Dopo 50 Anni E’ Ancora Un Disco Attualissimo! The Kinks – Lola Versus Powerman And The Moneygoround, Part One

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The Kinks – Lola Versus Powerman And The Moneygoround, Part One – ABKCO/BMG CD – Deluxe 2CD – Super Deluxe 3CD/2x45rpm Box Set

Continuano le riedizioni potenziate per i cinquantesimi anniversari degli album dei Kinks, una serie cominciata stranamente da The Village Green Preservation Society e continuata lo scorso anno con Arthur https://discoclub.myblog.it/2019/11/16/cofanetti-autunno-inverno-7-unaltra-bella-ristampa-per-un-piccolo-classico-the-kinks-arthur-or-the-decline-and-fall-of-the-british-empire-50th-anniversary/ : ora è la volta di uno dei lavori più famosi del gruppo dei fratelli Ray e Dave Davies, ovvero Lola Versus Powerman And The Moneygoround, Part One, meglio conosciuto come Lola Versus Powerman o più semplicemente Lola, presentato in diverse versioni delle quali la più lussuosa è l’immancabile cofanetto con tre CD, il solito bel libro ed un paio di 45 giri con le copertine rispettivamente delle edizioni italiana e portoghese di Lola e Apeman (e per la gioia degli acquirenti, per il terzo anno su tre il formato del box è diverso, una cosa che finora era prerogativa dei R.E.M.).

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Lola è come dicevo poc’anzi un album molto popolare presso i fans del gruppo britannico, in gran parte grazie all’omonimo singolo che narra la storia, scandalosa per l’epoca, di un ragazzo che conosce un travestito in un club di Soho (ma il brano venne censurato non per le tematiche scabrose ma bensì per un riferimento alla Coca-Cola, al punto che Davies nella “single version” da passare nelle radio dovette ricantare la parte iniziale sostituendo “Cherry Cola”), canzone che ha dalla sua una melodia tra le più dirette di Ray ed un ritornello che è ormai entrato nell’immaginario collettivo  . L’album è il solito concept che in questo caso se la prende, adottando la consueta feroce ironia, con il music business, le case discografiche e tutto ciò che vi ruota intorno come manager, produttori e giornalisti, mentre la musica è un melting pot di generi che vanno dal rock al country alla ballata fino alla musica anni trenta, ed oltre alla title track ha nella deliziosa e solare Apeman un altro classico assoluto della band https://www.youtube.com/watch?v=RRDSv4ed8_I . Il primo CD del box contiene il disco originale in stereo più qualche bonus track: oltre alle canzoni già citate possiamo dunque riassaporare la trascinante The Contenders, che si apre come una country song e si trasforma subito in un grintoso rock’n’roll elettrico, la splendida ballata pianistica Strangers https://www.youtube.com/watch?v=8ioKKnhaByw , con echi di The Band, il moderno vaudeville Denmark Street, l’ottima rock ballad Get Back In Line https://www.youtube.com/watch?v=qUaWuZD_Og8 , la riffata Top Of The Pops.

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E ancora: il puro vintage pop The Moneygoround https://www.youtube.com/watch?v=TyjHiWQjjw4 , la bellissima This Time Tomorrow, senza dubbio una grande canzone, la grintosa e chitarristica Rats, scritta e cantata da Dave, ed il country-rock Got To Be Free. Le sei bonus tracks erano già presenti nella versione doppia dell’album uscita nel 2014, e a parte quattro mix in mono di altrettanti brani ci sono due versioni alternate di Apeman e The Moneygoround, quest’ultima con una nuova traccia vocale di Ray incisa nel 1972. E veniamo agli altri due CD: evito di citare i missaggi alternativi sia mono che stereo dal momento che sono inediti per modo di dire e servono solo ad allungare il brodo, e parto da una interessante serie di medley intitolati Ray’s Kitchen Sink, in cui sono state create versioni esclusive di alcuni pezzi mettendo insieme demo, takes alternate, strumentali e live, il tutto con i commenti dei due fratelli Davies registrati apposta per questo box nella cucina di Ray, con tanto di testi del dialogo riportati nel libro (e meno male, visto che Dave parla che sembra avere un piccione intero in bocca); le canzoni interessate da questa operazione sono Lola, Got To Be Free, The Contenders, This Tine Tomorrow, Get Back In Line, Rats, Powerman, A Long Way From Home e Strangers.

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Poi abbiamo una notevole take alternata della stupenda This Time Tomorrow forse addirittura superiore all’originale https://www.youtube.com/watch?v=a7c7mJH8RwY , la rockeggiante outtake The Good Life, una bellissima Apeman dal vivo in versione cajun tratta dall’unplugged del 1994 To The Bone e, sempre dal vivo, Get Back In Line registrata alla vigilia di Natale del 1977 https://www.youtube.com/watch?v=Qyad2GRfpGg , una strepitosa Lola del 2010 di Ray Davies con la Danish National Chamber Orchestra & Choir e A Long Way From Home di Ray & Band all’Austin City Limits del 2006 https://www.youtube.com/watch?v=eVeogLcfmwE . Per finire, due pezzi rari dal film TV della BBC The Long Distance Piano Player (l’inedita Marathon ed una diversa Got To Be Free, entrambe con Fiachra Trench al pianoforte), altrettanti dalla colonna sonora del film Percy del 1971 (Moments e The Way Love Used To Be), un work in progress di Apeman ed il pop-rock Anytime, altra outtake di buon livello che sarebbe dovuta uscire come singolo ma poi rimase in un cassetto. Il fatto che il titolo completo di questo album recitasse alla fine “Part One” non significa che esista una seconda parte: i Kinks nel 1971 cambieranno registro e pubblicheranno lo splendido Muswell Hillbillies, altro capolavoro e forse il mio album preferito in assoluto del gruppo londinese: già attendo il cofanetto.

Marco Verdi

In Attesa Del Nuovo Ottimo Album In Uscita A Metà Luglio: Pretenders/Chrissie Hynde Una Storia Lunga Più Di 40 Anni! Parte I

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Quando Christine Ellen “Chrissie” Hynde viveva i primi anni della sua esistenza conscia in quel di Akron, Ohio, era una introversa ragazzina poco interessata alla scuola, al ballo, ai ragazzi ed alle attività sociali in generale, con una eccezione però, la musica, in particolare quella dei gruppi: uno dei suoi passatempi più personali era andare a Cleveland a vedere qualsiasi band passasse da quelle parti, mentre in particolare Brian Jones prima e Iggy Pop poi, avevano destato il suo interesse. A questo punto leggenda, o meglio le sue biografie, suggeriscono che, essendosi trasferita per studio alla Kent State University indirizzo artistico, Chrissie fosse venuta a contatto con la controcultura hippie e avesse sviluppato anche degli interessi per il misticismo orientale e il vegetarianismo (che credo tuttora facciano parte del suo credo), ma quelli sono anche i tempi, inizio anni ‘70, del famoso massacro alla Kent State del 4 maggio (immortalato in Ohio di Neil Young), in cui tra le quattro vittime ci fu anche il fidanzato di una delle sue amiche, e lei stessa era presente ai disordini.

Sempre nello stesso periodo aveva iniziato anche a far parte dei primi gruppi, tra cui i Sat. Sun. Mat, insieme a Mark Mothersbaugh, futuro componente dei Devo. A questo punto arriva la prima mossa cruciale: nel 1973, già 22enne, si trasferisce a Londra, dove inizia a lavorare in uno studio di architetti, ma resiste pochi mesi, prima di entrare, tramite il suo amico Nick Kent (una delle stelle del giornalismo musicale dell’epoca, anche suo boyfriend per qualche anno) nella redazione del NME. Anche questo lavoro dura poco e quindi inizia a lavorare nella allora poco conosciuta boutique SEX di proprietà di Malcolm McLaren e Vivienne Westwood, presso cui conosce gli abituali frequentatori Johnny Rotten e Sid Vicious, dai quali cerca di farsi sposare (non contemporaneamente) per ottenere il permesso di lavoro, e con il secondo ci va molto vicina, al matrimonio. Fallito l’obiettivo, nel 1975 torna a Cleveland, passando per la Francia, dove cerca anche lì di formare una band; ci riprova, sempre in Francia, nel 1976 e lasciato Kent, tenta un approccio con un bassista, membro dei “famosi” Frenchies, con i quali svolge brevemente anche la funzione di cantante.

reckless my life chrissie hynde

Quando ritorna a Londra, si trova nel bel mezzo della nascente scena punk inglese, e incrocia le sue traiettorie con Jon Moss dei Culture Club, Tony James dei Generation X, Mick Jones dei Clash e rischia di far parte anche dei futuri Damned., da lei molto amati. Dopo altri svariati tentativi tra il 1977 e il 1978, finalmente nel 1978 è pronto un demo da dare a Dave Hill, il boss della Real Records, che le suggerisce di mettere insieme un gruppo: detto fatto, vengono contattati Pete Farndon al basso, James Honeyman-Scott alla chitarra e l’ineffabile Martin Chambers alla batteria (ancora oggi con lei). Questo, in sintesi, è il preludio dei futuri Pretenders, così chiamati in onore della cover di Sam Cooke di The Great Pretender dei Platters. se volete ulteriori informazioni esistono dei libri, tra cui l’eccellente autobiografia della Hynde stessa Reckless: My Life As A Pretender, uscita nel 2015, e “spericolata” e “temeraria” è stata sicuramente la carriera musicale di Chrissie, di cui andiamo ora ad occuparci, ispirati in questo anche dal nuovo album della band Hate For Sale, secondo chi scrive (avendolo già ascoltato, visto che doveva uscire il 1° maggio) forse il migliore del gruppo dai tempi dei primi tre, ma di cui ci occuperemo più avanti, perché a causa delle vicende legate al Coronavirus è stato rinviato alla seconda metà di luglio. Ergo, vediamo a livello musicale cosa è successo prima,

1978-1984 Gli Inizi e Gli Anni D’Oro

Come ricordato poc’anzi, dopo il primo demo, ne incidono un secondo come gruppo, tre canzoni, Precious, The Wait e la cover di Stop Your Sobbing dei Kinks, che vengono passate ad uno dei “geni” del pop britannico, Nick Lowe, che produce il primo singolo della band, composto dal secondo e terzo dei brani citati e che entra nella Top 40 dei singoli a gennaio del 1979, Kid con Tattoed Love Boys, più o meno ottiene lo stesso risultato, ma al terzo tentativo, a novembre, il singolo di Brass In Pocket va al primo posto delle UK Charts: merito certamente della musica, ma anche della voce di Chrissie Hynde, un delizioso contralto fino a quel punto non curato a livello tecnico, a causa di problemi uditivi e altre piccole patologie, che comunque non le hanno impedito di diventare una delle voci più inconfondibili del rock degli ultimi 40 anni, oltre che una delle migliori autrici di canzoni dell’universo femminile.

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Il 27 dicembre 1979 negli States e l’11 gennaio 1980 nel Regno Unito (più o meno negli stessi giorni , in cui usciva, a date invertite, London Calling dei Clash) viene pubblicato Pretenders – Real Records/Sire 1979/80 ****1/2, uno dei tanti esordi fulminanti della storia del rock. La frase topica del brano di apertura Precious, in un turbine di chitarre aggressive, un basso trivellante e una batteria devastante, è “But not me, baby, I’m too precious/Fuck off!”, dedicato a un innamorato che è una sorta di Lothario direbbero gli inglesi, Dongiovanni noi italiani, al quale la Hynde manda un chiaro messaggio di andare a farsi fottere, con una energia e violenza mutuata del punk, ma sapendo anche utilizzare con maestria il meglio della musica pop e rock del quarto di secolo precedente: “missiva” che potremmo spedire altrettanto sentitamente al nostro amico Coronavirus (incidentalmente il brano di apertura del nuovo Hate For Sale, la title track, è un brano che essuda, 40 anni dopo, la stessa violenza primeva trattenuta, ma non troppo, tanto che da un momento all’altro mi attendevo un altro bel Fuck Off!).

Anche The Phone Call, The Wait e Mystery Achievement hanno, in misura diversa, la grinta e la energia di quei brani del pop inglese più cazzuto, quello di Yardbirds, dei primi Them, degli Stones, degli Animals, l’epoca di Top Of The Pops, cantati da una “signora” con una voce squillante che sa estrarre il meglio dai suoi pards, soprattutto la chitarra di Honeyman-Scott. Ma Chrissie maneggia con disinvoltura il pentagramma e volteggia con abilità nei diversi stili: il power pop raffinato di Up The Neck, il frenetico e scoppiettante punk-rock di Tattoed Love Boys, poi lascia lo strumentale Space Invader ai suoi soci, che si cimentano in sonorità non dissimili da quelle dei primi Police, ma ci sono anche brani di quel perfetto Pure Pop For Now People teorizzato dal primo produttore Nick Lowe e applicato alla perfezione da quello dell’album, il grande Chris Thomas, in piccoli gioiellini che rispondono al nome di Stop Your Sobbing, raffinata costruzione sonora mutuata del futuro compagno Ray Davies e resa veicolo perfetto per la sua voce che, moltiplicata più volte, la rende una specie di one woman band alla Mamas And Papas, come scrisse qualcuno su Rolling Stone, quando era ancora una rivista autorevole.

Kid è una tipica pop ballad alla Pretenders, deliziosamente retrò, ma con testo crudo e amaro, Private Life è un reggae (rock) genere che di solito non amo, ma faccio qualche eccezione per gente come Graham Parker, Garland Jeffreys, Joan Armatrading, i Clash, i primi Police, che trattano l’argomento appunto da una ottica rock, con un bellissimo assolo di Honeyman-Scott, che è poi l’autore con la Hynde di Brass In Pocket, uno dei più bei singoli pop di sempre, gioioso ed esuberante, una vera squisitezza, ed anche Lovers Of Today è un’altra rock ballad di rara raffinatezza con il vibrato di Chrissie in grande evidenza: mezza stelletta in più per la versione in CD doppia (+DVD), uscita per la Rhino nel 2006 con un secondo dischetto con ben 16 bonus tra demo. cover e live, temo non più disponibile, ma se vi capita di trovarla…

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L’anno successivo, per la serie battere il ferro finché è caldo, ovvero se l’ispirazione regge, esce Pretenders II – Sire 1981 ***1/2 . Leggermente inferiore al precedente, ma sempre un bel disco: il produttore è ancora Chris Thomas. L’ultimo con la formazione originale, il disco esce ad agosto 1981, e come il precedente entra nelle Top 10 inglesi ed americane, preceduto da Extended Play, pubblicato a marzo, che contiene i due singoli che saranno estratti dall’album, che come è consuetudine della band sono anche i brani migliori del lotto. The Adultress apre, voce filtrata, chitarre ruggenti, testi sessuali arditi, ritmi serrati, per una bella partenza, come pure Bad Boys Get Spanked che viaggia a tutta velocità, il solito “punk” intelligente dei Pretenders, sempre con un testo molto diretto.

Message Of Love è il primo singolo, più grintoso e mosso del solito, ma sempre ricco di fascino e classe, I Go To Sleep è la seconda cover di un pezzo dei Kinks, un delicato e sognante valzerino con uso di fiati, cantato in souplesse dalla Hynde, e anche Birds Of Paradise è una ballata mid-tempo elegante e raffinata. Talk Of The Town, il secondo singolo, è un’altra di quelle perfette costruzioni pop di cui i Pretenders sono stati sempre maestri, con la soave voce di Chrissie, anche raddoppiata in multitracking, a galleggiare sulla musica; non mancano ovviamente i brani più grintosi e tirati, come Pack It up e Day After Day, scritti con Honeyman-Scott, la cui trillante chitarra è sempre in evidenza, come pure il solito brano reggae-rock, una tradizione, in questo caso Waste Not Want Not, ottime anche la riffata e ritmata Jealous Dogs e un’altra pop song di eccellente fattura come The English Roses dove Honeyman-Scott piazza un altro assolo dei suoi.

A chiudere un altro album che conferma la vena compositiva della band troviamo Louie Louie, che però non è il super classico di Richard Berry, per quanto come grinta rock’n’roll, tra esplosioni di fiati e la chitarra in modalità slide ci siamo, compresa la fine del brano, troncato di brutto a metà di un passaggio, in puro spirito punk. Al solito, se trovate la versione Deluxe doppia in CD, nel secondo CD ci sono 18 bonus, di cui 15 registrate in un concerto a Santa Monica del 4 settembre 1981, oppure anche una tripla con 25 bonus e un DVD.

Interludio

Il 16 giugno 1982 muore James Honeyman-Scott, per un attacco cardiaco scatenato dalla intolleranza alla cocaina, mentre il 14 aprile del 1983, Pete Farndon, che era già stato licenziato dal gruppo circa un anno prima per gli stessi problemi di droga, viene trovato annegato nel suo bagno per una overdose da eroina. Nel frattempo la Hynde e Chambers avevano cercato di portare avanti ugualmente la band, arruolando il chitarrista dei Rockpile Billy Bremner e il bassista dei Big Country Tony Butler, insieme ai quali registrano Back On The Chain Gang che esce ad ottobre 1982, e secondo me è una delle più belle canzoni pop di tutti i tempi, scritta nel corso della relazione che Chrissie stava avendo con Ray Davies e quando era incinta di tre mesi della futura prima figlia Natalie, della quale visto l’incontro dei geni di due “geni” della musica (scusate ma non ho resistito) mi aspettavo sarebbe potuta nascere chissà quale congiunzione astrale di talenti e invece…ci siamo dovuti “accontentare” di quelli dei due genitori. Comunque tornando a Back On The Chain Gang, si tratta di una vera cattedrale di costruzioni sonore in ambito pop music, una piccola meraviglia (ah, quei coretti, un omaggio a Sam Cooke).

Fine della prima parte, segue…


Bruno Conti

Cofanetti Autunno-Inverno 7. Un’Altra Bella Ristampa Per Un Piccolo Classico. The Kinks – Arthur Or The Decline And Fall Of The British Empire 50th Anniversary

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The Kinks – Arthur Or The Decline And Fall Of The British Empire 50th Anniversary – ABKCO/BMG 2CD Deluxe – Super Deluxe 4CD/4x45rpm Box Set

Una delle migliori ristampe uscite lo scorso anno è stato il box per il cinquantesimo anniversario di Village Green Preservation Society, uno degli album più belli della carriera dei Kinks https://discoclub.myblog.it/2018/11/20/recensioni-cofanetti-autunno-inverno-6-una-sontuosa-riedizione-di-un-capolavoro-minore-the-kinks-are-the-village-green-preservation-society-50th-anniversary/ , anche se non si capisce perché le edizioni commemorative delle cinque decadi sono iniziate dal sesto album, considerando anche che sia Face To Face che Something Else By The Kinks sono lavori di grandissimo livello (ma anche i Beatles sono partiti da Sgt.Pepper, e l’assenza di un box di Revolver grida ancora vendetta). Quest’anno la Sanctuary, etichetta affiliata alla ABKCO, ripete l’operazione con il disco del 1969 dei fratelli Ray e Dave Davies, cioè Arthur Or The Decline And Fall Of The British Empire (Arthur da qui in poi), gratificandolo di un box di formato più piccolo di quello di Village Green comprendente quattro CD, altrettanti 45 giri (riproduzioni di singoli dell’epoca), oltre ad un booklet con note e crediti, un altro libro con immagini rare e testimonianze dei protagonisti, poster, adesivi ed anche una spilletta.

Arthur era nato inizialmente come la colonna sonora commissionata a Ray Davies dalla Granada Television per una serie televisiva che però fu poi cancellata: Davies decise di pubblicare lo stesso il risultato delle sessions per quella soundtrack, un concept album che, partendo dalla descrizione della vita di Arthur Morgan, un installatore di moquette fittizio ma ispirato a Ray dalla figura di suo cognato, finisce per diventare la consueta ed ironica disamina della società inglese di quel periodo. Il disco originale non ottenne un grande successo, ma risentito a distanza di 50 anni non ha perso un grammo della sua bellezza (alcune testate lo definirono il miglior album britannico del 1969, affermazione coraggiosa dato che nello stesso anno uscirono anche Abbey Road e Let It Bleed): personalmente io lo giudico un gradino sotto Village Green, ma se dovessi esprimere un giudizio in stellette non gliene darei comunque meno di quattro. Ma veniamo alla disamina dettagliata dei contenuti del box, che non contiene la quantità di inediti presenti nel cofanetto di un anno fa (e qualche bonus track serve solo ad allungare il brodo), ma le chicche non mancano di certo, compresi diversi pezzi registrati da Davies (Ray ovviamente) di recente, due dei quali apposta per questo progetto.

CD1. Il disco originale in stereo , completamente rimasterizzato, inizia con l’irresistibile Victoria, brano vivace dalla contagiosa melodia tra pop e rock’n’roll, uno dei pezzi più popolari e riusciti del songbook di Davies. L’ironica Yes Sir, No Sir è una pop song vibrante e diretta con i fiati che potenziano il background sonoro (con gran lavoro del resto della band, John Dalton, che aveva sostituito Pete Quaife, al basso e Mick Avory alla batteria) ed un delizioso twist melodico dopo due minuti; Some Mother’s Son è una ballata dal sapore leggermente barocco ma gradevolissima, Drivin’ una squisita e saltellante canzone in stile vaudeville, mentre Brainwashed è un vigoroso pezzo con chitarre e fiati sugli scudi, tra rock ed errebi. Australia è un altro ottimo brano di puro pop, con coretti impeccabili ed un finale strumentale quasi psichedelico con grande assolo chitarristico di Dave ben doppiato dal pianoforte suonato da Ray, Shangri-La è invece un’intensa ballata elettroacustica dal crescendo trascinante che precede Mr. Churchill Says, dall’iniziale retrogusto soul e finale a tutto rock’n’roll, e la delicata She’s Bought A Hat Like Princess Marina, dominata dal clavicembalo e con una seconda parte un po’ bizzarra. L’album originale termina con la tenue Young And Innocent Days, la pianistica Nothing To Say e Arthur, un brano corale, energico e godibile. Come bonus abbiamo Plastic Man, divertente e scanzonato pezzo uscito solo su singolo (e l’unico ad avere ancora Quaife al basso) e sei missaggi diversi di altrettanti brani dell’album: in teoria inediti, in pratica le differenze le sentono solo gli audiofili.

CD2. Il dischetto meno interessante, in quanto ripropone Arthur in mono ed altri sei mono mix alternati nei bonus. L’unica differenza con il CD precedente è King Kong, lato B di Plastic Man, un brano rock potente ma non indispensabile.

CD3. Sotto intitolato The Great Lost Dave Davies Album. Durante le sessions per Arthur i Kinks avevano inciso anche una dozzina di brani con Dave protagonista invece di Ray, con l’intenzione di pubblicarli come album solista del chitarrista anche se era a tutti gli effetti un lavoro dei Kinks scritto e cantato da Dave invece che dal più talentuoso fratello. Il disco non venne poi pubblicato, ed i vari brani uscirono uno come singolo (Hold My Hand), altri come lato B di 45 giri dei Kinks e la maggior parte in future ristampe e compilation del gruppo, come per esempio nella collezione di rarità Hidden Treasures. Quindi di veri e propri inediti non ce ne sono, ma questa è la prima volta che possiamo ascoltare l’album così come lo aveva pensato Dave. E’ chiaro che il minore dei due fratelli non ha nemmeno la metà del talento compositivo dell’altro, ma comunque questo disco rimane una gradevole collezione di canzoni, con alcune cose di poco conto (Are You Ready?, Creeping Jean e Groovy Movies, che ironia della sorte è scritta da Ray), ma anche ottimi pezzi come This Man He Weeps Tonight, accattivante, la galoppante Mindless Child Of Motherhood, la roccata I’m Crying e le belle Lincoln County e Mr. Shoemaker’s Daughter, forse le uniche all’altezza del fratello Ray. Come bonus abbiamo sei missaggi in mono di brani usciti all’epoca su singolo, tre stereo mix alternativi, una Lincoln County acustica (interessante) ed una versione alternata di Hold My Hand, incisa però abbastanza male.

CD4. A parte i due soliti mix “inediti” superflui (Australia e Shangri-La) questo è il dischetto con le cose più interessanti, ed è esclusivo per questo box dato che la versione doppia uscita in contemporanea comprende il primo ed il terzo CD. Dopo una strana introduzione dove in due minuti vengono riproposti tutti i brani del disco originale (Arthur’s Journey), abbiamo un medley di quasi otto minuti di home demos e prove di studio che comprendono frammenti ed abbozzi di sei canzoni che poi finiranno su Arthur. Il piatto forte inizia con tre pezzi mai sentiti eseguiti di recente da Ray con la compagnia teatrale The Come Dancing Workshop Ensemble: My Big Sister, un breve brano jazzato eseguito con classe che confluisce in Stevenage, in odore di musical di Broadway, mentre Space è una ballata pianistica in cui Ray duetta con una voce femminile prima e con un coro poi. A seguire troviamo le due già citate canzoni incise apposta per questa ristampa, che vedono Ray esibirsi a cappella con il gruppo vocale Arthur & The Emigrants per due deliziosi brani in stile doo-wop, l’inedito assoluto The Future ed una rilettura di Arthur. Si torna poi nel 1969 con le inedite The Virgin Soldiers March e Soldiers Coming Home, due strumentali di buon livello, e due versioni di King Kong ed ancora Arthur incise per la BBC. Gran finale con una splendida Victoria registrata dal vivo nel 2010 in Danimarca da Ray con la sua band ed i DR Symphony & Vocal Ensemble, decisamente trascinante.

Ancora una bella ristampa targata Kinks dunque: il prossimo anno, se non cambiano i piani, sarà la volta del popolarissimo Lola Vs. Powerman And The MoneyGoround, Part One, e fra due toccherà a quello che considero uno dei loro capolavori assoluti, Muswell Hillbillies.

Cominciate quindi a mettere i soldini da parte…

Marco Verdi

Novità Prossime Venture 23. Kinks – Arthur (Or The Decline And Fall Of The British Empire) (50th Anniv. Ed.). Proseguono Le Ristampe Deluxe Della Band Dei Fratelli Davies.

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The Kinks – Arthur (Or The Decline And Fall Of The British Empire) (50th Anniv. 2Ed.) – 4 CD + 4 7″ + Libro + Memorabilia varia – 2 LP – 2 CD Sanctuary – 25-10-2019

Circa un anno dopo l’uscita del cofanetto relativo a https://discoclub.myblog.it/2018/11/20/recensioni-cofanetti-autunno-inverno-6-una-sontuosa-riedizione-di-un-capolavoro-minore-the-kinks-are-the-village-green-preservation-society-50th-anniversary/ , tornano le ristampe potenziate del catalogo dei Kinks, questa volta tocca a Arthur (per brevità), che uscì in origine il 10 ottobre del 1969 e che, nonostante le ottime critiche non entrò neppure nelle classifiche inglese e negli USA arrivò solo al 105° posto. Già nel 2004 e poi nel 2011 (in questo caso un doppio CD) erano state pubblicate delle edizioni rimasterizzate con l’aggiunta di svariate bonus, ma questa volta si arriva addirittura a 4 CD (anche ci sarà, come vedete all’inizio del Post, pure nel 2019 una versione doppia.

Al di là delle versioni mono e stereo dell’album, entrambe con bonus, nei primi 2 CD, e il 4° CD con demo, prove, brani presi dalla BBC, molti dei quali sono le stesse delle precedenti edizioni, la chicca del cofanetto dovrebbe essere quello che è stato definito The Great Lost Dave Davies Album Plus], ovvero un album solista del fratello minore Dave previsto per il 1968/1969 ma mai pubblicato, brani che sono usciti comunque a rate in varie antologie e ristampe della band inglese e nella quasi totalità nelle versioni 2004-2011. Per l’occasione ci dovrebbe essere l’album integrale in formato stereo e mono, più qualche versione alternativa. Diciamo materiale interessante soprattutto per i maniaci dei Kinks, anche per la presenza di ben quattro 45 giri. La versione doppia è un riassunto dei brani contenuti nel quadruplo. Comunque qui sotto trovate le tracklist dettagliate di entrambe le edizioni.

Versione quadrupla.

CD1: Original Stereo Album, 2019 Remaster]
1. Victoria (Stereo)
2. Yes Sir, No Sir (Stereo)
3. Some Mother’s Son (Stereo)
4. Drivin’ (Stereo)
5. Brainwashed (Stereo)
6. Australia (Stereo)
7. Shangri-La (Stereo)
8. Mr. Churchill Says (Stereo)
9. She’s Bought A Hat Like Princess Marina (Stereo)
10. Young And Innocent Days (Stereo)
11. Nothing To Say (Stereo)
12. Arthur (Stereo)
Bonus Tracks:
13. Plastic Man (Stereo)
14. Victoria (Alternate Stereo Mix)
15. Yes Sir, No Sir (Alternate Stereo Mix)
16. Drivin’ (Alternate Stereo Mix)
17. Brainwashed (Alternate Stereo Mix)
18. Australia (Alternate Stereo Mix)
19. Shangri-La (Alternate Stereo Mix)

[CD2: Original Mono Album, 2019 Remaster]
1. Victoria (Mono)
2. Yes Sir, No Sir (Mono)
3. Some Mother’s Son (Mono)
4. Drivin’ (Mono)
5. Brainwashed (Mono)
6. Australia (Mono)
7. Shangri-La (Mono)
8. Mr. Churchill Says (Mono)
9. She’s Bought A Hat Like Princess Marina (Mono)
10. Young And Innocent Days (Mono)
11. Nothing To Say (Mono)
12. Arthur (Mono)
Bonus Tracks:
13. Plastic Man (Mono)
14. King Kong (Mono)
15. Victoria (Alternate Mono Mix)
16. Australia (Alternate Mono Acetate Mix)
17. Shangri-La (Alternate Mono Mix)
18. She’s Bought A Hat Like Princess Marina (Alternate Mono Mix)
19. Australia (Australian Mono Single Mix/Edit)

[CD3: The Great Lost Dave Davies Album Plus]
1. This Man He Weeps Tonight (Stereo)
2. Mindless Child Of Motherhood (Stereo)
3. Hold My Hand (Stereo)
4. Do You Wish To Be A Man? (Stereo)
5. Are You Ready? (Stereo)
6. Creeping Jean (Stereo)
7. I’m Crying (Stereo)
8. Lincoln County (Stereo)
9. Mr. Shoemaker’s Daughter (Stereo)
10. Mr. Reporter (Stereo)
11. Groovy Movies (Stereo)
12. There Is No Life Without Love (Stereo)
Bonus Tracks:
13. Lincoln County (Mono Single Mix/Edit)
14. There Is No Life Without Love (Mono)
15. Hold My Hand (Mono)
16. Creeping Jean (Mono Single Mix/Edit)
17. Mindless Child Of Motherhood (Mono)
18. This Man He Weeps Tonight (Mono)
19. Mr. Shoemaker’s Daughter (Alternate Stereo Mix)
20. Mr. Reporter (Alternate Stereo Mix)
21. Groovy Movies (Alternate Stereo Mix)
22. Lincoln County (Acoustic Mix)
23. Hold My Hand (Alternate Take)

[CD4: Demos, Rehearsals, BBC & Remixes]
1. Arthur’s Journey (Introduction)
2. Australia (2019 Mix)
3. Home Demos Medley, 1969: Arthur / Victoria / Some Mother’s Son / Drivin’ / Brainwashed / Mr. Churchill Says (TV Premix)
4. Shangri-La (2019 Mix)
5. My Big Sister (Theatrical Version)
6. Stevenage (Theatrical Version)
7. Space (Theatrical Version) (Full Version)
8. The Future (Doo-Wop Version)
9. Arthur (Doo-Wop Version)
10. The Virgin Soldiers March
11. Soldiers Coming Home (Instrumental)
12. King Kong (BBC Mix)
13. Victoria (Ray Davies & Band With The DR Symphony & Vocal Ensemble) (Stereo)
14. Arthur (BBC Mix)

Versione Doppia.

[CD1]
1. Victoria (Stereo) [2019 – Remaster]
2. Yes Sir, No Sir (Stereo) [2019 – Remaster]
3. Some Mother’s Son (Stereo) [2019 – Remaster]
4. Drivin’ (Stereo) [2019 – Remaster]
5. Brainwashed (Stereo) [2019 – Remaster]
6. Australia (Stereo) [2019 – Remaster]
7. Shangri-La (Stereo) [2019 – Remaster]
8. Mr. Churchill Says (Stereo) [2019 – Remaster]
9. She’s Bought A Hat Like Princess Marina (Stereo) [2019 – Remaster]
10. Young And Innocent Days (Stereo) [2019 – Remaster]
11. Nothing To Say (Stereo) [2019 – Remaster]
12. Arthur (Stereo) [2019 – Remaster]
13. Plastic Man (Stereo) [2019 – Remaster]
14. King Kong (Mono) [2019 – Remaster]
15. Drivin’ (Mono) [2019 – Remaster]
16. Mindless Child Of Motherhood (Mono) [2019 – Remaster]
17. Shangri-La (Mono) [2019 – Remaster]
18. This Man He Weeps Tonight (Mono) [2019 – Remaster]
19. Australia (Australian Mono Single Mix) (Edit) [2019 – Remaster]

[CD2]
1. This Man He Weeps Tonight (Stereo) [2019 – Remaster]
2. Mindless Child Of Motherhood (Stereo) [2019 – Remaster]
3. Hold My Hand (Stereo) [2019 – Remaster]
4. Do You Wish To Be A Man (Stereo) [2019 – Remaster]
5. Are You Ready (Stereo) [2019 – Remaster]
6. Creeping Jean (Stereo) [2019 – Remaster]
7. I’m Crying (Stereo) [2019 – Remaster]
8. Lincoln County (Stereo) [2019 – Remaster]
9. Mr. Shoemaker’s Daughter (Stereo) [2019 – Remaster]
10. Mr. Reporter (Stereo) [2019 – Remaster]
11. Groovy Movies (Stereo) [2019 – Remaster]
12. There Is No Life Without Love (Stereo) [2019 – Remaster]
13. Lincoln County (Mono Single Mix) (Edit) (Stereo) [2019 – Remaster]
14. There Is No Life Without Love (Mono) [2019 – Remaster]
15. Hold My Hand (Mono) [2019 – Remaster]
16. Creeping Jean (Mono Single Mix) [2019 – Remaster]

Considerando che il cofanetto, al solito molto indicativamente dovrebbe costare intorno ai 70 euro e quella doppia invece meno di 20, fate i vostri conti. Esce il 25 ottobre.

Bruno Conti

Recensioni Cofanetti Autunno-Inverno 6. Una Sontuosa Riedizione Di Un Capolavoro “Minore”. The Kinks – Are The Village Green Preservation Society 50th Anniversary

kinks are the village green front

The Kinks – Are The Village Green Preservation Society 50th Anniversary – Sanctuary/BMG Deluxe 2CD – Super Deluxe 5CD/3LP/3x45rpm

In un anno in cui sono uscite tutte insieme le ristampe in formato Super Deluxe di album leggendari come The Beatles (meglio conosciuto come White Album), Blood On The Tracks, Electric Ladyland ed Imagine, l’edizione per il cinquantesimo anniversario di Are The Village Green Preservation Society, il primo di diversi concept albums dei Kinks e considerato tra i loro capolavori, rischia quasi di passare inosservato. Sarebbe un peccato, in quanto stiamo parlando di uno dei migliori dischi di pop-rock dell’epoca, un lavoro che vedeva il genio di Ray Davies al massimo della sua espressione, con una serie di bozzetti che erano una vera e propria dichiarazione di nostalgia verso un certo modo di vivere tipicamente inglese, molto legato alle tradizioni ed a certe abitudini, un senso di appartenenza che secondo il nostro in quel periodo (1968) si stava irrimediabilmente perdendo: il tutto affrontato con la consueta finezza ed ironia, e soprattutto con una serie di canzoni formidabili, tra le migliori di sempre del quartetto londinese (completato in quel periodo dal fratello di Ray, Dave Davies, alle chitarre, da Pete Quaife al basso e Mick Avory alla batteria, anche se gran parte del merito della riuscita sonora del disco originale andava anche alle inimitabili tastiere di Nicky Hopkins, il più grande pianista rock di ogni epoca).

kinks are the village green cofanetto

Per ricordare quell’album fondamentale, oggi la Sanctuary pubblica questo enorme (e costoso) cofanetto, il cui contenuto farà leccare i baffi a più di un fan del gruppo. Il disco originale (che all’inizio degli anni settanta ebbe anche due seguiti, Preservation Act 1 e 2, meno indispensabili) è stato ampliato a ben cinque CD, con l’aggiunta di versioni alternate, mix diversi, outtakes, brani dal vivo e parecchie sorprese non necessariamente risalenti al periodo in questione (non tutto è inedito, ma buona parte sì), ed in più è stato inserito il vinile originale ma in versione doppia, con il primo disco in stereo e l’altro in mono, più un terzo LP separato che riproduce l’album uscito all’epoca in Svezia (ed in altri paesi europei, come Francia, Norvegia ed anche Italia), con una tracklist differente: il tutto corredato da un bel libro pieno di foto e parti scritte (tra le quali una testimonianza nuova di zecca di Pete Townshend, che considera questo album tra i suoi tre preferiti di sempre in assoluto), oltre a diverse cartoline, spartiti e memorabilia varia (ma, e questa è una pecca, manca completamente la lista delle canzoni con i dettagli delle registrazioni, i titoli sono stampati solo sui cinque dischetti). Un’operazione monumentale quindi, non per tutte le tasche: infatti è stata approntata anche una versione più “povera”, un doppio CD che però offre meno dell’edizione tripla pubblicata nel 2004.

Ma veniamo alla disamina di questa ristampa nel dettaglio, sperando (più che altro per le nostre e vostre finanze), che non sia l’avvio di una serie di cofanetti dello stesso tipo, dato che nei prossimi anni compiranno cinquanta anni altri album fondamentali dei Kinks (due su tutti: Arthur e Muswell Hillbillies). CD1: ovviamente si parte con l’album originale (che, va ricordato, all’epoca ebbe incredibilmente un successo davvero scarso), rimasterizzato in maniera magnifica. Riascoltiamo dunque con enorme piacere grandissime canzoni come la title track, Picture Book, Animal Farm, Village Green e People Take Pictures Of Each Other (quest’ultima davvero attualissima nell’era dei social media), fulgidi esempi di perfezione pop-rock, che dimostrano la formidabile facilità di scrittura che Ray aveva in quel periodo. Ma anche le altre non è che siano di molto inferiori, dalla deliziosa Do You Remember Walter?, all’energica Johnny Thunder, alla vibrante Last Of The Steam-Powered Trains, in odore di rock-blues, passando per la squisita Sitting By The Riverside, in puro stile old-time, la saltellante Starstruck, la filastrocca pop di All Of My Friends Were There, fino alla quasi bossa nova di Monica. Come bonus abbiamo diversi altri brani dell’epoca, tra cui vari singoli: da segnalare almeno la strepitosa Days, una delle più belle pop songs di sempre (e non solo dei Kinks), il trascinante rock’n’roll di She’s Got Everything, la leggera Mr. Songbird, quasi beatlesiana, la divertente e solare Polly e la semplicemente bellissima Misty Water. 

CD2: dischetto meno interessante, non brutto (per carità), ma che ripete in gran parte le canzoni del primo CD in versione mono. Le uniche differenti sono la quasi cabarettistica Till Death Do Us Part, una delizia per le orecchie, una Village Green con traccia vocale alternata, lo scintillante pop Lavender Hill, gradevole è dir poco, e la vivace Pictures In The Sand. CD3: intitolato Village Green Sessions, questo dischetto è l’unico per il quale usare la parola “deludente” non è fuori luogo, in quanto non ci sono vere e proprie outtakes, ma in maggior parte mix differenti delle stesse versioni già conosciute. Quindi una ripetizione quasi superflua, buona solo per le orecchie dei maniaci audiofili: le uniche vere versioni alternate sono la take 17 di Animal Farm, praticamente identica a quella nota, e l’acetato originale di Village Green. Ci sono anche sette backing tracks senza le parti vocali, che però prese così non dicono molto. CD4: Village Green At The BBC. Dischetto che propone diverse tracce registrate in vari programmi trasmessi dalla storica emittente britannica (alcuni, ma non molti, erano già usciti sul box sestuplo del 2012 Kinks At The BBC) tra il 1968 e 1969. Non solo brani dell’album in questione comunque, dato che troviamo anche classici come Waterloo Sunset, Sunny Afternoon ed un medley che unisce Dedicated Follower Of Fashion con A Well Respected Man e Death Of A Clown. Poi ci sono splendide versioni di Days, The Village Green Preservation Society, Animal Farm e Picture Book, e non mancano chicche come la roccata Love Me Till The Sun Shines, cantata da Dave, l’intensa Two Sisters, con gran lavoro di clavicembalo, e la sarcastica When I Turn Off The Living Room Light.

CD5: l’ultimo dischetto è forse il più interessante, e comincia con un medley di demo acustici di vari pezzi dell’album, per proseguire con altre backing tracks ed una versione sempre acustica di Days, ovviamente splendida. Ma le sorprese iniziano dalla traccia numero dieci: Time Song è un inedito assoluto, una delicata slow ballad pianistica e dall’atmosfera bucolica, incisa nel 1973 e che avrebbe dovuto finire su Preservation Act 1. Sempre dagli anni settanta provengono tre riletture di pezzi dell’album originale (la title track, un medley tra Picture Book e People Taking Pictures Of Each Other, oltre ad una overture strumentale inedita), potenziate da cori e da una sezione fiati, ed incise ma non utilizzate per i due Preservation Act. Infine, e qui il contenuto vale gran parte del prezzo richiesto, abbiamo otto pezzi dal vivo nel 2010 a Copenhagen solo con Ray, la sua band ed il Danish Radio Symphony & Vocal Ensemble: una meraviglia, con versioni maestose ed emozionanti di Days, Do You Remember Walter?, Picture Book e The Village Green Preservation Society, il tutto concluso dalla rara ed intensa The Way Love Used To Be, tratta dalla colonna sonora di Percy.

I Kinks sono stati una delle più grandi band di sempre, di sicuro una delle più sottovalutate, e questo monumentale cofanetto lo conferma a gran voce: imperdibile, sempre che vi avanzino quei 110/130 euro euro, a seconda dei paesi.

Marco Verdi

Un Secondo Capitolo Degno Del Primo. Ray Davies – Our Country: Americana Act II

ray davies our country americana act II

Ray Davies – Our Country: Americana Act II – Legacy/Sony CD

Quando lo scorso anno Ray Davies aveva pubblicato Americana, suo primo album solista con materiale inedito in dieci anni (e controparte audio della sua autobiografia dallo stesso titolo), aveva dichiarato di aver registrato musica sufficiente per un secondo volume https://discoclub.myblog.it/2017/05/01/un-ottimo-esempio-di-american-music-dal-piu-britannico-dei-cantautoriin-circolazione-ray-davies-americana/ . Ed ora, a poco più di un anno di distanza, ecco arrivare puntuale Our Country: Americana Act II, seguito di quel disco, altre diciannove canzoni ispirate dal grande amore dell’ex leader dei Kinks per l’America, i suoi usi e costumi, la sua musica ed anche le sue contraddizioni, una passione che il nostro coltiva sin dall’età giovanile. Il progetto Americana si può quindi considerare il più ambizioso di tutta la carriera di Ray, ma la cosa che a noi più interessa è che i due CD che fanno parte dell’operazione sono quanto di meglio il nostro abbia inciso lontano dal suo gruppo storico (anche se per me il suo capolavoro solista rimane Working Man’s Cafe): Americana era un ottimo album, che alternava grandi canzoni e momenti più “normali”, e questo Our Country non è di certo inferiore, anzi forse lo supera di un’attaccatura, pur avendo lo stesso, piccolo difetto del primo: una lunghezza forse eccessiva e qualche riempitivo di troppo (e molte più parti narrate che nel volume precedente), ma sono quisquilie in quanto la maggior parte dei brani è davvero di alto livello.

Davies resta uno dei migliori songwriters della nostra musica, attento ed acuto osservatore della società odierna, spesso ironico e pungente quando non sarcastico, ma anche un fantastico costruttore di melodie di grande immediatezza: essendo stato inciso in contemporanea con il primo volume, Our Country presenta ancora i Jayhawks al completo come backing band (tra l’altro il gruppo tra pochi giorni uscirà con un nuovo album), che donano il vestito sonoro perfetto ai brani di Ray, grazie anche all’aiuto di altri selezionati sessionmen (tra i quali spiccano il chitarrista John Jackson, già band leader della road band di Bob Dylan nei primi anni novanta, e Mick Talbot all’organo). Infine, in questo disco Ray riprende anche alcuni brani del suo passato, più o meno recente. L’album parte alla grande con la title track, una straordinaria ballata tra folk, country e cantautorato puro, limpida, maestosa e con uno splendido refrain corale, che conferma la particolare bravura del nostro nel creare melodie di grande impatto con apparente facilità. The Invaders non è la stessa che era anche su Americana, in quanto qua è quasi tutta spoken word (con Ray aiutato da John Dalgleish nella narrazione), anche se l’accompagnamento di stampo roots non manca, Back In The Day è un pezzo a metà tra rockabilly e doo-wop, alla maniera di Dion & The Belmonts, un divertissement d’alta classe e ricco di swing, mentre Oklahoma USA è la ripresa attualizzata di un pezzo dei Kinks (era su Muswell Hillbillies), una ballata di ampio respiro in cui il gusto melodico del nostro si sposa alla perfezione con il tappeto sonoro di Gary Louris e compagni.

Bellissima Bringing Up Baby, una country song limpida e deliziosa, con un altro motivo di prim’ordine tipico del suo autore (speriamo che la vicinanza di Davies sia servita da ispirazione per i Jayhawks, lo scopriremo a breve), The Getaway, rifacimento di un pezzo già apparso su Other People’s Lives, è uno scintillante brano elettroacustico tra southern e country, in cui si nota il contrasto tra l’accompagnamento vigoroso e la voce quasi indolente e distaccata di Ray (strepitoso il finale accelerato); The Take è un trascinante rock’n’roll con elementi punk, quasi alla Ramones, con Ray che duetta con Karen Grotberg (ed un po’ troppa narrazione in mezzo a rompere il ritmo), mentre We Will Get There è un etereo slow piuttosto nella media. The Real World è il terzo ed ultimo brano già proposto in passato (era su Working Man’s Cafe), ed è un altro lento di indubbio pathos, in cui Ray duetta ancora con Karen su un mood da California anni settanta, davvero bella; A Street Called Hope è un elegante pezzo jazzato, semplice e diretto, The Empty Room è quasi old time music, con tanto di fiati dixieland e la solita classe sopraffina. La sognante Calling Home, dedicata agli indiani d’America, non è allo stesso livello, la sinuosa Louisiana Sky parte bene ma poi Ray inizia a parlare e la canzone si perde, March Of The Zombies è viceversa un ottimo blues swingato con i fiati protagonisti, suonato alla grande e degno di una big band, mentre The Big Weird è un gustoso errebi, grintoso nei suoni e scorrevole nella melodia. Tony And Bob, tutta parlata, è poca cosa, la fluida The Big Guy riporta il disco su territori country-rock, perfino con accenni caraibici alla Jimmy Buffett; il CD termina con l’ultimo spoken word, Epilogue, è con la splendida Muswell Kills, una delle poche, vere rock songs del lavoro, elettrica, potente e superbamente eseguita, con i Jayhawks in grande spolvero ed un’ottima slide a guidare le danze.

Giù il cappello davanti a Ray Davies: non è da tutti pubblicare due dischi a breve distanza l’uno dall’altro con così tante canzoni di livello egregio. Il prossimo passo, dicono i rumors, potrebbe essere la tanto attesa reunion dei Kinks.

Marco Verdi

Un Ottimo Esempio Di American Music Dal Più Britannico Dei “Cantautori”In Circolazione. Ray Davies – Americana

ray davies americana

Ray Davies – Americana – Sony Legacy

Sir Raymond Douglas Davies, detto Ray (anche lui è stato alla fine nominato baronetto, o Knight Bachelor se preferite, per il suo servizio alle arti britanniche, molto più tardi di altri colleghi, ma in modo doveroso) pubblica con questo nuovo album Americana quello che probabilmente è il suo miglior album solista, in una carriera che in questo senso non è stata fulgida, ma i meriti acquisiti in oltre 50 anni alla guida dei Kinks lo sono certamente e lo indicano come uno dei più grandi “cantori” della scena musicale inglese, londinese in particolare, nello specifico Fortis Green, nel quartiere di Muswell Hill, nel nord della capitale britannica, in una famiglia non certo agiata, con sette tra fratelli e sorelle, e una provenienza “proletaria”. Ma Ray Davies è stato anche il Dandy per eccellenza, grande appassionato e studioso dei costumi e delle usanze della Terra di Albione, ma pure innamorato della musica americana, anzi “Americana”, che è pure il titolo della sua autobiografia pubblicata nel 2013 e di cui questo album avrebbe dovuto essere la controparte audio, costruito come una sorta di adattamento di quelle memorie sotto forma di canzoni e brevi intermezzi parlati.

Devo ammettere che ad un primo ascolto il disco non mi aveva colpito in modo particolare, pur essendo il sottoscritto un grande fan della sua opera omnia con i Kinks, ma i dischi solisti in passato non mi avevano mai colpito più di tanto, a partire dal primo Return To Waterloo del 1985, che era una sorta di rimasticatura parziale di brani già usciti in Word Of Mouth dei Kinks, e che non era uscito a nome della band a causa dei soliti continui ed immancabili dissidi con il fratello Dave Davies. Anche The Storyteller del 1998 era stata una occasione per ripercorrere la sua storia e quella del gruppo, sotto la ragione sociale della famosa trasmissione televisiva americana; Other People’s Lives, il CD del 2006, quello di maggior successo commerciale in ambito solista, sarebbe stato un eccellente disco per chiunque, ma non per Ray Davies, in definitiva buono ma non eccelso, come pure il successivo Working Man’s Café del 2007, probabilmente comunque il suo migliore fino ad oggi. In mezzo ci sono state varie reunion dei Kinks, dischi celebrativi con orchestra e un album di duetti nel 2010, con grandi ospiti, See My Friends, peraltro piuttosto bello, ma accolto da critiche assai contrastate.

Invece questo nuovo Americana sta ricevendo un nugolo di giudizi positivi, alcuni addirittura entusiasti, altri più composti, ma non si può negare sia un eccellente album, forse, ancora una volta, non un capolavoro assoluto, ma un disco intriso delle influenze americane di Davies filtrate attraverso il suo essere tipicamente british: non per nulla il tutto è stato inciso con una band americana, i Jayhawks (e con altri musicisti), ma nei Konk Studios di Tottenham, in piena Londra. Le canzoni raccontano proprio il rapporto di Ray Davies con gli Stati Uniti, a partire dalla iniziale title track Americana, una morbida (e splendida) ballata che si apre sui tocchi di un pianoforte e delle chitarre acustiche, poi entra una pedal steel, Melvin Duffy, le chitarre e le tastiere degli altri Jayhawks, che con le loro armonie vocali costruiscono una atmosfera sonora molto West Coast, ma con le peculiarità del nostro, che con pochi tratti ci fa immergere in questa sorta di sogno glorioso ad occhi aperti. Anche John Jackson, il co-produttore con Ray e Guy Massey (anche brillante ingegnere del suono) del disco, ha i suoi meriti, e le sue chitarre aggiunte sono tra  i punti di forza del sound, oltre all’uso continuo delle tastiere, Karen Grotberg, Ian Gibbons e lo stesso Davies, molto ben inserite negli arrangiamenti ariosi e complessi.

Prima del secondo brano c’è un breve intermezzo parlato, che evidenzia lo spirito quasi “teatrale” di questa narrazione ( e che forse prelude a futuri sviluppi in tal senso di questo progetto), ma che; a mio modesto parere; spezzano il fluire della musica: in ogni caso The Deal, in viaggio verso la vita dorata di Los Angeles, è un altro brillante esempio della grande facilità con cui il musicista inglese è in grado di costruire melodie che ti entrano subito in circolo e la sua proverbiale abilità nei testi si conferma in questo idilliaco, ma anche sardonico, quadretto della società americana, quasi a tempo di valzer e con un ritornello insinuante, secondo la sua famosa opinione per cui le canzoni devono avere un verso, il ritornello e il bridge e difficilmente si discosta da questo credo, forse gli mancano i riff del fratello Dave, ma Poetry è decisamente più rock, con la sua tipica e unica voce in bella evidenza, mentre le melodie ricordano il periodo classico di fine anni ’60- primi anni ’70, non più solo la band pop dei singoli, ma quella raffinata di album come Village Green Preservation Society, Arthur, Lola Muswell Hillbillies, trasferite sul suolo americano, nazione che agli inizi di carriera li aveva rifiutati, ma poi in seguito li aveva accolti a braccia aperte, ovviamente nella visione di Davies la “poesia” non c’è, sostituita dal consumismo, ma glielo e ce lo dice, con una soavità e una ironia sopraffine, e con melodie avvolgenti e deliziose. Good Time Gals, è meno brillante dei tre brani precedenti, uno schizzo quasi acustico, malinconico, dove comunque si apprezza la bella voce di Karen Grotberg che duetta con la sua voce soave con Ray, tra piano, tastiere e chitarre acustiche appena accennate. Mentre nella successiva A Place In Your Heart la Grotberg viene utilizzata di nuovo, ma in modo più dinamico e mosso, in un brano dove si vira anche verso improvvise aperture sonore country e vaudeville, delicati valzeroni con fisarmonica e archi, oltre alle armonie vocali della premiata ditta Jayhawks. 

Mystery Room rievoca il famoso episodio di New Orleans, dove viveva all’epoca, quando un incontro ravvicinato con un rapinatore quasi gli costò la vita e il brano assume le sonorità scure e misteriose della città della Louisiana, anche se non mi sembra tra le più riuscite del disco, forse fin troppo carica e drammatica, ma visto l’argomento trattato ci sta. La narrazione si lega a quella di Rock’n’Roll Cowboys, una canzone dedicata a Alex Chilton, preceduta da un breve talking Silent Movie, in cui Ray rievoca il loro ultimo incontro a New Orleans, dove entrambi abitavano all’epoca, e i loro discorsi sulla musica e soprattutto sulle canzoni, di cui tutti e due sono stati formidabili autori, e il fatto che mentre chiacchieravano amabilmente in questo commiato la televisione iniziò a trasmettere un vecchio film in bianco e nero sui cowboys, e così nasce la canzone, qualche anno dopo, un tributo ai vecchi rockers che sono come i cowboys, una razza forse in via di estinzione, anche se a giudicare dal brano non si direbbe, uno dei più riusciti e sentiti dell’intero album, con un bellissimo break di chitarra elettrica nella parte centrale, e sicuramente uno dei brani più “americani” nel suono del CD. Change For Change, per quanto sempre interessante nel testo che racconta dei cambiamenti in corso nella società americana, a livello musicale è una specie di blues futuribile, giocato su una chitarra acustica, piccole percussioni, piano e trattamenti elettronici, però abbastanza irrisolto, mentre la successiva, breve, narrata, The Man Upstairs cita all’inizio la celebre All Day And All Of The Night, ma è proprio un intramuscolo. Heard That Beat Before è una pigra e delicata canzone, un misto del Ray Davies classico e un blues molto old fashioned e laidback, pure questa piacevole ma non memorabile.

Long Drive Home To Tarzana viceversa è un brano tra i migliori del disco: “New England To Hollywood Seems So Far Away…” narra Ray, in questo breve trattato sul Sogno Americano e la sua realizzazione, in una strada che è pero lunga ed impervia e non sembra mai arrivare ad una conclusione, ma il protagonista ci prova comunque ad arrivare verso questo Paradiso bramato che è la California dei suoi sogni (quella di Hollywood Boulevard in Celluloid Heroes forse?), e lo fa appunto in una ballata deliziosa, con le “solite” armonie vocali, le chitarre accarezzate e la voce suadente e complice di Davies, e un sound morbido e molto tipico della West Coast evocata dalla canzone. The Great Highway è uno dei rari pezzi rock del CD, molto vicino al sound dei Kinks del periodo americano, della Second Coming, quella riuscita di fine anni ’70, primi anni ’80, con le chitarre che ruggiscono a tutto riff  e Ray che canta con grinta e c’è persino spazio per un assolo dell’elettrica di Gary Louris. Ma, come detto, in precedenza c’era stato un primo tentativo, in cui la band inglese era stata respinta dalla American Federation of Musicians,e bandita per quattro anni, e quindi gli Invaders erano stati ricacciati in Inghilterra, dove avrebbero continuato ad influenzare i musicisti americani (tra cui i Jayhawks stessi) e ad essere a loro volta influenzati dalla musica americana, come dimostra peraltro il sound di questo brano, tutto chitarre acustiche, mandolini, fisarmoniche e un’aria roots corale che fa più Nashville che Londra. A chiudere il cerchio non manca il lieto fine, presunto o vero, di una Wings Of Fantasy, dove i sogni giovanili di Davies “belle ragazze, cowboys, soldi e successo” sembrano realizzarsi nella “land of the free”, come diceva la precedente canzone: il pezzo è più rock e brillante di altri, con la consueta costruzione preferita dal musicista di Fortis Green, ricordata prima, ovvero verso, ritornello, bridge, e una bella melodia, che non manca mai. Per concludere, un buon disco, a tratti brillante in alcuni brani, magari non memorabile, per quanto probabilmente il migliore della sua carriera solista e con più di un eco del glorioso passato, come si suol dire, averne di dischi così: non male per un presunto bollito quasi 73enne sul viale del tramonto!

Bruno Conti

Puro Pop Britannico Non Adulterato! Squeeze – Cradle To The Grave

squeeze cradle to the grave

Squeeze – Cradle To the Grave – Love Records/Virgin/Universal 

Come dissero efficacemente, non volendolo, i discografici americani, in un momento di profonda ed involontaria bigotteria, quando rinominarono il primo disco americano di Nick Lowe da Jesus Of Cool a Pure Pop For Now People, nel lignaggio dei musicisti inglesi, a partire dai Beatles e dai Kinks (ma ce ne sono altre decine), passando per i 10cc e gli ELO di Jeff Lynne, poi giù giù fino a Costello, Dave Edmunds, Nick Lowe ed i loro Rockpile, gli stessi Squeeze, c’è tutta una stirpe di musicisti che si sono dedicati alla difficile arte della creazione della perfetta musica pop. Chris Difford e Glenn Tilbrook, che sono da circa 40 anni depositari del marchio Squeeze, sono tra i più ostinati praticanti di detta arte: partiti sul finire dell’epopea “pub rock”, mentre si trasformava in punk-rock e poi in new wave, la band inglese, sin dal primo singolo Take I’m Yours e il primo EP del 1977, hanno creato una lunga serie di canzoni che era sempre alla ricerca di quella difficile forma. Attraverso tre diversi periodi, con scioglimenti e riformazioni del gruppo, più o meno ogni decade, con o senza Jools Holland, storico sodale e pianista originario della band, non presente nell’ultima incarnazione degli Squeeze, quella che li vede di nuovo sotto la vecchia ragione sociale dal 2007, ma che discograficamente aveva prodotto solo un disco nel 2010, Spot The Difference, dove avevano re-inciso i vecchi successi, finalmente approdano, dopo oltre cinque anni di preparazione, al primo album di materiale nuovo, questo Cradle To The Grave, che fa seguito a Domino, uscito nel lontano 1998 e che francamente era stato una mezza delusione.

Ovviamente nel pop degli Squeeze ricorrono tutte le anime del pop britannico ricordate sopra, e anche molte influenze musicali americane, ma il loro stile compositivo in coppia risente soprattutto della lezione di Lennon/McCartney, nel loro caso ancora più “perfezionata”, perché, almeno agli inizi, Difford, scriveva solo i testi e Tilbrook le musiche, poi negli anni hanno deciso di scrivere “words and music” by Difford & Tilbrook. Il  pop-rock dei due è stato sempre abbastanza orecchiabile e in fondo anche commerciale (non è il male assoluto), e questo nuovo album non fa nulla per cambiare l’approccio, ma c’è sempre quel guizzo di genialità, sia nelle musiche che nei testi, che li pone un gradino sopra gli altri e li rende comunque una istituzione della musica britannica: dodici nuove canzoni, circa 45 minuti di delizie di “puro pop”, da quello scanzonato e divertente dell’iniziale title-track, con tanto di ukulele, pianino da music hall, le solite armonie vocali (questa volta anche vagamente gospel), da sempre loro marchio di fabbrica e un’aria da fine dell’impero britannico, passando per i vaghi ritmi disco (ma giusto un tocco) di Nirvana, “nobilitata” da arrangiamenti di archi e da una chitarra-sitar che profuma di anni ’60, oltre a strati di tastiere sognanti e lo voci spesso sovrapposte dei due, Difford un tono più basso e Tilbrook più giovanile e spensierato https://www.youtube.com/watch?v=0fidOiAFXK0 .

Beautiful Game, sempre con i ricchi arrangiamenti e le melodie semplici delle loro migliori canzoni, Glenn che suona praticamente qualsiasi tipo di strumento, nel caso, oltre alle chitarre, anche un vecchio Mini Moog che arricchisce e caratterizza il tono del brano; in Happy Days, altra gioiosa costruzione di puro McCartney sound, Tilbrook ci regala un piccolo solo di chitarra che oscilla deliziosamente tra jazz e R&R per poi tornare nel finale al sitar guitar e ai coretti gospel reiterati https://www.youtube.com/watch?v=-lDZfjSBcy0 . Piacevolissime pop songs anche Open e Only 15, con armonie vocali e ricchi arrangiamenti che pescano dal songbook di Beatles e Beach Boys, ma anche da quel pop revivalistico di fine anni ’70. Top Of The Form, nei testi si rifà a Ray Davies e nella musica al loro vecchio produttore Elvis Costello, mentre Sunny è praticamente Eleanor Rigby parte due, solo archi e qualche tocco di Moog, per un brano che cita Hendrix nel testo ed è composito e letterario come molti parti della fantasia di Difford, autore assai raffinato https://www.youtube.com/watch?v=JKn4B2vBpo8 . Haywire, con la sua pedal steel aggiunta, miscela sonorità americane ed inglesi come usavano fare i vecchi Brinsley Schwarz https://www.youtube.com/watch?v=ue7nMMHYkwo  e Honeytrap, di nuovo con moog e chitarre acustiche che convivono pacificamente, è piacevole ma innocua, meglio allora l’avvolgente e beatlesiana Everything, un mid tempo malinconico, tipico di questa geniale band inglese, che poi conclude l’opera con Snap, Crackle And Pop, altra variegata e raffinata costruzione di pop stratificato, ricco nei particolari sonori, con il consueto ritornello cantabile e quelle armonie vocali immancabili. Probabilmente un album non imperdibile o memorabile, ma se amate certo pop-rock di qualità qui c’è parecchio materiale da gustare.

Bruno Conti    

Una Delle “Glorie” Della Big Easy! Tommy Malone – Poor Boy

 

tommy malone poor boy

Tommy Malone – Poor Boy – M.C. Records/Ird

New Orleans, alla rinfusa, è stata la culla del jazz, del Dixieland, del ragtime, di Louis Armstrong e di King Oliver, di Jerry Roll Morton e Sidney Bechet: la Big Easy ci ha dato, nel dopoguerra, anche i primi barlumi del R&B e del R&R con Fats Domino e Dave Bartholomew, passando per Professor Longhair, Huey Piano Smith, giù giù fino ad arrivare a Dr. John, Allen Toussaint, Meters e Neville Brothers, che si possono considerare gli inventori del funky di New Orleans. Ma nella City Of New Orleans, NOLA, c’è anche una forte componente di bianchi, circa un terzo della popolazione, e quindi ci sono alcuni “cani sciolti” che ibridano, meticciano molti di questi stili con il rock americano classico, la british invasion, il blues, i Little Feat. Due di loro, i fratelli Dave e Tommy Malone, si sono inventati dei gruppi straordinari come i Radiators (From New Orleans) e i Subdudes.

 

Nel passato di Tommy ci sono stati anche  Dustwoofie, Continental Drifters e Cartoons (se volete investigare, ma è roba più difficile da trovare del tesoro del Pirata Barbanera). I Subdudes sono in stand-by, ma possono risorgere da un momento all’altro https://www.youtube.com/watch?v=p1qckEX7Axw , e quindi Tommy Malone può regalarci un nuovo disco da solista, questo Poor Boy,a meno di un anno di distanza dall’ottimo Natural Born Days https://www.youtube.com/watch?v=K_zl1wAmZSM , di cui vi avevo parlato molto positivamente proprio lo scorso anno http://discoclub.myblog.it/2013/07/01/da-new-orleans-tommy-malone-natural-born-days/ . Quel disco, grazie anche alla produzione di John Porter, forse era superiore a questo, co-prodotto dallo stesso Malone con il vecchio pard nei Continental Drifters, Ray Ganucheau e con la fattiva collaborazione, come autore, di Jim Scheurich, compagno d’avventura nei Dustwoofie, che già aveva contribuito a parecchi brani del penultimo disco. Pur nella diversità degli stili, e con una produzione decisamente più spartana e cruda, la qualità delle canzoni è comunque sempre decisamente buona. Come ricorda lo stesso Dave, e come si percepisce ascoltando i brani del CD, sono riaffiorati quei vecchi ricordi di una serata del 1964, quando i tre fratelli Malone, nel tinello della loro casa, come milioni di altri americani, vedevano e sentivano per la prima volta i Beatles all’Ed Sullivan Show. E’ passato qualche annetto, ora il nostro amico di anni ne ha 57, ma evidentemente quella impronta è rimasta.

 

E quindi questa volta, tra le mille influenze del musicista di New Orleans, si affacciano pure Beatles, Big Star, Costello e Nick Lowe, il power pop e i Kinks. Prendete il brano d’apertura, You May Laugh, che se nel timbro vocale può ricordare Ray Davies, ma anche Costello,  nel ritornello cita volutamente il titolo di un brano dei Fab Four, e la musica è puro pop anni ’60 https://www.youtube.com/watch?v=VDeDuv3pk-U , rivisto con l’occhio di un artista che non si limita a copiare pedissequamente, ma, nel suo DNA, ha l’imprinting del musicista di gran qualità, quelli che sanno scrivere belle canzoni, e poi confezionarle in un tripudio di chitarre e armonie vocali, tamburelli e organo sullo sfondo. Ma Malone sa comporre anche brani come Pretty Pearls, che sembra un brano di Dylan (bellissimo lo stacco di armonica e gli interventi del piano) cantato da un giovane Roy Orbison meno melodrammatico (benché grandissimo), la doppia voce di Ganucheau è sempre deliziosa e il suono minimale ha comunque un fascino senza tempo. Mineral Girl è forse quella che più riprende le tematiche del suono blues, ma assai raccolto, dei Subdudes più roots. All Dressed Up, definita dallo stesso Malone “a party song for geriatrics” https://www.youtube.com/watch?v=FJu17-QI-bI , ha quell’aria rock’n’ roll mista a blues (sempre per via dell’armonica) dei Subdudes più tirati, con la slide di Tommy Malone che si divide gli spazi con l’organo di Sam Brady. We Both Lose ha un giro armonico beatlesiano innestato su un groove alla Rockpile o Big Star, ma sempre con quel tocco personale inconfondibile da artigiano del pop, chitarre acustiche ed elettriche a iosa.

 

Bumblebee, il pezzo firmato con l’amico Pat McLaughlin (grande cantautore!), potrebbe venire dal lato “giusto” di Nashville, pensate ad un brano di Nick Lowe scritto per i vecchi Brinsley Schwarz, con quella miscela di rock e country che tanti anni dopo si sarebbe chiamata Americana; peccato, come dicevo all’inizio, per il suono un po’ pasticciato della produzione che non sempre permette di godere appieno le delizie di questi piccoli piatti da gourmet del pop. Spesso sembra che la batteria sia suonata su qualche pezzo di cartone capitato per caso in studio e l’effetto di primitivo R&R alla Buddy Holly via George o Paul, come in Time To Move On, sia del tutto casuale (o forse è voluto e mi sbaglio io, può essere). Once In A Blue Moon è una ballatona acustica come potrebbe farla il miglior Lyle Lovett, se fosse stato anche lui davanti alla TV in quella lontana serata. Crazy Little John ha ancora quello spirito country-folk delizioso e nel finale Malone tira fuori il suo miglior accento soul di New Orleans https://www.youtube.com/watch?v=8xux3N6np7c , prima con una intensa Talk To Me, cantata alla grande e poi con una cover inattesa di Stevie Wonder, Big Brother, che si trovava su quel capolavoro chiamato Talking Book; per la prima volta in vita sua Dave usa una batteria elettronica, a lui piace, io mi devo abituare, comunque il risultato è molto piacevole e la voce si gusta appieno. Bello, ma forse da lui ci si aspetta qualcosa di più!

Bruno Conti

I Migliori Dischi del 2010. Storie Collaterali.

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Una delle cose che mi affascina di queste classifiche di fine anno è il contorno dei giudizi di musicisti ed addetti ai lavori ai quali vengono chiesti quali sono i loro preferiti dell’anno (ma non solo): essendo un curioso per natura e sempre alla ricerca di nuova musica e nuovi nomi da scoprire (come se non bastassero gli arretrati negli ascolti di quella che c’è già e che sempre più si accumulano per motivi di mancanza di tempo, ma è una sorta di “sindrome” che ho sempre avuto, accetto suggerimenti ma poi mi piace valutare da solo). A questo proposito mi piace sfrucugliare nelle interviste alla ricerca di qualche “chicca” che mi è sfuggita. Ricordo ancora con piacere la “scoperta” dei Circulus, gruppo britannico tra folk, Gentle Giant e armonie vocali deliziose, per metterla in breve, avvenuta casualmente leggendo un’intervista in cui veniva chiesto a Stevie Winwood di citare un gruppo contemporaneo che gli ricordasse i suoi vecchi Traffic. Sono i piccoli piaceri della vita. A questo proposito ecco alcuni “consigli” estrapolati da alcune segnalazioni fatte da musicisti più o meno famosi e contenute nell’ultimo numero di Mojo (anche la scelta di questi nomi segue un criterio personale, in questo caso il mio).

“La mia amica” Rumer segnala tra i preferiti dell’anno, John Grant, She And Him Volume Two, l’album di debutto di Marina & The Diamonds, ma anche, dalle nebbie del passato, Terry Reid Seed Of Memory (conoscevo già molto bene, ma approvo), Richie Havens Mixed Bag, il Best Of di Jackie De Shannon (ottima scelta) ma anche The Greatest di Cat Power. Tra i dischi recenti anche l’ultimo Gil Scott-Heron I’m New Here. Confessa anche una curiosa abitudine di ascolto, che sarebbe la mia rovina, ovvero soffermarsi addirittura mesi su ogni singolo brano e quindi di non avere ancora completato l’ascolto di ogni canzone dei Carpenters e di Laura Nyro. In questo caso non posso seguirla, sarei ancora fermo agli anni ’60, forse ’70 appena iniziati!

Tra i nomi citati da Paul Weller una particolare preferenza va al disco di Erland And The Carnival (ma in questo Blog ne avrò parlato? Certo che sì previsioni-azzeccate-vediamo-cosa-hanno-detto-bo-ningen-john.html). Dei Tap Tap ammetto di ignorare tutto ma indagherò mentre Butterfly House dei Coral andrò a risentirlo più attentamente (ma quando?). Ci ricorda anche The Sea di Corinne Bailey Rae (che alterna brani eccellenti a altri più “normali”) e il disco di Laura Marling, molto bello, con la collaborazione di Mumford and Sons.

A proposito di questi ultimi anche Ray Davies li cita tra i suoi preferiti. Come pure Paloma Faith, Nonstoperotik di Black Francis e A Curious Thing di Amy MacDonald. Non sarà mica perché tutti collaborano nel suo disco See My Friends? Temo di sì e candidamente lo conferma.

Altri giudizi sparsi. L’ottimo Richard Hawley (che al momento fa coppia, artisticamente, con Lisa Marie Presley, con cui sta scrivendo e producendo il nuovo album) cita il delizioso Losing Sleep di Edwyn Collins che più volte sono stato sul punto di recensire ma per per un motivo o per l’altro è sempre rimasto nella pigna vicino al lettore CD, comunque è molto bello, piacevole pop inglese di gran qualità. Hawley cita anche Gift, il bellissimo album della coppia Eliza Carthy & Norma Waterson un-affare-di-famiglia-eliza-carthy-norma-waterson-gift.html, e in particolare fa riferimento al brano The Nightingale dedicato a Kate McGarrigle che non avevo ricordato nella mia recensione, faccio ammenda,

Mavis Staples che è una che di voci se ne intende (basta sentire il suo disco You Are Not Alone, citato da Sharon Jones) dice di avere scoperto recentemente Adele 19 ma di ritornare spesso a Nina Simone e Aretha Franklin (che pare stia meglio): come darle torto!

Brian Eno nomina una certa Anna Calvi che nonostante il cognome è inglese (anche se il babbo è ovviamente italiano), il suo album omonimo è uno di quelli di cui ho ascoltato frettolosamente alcuni brani su YouTube, anche perché il disco esce nel 2011. Eno ricorda anche Owen Pallett un canadese di talento (che spesso collabora con gli Arcade Fire) il cui ultimo disco si chiama Heartland e viaggia su territori di pop ricercato e sperimentale non lontano da certe cose di Sufjan Stevens tanto per fare un paragone. Il disco è stato registrato a Reykjavik in Islanda. Il buon Brian non poteva non ricordare anche un brano dei MGMT: anche perché si chiama Brian Eno.

Una curiosità è la citazione di Johnny Marr che dice di avere appena scoperto Se telefonando di Mina. Sarà contento Maurizio Costanzo che l’ha scritta insieme a Ennio Morricone!

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Per la serie “ma per favore!” Gene Simmons dei Kiss dice che il suo album preferito dell’anno è The Eraser di Thom Yorke (che è del 2006, ma non importa) poi ci consiglia The Envy da Toronto che, casualmente, incidono per la Simmons Records. E completa il capolavoro nominando Lady Gaga quinto membro onorario dei Kiss. E queste sono soddisfazioni!

Come vedete anche in questo Post qualche citazione e qualche consiglio ci scappano sempre. Soprattutto l’ultimo.

Bruno Conti