesso che nei due CD non c’è un brano scarso che sia uno, tra i migliori come non ricordare, nel disco “acustico”, in ambito Blues, versioni travolgenti di Rollin’ And Tumblin’ con il magico bottleneck della Raitt in azione, Mighty Tight Woman e Women Be Wise, dell’amata Sippie Wallace,  una torrida Finest Lovin’Man, con John Davis all’armonica e TJ Tindall alla solista e l’altro super classico Walkin’ Blues, tra i brani dei cantautori, Bluebird di Stills, il citato brano di Jackson Browne, Any Day Woman di Paul Siebel, stupenda, Too Long At The Fair di Joel Zoss, la pianistica Thank You, scritta dalla stessa Raitt, che sembra un brano perduto della Nyro, una deliziosa Can’t Find My Way Home, che se la batte con la versione dei Blind Faith, ma ripeto, sono tutte belle, un’oretta di delizie elettroacustiche https://www.youtube.com/watch?v=nLaqHor-apo  .

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Il secondo CD ha “solo” 12 brani contro i 16 del primo, l’incisione, comunque molto buona, è forse un filo inferiore, ma qui ascoltiamo Bonnie Raitt in versione elettrica: si parte con Love Me Like A Man, un blues fenomenale scritto da Chris Smither https://www.youtube.com/watch?v=QXLP8_2B2sw , con un grande David Maxwell al piano, un altro brano di Sippie Wallace, You Got To Know How, con una atmosfera retrò da anni ’20-’30, grazie al clarinetto di Joel Tepp. I Thought I Was A Child è un altro brano scritto da Jackson Browne, molto mitchelliano pure questo https://www.youtube.com/watch?v=_GJZ2gzkAKo , eseguito in sequenza con Under The Falling Sky, una versione molto più rock di quella dell’altro concerto https://www.youtube.com/watch?v=81ibYvc1PW4 . Ricorderei anche Give It Up And Let It Go, un brano della stessa Bonnie, che serve per introdurre la band che la accompagna, tratto dal secondo album, con grande uso della slide e preceduto da uno slow blues come Everybody’s Crying Mercy (come si fa a scegliere dei brani? Sono tutti belli!) con un grandissimo Maxwell. I Feel The Same, un’altra perla di Smither e la stupenda Guilty di Randy Newman  https://www.youtube.com/watch?v=fmGlY-8cFCU provengono entrambe da Takin’ My Time, il disco dell’epoca, oltre ad un altro dei piccoli capolavori del primo periodo della Raitt, Love Has No Pride https://www.youtube.com/watch?v=KbqXMQCq59U , scritta da Eric Kaz e Libby Titus (detto per inciso, prima moglie di Levon Helm, mamma di Amy e poi compagna di Donald Fagen), si conclude con Baby I Love You, un altro bluesazzo tirato che Bonnie ha cantato varie volte con BB King, anche nel disco dei duetti. Mi sa che ancora una volta vi tocca mettere mano ai portafogli!

Bruno Conti   

A Conclusione Di Un Anno Terribile A Livello Di Decessi Nell’Ambito Musicale Ieri E’ Morto Anche “L’Acciaio Di Sheffield” Joe Cocker 1944-2014

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A pochi giorni di distanza dalla scomparsa di Ian McLagan, compianto grande tastierista di Small Faces e Faces (colpevolmente non ricordato nel Blog, ma lo dico qui), ieri se ne è andato anche John Robert Cocker, per tutti Joe Cocker, uno dei 100 grandi vocalist della storia del rock per la rivista Rolling Stone. Aveva 70 anni, essendo nato a Sheffield il 20 maggio del 1944, mentre la morte è avvenuta a Crawford, Colorado, dopo una lunga battaglia contro un cancro ai polmoni che lo affliggeva da tempo. Vediamo di ripercorrerne  la carriera musicale.

Tutti lo ricordano per l’immortale apparizione al Festival di Woodstock del 1969, mentre cantava una cover meravigliosa di With A Little Help From My Friends, il celebre brano dei Beatles che gli ha dato imperitura fama, anche grazie alle spastiche mosse che accompagnavano quella esibibizione dal video. Ma la sua carriera era iniziata già nel 1964, con, non a caso, un’altra versione di un brano dei Beatles, I’ll Cry Instead, pubblicata dalla Decca, che poi a fine anno si sbarazzò del suo contratto (evidentemente era un vizio della etichetta inglese quello di sbagliare la scelta, come era successo per i quattro di Liverpool): comunque in quel brano alla chitarra, oltre a Big Jim Sullivan, c’era Jimmy Page, che avrebbe poi partecipato anche alle sessions del primo album, With A Little Help From My Friends, inciso agli Olympic e Trident Studios di Londra agli inizi del 1968, ma pubblicato solo nella primavera del 1968, sulla scia dell’enorme successo della title-track. In mezzo, tra il 1966 e il 1968, Joe Cocker fece parte della Grease Band, il gruppo che poi avrebbe segnato la parte iniziale della sua carriera, e di cui faceva parte, fin dall’inizio, il grande pianista e organista Chris Stainton.

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In questo primo disco si trovavano anche memorabili versioni di Feelin’ Alright, Bye Bye Blackbird, Marjorine, Just Like A Woman, Don’t Let Me Be Misunderstood I Shall Be Released, ma tutti i brani di quell’album erano notevoli, come i musicisti utilizzati, oltre a Page e Stainton, tra i tanti, Henry McCullough, Albert Lee, Tommy Eyre, Stevie Winwood, Bj Wilson dei Procol Harum, oltre ad alcune grandi vocalist come Merry Clayton, le sorelle Holloway, Madeline Bell, Rosetta Hightower, alla faccia di quelli che dicono che i nomi(e i musicisti) non sono importanti!

Nello stesso anno esce il secondo album omonimo, Joe Cocker, altro disco bellissimo, prodotto da Leon Russell, che contribuisce anche con due canzoni, una di Dylan, una di Cohen, e tre degli amati Beatles (una Let It Be, come b-side di un singolo). Nel disco suona la Grease Band, oltre a Russell, George Harrison, di cui viene ripresa Something, Sneaky Pete Kleinow e Clarence White, chitarristi aggiunti, oltre alle solite fantastiche voci femminili di supporto, arricchite da Bonnie Bramlett e Rita Coolidge.

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Opera che farà da preludio alla esplosione termonucleare che sarà l’anno successivo il disco dal vivo Mad Dog And Englishmen, uno dei primi casi di sesso, droga e rock’n’roll, registrato nel marzo del 1970 al Fillmore East di New York, e pubblicato nel corso degli anni in tantissime edizioni. Prima Lp doppio, poi CD singolo, CD Deluxe doppio, DVD e anche, come The Complete Fillmore East Concerts, in un box da 6 CD edito dalla Hip-o-select in tiratura limitata e molto costosa, che sarà il caso di riproporre, a un prezzo più contenuto, in questa infausta occasione, per una volta facendo opera meritoria.

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In mezzo, nell’agosto del 1969, il primo giorno del Festival di Woodstock, accompagnato dalla Grease Band, Cocker regalò una memorabile esibizione, dove tra le tante cose, “inventò” anche l’air guitar. Spettacolo replicato pochi mesi dopo anche alla Isola di Wight.

Questi vertici non verranno mai più raggiunti negli anni successivi, quindi il resto dell’articolo (che rischiava di diventare una succursale della Enciclopedia Treccani o di Wikipedia) sarà meno analitico.

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Nel 1972 in Europa come Something To Say e di nuovo come Joe Cocker, negli USA nel 1973, esce l’album qui sopra, che probabilmente è l’ultimo grande disco della sua carriera, anche se i due, forse tre, dischi successivi sono ancora fior di raccolte di canzoni e la voce, nonostante i problemi di droga e soprattutto alcol, è ancora quel ruggito tra rock e soul, con ampie porzioni di blues & R&B, con qualche caduta di stile, che ha sempre caratterizzato la sua musica.

I Can’t Stand A Little Rain del 1974, con la prima apparizione di You Are So Beautiful, che diventerà uno dei suoi standard.

Nel 1976 oltre a Stingray, ancora un buon disco, vengono pubblicati dalla vecchia casa discografica, per capitalizzare sul suo successo, due dischi, ormai irreperibili in CD, per quanto assai interessanti, Live In LA, inciso nel 1972 e Space Captain, inciso tra il 1970 e il 1972, entrambi con materiale dal vivo proveniente dai suoi anni d’oro.

L’ultimo album degli anni ’70, Luxury You Can Afford, non memorabile, però contiene la sua versione di A Whiter Shade Of Pale https://www.youtube.com/watch?v=d-SMj2Im6c0

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Nel 1982 Sheffield Steel, il disco registrato con musicisti caraibici e prodotto da Chris Blackwell, il boss della Island, rinnova i fasti del passato e lo stesso anno arriva anche il megasuccesso del duetto con Jennifer Warnes, Up Where We Belong, dalla colonna sonora di Ufficiale e Gentiluomo.

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Negli anni ’80 escono ancora questi quattro album, e a parte il successo megagalattico di You Can Leave Your Hat On, il brano di Randy Newman contenuto nella colonna sonora di 9 Settimane e 1/2, il suono diventa progressivamente “terribile”, almeno a parere di chi scrive. E anche le due decadi successive, a parte qualche CD o DVD dal vivo, dove la classe del performer risalta ancora, non sono particolarmente memorabili, tra un Pavarotti and Friends, una comparsata con Zucchero e altre amenità del genere. Questa volta il suo duetto nella colonna sonora di Bodyguard non è quello di successo (anche se le royalties devono averlo reso comunque felice), Woodstock ’94, 25 anni dopo, mah… Forse, come ha giustamente ricordato Billy Joel circa tre mesi fa, quando annunciò pubblicamente che Joe Cocker era ammalato gravemente, è un delitto che questo grande cantante non sia stato ancora inserito nella Rock And Roll Hall Of Fame dei grandi della musica.

Queste sono state tra le sue ultime apparizioni in concerto. Lo ricordiamo con grande affetto ed imperitura ammirazione (soprattutto per la prima parte di carriera).

R.I.P Joe Cocker!

Bruno Conti

 

 

 

 

Cantautore, Attore, Pittore… E Altro! Peter Himmelman – The Boat That Carries Us

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Peter Himmelman – The Boat That Carries Us – Himmasongs Recordings

Per chi scrive, Peter Himmelman è uno dei “songwriters” meno celebrati dell’intero panorama cantautorale americano, talmente poco riconosciuto che i suoi lavori ultimamente se li deve distribuire e produrre con mezzi propri (ma questa sta diventando una caratteristica di gran parte della scena musicale americana), come quest’ultimo The Boat That Carries Us. Nonostante sia ormai più noto come attore televisivo (ha partecipato a serie importanti come il Giudice Amy e Bones), il buon Peter vanta un lungo e dignitoso trascorso da rock’n’roller. Originario di Minneapolis, l’attività artistica di Himmelman era iniziata con i Shangoya già nel lontano ’78 per continuare poi con il gruppo dei Sussman Lawrence in cui militò fino al ’84. La sua carriera solista vera e propria parte con This Father’s Day (85), e il secondo colpo lo mette a segno sposando nel 1988 Maria Dylan figlia adottiva del grande Bob (la cui madre è l’ex moglie di Dylan, Sara Lowndes), e dopo undici album con punte altissime quali Flown This Acid World (92), Skin (94) https://www.youtube.com/watch?v=Vbz1D08muFw , Unstoppable Forces (04) e due album dal vivo Stage Diving (96) e Pen And Ink (08), oltre a cinque album dedicati ai ragazzi, si ripresenta un po’ a sorpresa, dopo l’esperimento Minnesota http://discoclub.myblog.it/2012/11/25/file-under-bella-musica-minnesota-are-you-there/ , con questo lavoro prodotto da Sheldon Gomberg (Ben Harper).

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Per l’occasione Peter ha riunito sulla stessa “barca” musicisti di grande talento come David Steele alle chitarre (Steve Earle, John Prine, Emmylou Harris), Lee Sklar al basso (tra i tantissimi Leonard Cohen, Jackson Browne, James Taylor), Jim Keltner alla batteria (John Lennon, Richard Thompson, e il genero Dylan, oltre ad una infinità di altri, forse si fa prima a dire con chia non ha suonato), Will Gramling alle tastiere (Colbie Caillat), e penso che con questi elementi sia molto difficile che non esca un prodotto di qualità come questo The Boat That Carries Us, una sorta di “concept album” scritto da Himmelman mentre era coinvolto nelle sue varie professioni.

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La barca salpa con la title track, un brano folk dalla morbida melodia acustica https://www.youtube.com/watch?v=RZFQkA77V0w , a cui fanno seguito il ritmo e l’energia di Afraid To Lose http://discoclub.myblog.it/2012/11/25/file-under-bella-musica-minnesota-are-you-there/ , l’atmosfera avvincente che si crea con Green Mexican Dreams (una delle migliori del disco), la divertente For Wednesday At 7pm (I Apologize) sostenuta da un buon “groove”, mentre 33K Feet è animata dalla chitarra di Steele, e Never Got Left Behind dalla batteria spazzolata di Keltner. Il viaggio prosegue dolcemente con la preghiera sincera di Mercy On The Desolate Road (splendida), il ritmo “sincopato” di In The Hour Of Ebbing Light, la pianistica Double Time Sugar Pain rubata dai solchi del miglior Randy Newman, passando per l’energia rock di Angels Die, con una grande ritmo dettato dalla batteria di Keltner, il sussurrato piano e voce di  Tuck It Away, il riff chitarristico di That’s What It Looks Like To Me, attraccando la barca al porto con il moderno gospel acustico di una solenne Hotter Brighter Sun. Hallelujah!

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Peter Himmelman pur rimanendo ai margini dell’industria discografica, è pur sempre una delle penne più vitali e creative della scena americana, uno di quei musicisti che non si nascondono e,essendo ormai una star televisiva, si può permettere di sfogarsi attraverso dischi, autoproducendoli come gli pare e piace (simpatica la trovata di utilizzare nel retro di copertina del CD la stessa grafica che utilizzarono i Clash per London Calling), per esempio questo The Boat That Carries Us, energico, ispirato e suonato come Dio comanda,e quindi, sempre per chi scrive, soldi ben spesi.

Tino Montanari

Può Essere Rude, Ma Anche Tenero! John Hiatt – Terms Of My Surrender

john hiatt terms of my surrender

John Hiatt – Terms Of My Surrender – New West

“Posso essere rude, alcune volte posso essere tenero”, lo dice lo stesso John Hiatt nella title track di questo suo nuovo album, Terms Of My Surrender, ma lo dicono anche la sua carriera e i suoi dischi: ultimamente era stato più rude, cattivo, elettrico, scegliete voi il termine nei due CD precedenti ( http://discoclub.myblog.it/2012/08/26/il-disco-e-sempre-bello-come-al-solito-ma-cosa-diavolo-e-un/ e http://discoclub.myblog.it/2011/08/10/e-intanto-john-hiatt-non-sbaglia-un-colpo-dirty-jeans-and-mu/), quelli prodotti da Kevin Shirley, che a qualcuno erano piaciuti parecchio (ad esempio a chi scrive, come potete leggere nei Post linkati qui sopra), ad altri meno, c’era chi li aveva trovati troppo rock o troppo levigati, “leccati” perfino, ma nessuno aveva negato la magia che spesso si sprigionava dalle sue canzoni, oggi come ieri. Per uno con ventidue album di studio, varie antologie (http://discoclub.myblog.it/2013/11/13/il-meglio-di-uno-dei-migliori-john-hiatt-here-to-stay-the-be/) e live, alle spalle, non è facile trovare sempre qualcosa di nuovo da dire e farlo bene, comunque il nostro amico ci riesce spesso. Questa volta si parla di un album “blues acustico”. Prego? Ma fatto alla Hiatt!  Ah, bene, allora ci siamo. Il suo chitarrista degli ultimi album, Doug Lancio, dopo un primo approccio “elettrico”, lo aveva sfidato a fare un album acustico, “blues oriented” come dicono gli americani, registrato dal vivo, in presa diretta, in studio. E così è stato fatto, con l’aiuto della sua band abituale, nell’ultima versione: oltre a Lancio, chitarre acustiche (ma anche elettriche), banjo e mandolino, nonché produttore del disco, lo storico batterista Kenneth Blevins, e gli ultimi arrivati, Nathan Gehri, al basso e Jon Coleman alle tastiere, più le “interessanti” armonie vocali di Brandon Young, un cantante emergente dell’area di Nashville. Undici nuove canzoni che esplorano i pregi e i difetti del diventare vecchi, troppo? Diciamo anziani, anche se un brano si chiama appunto Old people.

Ovviamente Hiatt lo fa con lo humor e l’ironia, persino il sarcasmo, che non gli hanno mai fatto difetto, ma anche con una certa partecipazione verso questi “strani personaggi”, che ormai sono quasi suoi coetanei (quasi, in fondo ha “solo” 62 anni, se la salute lo sorregge, ancora una vita davanti). Lui dice che la voce non è più quella di un tempo, ha perso qualche tonalità nei registri più alti, ma è sempre quella “solita” voce ruvida, grezza, spesso anche tenera (come le canzoni), una delle migliori in circolazione, le canzoni sono belle, c’è molto blues, sempre according to John Hiatt (in fondo anche Dylan, Mellencamp, Springsteen, Petty e compagnia cantante, ogni tanto fanno Blues), forse accentuato in questo caso dalla presenza dell’armonica, che riappare in un paio di brani, dopo una lunga latitanza. Ma a ben guardare è un tema musicale che aveva già affrontato ai tempi di Crossing Muddy Waters. In ogni caso, ve lo dico subito, il disco è bello, per cui “rassegnatevi”, se non avete già provveduto, il disco è uscito il 15 luglio, bisognerà comprare anche questo. Vediamo le canzoni nel dettaglio.

Il disco parte con Long Time Comin’. un brano che inizia acustico, ma poi entrano le tastiere, la sezione ritmica, la chitarra slide di Lancio e il brano si trasforma, nella parte centrale, in una delle sue classiche ballate, con quella voce rotta da mille battaglie ma sempre solida e ben contrappuntata da quella di Brandon Young. In Face Of God, un bel blues acustico, con la ritmica appena accennata e discreta, ma comunque presente, come la sua armonica e il mandolino di Lancio, Hiatt ci racconta della perenne lotta tra Dio e il diavolo, il bene e il male. Marlene è una bellissima e dolce canzone d’amore , una di quelle che solo John sa scrivere, in bilico tra folk, accenni caraibici e il suono laidback del grande JJ Cale, la solita piccola delizia destinata agli ammiratori del cantante dell’Indiana, ma cittadino di Nashville, ormai da lunga pezza. Sulle note di un banjo, pizzicato dal multiforme Doug Lancio, si apre Wind Don’t Have To Hurry, brano che poi si trasforma in un pezzo dalla struttura più rock, anche se il continuo e reiterato na-na-na intonato insieme ad una voce femminile (forse la figlia Lilly? ma non mi sembra) alla fine testa la pazienza dell’ascoltatore. Nobody Kwew His Name, il racconto di un veterano del Vietnam, ha il fascino delle migliori canzoni di Hiatt, con il contrappunto ancora di una matura voce femminile, si snoda tra le evoluzioni di una slide, questa volta acustica, il solito mandolino, un piano appena accennato, il tocco delicato della batteria di Blevins, la voce complice e vissuta che fa vivere la storia.

Baby’s Gonna Kick, con la sua citazione di John Lee Hooker, l’armonica torrida e bluesatissima, la slide d’ordinanza, è uno dei brani più vicini alle dodici battute classiche, sempre rivisitate attraverso l’ottica di John, ma anche decisamente canoniche. Ancora blues, più cadenzato, per Nothin’ I Love, parte solo voce e chitarra acustica, poi entra l’organo e il resto della band e il brano diventa più elettrico con la solista che rilascia un bel assolo. Terms Of My Surrender, oltre a contenere il verso che ho citato all’inizio, è una ballata old time, di quelle che si facevano una volta, con Hiatt che si cimenta, qui è la, anche in uno spericolato falsetto (ce la fa, ce la fa), coretti vicini al doo wop, chitarra elettrica jazzata e un’andatura quasi indolente, dove ci racconta della sua (quasi) resa allo scorrere del tempo. Mentre il fuoco di una passione d’amore irrequieta incendia le note di una Here To Stay che era già presente in un altra versione, più rock e con Bonamassa alla chitarra, nel Best dello scorso anno, questa versione ha quasi degli accenti gospel, rallentata, con un arrangiamento completamente diverso, il manuale del buon cantautore insegna che una bella canzone si può usare più volte, quindi era giusto farla sentire anche a chi non si era comprato la raccolta, sia pure sotto una forma diversa.

Old People è una simpatica, ironica e anche un filo crudele parodia di quei tipi, “i vecchi”, quelli invadenti, che spingono nelle file per passarti davanti, sono un po’ come i bambini, però sanno quello che vogliono, anche se invecchiare non è bello bisogna prepararsi, la canzone cerca di darci alcune istruzioni su come comportarci con “loro”, quei tipi strani, e anche se il brano non è forse tra i migliori dell’album ha quel sarcasmo insito che Randy Newman aveva dedicato ai “tipi bassi” (per essere politically correct bisognerebbe dire diversamente alti o, nel caso in questione, diversamente giovani), comunque il pezzo è divertente https://www.youtube.com/watch?v=oHIpM0_SJEA , una sorta di folk-blues corale e vagamente valzerato che fa da preludio alla canzone che chiude questo album, una Come Back Home che ha tutti gli elementi tipici di un brano di Hiatt, intro di chitarra acustica, poi arriva il piano, il resto del gruppo segue e la canzone si sviluppa sulle ali della voce glabra e ruvida di John, ma poi, sorpresa, quando cominci ad appassionarti, è già finita, peccato, comunque bella. Come tutto l’album peraltro: probabilmente John Hiatt non ci regalerà più un Bring The Family, ma possiamo sempre sperare in un Time Out Of Mind o in un Tempest, per il momento “accontentiamoci” dei suoi album della maturità, d’altronde da un anziano (il baffetto aiuta, vedi foto) cosa possiamo aspettarci (!), comunque rispetto a molto di quello che circola attualmente in ambito musicale, qui ci va sempre di lusso e infatti il disco è entrato, come il precedente, nei Top 50 della classifica di Billboard, speriamo che questo gli procurerà una vecchiaia priva di patemi!

Bruno Conti

Un Altro Figlioccio Di Woody Guthrie! John Fullbright – Songs

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John Fullbright – Songs – Blue Dirt Records

John Fullbright, sin da quando ha iniziato a suonare è considerato un “predestinato”, in quanto proviene da Okemah, il piccolo villaggio che ha dato i natali alla leggenda del Folk Woody Guthrie (*NDB. Come nel Blog avevamo subito messo in evidenza http://discoclub.myblog.it/2012/02/28/e-chi-e-costui-da-okemah-oklahoma-john-fullbright/).  Il buon John ha cominciato a farsi conoscere quando ancora frequentava il liceo, prima facendo pratica nella band di Mike Mc Clure, passando poi a suonare con artisti del livello di Joe Ely e Jimmy Webb, e, pur amando il rock, la sua musica nasce con la canzone d’autore, e tra i maestri riconosciuti c’è gente come Steve Earle, Dylan e naturalmente il grande Cohen. Fullbright, in ogni caso, è un cantautore nato: suona la chitarra e il piano in modo egregio, ha una voce bene impostata, e, cosa più importante, scrive belle canzoni, che hanno già trovato la giusta consacrazione nell’esordio Live At The Blue Door (09), un disco dal vivo acustico (distribuito inizialmente solo a livello locale), con brani di notevole spessore quali Jericho, All The Time In The World, Moving, e alla fine una grande rilettura di Hallelujah di Cohen, album bissato poi dal successivo From The Ground Up (12), CD autoprodotto, attraverso la sua etichetta Blue Dirt Record, dove John metteva a fuoco le sue passioni, dalla canzone d’autore, al blues e al folk, e che definiva il gran talento e la maturità di questo giovane musicista.

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Questo nuovo lavoro, Songs, conferma la bravura del personaggio https://www.youtube.com/watch?v=wuqfburCguE , e attraverso la co-produzione di Wes Sharon, aiutato, come nel precedente, da una “full band” composta da David Leach al basso, Mike Meadows alla batteria e percussioni e Terry Ware alla chitarra elettrica, confeziona dodici ballate introspettive, con largo uso del pianoforte, tutte cantate con voce chiara e intensa. L’iniziale Happy alterna il suono tra chitarra acustica e piano, accompagnato da un dolce “fischiettio” https://www.youtube.com/watch?v=KDdIrcqLei0 , poi troviamo due ballate, When You’re Here (voce e piano) e Keeping Hope Alive (chitarra e voce), decisamente affascinanti, mentre in She Knows lo stile pianistico ricorda influenze alla Randy Newman https://www.youtube.com/watch?v=qEJHrEucImY . La parte del disco più malinconica si manifesta con Until You Were Gone e Write A Song, senza dimenticare una canzone dalla ossatura elettrica come Never Cry Again (molto vicina al miglior Steve Earle), e l’uso dell’armonica molto accentuato nella elettroacustica Going Home. Le dolci note di un piano ci introducono ad una accorata All That You Know, mentre The One That Lives Too Far ha un intro acustico e a seguire una bella apertura elettrica, quando la band entra in gioco (canzone splendida), andando a chiudere nuovamente con due ballate pianistiche (solamente voce e piano), High Road  https://www.youtube.com/watch?v=1WpVzC7yPGE e Very First Time, cantate con anima e cuore.

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John Fullbright non è più solo una promessa, in breve tempo è diventato un vero artista, la sua musica attraversa il folk ed il rock, e il nostro scrive canzoni degne di essere ricordate, uno dei pochi in giro al momento in grado di rinnovare la grande tradizione dei “songwriters” americani. In fondo e nato a Okemah!

Tino Montanari

Per “Buongustai” Del Rock Americano – The Hold Steady – Teeth Dreams

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The Hold Steady – Teeth Dreams – Washington Square – Deluxe Edition 2 CD Australia

Gli Hold Steady (per chi non li conoscesse) vengono da Brooklyn, New York City, e sono da anni uno dei migliori gruppi americani in circolazione, certamente tra i pochi in grado di suonare ancora oggi un classic-rock elettrico, pulsante, e infarcire le canzoni con tempeste di assolo di chitarre senza perdere un briciolo di credibilità, e senza risultare inevitabilmente retrò. Dopo il debutto squassante di Almost Killed Me (04), non sbagliano un colpo con Separation Sunday (05), a cui segue il devastante Boys And Girls In America /(06) un incrocio fra Springsteen e Jim Carroll (questo nuovo, con espressione felice, è stato definito Randy Newman meets Husked Du), il superbo Stay Positive (08), il live A Positive Rage (09) e Heaven Is Whenever (10) http://discoclub.myblog.it/2010/05/02/un-disco-di-transizione-hold-steady-heaven-is-whenever/ .

L’America di bravi “storytellers” è piena, ma Craig Finn frontman, chitarrista e compositore del gruppo, possiede una marcia in più (dimostrata anche nel suo esordio solista Clear Heart Full Eyes http://discoclub.myblog.it/2012/01/23/semplice-fresco-efficace-ma-anche-raffinato-craig-finn-clear/ ), riuscendo a scrivere canzoni dai testi intelligenti e letterati, e dopo l’abbandono di Franz Nicolay lo storico tastierista del gruppo, l’attuale line-up è composta da Galen Polivka al basso, Bobby Drake alla batteria, e alle chitarre il “vecchio” Tad Kubler con il nuovo entrato Steve Selvidge dei Lucero,  sotto la produzione di Nick Raskulinecz (Rush), magari non raggiungerà i livelli degli album centrali, ma Teeth Dreams dimostra cosa gli Hold Steady sanno fare meglio, rock pieno di chitarre con un suono aggressivo, dove l’entusiasmo non viene mai a mancare.

Come al solito, si parte subito forte con i “riff” chitarristici di I Hope This Whole Thing Didn’t Frighten You  e Spinners , entrambe sostenute da una batteria irruente, come nel rock urbano di The Only Thing. Con The Ambassador arriva la prima ballata del disco (sembra pescata dai solchi dei Why Store, una formazione “minore” che varrebbe la pena di ri-scoprire), per poi scaldarsi ancora con il rock energico e a tratti torrido del trittico On With The Businness, Big Cig e Wait A While, mentre Runner’s High sposa sonorità rock più garagiste. Ma quello che rende la penna di Finn più simile ad uno scrittore che a un cantautore sono i due brani conclusivi, Almost Everything, una ballata melodica ricca di pathos, accompagnata da arpeggi chitarristici https://www.youtube.com/watch?v=BuQFL6f7D4U , e una grande canzone come Oaks (una sorta di Jungleland, quasi 40 anni dopo), oltre nove minuti di narrazione urbana, con un forte crescendo elettrico dilatato dalle chitarre. Meravigliosa (per ora la canzone dell’anno) https://www.youtube.com/watch?v=iZG3jTWlIOs .

Il bonus CD (disponibile solo per i nostri amici di Down Under) contiene altre tre tracce: Records & Tapes https://www.youtube.com/watch?v=bvUKzBIVk_c , Saddle Shoes https://www.youtube.com/watch?v=TEQvaffy2Rc  e Look Alive https://www.youtube.com/results?search_query=hold+steady+look+alive , un ulteriore vero e proprio arsenale rock. (*NDB Buona caccia, purtroppo costa parecchi soldini e non è facile da trovare, ma noi segnaliamo e indichiamo i link di Youtube per chi vuole sentirle)! Nient’altro da dire, se non che Teeth Dreams è un acquisto obbligato per chiunque voglia credere alla capacità di fare grande musica mantenendosi onesti, diretti e sinceri, raccontando la vita a chitarre spianate attraverso i sogni di uno “storyteller” nato non per caso a Brooklyn, dove si respira aria buona (da li viene anche un certo Matt Berning dei National).

Tino Montanari

Rock E Blues In “Bianco E Nero”! John The Conqueror – The Good Life

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John The Conqueror – The Good Life – Alive Natural Sound Records

Un poderoso terzetto (con tastiere aggiunte, all’occorrenza) di stanza a Philadelphia, sulla East Coast, ma originari della zona del Mississippi, Jackson, dove il blues trae le sue radici, i John The Conqueror, nome preso in prestito dal famoso principe/schiavo della tradizione popolare nero-americana, con questo The Good Life sono già al secondo album per la Alive Natural Sound Records, etichetta che vede nel suo roster di artisti anche nomi come Lee Bains III & The Glory Fire, Left Lane Cruiser, Buffalo Killers, Hollis Brown, Beachwood Sparks e la recente aggiunta Mount Carmel (già attivi presso altre etichette), oltre ai Black Keys che per la Alive pubblicano vinili ed EP, tutta gente buona, come vedete.

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Forse proprio ai primi Black Keys si può far risalire il sound di questi John The Conqueror, un rock-blues denso e scarno, che però aggiunge elementi soul e funky, vista la presenza di due artisti di colore nei ruoli chiave della band, chitarra solista e voce Pierre Moore, batteria Michael Gardner, che dovrebbe essere il cugino, mentre al basso l’unico bianco Ryan Lynn che si porta al seguito Steve Lynn alle tastiere, che però non fa parte ufficialmente del gruppo https://www.youtube.com/watch?v=mF0CUs4u1Fk . A tutti gli effetti una sorta di power trio rock-blues, anche se non di quelli che fanno dell’arte della jam e delle lunghe improvvisazioni chitarristiche il loro credo, optando per un suono chiaramente rock ma dove non si prevede la presenza di un guitar hero a tutti i costi, anche se Moore se la cava egregiamente alla sua Gibson, ma senza esagerare mai, preferendo i riff densi e cattivi dell’iniziale Get’Em dove la band costruisce un groove funky con rimandi a vecchi gruppi “neri” che facevano rock come i Chambers Brothers (senza la componente gospel), ma anche e molto ai citati Black Keys, con soli brevi e vagamente simili pure al miglior Kravitz (non è una eresia) o a Jimi quando concedeva qualcosa alle sue radici nere https://www.youtube.com/watch?v=EwVtJQ3-o1I , anche Mississippi Drinkin’ viene da quella scuola, chitarre riverberate e “primali”, intrecci vocali di stampo vagamente R&B su una base decisamente rock.

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Ritmi tribali e reiterati, come nelle derive leggermente psych di Waking Up To You, dove riff e grinta vanno di pari passo, soli brevissimi e ficcanti, pochissime concessioni al virtuosismo, forse una eccessiva ripetitività, anche se l’aggiunta delle tastiere conferisce a What Am I Gonna Do una sorta di patente soul-rock molto incisiva, dove la bella voce di Moore ha ragione di farsi apprezzare. Però i brani viaggiano quasi tutta in quella sorta di mid-tempo funky, dove il groove è più importante della melodia e le capacità compositive di Pierre Moore non sono eccelse, i brani si assomigliano un po’ tutti. Non è un caso se il brano che forse si nota di più è una cover di Let’s Burn Down The Cornfleld di Randy Newman, musicista notoriamente non dedito abitualmente al blues-rock di matrice sudista, ma che le note sa metterle in fila per benino, anche se l’esecuzione della band non è poi molto differente da quella delle altre canzoni https://www.youtube.com/watch?v=GK2Ye1ym6kM . Potrebbero essere  avvicinati pure ad una sorta di Roots, meno vari e “moderni”, più rockisti e meno hip-hop, ma abili in questa fusione di elementi rock con varie forme di musica nera, blues grezzo e ritmato in primis. John Doe, rallenta i ritmi e si avvale con buoni risultati dell’organo di Steve Lynn mentre Daddy’s Little Girl, dall’inizio soffuso, sembra tentare altre strade sonore ma poi ritorna in fretta al “solito” suono denso e cattivo, ma quantomeno Moore prova a diversificare lo stile compositivo e la solista si lascia andare per una volta tanto. Interessanti ma non fondamentali, li attendiamo a prove più decisive, se ci saranno!

Bruno Conti