Questa E’ La Vera Musica Latino-Americana! The Mavericks – En Espanol

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The Mavericks – En Espanol – Mono Mundo/Thirty Tigers CD

I Mavericks, che quest’anno festeggiano i trent’anni di carriera, si possono ormai considerare una delle band cardine del panorama musicale americano. Dopo aver raggiunto il successo negli anni novanta con dischi come What A Crying Shame, Music For All Occasions e Trampoline, il gruppo di Miami è stato sciolto dal leader Raul Malo che voleva perseguire una carriera come solista, una separazione che è durata ben quindici anni (a parte una reunion estemporanea nel 2003 con il peraltro incerto The Mavericks). Una volta riformatisi, i nostri sono riusciti disco dopo disco a tornare ai livelli di un tempo (specie con gli ultimi due lavori Brand New Day e Play The Hits https://discoclub.myblog.it/2019/11/25/una-gran-bella-collezione-di-successidegli-altri-the-mavericks-play-the-hits/ ), ed oggi sono giustamente considerati una di quelle band in grado di suonare qualsiasi cosa, che sia country, rock’n’roll, pop, swing, musica di stampo messicano o ballate romantiche alla Roy Orbison, grazie alla grande voce del leader ed alla bravura strumentale degli altri tre (Eddie Perez, chitarre, Jerry Dale McFadden, piano ed organo, Paul Deakin, batteria).

Dopo aver provato quasi tutti i generi musicali, quest’anno Malo ha voluto realizzare un progetto da sempre nei suoi pensieri, e cioè un intero disco di musica latina cantato in spagnolo, un proposito favorito anche dalle sue origini cubane. Il disco in questione si intitola appunto En Espanol, ed in dodici canzoni esplora splendidamente la musica latina in varie sfaccettature: ci sono brani chiaramente che risentono dell’influenza cubana, ma anche tanto Messico, un pizzico di contaminazione sudamericana e perfino come vedremo un pezzetto di Italia. Ma quello che più conta è che En Espanol (prodotto come sempre da Malo e Niko Bolas, storico collaboratore di Neil Young) è un album davvero godibile, suonato in maniera perfetta e cantato meravigliosamente da Raul, che con gli anni sembra migliorare disco dopo disco. In più, il suono è rinforzato come già negli ultimi lavori dai Fantastic Five, un combo che conta sulla splendida fisarmonica ed il bajo sexto di Michael Guerra, una sezione fiati di tre elementi ed il basso di Ed Friedland, più il contributo in tre brani del bravissimo pianista Alberto Salas ed in uno del mitico Flaco Jimenez e del suo inseparabile accordion (e non manca in diversi pezzi l’uso dell’orchestra, fortunatamente mai in maniera ridondante).

En Espanol è bilanciato tra cover (sette) e brani originali (cinque), e sono proprio questi ultimi la vera sorpresa, in quanto sembrano in tutto e per tutto canzoni appartenenti alla tradizione. I pezzi scritti da Malo (da solo o con altri) iniziano con la splendida Recuerdos, un brano dall’atmosfera latina anni sessanta, con grande musicalità da parte della band e dei fiati e la voce di Raul che è uno spettacolo a parte: il ritornello, poi, è irresistibile. Poder Vivir è un solare corrido messicano che sembra tradizionale al 100%, con Guerra che fa il bello e il cattivo tempo; Mujer è un godibile bolero che fa incontrare Messico e Cuba, e si contrappone alla melodiosa Pensando En Ti, uno slow dal sapore d’altri tempi cantato con grande intensità, ed alla vibrante Suspiro Azul, cadenzata e coinvolgente. E veniamo alle cover: il CD si apre con La Sitiera (scritta da Rafael Lopez Gonzalez e resa popolare da Omara Portuondo), introdotta da un evocativo chitarrone twang subito doppiato dall’orchestra, poi arriva la voce potente di Malo che prende subito il possesso del brano; non ci sono altri strumenti fino al terzo minuto, quando entra il resto della band insieme ad una tromba mariachi, conducendo la canzone al termine in maniera spettacolare.

No Vale La Pena (del grande cantante messicano Juan Gabriel) è una gioiosa fiesta piena di suoni e colori, con la fisa di Flaco a duettare baldanzosamente con Malo, mentre i Mavericks sembrano un gruppo proveniente da Guadalajara più che dagli Stati Uniti; Sombras Nada Mas, un pezzo reso noto da Javier Solis, è un lento strappalacrime con i nostri che bilanciano perfettamente antico e moderno (e Raul sembra davvero Orbison), mentre Me Olvidé De Vivir è addirittura appartenente al repertorio di Julio Iglesias (che figura anche tra gli autori), ed il brano mantiene lo stile latino-pop romantico del famoso cantante spagnolo anche se Malo e compagni fanno la differenza per quanto riguarda il suono. La nota Sabor A Mi è uno dei più celebri bolero della musica latina (l’hanno fatta un po’ tutti, dai Los Panchos a Luis Miguel), ed i nostri la eseguono con classe, eleganza e rispetto per la struttura originale. L’aggancio con l’Italia di cui parlavo prima è con Cuando Me Enamoro, adattamento della famosa Quando Mi Innamoro (che nel booklet viene attribuita ad Andrea Bocelli, che però è solo l’ultimo in ordine di tempo ad averla proposta, essendo originariamente un pezzo presentato a San Remo nel 1968 da Anna Identici): la canzone è quella in assoluto con l’arrangiamento meno “latino”, ma si mantiene ben ancorata nei sixties e risulta alla fine tra le più gradevoli.

Le cover (ed il CD) terminano con la pimpante Me Voy A Pinar Del Rio (della celebre cantante cubana Celia Cruz), una delizia a tempo di mambo, decisamente trascinante e perfetta per concludere in crescendo un album che mi sento di consigliare anche a chi non ne può più di musica finto-latina e danzereccia: i Mavericks sono un gruppo vero, ed En Espanol è un disco divertente ma concepito con grande serietà ed amore.

Marco Verdi

Mai Giudicare Un Disco Dalla Faccia Del Suo Autore! Jason James – Seems Like Tears Ago

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Jason James – Seems Like Tears Ago – Melodyville CD

A vedere la faccia pulita da bravo ragazzo della porta accanto raffigurata sulla copertina di questo CD, si potrebbe pensare più ad un diligente impiegato di banca che ad un musicista country. Quando poi ho letto che Jason James è un texano doc ho iniziato a cambiare opinione, e già dopo le prime note del brano di apertura Seems Like Tears Ago (title track dell’album) i miei dubbi sono stati completamente fugati, in quanto mi sono trovato di fronte ad una scintillante honky-tonk ballad d’altri tempi, con grande uso di steel, violino e coretti anni sessanta. Jason James è proprio questo, uno che fa del vero country come si faceva una volta e che oggi purtroppo non fa quasi più nessuno, un musicista cresciuto a pane e George Jones, Webb Pierce, Ray Price oltre naturalmente a Hank Williams.

Se lo stile è antico, il suono è però attuale, con sessionman capaci di dare al disco quella marcia in più che valorizza i dieci brani in esso contenuti (tutti peraltro originali), gente che suona con grande padronanza e disinvoltura come Cody Braun (dei Reckless Kelly) al violino, T Jarrod Bonta al piano, John Evans alla chitarra (e produzione) e l’ottimo Geoff Queen alla steel. Seems Like Tears Ago segue di ben cinque anni l’omonimo esordio di James, e si rivela un album gradevolissimo e da ascoltare tutto d’un fiato, un lavoro di country classico non rielaborato in chiave moderna, ma proposto esattamente come si faceva sessanta anni fa. Della title track ho già detto, I Miss You After All ha un tempo più veloce ed una melodia squisita, puro honky-tonk texano del tipo che uno come Dale Watson canta sotto la doccia, ancora con la steel protagonista; Move A Little Closer è più elettrica e roccata e sfiora il territorio di Waylon, un brano diretto e coinvolgente fin dall’attacco: Jason è bravo, anzi molto bravo, ed il suo è country purissimo ed immacolato, da vero texano.

La saltellante We’re Gonna Honky Tonk Tonight è semplicemente deliziosa e sembra trarre ispirazione direttamente dal grande Hank, la languida Achin’ Takin’ Place mostra il lato tenero del nostro ma sempre con la barra dritta, senza cadute di tono o sdolcinature, mentre Simply Divine, di nuovo introdotta dalla steel, resta sul versante melodico-sentimentale, un pezzo che piacerebbe molto a Raul Malo e Chris Isaak. La pianistica Coldest Day Of The Year ha una delle melodie migliori e rimanda ancora ai grandi classici come i già citati Jones, Price ed anche il Merle Haggard più romantico, e si contrappone con la vivace Cry On The Bayou, dal ritmo sostenuto ed un arrangiamento cajun che fa muovere il piedino; il CD, 32 minuti spesi benissimo, termina con Foolish Heart e Ole Used To Be, due honky-tonk songs dal sound classico al 100% che confermano Seems Like Tears Ago come uno dei più piacevoli album di vero country pubblicati ultimamente.

Marco Verdi

Una Gran Bella Collezione Di Successi…Degli Altri! The Mavericks – Play The Hits

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The Mavericks – Play The Hits – Mono Mundo/Thirty Tigers CD

Quando ho letto che tra le uscite di Novembre c’era un album dei Mavericks intitolato Play The Hits ho subito pensato ad un’antologia o, meglio, ad un disco dal vivo incentrato sui loro brani più popolari, cosa che sarebbe stata anche logica dato il periodo pre-natalizio. Dopo essermi informato meglio ho invece constatato che Play The Hits è un lavoro nuovo di zecca da parte della band di Miami, nel quale i nostri rileggono alla loro maniera una serie di canzoni che sono stati dei successi nelle mani di altri artisti. Un album di cover in poche parole, scelta anche logica in quanto Raul Malo e compagni (Eddie Perez, Jerry Dale McFadden e Paul Deakin) fin dai loro esordi nell’ormai lontano 1991, quando venivano etichettati come country, erano in grado di interpretare qualunque tipo di musica, dal rock’n’roll al country, dal tex-mex alla ballata anni sessanta, passando per pop e ritmi latini (ricordo che Malo nasce da genitori cubani). Da quando i Mavericks si sono riformati nel 2003 la loro carriera è stata un continuo crescendo, ed il loro ultimo album di materiale originale, Brand New Day, è stato uno dei dischi più belli del 2017; lo scorso anno ci siamo divertiti con il loro album natalizio Hey! Merry Christmas! https://discoclub.myblog.it/2018/12/12/ancora-sul-natale-la-festa-e-qui-the-mavericks-hey-merry-christmas/ , ed ora Play The Hits ci fa vedere la bravura dei nostri nel prendere canzoni di provenienza abbastanza eterogenea e di plasmarle al punto da farle sembrare opera loro.

Con l’aiuto ormai abituale dei Fantastic Five (una sorta di gruppo-ombra che collabora con i nostri da diverso tempo, e che vede l’ottimo Michael Guerra alla fisarmonica, Ed Friedland al basso ed una sezione fiati di tre elementi) il quartetto ci regala 42 minuti di estrema piacevolezza, con undici brani scelti tra successi più o meno famosi rifatti con grande creatività ma senza stravolgere le melodie originali, nel segno quindi del massimo rispetto. Malo è ormai uno dei migliori cantanti in circolazione, una voce melodiosa e potente al tempo stesso che lo ha imposto da tempo come vero erede di Roy Orbison (ci sarebbe anche Chris Isaak, che però non può raggiungere l’estensione vocale di Raul), mentre i suoi tre compari sono in grado di suonare qualsiasi cosa. Il CD, prodotto da Malo con Niko Bolas (vecchio collaboratore di Neil Young), inizia in maniera decisa con Swingin’ (del countryman John Anderson), brano cadenzato che perde l’arrangiamento originale per acquistarne uno nuovo che si divide tra rock, swamp ed errebi, un mood trascinante e caldo grazie all’uso dei fiati e Raul che canta da subito alla grande. I fiati colorano ancora di rhythm’n’blues la mitica Are You Sure Hank Done It This Way di Waylon Jennings, con i nostri che mantengono il passo del compianto artista texano in mezzo ad un suono forte ed impetuoso; Blame It On Your Heart è un pezzo di Patty Loveless che qua diventa uno splendido tex-mex tutto ritmo, colore e grinta, con Guerra che fa il suo dovere alla fisa ed i nostri che confezionano una performance irresistibile.

Don’t You Ever Get Tired (Of Hurting Me), di Ray Price, è un delizioso honky-tonk lento con buona dose di romanticismo e solita prestazione vocale da favola di Malo, e Guerra che garantisce anche qui un sapore di confine. I nostri omaggiano anche Freddy Fender con una toccante versione di Before The Next Teardrop Falls: bellissima melodia cantata un po’ in inglese un po’ in spagnolo ed ancora la grandissima voce del leader a dominare (davvero, non ci sono molti cantanti a questo livello in circolazione), mentre è sorprendente la rilettura di Hungry Heart di Bruce Springsteen, che si tramuta in un country-swing con fiati dal sapore anni sessanta, con tanto di chitarra twang, una trasformazione decisamente riuscita che però non snatura l’essenza della canzone; Why Can’t She Be You è una versione jazzata e raffinatissima di un pezzo di Hank Cochran portato al successo da Patsy Cline (che ovviamente aveva cambiato il titolo volgendolo al maschile), con Mickey Raphael ospite all’armonica: grande classe. Once Upon A Time è un noto standard rifatto anche da Frank Sinatra, qui arrangiato come un ballo della mattonella in puro stile sixties, con l’aggiunta della seconda voce di Martina McBride, mentre Don’t Be Cruel non ha bisogno di presentazioni: famosissimo brano di Elvis che viene riproposto con un gustoso e trascinante arrangiamento tra country e big band sound, una meraviglia. Finale con un’intensa versione del classico di Willie Nelson Blue Eyes Crying In The Rain, solo Raul voce e chitarra (ma che voce), e con I’m Leaving It Up To You, una hit del dimenticato duo Dale & Grace che è una ballatona dal muro del suono potente ed un’atmosfera ancora d’altri tempi.

Quindi un altro ottimo disco in questo ricco autunno musicale.

Marco Verdi

E’ Già Prolifico Di Suo, E Adesso Ristampa Pure I (Bei) Dischi Dal Vivo Di Qualche Anno Fa! Dale Watson – Live Deluxe…Plus

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Dale Watson – Live Deluxe…Plus – Red River/BFD 2CD

Dale Watson, countryman nativo dell’Alabama ma texano a tutti gli effetti, è sempre stato uno molto prolifico, ma negli ultimi anni ha spesso garantito una qualità superiore alla media: Call Me Insane, Under The Influence e Dale & Ray (in coppia con Ray Bensonhttps://discoclub.myblog.it/2017/03/29/la-quintessenza-del-country-texano-dale-watson-ray-benson-dale-ray/  sono tra i dischi migliori del musicista dai capelli color argento. Ora, a pochi mesi dalla sua ultima fatica in studio Call Me Lucky, Dale ha deciso di cavalcare il momento dando alle stampe questo Live Deluxe…Plus, un doppio CD inciso dal vivo con all’interno ben 46 canzoni, una sorta di antologia completa non solo del nostro ma della migliore musica texana da bar in circolazione, da parte di un artista che è rimasto tra i pochi a suonare country music dura e pura. Ma attenzione, se pensate di avere tra le mani un album nuovo di zecca devo deludervi, in quanto Live Deluxe…Plus non è altro che la ristampa di due precedenti uscite del nostro, Live In London…England! del 2002 e Live At Newland, NL del 2006 (che era a sua volta un doppio ma qui è stato accorciato per farlo stare su un dischetto solo, eliminando le canzoni in comune con il primo CD): due lavori ormai fuori catalogo, con l’aggiunta di due pezzi nuovi di zecca incisi in studio (il “plus” del titolo).

Se non possedete i due album originali questa nuova uscita è quindi da tenere nella dovuta considerazione, in quanto siamo di fronte ad un musicista che fa del vero country, ha ritmo e feeling oltre ad essere un consumato animale da palcoscenico, ed è accompagnato da una band coi fiocchi, i Lone Stars, un terzetto formato dalla sezione ritmica di Chris Crepps (basso) e Mike Bernal (batteria) più la splendida steel di Don Pawlak, un vero fuoriclasse dello strumento. Live Deluxe…Plus si ascolta tutto d’un fiato nonostante duri complessivamente più di due ore e mezza non essendoci differenze di stile tra primo e secondo CD, entrambi all’insegna di un rockin’ country elettrico e dal ritmo contagioso, con frequenti omaggi al classico suono texano: il tutto si gusta al meglio se accompagnato da una bella birra ghiacciata. La specialità della casa sono chiaramente i brani in stile honky-tonk, come Real Country Song, in cui Dale sembra George Jones redivivo, la guizzante Ain’t That Livin’, la limpida e solare Turn Off The Jukebox, la squisita Honky Tonkers o la romantica You Pour Salt In The Wound (i brani che non cito non è che siano brutti, ma non posso nominarli tutti e 46). Poi abbiamo molte escursioni in territori vicini al rock’n’roll, con canzoni country elettriche e vitali del calibro di Can’t Be Satisfied, robusta outlaw song alla Waylon, la scintillante Another Day, Another Dollar, le ritmatissime Nashville Rash e Lee’s Liquor Lounge, entrambe molto Johnny Cash (grandissima qui la steel), la spiritosa Country My Ass che invece ricorda Willie Nelson, la swingatissima Making Up Time, ritmo e feeling a piene mani, la coinvolgente Luther con il suo chitarrone twang o la bellissima Whiskey Or God, che Dale dice essere ispirata proprio dall’Uomo In Nero (così come Yellow Mama, che in Alabama è come chiamano la sedia elettrica: puro boom-chicka-boom).

Senza dimenticare l’autentico western swing di South Of Round Rock Texas. Le ballate sono più rare nel repertorio del nostro, ma il suo vocione baritonale si presta anche ai pezzi più lenti, come la languida Heart Of Stone, You Are My Friend, tipica cowboy song texana, la malinconica I’m Wondering, scritta con Raul Malo (e si sente), I See Your Face, tenue, nostalgica e decisamente anni sessanta, e Tequila And Teardrops, dal profumo di confine. Infine Dale ci regala anche qualche cover, mostrando innanzitutto il suo amore per Merle Haggard (le brillanti Mama’s Hungry Eyes e I Take A Lot Of Pride In What I Am) e poi omaggiando Jimmie Rodgers con una trascinante In The Jailhouse Now, Ray Price con la raffinata Bright Lights And Blonde-Haired Women, ancora Cash con una travolgente I Got Stripes e Billy Joe Shaver con la cadenzata Way Down Texas Way (canzone scritta da Billy per gli Asleep At The Wheel). Dulcis in fundo, i due brani nuovi, posti in fondo al primo CD: You’ll Cry Too è un lentaccio romantico nel classico stile di Elvis, con tanto di coro maschile in sottofondo a cura dei Blackwood Brothers, mentre The Party’s Over è ancora una ballata dal sapore sixties ma con in più un gradito tocco mexican.

So che è difficile stare dietro a tutte le uscite targate Dale Watson, ma questa, se non possedete i due live originali, fa parte di quelle da accaparrarsi.

Marco Verdi

Un Countryman Di Talento Con Nobili Discendenze! Charley Crockett – The Valley

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Charley Crockett – The Valley – Son Of Davy/Thirty Tigers CD

Charley Crockett (che, ci crediate o no, è un discendente del leggendario Davy Crockett) è un musicista di stampo country-folk-Americana che, nonostante abbia esordito solo nel 2015, ha un passato piuttosto impegnativo. Nato e cresciuto in Texas, Charley ha vissuto a lungo anche a New Orleans e New York e perfino in Francia e Marocco, dove ha occasionalmente intrapreso la carriera di busker esibendosi per le strade. Ha avuto anche problemi con la giustizia, essendo stato arrestato una volta per possesso di cannabis ed una seconda addirittura con l’accusa di frode assicurativa (ma poi è stato giudicato in buona fede, mentre invece il fratello si è beccato sette anni); a metà della corrente decade Crockett ha finalmente deciso di venire a patti con la sua vita e ha iniziato a pubblicare dischi, tre a suo nome e due come Lil G.L. (una sorta di alter ego, come Luke The Drifter lo era per Hank Williams, due album di cover di brani perlopiù blues).

A Gennaio di quest’anno, tanto per non farsi mancare niente, Charley ha sostenuto un intervento chirurgico a cuore aperto (con esiti fortunatamente positivi), ma solo pochi giorni prima aveva fatto in tempo ad ultimare le registrazioni di The Valley, il suo nuovo lavoro in uscita in questi giorni, un album di vero country d’autore, con testi spesso autobiografici e musiche che si ispirano ai grandi del genere. Crockett è bravo, ha talento e sa metterlo al servizio della sua musica: The Valley è egregiamente bilanciato tra antico e moderno, è ben suonato (ho in mano un CD promo senza i nomi dei musicisti) ed è completato da una serie di cover rivelatrici del fatto che il nostro ha le influenze giuste. Puro country quindi, godibile e diretto, che non strizza l’occhio al sound nashvilliano ma rimane autentico dalla prima all’ultima canzone. Borrowed Time apre il CD, ed è una limpida country song che sembra presa pari pari da un vecchio padellone degli anni cinquanta, melodia diretta e strumentazione vintage, un avvio intrigante. Con la title track non ci spostiamo molto in avanti, per un languido brano che ha il sapore degli esordi di Merle Haggard, con una bella steel ed un chitarrone twang; la frenetica 5 More Miles è più moderna ed elettrica pur restando in ambito country.

Big Gold Mine è invece un gustoso western swing di quelli che si suonavano una volta nelle feste texane di paese, mentre 10.000 Acres è un godibilissimo honky-tonk che più classico non si può. Decisamente riuscita anche The Way I’m Livin’, puro country con sentori di Bakersfield Sound, brano che precede If Not The Fool, un lentaccio anni sessanta di quelli che piacciono tanto a Raul Malo. Maybelle è di nuovo swingata e dal sapore antico, River Of Sorrow ha la struttura di un country-gospel alla Will The Circle Be Unbroken ed un pregevole intervento di sax, mentre Change Yo’ Mind è ancora honky-tonk al 100%. Abbiamo detto delle cover: 7 Come 11 è l’unica contemporanea (una canzone del countryman Vincent Neil Emerson) ma fatica ad emergere, la bella Excuse Me di Buck Owens è decisamente rispettosa dell’originale, It’s Nothing To Me (Leon Payne) diventa una ballatona country & western, la celeberrima 9 Pound Hammer (portata al successo da Merle Travis) per sola voce e banjo ha il sapore di una autentica folk song dell’anteguerra, e Motel Time Again, di Bobby Bare, è rifatta in maniera molto aderente alla versione di Johnny Paycheck. 

C’è ancora spazio in America per chi fa del vero country, e The Valley lo dimostra in maniera chiara e netta.

Marco Verdi

Ancora Sul Natale: La Festa E’ Qui! The Mavericks – Hey! Merry Christmas!

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The Mavericks – Hey! Merry Christmas! – Mono Mundo/Thirty Tigers CD

Ho sempre trovato strano che un gruppo “festaiolo” come i Mavericks non avesse mai pubblicato un album a carattere natalizio (solo un singolo in occasione del Record Store Day del Novembre dello scorso anno), una mancanza alla quale la band capitanata da Raul Malo ha deciso di riparare oggi con questo nuovissimo Hey! Merry Christmas!, che si pone da subito come una delle uscite a tema stagionale più interessanti di questo 2018. Tanto per cominciare Malo e compagni (Eddie Perez alle chitarre, Jerry Dale McFadden alle tastiere e Paul Deakin alla batteria e percussioni) non hanno fatto come il 90% degli artisti, anche i più blasonati, che scrivono uno o due pezzi nuovi e poi si affidano quasi totalmente a classici brani della tradizione natalizia, ma hanno deciso di mettere a punto un vero e proprio disco nuovo, con ben otto pezzi su dieci composti ex novo e solo due cover. Una scelta del tutto insolita, non esclusiva (per esempio anche Rodney Crowell ha appena pubblicato un Christmas record di soli brani originali https://discoclub.myblog.it/2018/11/11/per-un-natale-texano-diverso-rodney-crowell-christmas-everywhere/ ), ma che rende il risultato finale decisamente personale e tipico dello stile dei nostri, che stanno vivendo un momento di ottima forma dato che Brand New Day, il loro lavoro del 2017, è senza dubbio il disco migliore che hanno prodotto in questi anni duemila https://discoclub.myblog.it/2017/04/20/sono-tornati-ai-livelli-di-un-tempo-mavericks-brand-new-day/ .

Hey! Merry Christmas! è quindi un album vario, divertente, pieno di suoni, ritmo e idee, suonato alla grande e cantato al solito in maniera strepitosa da Malo, una delle grandi voci del nostro tempo; la produzione è nelle mani di Raul stesso e di Niko Bolas, collaboratore storico di Neil Young e già da anni a fianco dei Mavericks, e la parte strumentale è potenziata da un altro gruppo chiamato The Fantastic Five, che comprende la bellissima fisarmonica di Michael Guerra, Ed Friedland al basso ed una sezione fiati di tre elementi (Julio Diaz e Lorenzo Ruiz alle trombe e Max Abrams al sax), con in più la ciliegina dei cori femminili a cura delle McCrary Sisters, che donano un tocco gospel al solito mix vincente di rock, pop, country, ballate e Messico. Il CD inizia proprio con la canzone del singolo del 2017, Christmas Time Is (Coming ‘Round Again), un brano gioioso e ricco di swing, dal ritmo sostenuto e con un arrangiamento che rispetta la tradizione dei classici pop natalizi ed un aggancio alle produzioni di Phil Spector. Ancora un Wall Of Sound decisamente allegro con la squisita Santa Does, introdotta da un sax sbarazzino, un pezzo dall’aria molto sixties ed un ritornello da canticchiare al primo ascolto; la cadenzata I Have Wanted You (For Christmas) ha un’atmosfera nostalgica ed un suono che è una via di mezzo tra pop e country (e con un tocco mexican), mentre Christmas For Me (Is You) è una ballatona d’altri tempi, lenta e jazzata, con una notevole prestazione vocale di Malo ed un accompagnamento di gran classe.

Santa Wants To Take You For A Ride ha una ritmica sinuosa ed un mood che ha più di un debito con Elvis, una sorta di rockabilly con fiati davvero piacevole; It’s Christmas Without You ha ancora un mood decisamente vintage, sembra uscita da un disco natalizio di fine anni cinquanta, ed è tra le più gradevoli (e poi Raul canta meravigliosamente). Ho parlato poco fa di Phil Spector, ed ecco proprio Christmas (Baby Please Come Home), uno dei brani più popolari del famoso album natalizio del grande produttore newyorkese (la cantava Darlene Love): Malo e soci rispettano l’arrangiamento originale e tirano fuori una performance di grande forza, le sorelle McCrary forniscono adeguato supporto vocale e la canzone ne esce alla grande. Hey! Merry Christmas! è puro rock’n’roll, sempre con un occhio al passato, ed i nostri dimostrano di divertirsi un mondo, One More Christmas è nuovamente pop di classe, con suoni dosati alla perfezione ed atmosfera che resta inchiodata ai suoni di più di cinquanta anni fa. Chiusura con una rilettura al solito raffinatissima di Happy Holiday, canzone scritta da Irving Berlin e portata al successo da Bing Crosby nel lontano 1942. Mavericks e il Natale sono fatti gli uni per l’altro, e questo dischetto lo dimostra in maniera inequivocabile.

Marco Verdi

Carina, Brava E Con Le Amicizie Giuste! Whitney Rose – Rule 62

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Whitney Rose  – Rule 62 – Six Shooter/Thirty Tigers CD

Sono passati sono pochi mesi dall’ottimo EP South Texas Suite http://discoclub.myblog.it/2017/03/02/texana-no-canadese-whitney-rose-south-texas-suite/ , ma la giovane Whitney Rose (artista canadese di nascita ma americana d’adozione) è già tornata tra noi, questa volta con un full length intitolato Rule 62. La carriera della brava (e bella) artista è legata a doppio filo con la figura di Raul Malo, che ha prodotto l’EP del 2017 ed anche il precedente album di Whitney (e secondo in assoluto) Heartbreaker Of The Year, e la scintilla è scattata quando la Rose ha aperto nel 2013 i concerti dei Mavericks: Malo si è innamorato, professionalmente si intende, della country singer canadese e l’ha guidata passo dopo passo, fino a questo nuovo album che già dal primo ascolto si candida come il migliore dei tre pubblicati dalla ragazza (ed alla produzione oltre a Raul c’è anche un’altra nostra vecchia conoscenza: Niko Bolas, vecchio braccio destro di Neil Young).

Il matrimonio musicale tra la Rose e Malo funziona alla grande, in quanto lo stile di Whitney si ispira direttamente al country più classico, quello di Patsy Cline e Hank Williams (anche se la grinta da rocker alla giovane non manca di certo), e le atmosfere un po’ retro predilette da Raul si sposano alla perfezione con certe sonorità. Se aggiungiamo che la Rose ha anche buone capacità di scrittura e che al disco partecipa una bella serie di musicisti di valore (tra cui il batterista dei Mavericks, Paul Deakin, il bassista Jay Weaver, anch’egli ultimamente con la band di Raul, il fiddler Aaron Till, già con gli Asleep At The Wheel, il chitarrista Kenny Vaughn e l’ottima pianista Jen Gunderman), non è difficile capire perché questo Rule 62 è un lavoro da tenere in considerazione. L’avvio è splendido: I Don’t Want Half (I Just Want Out) è country puro e cristallino, un honky-tonk del genere che Malo e soci facevano ad inizio carriera, cantata da Whitney con la voce giusta e dal suono scintillante. La mossa Arizona ha il ritmo tipico di certe cose del Sir Douglas Quintet (e quindi profuma di Texas), e l’uso del sax dona ancora più colore al sound, Better To My Baby è molto anni sessanta, con un tipo di arrangiamento in cui Malo è un maestro (c’è anche un bel chitarrone twang), ma Whitney non vive di luce riflessa, è brava e ha le idee chiare.

E poi le canzoni se le scrive da sola. La languida You Never Cross My Mind dimostra che la Rose non è solo grinta, ma ha un lato dolce che non è da meno (e qui Raul presta anche la sua voce, in sottofondo ma riconoscibilissima), You Don’t Scare Me ha di nuovo un sapore d’altri tempi, un tipo di suono nel quale anche Chris Isaak ci sguazza, ed il ritornello è decisamente accattivante, mentre la fiatistica Can’t Stop Shakin’ cambia registro, in quanto è un autentico e classico errebi suonato con il giusto piglio (e c’è anche un bell’assolo chitarristico), anche se forse qui ci voleva una voce più potente. Una fisarmonica fa capolino nella bella Tied To The Wheel (cover di un brano di Bill Kirchen), una country ballad tersa e luminosa, anch’essa suonata in maniera perfetta, la spedita Trucker’s Funeral ha un mood anni settanta, un misto di Dolly Parton e Jessi Colter, anch’essa di ottimo livello; Wake Me In Wyoming è ancora honky-tonk deluxe che più classico non si può, You’re A Mess ha il sapore delle produzioni dell’età d’oro della nostra musica (anche qui lo zampino di Malo si sente), mentre Time To Cry è puro country’n’roll, diretto e trascinante, e chiude in maniera energica un dischetto davvero piacevole, riuscito e da non sottovalutare.

Marco Verdi

Sono Tornati Ai Livelli Di Un Tempo! Mavericks – Brand New Day

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Mavericks – Brand New Day – Mono Mundo/Thirty Tigers CD

I Mavericks si possono tranquillamente definire un gruppo dalle due carriere. Da sempre guidati dal carismatico Raul Malo, grande cantante di origine cubana, hanno conosciuto il loro momento di maggior splendore negli anni novanta, decade nella quale, con cinque album nei quali palesavano una crescita progressiva, erano giustamente considerati una delle band migliori in America, grazie ad un cocktail unico di rock, pop, country, tex-mex e musica latina, unito ad una grande facilità di scrivere brani immediati e ad un gran senso del ritmo. Dischi come Music For All Occasions e Trampoline erano quanto di meglio si poteva ascoltare in quel momento in tema di musica crossover. Poi il gruppo è entrato in modalità stand-by, Malo ha pubblicato nel 2001 un ottimo album da solista (Today) e, all’indomani di quello che è certamente il loro disco più stanco ed involuto (The Mavericks, 2003) i nostri hanno ufficializzato una separazione che era già nell’aria da tempo. Dopo una serie di lavori del solo Malo di qualità altalenante, e nei quali tentava di intraprendere diverse strade non sempre con lo stesso successo (anche quella del crooner nel poco riuscito Afterhours), i nostri hanno saggiamente deciso di riunirsi all’inizio della decade attuale, ricominciando da zero: In Time, 2013, e Mono, 2015, erano due buoni lavori in cui Malo e soci riprendevano in mano il vecchio suono, ma sembravano due lavori professionalmente validi ai quali però mancava la scintilla dei bei tempi.

Ora però i ragazzi hanno dato alle stampe Brand New Day, un disco potente, ispirato, convincente, in una parola splendido, che ci fa ritrovare all’improvviso i Mavericks degli anni novanta: l’album è infatti una miscela di stili che vanno dal country al pop anni sessanta, al sound Messicano fino ai ritmi cubani, dieci brani scintillanti e con un suono davvero spettacolare (merito della produzione, nelle mani dello stesso Malo e di Niko Bolas, il produttore preferito da Neil Young, ma che ha anche collaborato con Warren Zevon e Melissa Etheridge). Oltre a Malo, fanno parte della band il chitarrista Eddie Perez, il batterista Paul Deakin ed il tastierista Jerry Dale McFadden (il loro bassista storico Robert Reynolds è stato allontanato per problemi legati alla droga), mentre nel disco ci sono anche diversi collaboratori, tra cui meritano una segnalazione Ed Friedland, che di fatto ha preso il posto di Reynolds al basso pur non entrando a far parte del gruppo, lo straordinario fisarmonicista Michael Guerra, il cui strumento dona un sapore messicano a quasi tutti i pezzi, ed i cori delle famose McCrary Sisters. Ma al centro di tutto ci sono Malo, la sua grande voce, i suoi compagni di viaggio e la loro voglia di tornare ad essere quelli di un tempo: Brand New Day è dunque un grande disco, la cui unica cosa davvero brutta è forse la copertina. Si inizia subito a godere con Rolling Along, un brano mosso che profuma di Messico, con al centro la fisa e le trombe mariachi e la grande voce di Malo che si staglia potente, una melodia sixties ed un banjo a dare un sapore country: gran ritmo e suono splendido (una costante di tutto il disco).

La title track è caratterizzata da un possente wall of sound di spectoriana memoria ed il solito feeling anni sessanta (altro filo conduttore di quasi tutte le canzoni), un pezzo maestoso e davvero magnifico; la vivace Easy As It Seems mescola alla grande rock, ritmi cubani ed atmosfere retro, ricordando non poco i Los Lobos di Kiko (quindi i migliori), altro pezzo irresistibile, mentre I Think Of You, dominata come al solito dalla vocalità potente di Raul, è un raffinato pezzo dal mood leggermente jazzato e con la solita melodia romanticona, suonato in punta di dita ma con la solita grande classe. Goodnight Waltz è una ninna nanna tra Messico e jazz, con la fisa da una parte ed il sax dall’altra che si contendono la scena, e Malo che intona un motivo da ballo della mattonella, Damned (If You Do) è il brano più rock finora, anche se i contatti col Messico non mancano, il solito cocktail irresistibile e pieno di ritmo e forza in cui i nostri sono maestri, I Will Be Yours è uno scintillante slow alla Roy Orbison (e pure con la voce ci siamo), con in più il solito Mexican touch garantito dalla splendida fisa di Guerra, per un altro risultato da applausi. La spedita Ride With Me è uno stimolante mix tra rock’n’roll e big band music, con un tocco di blues, I Wish You Well ci riporta dalle parti di Orbison, un lento delizioso con la consueta gran voce di Malo a nobilitare il tutto, mentre For The Ages, che chiude il CD, è una roboante country song dal solito suono ricco e potente, un gustoso rimando al suono degli esordi, quando i nostri erano considerati principalmente una country band.

Non solo Brand New Day è il miglior disco dei Mavericks dalla loro reunion (e si mette sullo stesso piano dei loro lavori più riusciti), ma è anche uno dei più belli di questi primi quattro mesi del 2017: da non perdere.

Marco Verdi

Texana? No, Canadese! Whitney Rose – South Texas Suite

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Whitney Rose – South Texas Suite – Six Shooter/Thirty Tigers EP/CD

Whitney Rose, oltre ad essere una bella ragazza, è anche una cantante country molto brava, dotata di un’ottima voce, limpida e cristallina, e che si ispira direttamente ai maestri del genere, come Hank Williams, Webb Pierce e, essendo donna, anche Patsy Cline e Dolly Parton: la cosa particolare che la caratterizza è il fatto che non è americana, bensì canadese, ma dallo stile e dal tipo di musica che propone si direbbe quasi texana. Ha esordito in sordina nel 2014 con l’album omonimo, poi è stata notata da Raul Malo (in quanto Whitney aveva aperto per un breve periodo i concerti dei Mavericks), il quale ha voluto a tutti i costi produrle il secondo lavoro (uscito l’anno dopo), Heartbreaker Of The Year, un disco di ottimo country tradizionale suonato e cantato con feeling e bravura, che si distingueva per una serie di belle canzoni originali e due riuscite cover di There’s A Tear In My Beer di Hank Williams e di Be My Baby delle Ronettes, quest’ultima in duetto proprio con Malo. Ebbene, la bella Whitney ha evidentemente deciso di cogliere l’attimo, dato che ha appena dato alle stampe South Texas Suite, che non è un nuovo album ma un EP di sei canzoni (della durata di appena 22 minuti), inciso ad Austin negli studi di proprietà di Dale Watson, e prodotto da lei stessa. E South Texas Suite si rivela essere un gran bel dischetto, con la Rose che si conferma un talento vero, capace di scrivere canzoni semplici ma non banali, che richiamano volentieri i brani del passato pur conservando una personalità propria: in questi sei pezzi Whitney omaggia il Texas, e lo fa in un modo talmente credibile da rendere difficile credere che venga dal Canada.

Nel disco i musicisti coinvolti non sono celeberrimi, a parte forse Redd Volkaert alla chitarra elettrica e Earl Poole Ball al piano, ma si sente che è tutta gente con le contropalle, e l’unico difetto di questo mini-album è proprio la sua esigua durata (anche se ultimamente sembra che l’EP sia tornato ad essere un supporto di moda).Three Minute Love Affair è una magnifica tex-mex ballad, dalla melodia strepitosa e guidata magistralmente da una bella fisarmonica (suonata da Michael Guerra), vero strumento protagonista del brano: un’atmosfera leggermente sixties fa il resto, grande inizio. Analog lascia il Messico ma si proietta ancora più lontano nel tempo, per una pura country song anni cinquanta, dal mood delicato e jazzato, raffinata e suadente come certe cose di Willie Nelson; My Boots, dopo un’introduzione lenta, si rivela essere un gustoso outlaw country, ritmato ed elettrico, sulla falsariga dello stile di Waylon Jennings (o, visto che siamo in territori femminili, di Jessi Colter): tre brani, tre stili diversi, ma tutti trattati nel miglior modo possibile.

La languida (e squisita) Bluebonnets For My Baby è un lentaccio ancora anni sessanta, tipo quando nelle balere veniva l’ora dei balli lenti (non c’ero, ma me l’immagino), il tutto trasportato in un honky-tonk bar di Austin; a proposito di honky-tonk, ecco Lookin’ Back On Luckenbach, country classico e purissimo, semplice ma di grande effetto, con la sua melodia gradevolissima e la lezione delle grandi (Loretta Lynn, Tammy Wynette) ben presente. Il dischetto si chiude con How ‘Bout A Hand For The Band, che già dal titolo fa intuire che Whitney fa un passo indietro a favore del suo gruppo, che si prende il centro del palco e a suon di assoli strappa applausi, alternando chitarra, oltre a Volkaert anche Bryce Clarke, piano, violino (Erik Hokkanen) e steel (James Shelton): peccato che sia troppo breve, sia il brano che tutto il CD, magari con due mesi in più di attesa e con quattro canzoni aggiuntive avremmo avuto, in luogo di un ottimo EP, un eccellente album.

Marco Verdi

Passano Gli Anni, E Dopo Le Regine Questa Volta Tocca Ai “Re”, Ed E’ Sempre Grande Musica! Blackie And The Rodeo Kings – Kings And Kings

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Blackie And The Rodeo Kings – Kings And Kings – File Under Music Label

Passano gli anni, e la scena musicale canadese conferma la sua vitalità con gruppi ormai storici come I Blue Rodeo o i Cowboy Junkies, mentre Great Big Sea e Crash Test Dummies tacciono, i City And Colour non li conosce quasi nessuno, gli Arcade Fire hanno preso una piega che non ci piace, i New Pornographers sono abbastanza discontinui, come pure i Tragically Hip, peraltro molto popolari in patria, tra i più recenti ricordiamo i No Sinner; non mancano i componenti della famiglia Wainwright, e si potrebbe andare avanti per ore. Per esempio citando anche Lee Harvey Osmond che è la “band” sotto cui si nasconde Tom Wilson, uno dei tre componenti dei Blackie And The Rodeo Kings, gruppo nato per rendere omaggio alle canzoni di Willie P. Bennett, e che negli anni ha prodotto una serie di album spesso di assoluta eccellenza. Insieme a Wilson, ci sono Stephen Fearing (anche cantautore in proprio, con un album recentissimo, Every Soul’s A Sailor, appena uscito e autore pure di pregevoli dischi in coppia con Andy White) e Colin Linden, anche lui con una carriera solista interessante, forse più orientata verso il blues, oltre ad essere uno dei produttori più bravi e ricercati in circolazione (Lindi Ortega, il grande amico Cockburn, Colin James), direttore musicale della serie televisiva Nashville (dove vive).

I tre amici, sei anni fa, nel 2011 ebbero una idea “geniale”: un disco di duetti con una serie di voci femminili (cosa mai avvenuta prima, l’ironia è voluta), dove molte volte però è l’esecuzione e la scelta dei partecipanti che delineano il risultato, in questo caso, manco a dirlo, eccellente http://discoclub.myblog.it/2011/07/20/blackie-and-the-rodeo-kings-re-e-regine/, infatti in quel disco apparivano cantanti come Lucinda Williams, Amy Helm delle Olabelle, Cassandra Wilson, Patti Scialfa, Julie Miller (col marito Buddy al seguito, presente anche in questo nuovo capitolo), Janiva Magness, Emmylou Harris, Mary Margaret O’Hara, Holly Cole e svariate altre, di cui potete leggere al link qui sopra. Per la serie, forse i nomi non saranno tutto, ma sono comunque molto importanti, vi ricordo anche i nomi dei musicisti impiegati in questo nuovo Kings And Kings (si tratta forse di una serie di duetti con voci maschili e gruppi? Indovinato!) oltre ai tre leaders del gruppo, Gary Craig, alla batteria, Johnny Dymond al basso, John Whynot piano e organo, Kenneth Pearson anche lui tastiere (che sarebbe il Ken Pearson che suonava in Pearl di Janis Joplin), Bryan Owings, anche lui alla batteria e infine Kevin McKendree, che pure lui si alterna alle tastiere, con Colin Linden che suona tutto il resto che serve.

Il disco al sottoscritto piace parecchio, fin dalla iniziale Live By The Song una rara canzone firmata da tutti e tre insieme, che è una sorta di autobiografia in musica del loro gruppo, con l’ospite Rodney Crowell del tutto a suo agio nel roots-country’n’roll di questo bellissimo brano che rievoca le atmosfere care alla Band, con chitarre e tastiere spiegate in uno sfolgorio di pura Americana music di grande fascino, splendida apertura; Bury My Heart, scritta da Linden e che vede la presenza del countryman dall’anima rock Eric Church è un’altra notevole ballata mid-tempo, dalla melodia avvolgente e con quel suono caldo e raffinato che è caratteristica tipica dei Blackie And The Rodeo Kings, sempre con la chitarra di Linden pronta a scattare verso la meta. Beautiful Scars, scritta da Tom Wilson (o se preferite Lee Harvey Osmond), vede la presenza di Dallas Green (anche in questo caso si dovrebbe parlare di City & Colour, la magnifica band di Green, con una copiosa discografia da investigare), un’altra canzone dalla costruzione complessa ed affascinante, cantata con grande pathos e passione, perché questa signori è musica rock di qualità superiore, e per High Wire Colin Fearing si inventa un pezzo degno del songbook di Roy Orbison, per sfruttare al meglio la splendida voce di Raul Malo dei Mavericks.

Fino ad ora una canzone più bella dell’altra, nessun segno di stanchezza o ripetizioni, altro cambio di genere per il country-rock-blues della mossa Playing My Heart che vede la presenza di Buddy Miller, che coniuga con il resto della band un mood quasi sudista, dove le chitarre si prendono i loro spazi. E il più avventuroso Wilson chiama alla collaborazione anche i Fantastic Negrito di tale Xavier Dphrepaulezz  (che lo ammetto, non conoscevo, ma investigherò) per un soul-funky blues futuribile di fascino indefinito e sostanza come Biiter And Low; e per Secret Of A Long Lasting Love, scritta da Fearing con Andy White, i tre chiamano a collaborare uno dei maestri del “pure pop & rock” britannico come Nick Lowe, altro limpido esempio del grande talento che è stato schierato per questo eclettico album, una composizione folk-rock dall’animo gentile, cantata in solitaria da Lowe,  impreziosita da melodie che si assimilano subito nella loro raffinata semplicità (non è un ossimoro)! E poi arriva uno dei miei preferiti di sempre, uno dei più grandi cantautori mai prodotti dal Canada, Bruce Cockburn, uno che negli anni ’70 ha realizzato una serie di dischi di straordinaria qualità (rivaleggiando con l’altro Bruce), ma poi ha continuato a fare musica sempre di elevata qualità, spesso prodotta dal suo amico Colin Linden, che probabilmente ha scritto A Woman Gets More Beautiful con in mente proprio Cockburn, una ballata delicata e sognante, cantata in inglese e francese, che è uno dei momenti migliori in un album splendido, dove i “Re” della musica spesso si superano, con Bruce e Colin impegnati in un delizioso interplay vocale e chitarristico.

Land Of The Living (Hamilton Ontario 2016) è un’altra magnifica ballata a due voci che vede alla guida del brano l’accoppiata Tom Wilson/Jason Isbell, con l’ex Drive-by Truckers che si conferma una volta di più come uno dei migliori nuovi musicisti in ambito roots music. Non posso che ribadire, veramente una canzone più bella dell’altra, e anche Long Walk To Freedom, dove l’ospite è il cantante e chitarrista Keb’ Mo’, si colloca nell’ambito ballate, stile dove Blackie And The Rodeo Kings veramente eccellono, questa volta tocca a Fearing affiancare la voce maschia di Kevin Moore, ottimo anche alla slide, in questo brano che ha anche accenti blues e gospel, con uno squisito lavoro dell’organo che adorna da par suo il tessuto del brano. Un disco dei BARK non si può definire tale se non c’è almeno una cover dall’opera dello scomparso Willie P. Bennett: per l’occasione viene ripescata This Lonesome Feeling, una sorta di lamento di un cowboy, che vede il supporto vocale e strumentale di una delle leggende del lato giusto di Nashville, ovvero Vince Gill, un brano folky quasi “tormentato” e minimale, lontano mille miglia dal country più bieco della Music City. Che viene ulteriormente rivisitata anche nella conclusiva e mossa Where The River Rolls, scritta da Colin Linden, che per interpretarla ha chiamato i cosiddetti The Men Of Nashville, che poi sarebbero alcuni degli interpreti della serie televisiva Nashville della ABC, citata all’inizio e curata proprio da Linden, che nel brano ci regala un piccolo saggio della sua perizia alla chitarra, anche se il brano, una country song piacevole con piccoli tocchi gospel, non raggiunge forse i livelli qualitativi del resto del disco, veramente di grande spessore, uno dei migliori usciti in questo scorcio di inizio 2017!

Bruno Conti