A Volte, Fortunatamente, Ritornano Come Un Tempo! Ray LaMontagne – Monovision

ray lamontagne monovision

Ray Lamontagne – Monovision – Rca Records

I primi quattro album di Ray LaMontagne, da Trouble del 2004 a God Willin’ & The Creek Don’t Rise del 2010, mi erano piaciuti moltissimo, e non solo a me, perché erano dischi veramente bellissimi e furono anche di grande successo, perché complessivamente avevano venduto quasi 2 milioni di copie solo negli Usa, gli ultimi due arrivando fino al 3° posto delle classifiche, tanto che Ray (dopo una vita in cui aveva girovagato dal nativo New Hampshire, poi nello Utah e nel Maine) si era potuto permettere di comprare una fattoria di 103 acri a Ashfield, Massachusetts, per oltre un milione di dollari, dove vive tuttora e ci ha costruito anche uno studio di registrazione casalingo. Brani in serie televisive, colonne sonore, VH1 Storytellers, un duetto con Lisa Hannigan nel disco Passenger del 2011, Insomma lo volevano tutti: poi nel 2014 esce il disco Supernova, prodotto da Dan Auerbach, un disco dove il suono a tratti vira verso la psichedelia, un suono molto più “lavorato” e con derive pop barocche, non brutto nell’insieme, tanto che molte critiche sono ancora eccellenti e il disco arriva nuovamente al terzo posto delle classifiche di Billboard, alcuni brani ricordano il suo suono classico, ma nel complesso è “diverso”. Nel 2016 ingaggia Jim James dei My Morning Jacket per Ouroboros dove il pedale viene schacciato ulteriormente verso una psichedelia ancora più spinta, chitarre elettriche distorte, rimandi al suono dei Pink Floyd in lunghi brani con improvvisazoni strumentali, voce filtrata o utilizzata in un ardito falsetto, per chi scrive anche un po’ irritante, benché ci siano dei passaggi quasi bucolici e sereni che si lasciano apprezzare, sempre se non avesse fatto i primi quattro album.

Il disco va ancora abbastanza bene, per cui si ritira per la prima volta nel suo studio The Big Room e decide di proseguire con la sua svolta “cosmica” pubblicando nel 2018 Part Of The Light, che però cerca di coniugare lo spirito rock dei dischi precedenti ad altri momenti più intimi e ricercati che rimandano al folk astrale dei primi album, un ritorno alle sonorità più amate della prima decade. Che giungono a compimento in questo nuovo Monovision dove, come ricordo nel titolo, LaMontagne ritorna, per citare altre frasi celebri e modi di dire, sulla diritta via e lo fa tutto da solo (d’altronde “chi fa da sé fa per tre”) suonando tutti gli strumenti, chitarre, tastiere, sezione ritmica e componendo una serie di brani ispirati a sonorità più morbide, rustiche e “campagnole”, l’amato Van Morrison e il suo celtic soul, il primo Cat Stevens, mai passato di moda, la West Coast californiana e il Neil Young degli inizi, il tutto ovviamente rivisto nell’ottica di Ray che prende ispirazione da tutto quanto citato ma poi, quando l’ispirazione lo sorregge, come in questo disco, è in grado di emozionare l’ascoltatore anche con la sua voce particolare ed evocativa.

Prendiamo l’iniziale Roll Me Mama, Roll Me, una chitarra acustica arpeggiata, la voce sussurata che diventa roca e granulosa, un giro di basso palpitante che contrasta con l’atmosfera più intima ed improvvise aperture bluesy, che qualcuno ha voluto accostare, non sbagliando, ai Led Zeppelin più rustici e fok de terzo album. I Was Born To Love You è una di quelle ballate meravigliose in cui il nostro amico eccelle, un incipit acustico alla Cat Stevens che si trasforma all’impronta in una lirica melodia westcoastiana, con fraseggi deliziosi dell’elettrica e il cantato solenne di un ispirato LaMontagne che fa una serenata alla sua amata. Strong Enough è la canzone più mossa e ottimista del disco, un ritmo che prende spunto dalla soul music miscelato con il groove del rock classico dei Creedence, la voce di Ray che si fa “nera”, sfruttando al massimo la sua potenza di emissione.

Summer Clouds torna al suono di una solitaria acustica arpeggiata, alla quale il nostro amico aggiunge una tastiera che riproduce il suono degli archi, un cantato quieto ed avvolgente, uguale e diverso al contempo da quello malinconico di Nick Drake e dei folksingers britannici dei primi anni ’70, ma anche di un Don McLean; We’ll Make It Through, il brano più lungo con i suoi sei minuti, si avvale del suono dolcissimo di una armonica soffiata quasi con pudore, senza volere disturbare, un omaggio al soft rock delle ballate dolci e pacatamente malinconiche dei cantautori californiani dei primi anni ’70.

Misty Morning Rain ci riporta al suono dell’esordio Trouble, quando LaMontagne veniva giustamente presentato come un epigono del Van Morrison più mistico, con il suo celtic soul, dove la forza impetuosa del cantato solenne di Ray e la musica incalzante convergono in un tutt’uno assolutamente radioso ed affascinante, mentre Rocky Mountain Healin’ sembra uscire dai solchi di After The Gold Rush o di Harvest di Neil Young, LaMontagne armato di armonica, questa volta fa la serenata alle Montagne Rocciose, che anche il sottovalutato John Denver aveva cantato in una delle sue composizioni più belle e il nostro amico non è da meno in un altro brano di qualità eccellente. In Weeping Willow LaMontagne si sdoppia alla voce in una canzone che rende omaggio a gruppi vocali come Everly Brothers e Simon And Garfunkel in un adorabile quadretto sonoro demodé, ma ricco di affettuose sfumature. Delicata ed avvolgente anche la bucolica Morning Comes Wearing Diamonds è un piccolo gioiellino acustico di puro folk pastorale con Ray che ci regala ancora squisite armonie vocali di superba fattura. E nella conclusiva Highway To The Sun il buon Ray si avventura anche nelle languide atmosfere country-rock che avremo sentito mille volte ma quando sono suonate e cantate con questa passione e trasporto ti scaldano sempre il cuore. Semplicemente bentornato!

Bruno Conti

Il Ritorno Del Cantautore “Nordico” Americano ! Kreg Viesselman – To The Mountain

kreg viesselman to the mountain Kreg Viesselman – To The Mountain – Appaloosa / IRD Dopo il meraviglioso (e inaspettato) The Pull (07), e il successivo If You Lose Your Lighjt (13) di cui si era parlato a suo tempo su questo blog http://discoclub.myblog.it/2014/01/28/storyteller-fuga-verso-il-freddo-nord-kreg-viesselman-if-you-lose-your-light/ , arriva sul mio lettore il nuovo lavoro di questo bravo cantautore originario del Minnesota, ormai da anni adottato artisticamente dalla Norvegia, un paese che è diventato l’esilio dorato anche per altri artisti di spessore come Eric Andersen, Chip Taylor,  il Tom Russell di Atzec Jazz (registrato con la Norwegian Wind Ensemble), e altri della nuove e ultime generazioni, tipo Chris Mills http://discoclub.myblog.it/2014/02/08/la-fuga-verso-il-freddo-nord-continua-chris-mills-the-distant-stars-alexandria/ oltre al suddetto Kreg Viesselman. Ad accompagnarlo in questa nuova avventura, troviamo la sua attuale band, una line-up formata da Anne Lise Frokedal alla chitarra acustica, elettrica e voce, Sondre Meisfjord al basso, il fidato Oystein Hvamen Rasmussen alla batteria e percussioni, Bard Ingebrightsen alle tastiere, Goran Grini al piano, Mari Persen al violino, con il contributo di Peter O’Toole (dei grandi e non dimenticati Hothouse Flowers) al bouzouki, e la brava Ingrid Berge alle armonie vocali, con la produzione del duo Kristiansen e Ingerbrightsen negli studi Klang di Oslo. https://www.youtube.com/watch?v=NdRKmfmgmE0 Chiariamo subito che, a mio parere, To The Mountain non è al livello di The Pull, e forse nemmeno del “sound” con chitarra e piano in evidenza di If You Lose Your Light, ma a Greg bastono poche e suadenti note per catturare e affascinare l’ascoltare, a partire dal trittico iniziale di brani: prima con il folk moderno di Garland, il duetto con Anne Lise Frokedal in una tenue e medioevale David, i coretti soul che accompagnano una Crazy Horse che ricorda il suo amico Ray LaMontagne, passando poi alla melodia acustica di Honeycomb, e cambiando ritmo con il folk arioso di Our Sun Rose, e la trascinante The Disciple Song (Summer Leaves), senza dubbio il brano più intrigante del lavoro. Se i brani sono toccanti, il merito è anche della voce fumosa e malinconica di Kreg, per esempio nella breve I Speak Loud (You Speak Louder) e nella deliziosa pop-song In The Summer In Oslo, con un bel lavoro di piano e tromba, nell valzer lento e cadenzato di The Inefficiency Waltz, andando infine a chiudere con la melanconica Demons e la bucolica title-track To The Mountain, dove i violini accompagnano il tessuto sonoro complesso della canzone. https://www.youtube.com/watch?v=K1kGklJwKuw Leggo su molte riviste di settore che il buon Kreg viene assimilato al “primo” Van Morrison, ma (per chi scrive) del “grande vecchio” di Belfast mi sembra abbia pochino, piuttosto mi sembra più giusto segnalare che la sua musica rimanda a vecchi maestri folk come Bob Dylan, Tim Buckley e Tim Hardin, ma con le sonorità e le tematiche contemporanee che rispondono anche ai cantautori delle nuove generazioni (uno su tutti che mi viene in mente e si è perso per strada, Eric Wood). https://www.youtube.com/watch?v=wp8rb3gWyw0 Kreg Viesselman negli anni è cresciuto passo dopo passo, diventando un artista di culto in paesi come Olanda, Germania e in misura minore anche in Italia, con canzoni che non hanno nulla di innovativo, ma hanno abbastanza anima di scaldare il cuore agli amanti della buona musica. NDT: Come sempre la meritoria Appaloosa, in esclusiva per il mercato italiano, pubblica il disco con tutti i testi e le traduzioni accluse. Tino Montanari

Ripassi Per Le Vacanze 5: Succedeva Circa Un Anno Fa! Lucky Peterson – Live In Marciac July 28th 2014

lucky peterson live in marciac

Lucky Peterson – Live In Marciac July 28th 2014 – Jazz Village/Harmonia Mundi CD+DVD

Lucky Peterson è un buon musicista, altrettanto a suo agio all’organo come alla chitarra, che peraltro predilige; ha una produzione copiosa, spesso di album dal vivo, magari nel formato CD+DVD, come questo Live In Marciac, registrato lo scorso anno, e pure il multiplo Live At 55 Arts Club Berlin del 2012 lo era http://discoclub.myblog.it/2012/12/23/bravo-fortunato-e-tiene-famiglia-ma-the-lucky-peterson-band/ . In mezzo un album di studio come The Son Of A Bluesman, pubblicato sempre dalla stessa Jazz Village, un CD dedicato alla figura del padre James https://www.youtube.com/watch?v=Rc4Qg5XiuVA , anche lui Bluesman, negli anni ’60 proprietario di un locale a Buffalo, dove Willie Dixon, che vi passava spesso, prese sotto la sua ala protettrice il bambino “Judge Kenneth”, che forse sarebbe diventato “Lucky” Peterson anche per questo. Come molti bambini prodigio (con le eccezioni di Stevie Wonder, Steve Winwood e Michael Jackson, che però sappiamo la fine che hanno fatto a livello qualitativo) Peterson è rimasto sempre nel “gruppone” dei musicisti di culto, forse anche per la sua indecisione nello scegliere decisamente uno stile tra il soul e il blues (con abbondanti dosi di funky, rock e jazz), che però potrebbe essere pure uno dei suoi pregi. Anche il nuovo capitolo, molto buono, registrato a Marciac, (nel continente europeo dove è decisamente più popolare che in patria) conferma i pregi e, in questo caso, i (pochi) difetti del musicista nero: fluidità e facilità di tocco sia alle tastiere che alla chitarra, con la “strana” presenza nella formazione di un secondo tastierista, Marvin Hollie, e del fido Shawn Kellerman alla seconda chitarra, particolare inconsueto per uno così bravo ad entrambi gli strumenti, e pure vocalist dalla voce ora potente, ora felpata.

Per l’occasione non c’è la moglie Tamara (mi dispiace dire, meglio), ma nell’ultimo brano, come ospite, appare Joe Satriani (!?). Se devo essere sincero ho una decisa preferenza per il Peterson blues-rocker, ma anche quello che si dedica con fervore al funky e al soul non è male: e quindi il concerto parte con Boogie Thang, un vecchio brano di Matt “Guitar” Murphy (quello dei Blues Brothers, avete presente, il “marito” di Aretha Franklin nel film), dal poderoso drive chitarristico, dove Peterson, ottimamente coadiuvato dalla sua band, mette subito in chiaro di essere un chitarrista di quelli tosti e un cantante istrionico di grande potenza, in grado di infiammare subito il pubblico, con quasi undici minuti tra rock e blues che di solito si conservano per la fine del concerto. Ma evidentemente il nostro Lucky vuole il pubblico bello caldo e le sue scorribande alla solista sono difficili da ignorare (e anche Kellerman ci mette del suo): sto recensendo il concerto dal CD e quindi non ho avuto modo di vedere “ufficialmente” se non alcuni spezzoni del video (ma in rete ce n’è uno completo, come vedete sotto), in ogni caso l’energia si percepisce comunque, quando il gruppo prende il groove di Funky Broadway del “vecchio” Wicked” Wilson Pickett, il soul e il R&B vengono sparati a mille e poi reiterati in una eccellente (e nuovamente assai lunga) I Can See Clearly Now, il brano di Johnny Nash,  coinvolgente come pochi in una versione presa a tutta velocità, in un tripudio di chitarre, organo e la voce poderosa di Peterson.

Nuovamente soul, di quello nato nel profondo Sud per la It Ain’t Safe di George Jackson, con Marvin Hollie che giustifica la sua presenza alle tastiere con un ottimo lavoro e Lucky che incanta il pubblico con la sua notevole presenza scenica; anche quando i tempi rallentano per una eccellente versione di Trouble, il brano di Ray LaMontagne (canzone molto amata da Peterson che la aveva inserito anche nel precedente live) e che nelle mani, e nella voce, del nostro, diventa una deep soul ballad degna di quelle di Otis Redding. I brani originali, e forse questo è il piccolo difetto non citato prima, faticano a reggere con le ottime cover, ma Look Out Of Love, è un ottimo blues-rock, tirato e ad alta densità chitarristica, come pure Make My Move On You, dove Peterson inchioda un assolo spettacolare che poi sfocia in un breve ma sentito Tribute To Stevie Ray Vaughan; Nana Jarnell è uno slow blues strumentale hendrixiano notevole e I’m Still Here è puro Chicago Blues prima alla Buddy Guy e poi con continue variazioni tematiche, dove Peterson e Kellerman si sfidano alle soliste, prima di passare a una veloce capatina nel classico Goin’ Down Slow con Lucky all’organo, prima di una ulteriore furiosa ricaduta nel funky-soul-rock di Judy’s Got Your Girl and Gone, sempre con continui cambi di tempo che poi confluiscono in Boogie Woogie Blues Party, come da titolo una festa di ritmi scatenati. Se ne vanno, ma ritornano subito, con Joe Satriani, per un tuffo nei riff incontenibili di Johnny B. Goode, presi a velocità supersonica, esagerati, ma per una volta come è giusto che sia, persino Satriani sembra godere come un riccio, come pure tutto il pubblico!

La confezione doppia è disponibile dal 1° giugno.

Bruno Conti   

Ripassi Per Le Vacanze 2: Un Disco Ambizioso Che Seduce ! Danny Schmidt – Owls

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Danny Schmidt – Owls – Live Once Records

Danny Schmidt (per chi ancora non lo conoscesse), potrebbe richiamare, a prima vista, l’ennesimo songwriter arrivato dal nulla, ma nel caso in questione la sua storia è un pochino diversa. A Schmidt, una vita “on the road” e parecchi mestieri alle spalle, sul più bello viene diagnosticata una grave malattia che lo sorprende privo di una assicurazione sanitaria (succede nella democratica America), e quindi il buon Danny (con le spalle al muro) si interroga su quale sia il metodo più veloce e concreto per fare qualche soldo e salvarsi la vita, ed è così che decide di rispolverare la chitarra e realizzare i primi album autoprodotti, Live At The Prism Coffeehouse (99), Enjoying The Fall (01), Make Right The Time (03), Parables & Primes (05), che vende a fans ed amici, quanto basta per pagarsi le spese mediche, sbarcare il lunario e capire che il “cantautore” è il lavoro che deve fare da grande. Con il successivo Little Grey Ship (07) calamita l’attenzione degli addetti ai lavori (e della Red House Records), che lo mette sotto contratto per l’ottimo Instead The Forest Rose To Sing (09) e Man Of Many Moons (11), a cui fa seguito la collaborazione con la compagna della sua vita, Carrie Elkin, in For Keeps (14), e qui la favola a lieto fine sarebbe finita se non vi dovessi parlare anche di questo Owls.

Da tempo ormai la scuola di Austin è sinonimo di garanzia, un fulcro dinamico di musica, ed è qui che negli studi Fire Station in San Marcos, Texas, sotto la produzione di David Goodrich (Chris Smither, Peter Mulvey, Jeffrey Foucault), anche a chitarre e piano, Danny ha radunato una valida schiera di eccellenti musicisti, a partire dal grande Lyod Maines alla steel guitar (la sua impronta si nota in tutto il percorso dell’album), Mike Meadows alla batteria e percussioni, Andrew Pressman al basso, Keith Gary al pianoforte, e naturalmente non poteva mancare la moglie Carrie alle armonie vocali, con il contributo di Daniel Thomas Phipps e Ali Holder, il risultato sono undici ballate intense e suonate in modo coinvolgente.

Le “gufate” partono con la romantica, lenta e triste Girl With Lantern Eyes, su un tessuto di chitarra spagnola, e proseguono con la bella e robusta The Guns & The Crazy Ones (siamo dalle parti del migliore Ray LaMontagne), il folk-blues ritmico di Soon The Earth Shall Swallow, per poi passare alle mai dimenticate atmosfere “harvestiane” di Faith Will Always Rise, e il folk inquieto e scarno di una Bad Year For Cane. Si cambia ritmo con Looks Like God, una ballata meravigliosa dove la band suona tutta all’unisono, mentre la seguente e sognante Cries Of Shadows viene valorizzata dal controcanto della Elkin https://www.youtube.com/watch?v=ObChGHcDDjk , con la coppia che si ripropone nelle dolcezze folk di All The More To Wonder e Cry On The Flowers, mentre si va a chiudere alla grande con Paper Cranes, brano con accenti “psichedelici” che rimandano al folk inglese https://www.youtube.com/watch?v=JaaGQcD5v1A , e il vigoroso sostegno di una band elettrica in una “dylaniana” Wings Of No Restraint, una spettacolare cavalcata tra folk e tradizione.

Nel corso degli ultimi anni, Danny Schmidt ha guadagnato una forte connotazione di cantautore di “culto” per la profonda liricità della sua scrittura, abbinata a delle melodie di una bellezza intensa che attirano immediatamente l’ascoltatore, e questo nuovo lavoro Owls, credetemi, è cantato e suonato con il cuore. Niente male per un artista che abbiamo rischiato di perdere o non di conoscere mai!

Tino Montanari

Un Cantautore “Di Nicchia”! Joe Purdy – Eagle Rock Fire

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Joe Purdy – Eagle Rock Fire – MC Records

Ogni tanto succede di venire a contatto con personaggi che hanno poca visibilità, si fanno delle ricerche e si scopre che sono in giro da molto tempo, e, cosa più importante sanno scrivere grandi canzoni: Joe Purdy (per chi scrive) è uno di questi. Originario dell’Arkansas, prima di diventare cantautore a tempo pieno, ha fatto ogni genere di mestiere, poi la sua vita è cambiata, nel 2004, quando il serial di successo Lost ha utilizzato una sua canzone Wash Away , rivelandolo agli occhi di tutti come autore già completo anche se in continua crescita. Quattordici dischi in altrettanti anni, tutti lavori autogestiti che potete trovare direttamente sul suo sito http://joepurdy.com/ , a partire dall’omonimo Joe Purdy (01),e proseguendo negli anni con Sessions From Motor Ave (02), Stompin’ Grounds (03), Julie Blue (04), Only Four Seasons (06), You Can Tell Georgia (06), Paris In The Morning (06), Canyon Joe (07), Take My Blanket And Go (07), Last Clock On The Wall (09), 4th Of July (10), This American (10), sino ad arrivare a questo Eagle Rock Fire, registrato in soli cinque giorni (usando apparecchiature analogiche), con l’aiuto solamente di Chris John Hillman alla pedal-steel e mandolino, il fidato Matt DelVecchio al basso e lo stesso Joe alla chitarra e batteria, il tutto ovviamente rilasciato dalla sua etichetta Mudtown Crier Records.

Le canzoni di questo album raccontano la vita di un ragazzo di paese che va a vivere in una grande città, com’è forse intuibile dalla seconda traccia L.A. Livin’ con la pedal-steel di Hillman (Billy Bragg) in evidenza https://www.youtube.com/watch?v=DeJg71sgsrM , mentre il brano iniziale Eagle Rock Fire, è quasi declamato con una voce baritonale vagamente alla Johnny Cash https://www.youtube.com/watch?v=C9N3pZlQo3E , peraltro tutto il lavoro si snoda tra brani minimali sorretti quasi solo da chitarre acustiche come in That Diamond Ring, Meet Me In N.Y. e This American, a cui si aggiunge il sinuoso suono della pedal-steel e dell’armonica in brani come Waiting For Loretta Too Long , Good Gal Away, e altre storie lente ed avvolgenti, raccontate su una base musicale suggestiva, come in I’m Sorry You’re Blue e Wildflowers, un totale di quasi quaranta minuti evidenziati da Joe Purdy e dalla sua splendida voce.

Purdy, pur con mezzi scarsi, ha sempre fatto dell’ottima musica, un songwriter di categoria superiore dove il cuore è sicuramente elemento fondamentale, con tutte le canzoni che sanno trasmettere spesso delle forti emozioni; una sorta di poeta minore che tratta il country-folk con quello “spleen” malinconico che è tanto di moda (con barba d’ordinanza alla Bonnie Prince Billy o Ray LaMontagne). Al di sopra di queste considerazioni si ritorna al quesito iniziale: come mai un autore di talento, dotato di una voce unica e particolare, con tanta passione e voglia di raccontare, non ha ancora conseguito il successo che si merita? Mistero! Alla prossima Joe.

Tino Montanari

Un Grande “Storyteller” In Fuga Verso Il Freddo Nord! Kreg Viesselman – If You Lose Your Light

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Kreg Viesselman – If You Lose Your Light – Continental Song City/Ird

Kreg Viesselman dal Minnesota, è un cantautore Americano che da qualche anno è stato artisticamente adottato dalla Norvegia, dove questo suo ultimo lavoro If You Lose Your Light ha suscitato l’ammirazione degli addetti ai lavori e del pubblico. Partiamo quindi dagli esordi: nel ’98 il buon Kreg incide un EP dal vivo nel Maine, ma l’album non va oltre i confini dello stato. Nel ’02 ritorna in sala d’incisione per incidere l’omonimo Kreg Viesselman  in completa solitudine, ma anche in questo caso il nome Viesselman rimane ancora nell’oblio. Cinque anni dopo, all’incirca, (sono questi i tempi che occorrono quando non si lavora con grandi etichette), il musicista torna ad incidere con un album più ricco di contenuti e di musicisti http://www.youtube.com/watch?v=w-EOdoZj5Io , e il risultato è il bellissimo The Pull, che finalmente lo porta all’attenzione della critica e degli ascoltatori http://www.youtube.com/watch?v=hZqKxXNmidw .

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Cresciuto alla scuola di Ray LaMontagne (con un ottimo seguito di fans in Europa) Kreg scrive canzoni che viaggiano sul confine tra chitarra e pianoforte (come si faceva negli anni ’70), e tutte le canzoni di If You Lose Your Light sono farina del suo sacco, e così pure la produzione, seppur condivisa con altri amici. L’album è stato registrato in Norvegia (dove è uscito già dal 2012), con l’aiuto di musicisti del luogo, che rispondono al nome (spero di non sbagliare) di Oystein Hvamen Rasmussen alla batteria, Sondre Meisfjord al basso, Bjarne Gustavsen al pianoforte, la dolce Annelise Frokedal alle armonie vocali, e ovviamente la chitarra acustica e la voce calda e nera di Kreg Viesselman.

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Il trittico iniziale è composto da brani toccanti come If You Think You Knew Me Once http://www.youtube.com/watch?v=mODNNvcX5HU , una ballata che ricorda il già citato Ray LaMontagne (*NDB, aggiungerei anche il primo David Gray e mastro Van), a cui fanno seguito il duetto in Half Baked News con Annelise http://www.youtube.com/watch?v=U6LQ4V3kO7Q  e una Morning, Come and Help Me con le chitarre in spolvero e coretti femminili. Si riparte con la solitaria The Great Deceiver http://www.youtube.com/watch?v=AoG7NAV2s8U (*NDB Il video è stato registrato sette anni fa per una televisione locale di Como, perché noi italiani siamo avanti, e diciamolo!), la dolcissima The Cups e l’interessante esperimento di Emigration sempre in duetto con la Frokedal, su un caldo tessuto folk. La title track è una ballata calda e passionale, una dolce canzone d’amore in cui la voce di Kreg è particolarmente ispirata, mentre Freeze Of  Life è un altro brano folk vicino allo spirito di LaMontagne, per poi chiudere con le dolcissime Nantucket Woman e The Well , brani di una bellezza cristallina , valorizzati dalla sua inconfondibile voce “soul”.

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Il suono di If You Lose Your Light  è caldo e intimo, e se i brani sono toccanti, il  merito va ascritto principalmente alla voce cavernosa, fumosa e malinconica di Kreg, che si dimostra (come in The Pull) anche un ottimo performer, per un album che ricorda vagamente i dischi degli anni ’70.  Il grande Taj Mahal ha speso per questo artista (ormai scandinavo, risiede da anni in Norvegia) parole d’elogio e l’istinto del vecchio “bluesman” non sbaglia di certo, quindi segnatevi questo nome, Kreg Viesselman, risentiremo parlare di lui, ma intanto cominciate a cercarlo da subito, lui la luce non l’ha persa!

Tino Montanari

Bravo “Fortunato” E Tiene Famiglia Ma…The Lucky Peterson Band Feat. Tamara Peterson – Live At The 55 Arts Club Berlin

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The Lucky Peterson Band Feat. Tamara Peterson – Live At The 55 Arts Club Berlin – Blackbird Music -2 CD o 3 DVD/2 CD

Questa è la testimonianza di un concerto registrato nel corso di una serie di date europee culminate in una data in questo club di Berlino, dove il gruppo aveva già fatto tappa all’inizio del tour. Come capita per molti artisti neri dell’area blues (e rock, e jazz), Lucky Peterson è molto più popolare in Europa che in madrepatria, dove, peraltro, una lunga carriera lo ha inserito tra i più noti performers della seconda generazione del Blues, avviata tanti anni fa, praticamente da bambino, sotto l’ala protettrice di Willie Dixon. Forse Peterson non ha mai avuto un seguito ben definito per questa caratteristica, che per qualcuno è un pregio per altri un difetto se non una iattura, di essere contemporaneamente organista (e pianista) e chitarrista: fa bene entrambe le cose, per l’amor di Dio, ma il suo stile vaga tra Blues, soul, gospel, funky nel battito di un ciglio e non sempre trattiene la sua esuberanza, soprattutto nei dischi in studio che spesso non sono soddisfacenti.

Però, il nostro amico è stato dotato dalla natura di una bella voce, ricca di toni gospel e soul, come dimostra nella esuberante rilettura di Trouble, una bellissima canzone di Ray LaMontagne, che è il terzo brano di questo CD (o DVD), una versione tra picchi e momenti di calma e che fa seguito ad un paio di brani, I’m Back e Smooth Sailing, che ne mostrano il lato più funky, con l’organo Hammond in evidenza, alla Booker T o alla Billy Preston, con sempre presente anche l’anima più rock rappresentata dall’altro chitarrista, il canadese Shawn Kellerman (che avrà poi occasione di sfogare le sue velleità di guitar hero hendrixiano nel terzo DVD della confezione Deluxe). Quando anche Lucky Peterson imbraccia la chitarra per un lungo Blues Medley strumentale di quelli tosti, l’atmosfera del concerto si infiamma, con una sequenza di riff (tra rock e blues) che uno può divertirsi a cercare di indovinare tra mille possibilità e il suono si fa decisamente più duro con le due chitarre che si rincorrono tra loro, il tutto poi sfocia in una versione di You Shook Me, il super classico scritto dal suo mentore Willie Dixon che più che a quella di Muddy Waters si avvicina ad un composito tra quella dei Led Zeppelin e una ipotetica di Buddy Guy (con citazioni di Little Red Rooster), il brano serve anche da introduzione all’ingresso della moglie Tamara, con il colpo di teatro dei due che si incontrano a metà strada nel club.

Quest’ultima forse non è blues woman a tutto tondo ma se la cava egregiamente e poi si passa al suo funky-soul-jazz, probabilmente maturato negli anni passati alla scuola di Dallas, da cui provengono anche Roy Hargrove, Norah Jones e Erykah Badu, prima Knocking (firmata tra gli altri da Ledisi) e poi una serie di brani firmati dalla stessa Tamara Peterson spostano la barra del sound verso un funky un po’ di maniera, cantato anche bene dalla bella signora, ma un po’ anonimo. Fa eccezione un bel lentone scritto dal marito, Been So Long, con tanto di lungo scat introduttivo e improvvise accelerazioni sonore. Lost The Right che conclude la prima parte del concerto ci riporta al blues ed è cantata in duetto dalla coppia, poi si riparte più centrati sul Blues, prima più rock nella tirata Giving Me The Blues, firmata da Rico McFarland l’ex chitarrista della sua band, cantata con slancio da Peterson che pompa sul suo organo mentre Shawn Kellerman centra un bel solo.

Poi si passa alla sezione “classici”, minori, con Ta’ Ta’ You uno slow blues poderoso di Johnny Guitar Watson, It Ain’t safe dell’accoppiata Clarence Carter/George Jackson che è del sano errebì, e importanti, come I’m Ready, sempre di Willie Dixon, arrangiata per organo e sempre molto fluida, Who’s Been Talking del grande Howlin’ Wolf, in una bella versione ricca di pathos, poi passato di nuovo alla chitarra, anche slide per l’occasione, Peterson ci regala una ricca e lunga versione di I Believe I’ll Dust My Brown a metà strada tra Robert Johnson e Elmore James, senza dimenticare una succinta The World’s In A Tangle dal repertorio di Jimmy Rogers. Saltando di palo in frasca torna la consorte per Kiss di Prince e poi per una piacevole Last Night You Left, sempre firmata da Tamara, del soul jazz raffinato che prosegue con Ain’t Nobody Like You che potrebbe ricordare la “compagna di corso” Erykah Badu, anche se con una voce meno duttile, e forse sia i dieci minuti di questo brano che i 14 della successiva Real Music, più funky ma sempre troppo tirata per le lunghe fanno perdere punti al tutto. Del terzo DVD si è detto, per il resto questo primo DVD+CD di Lucky Peterson conferma ancora una volta i suoi pregi e difetti, buono ma non eccelso!

Bruno Conti

Un Musicista Dallo Sri Lanka, Questo Mancava! Bhi Bhiman – Bhiman

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Bhi Bhiman – Bhiman – Boocoo Music 2012

Devo ammettere che un musicista dello Sri Lanka mancava dai miei ascolti, e se Steven Georgiu e Farrokh Bulsara hanno preferito trasformarsi in Cat Stevens e Freddie Mercury, lui è rimasto orgogliosamente Bhi Bhiman, senza assumere nomi d’arte più facili da ricordare. Ma la musica è quella che ti potresti aspettare da un cantautore che viene dalla Bay Area, anche se l’aspetto esteriore è tipicamente asiatico: ricca di spunti, complessa, con arrangiamenti spesso elaborati ma nell’ambito di uno stile decisamente acustico, basato sul picking spesso intricato di Bhiman che è un eccellente chitarrista.

La produzione è affidata a Sam Kassirer che ha lavorato anche con Josh Ritter e ha svolto il suo impegno andando alla ricerca di strumenti  percussivi inconsueti come il cajon e il vibrafono per una musica decisamente folk, ma ha lasciato molto spazio alla chitarra del protagonista che si arricchisce di piano, organo, contrabbasso, anche suonato con l’archetto, come nella criptica The Cookbook, titolo del suo primo album del 2007, dove però per quel perverso gioco degli autori non appariva un brano con quel titolo. San Francisco Chronicle, Washington Post e New York Times, nonché il decano Robert Christgau (uno dei pochi critici musicali americani che scrive ancora cose sagge) gli hanno dedicato spazi entusiastici e meritati, ormai il disco è uscito da parecchi mesi. Cosa altro si potrebbe dire? La voce, per esempio, è uno strumento anche questo, dal timbro acuto, molto evocativa, si spinge a volte fino ad un falsetto quasi alla Tim Buckley o una Nina Simone virata al maschile. Lui stilisticamente dice di ispirarsi anche a Richie Havens, con quello stile chitarristico dalla pennata veemente e quasi percussiva ma è stato inevitabilmente avvicinato a Dylan, Springsteen e Woody Guthrie (per il tema del viaggio, guardate il video), d’altronde parliamo di un uomo con una chitarra acustica, capace di scrivere testi profondi, immersi sia nel sociale come nel raccontare la quotidianità, sulla falsariga dei grandi folksingers.

Ogni tanto affiorano anche elementi etnici, o così mi pare, ad esempio nell’urgenza di un brano come Time Heals dove un vibrafono, così accreditato nelle note del libretto, ma che sembra più una marimba, regala sfumature orientali alla canzone, con la musica che accelera di continuo per poi rallentare in un intenso finale dove la voce di Bhiman incanta l’ascoltatore con le sue evoluzioni e poi accelera di nuovo con delle sonorità che possono ricordare il Cat Stevens che inseriva elementi greci nella sua musica. Nello spazio di un attimo si vira alla perfetta folk song, con tanto di accompagnamento di 12 corde, nella visionaria Crime Of Passion, dove il testo va per la tangente. Non ho ancora citato il brano di apertura, la bellissima Guttersnipe, che è un po’ il suo biglietto da visita, quasi sette minuti di “stream of consciousness”, che musicalmente ricordano il Van Morrison di Astral Weeks (c’è anche un brano che si chiama Ballerina, non quella) o se preferite termini di paragone più recenti, il primo David Gray o il Ray Lamontagne più complesso, ma sempre da Van vengono, se mi passate il calambour, con una base acustica segnata da contrabbasso e percussioni varie che tengono il tempo, mentre piano, organo, vibrafono e chitarre acustiche avvolgono la voce di Bhiman che raggiunge vette interpretative notevoli.

Non tutto brilla sempre di luce propria, ad esempio Take What I’m Given che peraltro è una dolcissima ballata ricorda molto nella costruzione, almeno a me, I Shall Be Released di sapete chi, ma la musica è lì, nell’aria, basta sapere coglierla. Mexican Wine è un breve brano strumentale che illustra la sua destrezza alla chitarra mentre Kimchee Line è una di quelle filastrocche acustiche che lo avvicinano al citato Guthrie e anche questa mi ricorda qualcosa che non sono ancora riuscito ad afferrare, per il gioco delle citazioni, ce l’ho lì sulla punta della lingua, come pure Atlatl, con una voce volutamente mascherata per dargli una patina di “antichità” come un vecchio 78 giri. Eye On You è l’altro tour de force vocale e strumentale di questo album, più di 6 minuti che ci consentono di godere ancora una volta la bella voce di Bhiman che si libra sicura su un tappeto musicale dove il vibrafono (questa volta sì) gli fa da contrappunto. Che dire, questo signore è veramente bravo, potrà sicuramente migliorare (forse), ma già ora merita un ascolto attento.

La ricerca continua.

Bruno Conti 

A Volte Si Sbaglia! Ray LaMontagne & The Pariah Dogs – God Willin’ And The Creek Don’t Rise

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Ray LaMontagne & The Pariah Dogs – God Willin’ And The Creek Don’t Rise – Rca

Che cosa volete che vi dica? Ritiro tutto quello che ho detto, mi ero sbagliato? Questo è un gran disco, le mie perplessità iniziali dovute ai primi ascolti sono state spazzate via e quasi mi sbilancio a dire che questo potrebbe addirittura essere il miglior disco in assoluto di LaMontagne (ma questo si vedrà, gli altri hanno avuto anni per sedimentare e rafforzarsi, questo è nuovo ma cresce ascolto dopo ascolto e questo è un bene).

Una ulteriore serie di ascolti con volume alto a finestre spalancate (quindi Play Loud!) hanno rivelato una serie di particolari e nuances nelle prestazioni stellari dei vari musicisti coinvolti e nelle composizioni del nostro amico per questo God Willin’.

La prima cosa che balza all’occhio anzi all’orecchio è quella sensazione di gruppo compatto, ben rodato, con un suono che ricorda molto quello dei concerti dal vivo (guarda che circonvoluzione devi usare per dire quello che gli americani direbbero con un semplice Live Feel!): sicuramente ha giovato all’ottenimento di questo risultato il fatto che il disco sia stato registrato in un breve arco temporale di un paio di settimane nella fattoria ristrutturata nell’ovest Massachussetts che il buon Ray ha trasformato in uno studio di registrazione, forse ha contribuito il fatto che la produzione non sia più nelle mani di Ethan Johns (poteva essere un disastro ma evidentemente la lezione era stata ben imparata) ma curata dallo stesso LaMontagne, qualunque sia la ragione il risultato finale è notevole.

L’iniziale Repo Man è strepitosa (anche se non indicativa del suono del resto del disco): sei minuti di rock and roll carnale, misto a soul, con la sezione ritmica di Jay Bellerose, indiavolato alla batteria e Jennifer Condos con il suo basso pulsante che attizzano le due chitarre di Eric Heywood e Greg Leisz che si rispondono dai canali dello stereo con un riff eccellente che ricorda l’attacco di Who Do You Love dei Quicksilver anche se l’assolo di Cipollina e Duncan non parte mai, ma quella è un’altra storia, comunque quel suono tintinnante e ribaldo ricorda anche quello del Tim Buckley più ruspante di Greetings from LA o della Grease Band di Joe Cocker dei tempi d’oro. Proprio al Joe Cocker degli inizi si avvicina moltissimo la voce maschia, rauca e profonda che Ray LaMontagne sfodera per questo brano, istigato dal groove irresistibile che la sua band gli ha costruito intorno, la voce è lasciata libera di dare sfogo alla sua potenza con echi anche del primo Gerg Allman o del Van Morrison (sua grande influenza) più dedito al soul e al R&B. Comunque la si giri, grande inizio che varrebbe da solo il prezzo di ammissione ma che, come detto, non è indicativo delle atmosfere del resto dell’album. watch?v=F59JVJ2k00A (sound primitivo, ma rende l’idea!)

Già dal secondo brano dell’album. la peraltro bellissima New York City’s Kiiling me, prende piede un’attitudine roots, quasi country, quel famoso Americana Sound tanto citato a sproposito ma che in questo caso ben inquadra il sentimento del disco, le chitarre “sofferenti” di Leisz (una pedal steel strepitosa che ricorda i grandi dello strumento degli anni ’70, Sneaky Pete Kleinow, Buddy Cage e Al Perkins tanto per citarne alcuni) e Heywood evocano appunto quel suono “country” vintage ma con i crismi di una grande composizione perché la qualità dei brani contenuti in questo album è sempre elevata.

God Willin’ and The Creek Don’t Rise oltre ad essere il titolo dell’album è anche quello di una bellissima canzone, avvolgente, con la batteria di Bellerose che scandisce i tempi con una serie di rullate urgenti che ricordano lo Steve Gadd più ispirato e la voce di Ray LaMontagne ancora una volta sicura e potente a guidare il suo fido manipolo di musicisti in un altro brano decisamente sopra la media di gran parte della produzione attuale.

Beg Steal or borrow, il potenziale singolo dell’album, è un’altra piccola perla con un ritmo più incalzante dei brani che l’hanno preceduta ma anche più rilassata al tempo stesso, filante, scivola che è un piacere, gioia per le orecchie dell’ascoltatore con la solita steel di Leisz in grande evidenza mentre le tastiere di Patrick Warren l’unico musicista non ancora citato sono quasi sempre molto discrete ai limiti dell’impercettibile, rafforzando l’idea di un disco “chitarristico”.

La seconda parte del disco ci porta verso il lato Youngiano di Lamontagne, ma non prima del quasi folk-soul acustico della dolcissima Are We Really Through, prima di una serie di brani sulla fine di una relazione che sfocia in This Love Is Over, quasi una bossanova country, la solita steel di Leisz domina le operazioni.

Si diceva del lato Youngiano (nel senso di Neil) della musica di LaMontagne, Old Before Your Time è una bellissima canzone, serena e pacifica, con un banjo (o è un mandolino) che crea il tema musicale ricorrente del brano. Più urgente anche se sempre dai tempi rilassati Fot The Summer è un altro brano più simile al canone abituale delle canzoni del nostro amico anche se una slide mordente e un’armonica aggiungono spessore al brano, sempre caratterizzato da quella vivacità del sound di un gruppo ben amalgamato e che sa sempre dove andare a parare musicalmente.

Like Rock And Roll Radio sembra proprio una di quelle lunghe cavalcate acustiche del nostro amico canadese, cantata però dalla caratteristica voce di Lamontagne, ormai “uno strumento” riconoscibile al primo ascolto a dimostrazione della popolarità e della considerazione raggiunte dal musicista del Maine, l’armonica a bocca aggiunge quel tocco in più allo scarno accompagnamento delle sole chitarre acustiche.

Gran finale con l’altro pezzo rock (e blues) del disco, The Devil’s In The Jukebox, già suggestiva dal titolo, movimentata e brillante con una slide acustica insinuante ad aggiungere pepe all’arrangiamento tipicamente roots del brano e se non fosse per il titolo verrebbe voglia di dire che tutti i salmi finiscono in gloria.

Ray LaMontagne sarà in tour negli States, in concomitanza con l’uscita del disco il 17 agosto, dalla settimana prossima, con lui David Gray che presenta l’altrettanto nuovo Foundling che esce lo stesso giorno (sentito, bello, recensione nei prossimi giorni).

In tre parole, gran bel disco!

Bruno Conti

Novità Agosto Parte II. Richard Thompson, Ray LaMontagne, Ringo Starr, JJ Grey & Mofro, Brian Wilson, Marty Stuart

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Come promesso e minacciato ancora alcune nuove ed interessanti novità in uscita ad agosto.

Prima le dolenti note: mi sono informato e purtroppo il Box di 19 CD dedicato a Sandy Denny, per problemi di diritti, sarà disponibile solo per il mercato inglese. Quindi rimane confermata la data del 4 ottobre (che per inciso è anche il 40° anniversario della morte di Janis Joplin), ma la reperibilità sarà piuttosto difficoltosa e il prezzo schizza a vette incredibili (oltre alle 150 sterline già citate, l’unico sito che porta il prezzo in euro parla di oltre 260 euro).

Il 31 agosto esce il nuovo CD di quello che è stato grande partner della Denny nei Fairport Convention e che da molti anni è uno dei più straordinari cantautori e chitarristi della scena mondiale: il nuovo album di Richard Thompson si chiama Dream Attic ed è stato registrato dal vivo alla Great American Music Hall di San Francisco, ma, attenzione, i 13 brani che lo compongono sono tutti nuovi e creati lì al momento. O meglio, esistevano sotto forma di demo e i più rapidi e fortunati avranno occasione di verificarlo perché nella prima tiratura del CD su etichetta Proper per il mercato inglese (e distribuito in Italia dalla Ird), sarà allegato un 2° cd con tutte le versioni demo dei tredici brani. In inghilterra esce anche il giorno prima, il 30 agosto, quindi ocio.

Ray LaMontagne è uno dei più bravi e talentuosi cantautori delle ultime generazioni e non sbaglia un colpo: il suo nuovo album registrato con i Pariah Dogs si chiama God Willin’ and the Creek Don’t Rise. Qui la data è un po’ controversa, il 17 agosto in America e il 6 Settembre in Europa (in Italia non si sa, magari non viene pubblicato neppure, ma import si troverà sicuramente), su etichetta Columbia o Rca a seconda del continente. I Pariah Dogs sono una sorta di mini supergruppo con Jay Bellerose alla batteria, Jennifer Condos al basso, Patrick Warren alle tastiere e Greg Leisz e Eric Heywood alle chitarre. Da quel poco che si può sentire in rete al momento suona molto promettente.

Il disco nuovo di JJ Grey & Mofro Georgia Warhorse in teoria uscirebbe il 24 agosto su etichetta Alligator ma in pratica in Italia è già in circolazione da una decina di giorni, io stesso ne sono felice possessore (quindi recensione nei prossimi giorni). Si conferma il solito eccellente misto di rock, blues, southern rock e funky dal nord della Florida con la partecipazione come autore di Chuck Prophet e come musicisti di Toots Hibbert (proprio quello di Toots and the Maytals, i più soul dei gruppi reggae) e, alla slide, del conterraneo Derek Trucks.

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Il 7 luglio ha compiuto 70 anni e a gennaio aveva già pubblicato Y Not forse il suo miglior album di sempre. Stiamo parlando di Ringo Starr che, per la serie meglio battere il ferro finché è caldo, pubblica (anzi negli States è già uscito) un nuovo CD o DVD dal vivo con la All Starr Band Live At The Greek Theatre 2008. Quest’anno, il 9 ottobre, avrebbe compiuto 70 anni anche John Lennon e il 2010 è anche il trentesimo dalla sua prematura scomparsa. Già si comincia a parlare di un box con la sua opera omnia da solista (in effetti è già programmato per un uscita all’inizio di ottobre, appena ho i dettagli vi faccio sapere).

Sempre parlando di giovincelli, ma lui ne ha compiuti appena 68, nel mese di giugno, anche Brian Wilson che sta vivendo una seconda giovinezza artistica il 31 agosto pubblica un nuovo disco Reimagines Gershwin (anche questo in America esce il 17 agosto ma in Italia è tutto chiuso per ferie mentre negli States è uno dei periodi più proficui discograficamente parlando, come è sempre stato e pure nel resto del mondo). E’ uno strano album dove interpreta brani del repertorio di Gershwin rivisti nella sua ottica ma ha anche completato alcuni frammenti di canzoni rimaste incompiute e quindi vedremo la strana accoppiata Gershwin/Wilson nelle firme degli autori.

Marty Stuart è uno dei più interessanti interpreti e autori di country, quello delle radici e della grande tradizone, il suo nuovo lavoro si chiama Ghost Train (The Studio B Sessions) e si preannuncia molto interessante con la partecipazione di Connie Smith una delle grandi icone delle voci femminili della musica country americana che incidentalmente, ma non troppo, è anche la moglie di Stuart che ha 17 anni meno del marito e credo sia il quarto o il quinto che sposa, ma ragazzi questa è l’America.

Qualche titolo interessante in uscita in agosto c’è ancora, ne parliamo la prossima volta e alcuni ve li recensisco direttamente.

Bruno Conti