Messaggio Pervenuto, Forte E Chiaro! Dave Specter – Message In Blue

dave specter Message In Blue

Dave Specter – Message In Blue – Delmark/IRD

All’incirca quattro anni fa (diciamo tre e mezzo( ci eravamo lasciati con l’ultimo album (allora il nono) di Dave Specter, un disco completamente strumentale intitolato Spectified, che veniva pubblicato dalla piccola etichetta Fret 12 Records http://discoclub.myblog.it/2011/02/19/blues-senza-parole-dave-specter-spectified/ . Nel 2014 Specter ritorna alla sua casa discografica storica, la Delmark, con la quale era uscita la quasi totalità della sua opera. E lo fa alla grande, con uno dei dischi migliori, se non il migliore, della sua discografia. Come molti sapranno Specter non canta, si “limita” a suonare la sua chitarra. Alternandosi tra Gibson e Fender, Dave è diventato nel corso degli ultimi venticinque anni uno dei migliori interpreti del blues di Chicago, città da cui provengono sia lui che la sua etichetta. Ma questa volta ha voluto fare le cose in grande; tredici brani, di cui sette strumentali e sei cantati, tre dal grandissimo Otis Clay, al suo esordio su Delmark, un “negrone” (nel senso più affettuoso e meno razzista possibile) ancora in possesso di una delle voci più belle del soul e del blues attuale, da sette anni inattivo a livello discografico e sia lode a Specter per averlo voluto in questo Message In Blue. Gli altri tre brani li canta Brother John Kattke, il tastierista della band, in possesso di una voce più che rispettabile.

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Ma andiamo con ordine. Il disco si apre con lo shuffle mid-tempo di una New West Side Stroll dove Specter comincia a scaldare la sua solista dallo stile pulito e brillante, che tra gli attuali chitarristi si può paragonare, forse, a quello di Ronnie Earl, altro grande stilista, e tra i grandi bianchi del passato a Mike Bloomfield, ai tempi della Butterfield Blues Band o, vista la presenza dell’organo dell’ottimo Kattke, al sound della celebre Super Session https://www.youtube.com/watch?v=vS7B4FCs5Lw . Poi si comincia a godere come ricci con il primo tuffo nella grande Soul music, quella con la S maiuscola, Otis Clay, supportato da una sezione fiati di quattro elementi, più un paio di voci femminili di supporto, inizia a scaldare l’atmosfera con Got To Find A Way e Dave Specter cesella un assolo che non ha nulla di invidiare a ciò che eravamo abituati ad ascoltare nelle grandi tracce targate Atlantic o Stax https://www.youtube.com/watch?v=BureqD843Y4 . This Time I’m Gone For Good è anche meglio, uno slow blues dal repertorio di Bobby Blue Bland, cantato da Clay con una intensità incredibile e con il nostro Dave che pennella una serie di interventi con la  solista da lasciarti senza fiato per la precisione assoluta, quasi chirurgica della sua chitarra, chiamata a misurarsi con uno dei cantanti migliori ancora in circolazione nella musica nera https://www.youtube.com/watch?v=1dO9UX8j8Is . Dopo un inizio così scoppiettante uno potrebbe aspettarsi un calo di tensione, invece la band, e Specter, ci regalano uno strumentale fantastico come la title-track Message In Blue, un chiaro esempio anche delle capacità compositive del titolare dell’album, melodia e tecnica a braccetto per una ballata blues godibilissima, ragazzi se suona!

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Chicago Style, come il titolo esemplifica, è un brano originale firmato da Specter, che permette a Brother John Kattke, ancora accompagnato da una scintillante sezione fiati, di “omaggiare”, citandoli per nome e cognome, molti di coloro che hanno fatto grande la storia musicale della Windy City, e gli assoli di chitarra e piano non sono messi lì a caso. A questo punto arriva un altro piccolo capolavoro, una rilettura fantastica del super classico di Wilson Pickett, I Found A Love, con eccellenti armonie vocali a quattro parti e un ingrifato Otis Clay che “urla” il suo soul come solo i grandi sanno fare, eccellente anche il lavoro della chitarra che punteggia tutto il brano con un continuo lavoro, solista e ritmico, di cucitura del tessuto del brano. A questo punto potremmo andare tutti a casa, il disco è da aversi anche solo per questi brani, ma Funkified Outa Space, che si ispira al funky New Orleans Style dei Meters, Same Old Blues, il secondo brano più famoso scritto da Don Nix dopo Going Down, reso in una versione appassionata e quasi claptoniana da Specter e Kattke, che la canta alla grande, sono episodi non trascurabili. Come pure The Stinger un altro strumentale, screziato da ritmi santaneggianti, con un fantastico e ricco di varietà lavoro della solista, che ricorda anche qualche “tonalità” alla Peter Green https://www.youtube.com/watch?v=3qumAaXOjvA .

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Jefferson Stomp ci introduce ancora una volta ai talenti di Bob Corritore, musicista che preferisco in questo ruolo di sparring partner di grandi chitarristi, e nel caso specifico a fronteggiare con la sua armonica la slide dirompente di uno spumeggiante Dave Specter https://www.youtube.com/watch?v=9f7hHB3Fwwo . Watchdog è l’ultimo brano cantato da Brother John Kattke, puro Chicago Blues eseguito con la giusta cattiveria dalla solista che taglia a fettine il brano, mentre The Spectifyin’ Samba, con il sax tenore di John “Boom” Brumbach in bella evidenza, potrebbe ricordare le classiche tracce del King Curtis dei tempi che furono. Conclude, ancora con la presenza di Corritore, una Opus De Swamp che nelle note viene paragonata a certe sonorità “vibrate” del vecchio Pop Staples, e non si può che convenirne. Questo sì che è (Rhythm&) Blues, e pure soul, in due parole, molto bello!

Bruno Conti

*NDB Come vedete oggi doppia razione. A fianco, nei commenti, impazzano le polemiche per il, si fa per dire, “non concerto” degli Eagles a Lucca. Non mi intrometto e non modero, lascio libero chiunque di esprimere il suo parere, finché si rimane nei limiti della buona educazione, e mi pare ci siamo. Non ci sono censure preventive in generale, se ogni tanto vedete dei commenti in inglese, e ne arrivano tanti, che poi scompaiono a breve, è perché si tratta di gente che vuole fare pubblicità al proprio sito e blog, ma commenta su vecchi Post presi a casaccio, tra le migliaia usciti negli scorsi anni. Un’ultima avvertenza già che ci sono: siccome mi è capitato che qualcuno si sia lamentato del fatto di doversi iscrivere per entrare nel Blog, forse non uso all’utilizzo degli stessi, volevo ricordarvi che una volta che siete entrati in Disco Club non occorre fare login o altre strane manovre, se nella prima riga vedete una serie di scritte con vari comandi, lasciate perdere, sono riservati all’amministratore del Blog, cioè il sottoscritto, per inserire nuovi Post ed aggiornamenti, al resto si può accedere dagli Archivi, dagli articoli recenti o passati, o nei commenti e comunque dall’ultima colonna a destra. Grazie e buona lettura.

Bruno

La “Nonna” Del Southern Soul! Candi Staton – Life Happens

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Candi Staton – Life Happens – Beracah Records

La sua carta d’identità recita anni 74 (ma dalla cover del CD si vede che sono portati benissimo), anche se prima di leggere questa recensione, molti, tanti (purtroppo) non sapranno chi è Candi Staton, complice una carriera che ha portato questa meravigliosa cantante ad abbandonare la “soul music” per oltre un ventennio (dopo i successi degli anni ’70), per una serie di problemi personali (tra perdite personali, divorzi e dipendenza dall’alcol), trovando infine rifugio tra le mura della Chiesa, cosa che l’ha portata ad incidere per anni solo brani “gospel”. L’album della rinascita, lo splendido His Hands (06) venne alla luce sotto la produzione di Mark Nevers dei Lambchop, e conteneva undici perle che spaziavano fra soul e rhythm & blues, alcune cover d’autore, come Cry To Me di Bert “Russell” Berns, lanciata dal grande Solomon Burke, tutte cantate con “anima” genuina dalla Staton. Disco bissato dal successivo Who’s Hurting Now? (09), nell’interregno è stata pubblicata una compilation di gospel-soul come Evidence The Complete Fame Records Masters (11), con materiale d’archivio. Ora eccola di nuovo sul mio lettore con questo Life Happens, ad inondarci i padiglioni auricolari con la sua musica che spazia dal country rock al southern soul, con sfumature di toni blues e funky, facendosi produrre dal grande Rick Hall  titolare della Fame Records, ricomponendo un binomio di grande successo negli anni ’70.

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Per questo lavoro (il ventisettesimo della sua carriera, fidatevi, ho contato e ricontato) oltre a musicisti di area, Candi si è avvalsa, tra gli altri, di Toby Baker e Larry Byron alle chitarre, Mose Davis alle tastiere, Mike Burton al sassofono, Steve Herman al corno, e di suo figlio Marcus Williams (ha suonato anche con Isaac Hayes e Peabo Bryson) alla batteria, registrando il tutto negli storici Fame Studios di Muscle Shoals in Alabama https://www.youtube.com/watch?v=QvpfqzZjpOI .

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Life Happens è una miscellanea di generi che dal brano d’apertura, Three Minutes To A Relapse condiviso con Jason Isbell e John Paul White dei Civil Wars, spazia tra il rhythm and blues di brani come Go Baby Go, Close To You e Where Were You When You Knew?, le atmosfere soul di Have You Seen The Children? e Beware, She’s After Your Man, passa per il funky affumicato alla Etta James di Never Even Had The Chance e Even The Bad Times Are Good, ma è indubbio che siano le ballate dove Candi dà il meglio di sé, nelle languide My Heart’s On Empty, I Ain’t Easy To Love https://www.youtube.com/watch?v=9J-7KChSle8 e You Treat Me Like A Secret, Commitment, per finire con le struggenti armonie di una Better World Coming, e i leggeri rintocchi di pianoforte e chitarra, che dialogano brillantemente con la Staton e varie voci di supporto in una celestiale For Eternity.

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La cantante di Hanceville, Alabama, con quattro decenni di carriera alle spalle, è stata sicuramente artefice di un percorso artistico che per un certo periodo l’ha vista anche protagonista della “disco”, attraversando il deserto per la redenzione con il “gospel”, e trovando la meritata serenità con la triade iniziala con His Hands, fino a giungere a questo Life Happens, dove ogni canzone è la storia della sua vita, con tutti i suoi alti e bassi, gioie e dolori (amori, disperazione, redenzione e speranza). Per chi scrive è bello sapere che Candi Staton non è andata via, canta ancora per noi, perché di dischi cosi, personalmente ne vorrei almeno uno al mese. Altamente consigliato.

Tino Montanari

Una Band Per Tutte Le Stagioni! The Dukes Of September – Donald Fagen, Michael McDonald, Boz Scaggs Live At Lincoln Center

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The Dukes Of September Donald Fagen, Michael McDonald, Boz Scaggs – Live At Lincoln Center 429 Records/Universal DVD o Blu-ray

Forse qualcuno di voi (spero molti) ricorderà la New York Rock And Soul Revue, un ensemble di musicisti che ha operato nel periodo a cavallo tra il 1989 e il 1992, regalandoci un unico disco, il piacevolissimo Live At The Beacon, registrato al famoso teatro newyorkese nelle serate dell’1 e 2 marzo 1991 e pubblicato dalla Giant a fine ottobre dello stesso anno. Gli “istigatori” del progetto erano gli stessi che ora si presentano come The Dukes Of September (ma vanno bene per tutte le stagioni): ossia Donald Fagen (per tutti Mr. Steely Dan), Michael McDonald, il cantante della seconda fase dei Doobie Brothers e Boz Scaggs, nella Steve Miller Band delle origini e poi con una lunga carriera solista che ha toccato tutti i generi, dal blues degli inizi, al blue-eyed-soul e funky degli anni ’70 e poi la musica raffinata e cesellata che lo ha sempre caratterizzato fino all’ultimo, bellissimo, Memphis http://discoclub.myblog.it/2013/02/27/la-classe-non-e-acqua-boz-scaggs-memphis/. Ma nella formazione originale degli anni ’90 c’era anche uno dei maestri del blues e del R&B (e di Ray Charles, anche The Genius ne aveva uno, o più d’uno) come Charles Brown, oltre ad una delle voci più belle mai prodotte dalla musica americana (e tra le mie preferite in assoluto, come ben sa chi legge il Blog) come Phoebe Snow http://www.youtube.com/watch?v=JgBrmOZCyVg , e due terzi (i meno noti, comunque bravi) dei Rascals, Eddie & David Brigati, quelli di Groovin’, che infatti era presente nel CD.

new york rock and soul revue

Quindi il menu della Revue era ancora più ricco di voci e sapori, ma anche la versione “ristretta” della Band, quella attuale, che da qualche anno gira con il nome The Dukes Of September, per continuare a spargere il seme della buona musica (quella che piace a loro, soul, blues, errebì, funky, classici degli anni ’60 e della loro discografia) oltre che per divertire e divertirsi, è sempre un gruppo più che rispettabile, i tre leader hanno qualche annetto fa in più e ogni tanto la voce non arriva dove vorrebbe (con l’eccezione di Scaggs, sempre in forma vocale strepitosa), ma i musicisti che li accompagnano sono formidabili, a partire da Michael Leonhart, qui in versione di trombettista e leader della sezione fiati, completata da Walt Weiskopf e Jay Collins a sax e fiati, proseguendo con Jon Herington, chitarrista sopraffino, anche lui da tempo collaboratore di Donald Fagen sia nell’ultimo Sunken Condos (http://discoclub.myblog.it/2012/10/18/torna-il-cesellatore-donald-fagen-sunken-condos/) quanto nelle esibizioni Live con gli Steely Dan. Jim Beard, che si alterna e si integra alle tastiere con Fagen e McDonald, oltre ad avere una notevole discografia jazz e fusion e ad avere suonato nei dischi di Herington e Walter Becker, l’altro Steely Dan. Sezione ritmica lussuriosa con il bassista Freddie Washington, sempre del giro e Shannon Forrest, il batterista che oltre ad essere un turnista di lusso era nell’ultimo disco di Scaggs, Memphis. A completare il tutto le due vocalist di supporto, la moglie di Leonhart, Carolyn e Monet Owens. 

Poi, non avendo potuto assistere di persona (come penso tutti voi) al concerto tenutosi al Lincoln Center, nel 2012, a due passi da Manhattan o avere visto lo stesso alla PBS Television, basta inserire il dischetto nel lettore DVD e si inizia a godere. Sono 18 brani, all’incirca un’ora e mezza che traccia la storia della musica americana. Lo strumentale programmatico People Get Up And Drive Your Funky Soul presenta la band sul bellissimo palco del Lincoln Center, poi la chitarra di Herington si impossessa del celeberrimo riff di Who’s That Lady, uno dei pezzi più belli del periodo post-hendrixiano degli Isley Brothers, uno stupendo brano di, come definirlo, “soul spaziale”, con i tre protagonisti, prima Scaggs, poi Fagen e infine McDonald a dividersi le parti cantate e la band che inizia a macinare musica nella migliore tradizione delle grandi revue concertistiche. Sweet Soul Music, l’altrettanto celebre brano di Arthur Conley, che è un piccolo bigino di tutta la musica soul, con fiati e coriste che impazzano, vede Scaggs alla chitarra solista mentre i tre si dividono ancora democraticamente le strofe della canzone, deliziosa come sempre. Poi partono gli spazi solisti: Michael McDonald per primo,  con la sua melliflua e raffinata I Keep Forgettin’, che era su If That’s What It Takes, il primo disco del 1982, la voce ogni tanto “sforza” ma è sempre un bel sentire, Kid Charlemagne è uno dei brani migliori degli Steely Dan,dal groove inconfondibile, immancabile nei concerti e qui Fagen si trova decisamente più a suo agio rispetto agli altri brani, dove comunque se la cava alla grande. The Same Thing, con l’ottimo Herington alla slide, è proprio il celebre blues scritto da Willie Dixon per Muddy Waters, e qui Boz Scaggs dimostra di avere ancora una voce fantastica, la più inossidabile del trio al passare del tempo, e allo stesso tempo di essere anche un ottimo chitarrista.

Miss Sun inizia a scaldare la pista da ballo, con il funky misto a blue-eyed soul di Scaggs, un brano del 1980 che scivola liscio come l’olio sul wah-wah che lo attraversa, mentre le coriste (la Owens soprattutto, qui in duetto con Boz) e fiati si dannano sempre l’anima. E’ musica anche commerciale e easy, ma come è fatta bene, sei minuti e mezzo di delizie vocali. You Never Can Tell è proprio il classico di Chuck Berry, ancora Boz a guidare la band per una versione che ripropone lo stile country’n’roll dell’oriiginale, anche grazie alla fisarmonica di Michael McDonald e al pianino honky-tonk di Fagen. Ovviamente non potevano mancare pure un paio di classici dei Doobie Brothers, il primo a fare la sua apparizione è What A Fool Believes, chi scrive ha sempre avuto una preferenza per i primi Doobies, quelli di Tom Johnston e Patrick Simmons, ma non posso negare che le evoluzioni vocali soul-rock di McDonald hanno sempre avuto un loro fascino. Torna il repertorio degli Steely Dan per una sontuosa Hey Nineteen, uno dei brani più belli di Donald Fagen (ma ne ha fatti di brutti?), con i precisi interventi dei vari solisti e della band, poi è tempo di “Philly Sound” per una Love TKO che viene dal repertorio di Teddy Pendergrass, ma sia McDonald che Scaggs l’hanno incisa, un soul ballad sontuosa, uno degli standard della musica anni ’70 nell’era pre-disco, qui la canta splendidamente Boz, che voce che ha ancora il “ragazzo”, 70 anni quest’anno ma come canta! Di nuovo repertorio Steely Dan per una pimpante Peg, grande assolo di Herington, con Fagen che lascia il giusto spazio ai suoi pard ma spesso sale al proscenio con la sua melodica, come in questo brano.

In ogni caso secondo me il grande protagonista della serata è proprio Boz Scaggs, quando parte il riff di basso di Lowdown (uno dei più ripresi da chi ama la musica funky di gran classe dei seventies) è goduria pura http://www.youtube.com/watch?v=4p8LEAanLZs , Freddie Washington magistrale nella scansione ritmica, e Harington alla solista, ma tutta la band è magnifica. La parte finale del concerto è decollata e da qui in avanti è un tripudio per il pubblico: McDonald in gran spolvero, anche al piano, in una trascinante Takin’ It To The Streets http://www.youtube.com/watch?v=NQmYB7_Z93Q  e poi una versione eccellente di Reelin’ In The Years con la band che gira a mille, Herington alla solista su tutti, ma anche Fagen canta veramente bene. E poi si capisce che lo stile dei tre è interscambiabile e si incastra in quello degli altri senza il minimo problema. Ancora Scaggs sugli scudi per una perla della funky music virata rock come Lido Shuffle http://www.youtube.com/watch?v=iAZXVmGPhBM : non so quanti di voi lo conoscano, in caso contrario è una lacuna da colmare assolutamente, un signore che ha percorso tutte le strade del rock, dal blues con Steve Miller e Duane Allman al funky, al soul e poi di nuovo al rock, con una classe sempre integra, sentire per credere, un vero bianco “nero”! Si conclude con un altro dei capolavori di Donald Fagen, la riflessiva e bluesata (per l’occasione) Pretzel Logic con Jon Herington che viene stimolato a prendersi i suoi spazi. I tre grandi bianchi concludono con quello che era uno dei classici del rock “nero”, Buddy Miles prima, da solo e con Santana, Hendrix con la Band Of Gypsys, poi, mentre per l’occasione viene rivoltata in una versione anche jazzata, cantata da McDonald, più raffinata ma sempre vicina allo spirito “selvaggio” dell’originale. Titoli di coda e sigla finale, grazie per la bella serata, rende benissimo anche su DVD, musica per le gambe e la braccia, ma soprattutto per il cervello, funky soul come dicono le coriste nella coda del DVD?

Bruno Conti

Un Fiume Di Note Di “Rock Sudista”! JJ Grey & Mofro – This River

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JJ Grey & Mofro – This River – Alligator Records 2013

Spendere con coscienza il proprio denaro nell’acquisto dei costosissimi CD è cosa ardua, la scelta è vasta, l’offerta supera senza dubbio la domanda, e organizzare le risorse è obiettivamente difficile. Chi avrà un po’ di spregiudicato coraggio ed acquisterà il CD di JJ Grey & Mofro (uno dei gruppi di qualità che riescono ad ottenere un certo successo anche nelle chartsamericane), non rimarrà certo deluso. Vengono da Jacksonville (Florida), e il gruppo è costituito dal leader e frontman JJ Grey voce, tastiere, chitarre e armonica a bocca, Andrew Trube chitarra acustica e elettrica, Anthony Farrell piano e organo, Todd Smallie al basso, Anthony Cole alla batteria, e la sezione fiati composta da Art Edmaiston al sassofono tenore e Dennis Marion alla tromba, per un suono che si sviluppa in diversi generi tra soul, funky, R&B, blues e southern rock. Il loro esordio discografico avviene con due album a nome Mofro, ovvero Blackwater (2001) e Lochloosa (2004) distribuiti dalla Fog City, poi messi sotto contratto dalla storica label Alligator (e questo è molto indicativo) sfornano Country Ghetto (2007), Orange Blossoms (2008), la raccolta The Choice Cuts (2009), Georgia Warhorse (2010), e, buon ultimo, lo splendido live Brighter Days (2011) testimonianza del concerto tenuto alla Variety Playhouse di Atlanta ragazzi-che-grinta-jj-grey-and-mofro-brighter-days.html

Risalendo il fiume (This River) JJ Grey e i suoi Mofro incontrano il funky di Your Lady, She’s Shady e Florabama, il Rhythm’n’Blues di Tame A Wild One, 99 Shades Of Crazy e Write A Letter, il soul di Somebody Else e Standing On The Edge, il blues-funky di Harp & Drums, fino ad arrivare dolcemente alla foce del fiume con due strepitose ballate acustiche, The Ballad Of Larry Webb e la title track This River.

La musica di JJ Grey & Mofro scorre proprio come il St.John’s River che attraversa Jacksonville (a cui il disco è dedicato), a volte lenta e sinuosa (nelle ballate), più spesso impetuosa (nei brani funky), a volte spumeggiante (con il R&B e soul), ma con un groove che rimanda a nomi illustri della scena black music (James Brown e Otis Redding su tutti) e che trova una ulteriore spiccata maturità. Ascoltando This River non mi stupisce che questa band non abbia ancora sfondato in Italia (dove il mercato discografico è molto particolare, abituato a sonorità più facili), ma se però siete in vena di ascoltare della buona musica (nera), dove la musica per essere tale deve avere un’anima, qui trovate “trippa per gatti” (NDB), basta far girare il CD e stappare una birra (vi consiglio la Murphy), il resto viene da sé.

Tino Montanari

Da Sola O In Compagnia, Sempre Una Gran Voce! Beth Hart – Bang Bang Boom Boom

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Beth Hart – Bang Bang Boom Boom – Mascot Music 2012 Deluxe Edition

La visibilità maggiore è arrivata lo scorso anno con Don’t Explain, in collaborazione con Joe Bonamassa,  un disco di “covers” scelte in ambito blues e soul, ma Beth (non più giovanissima) è in pista dalla metà degli anni ’90, e avrebbe meritato (per chi scrive) molto prima il giusto riconoscimento musicale. Nata a Los Angeles, Beth Hart ha iniziato a suonare il piano in tenera età (quattro anni), e negli anni crescendo si è appassionata ai grandi musicisti classici (da Bach a Beethoven) e a quelli rock (Led Zeppelin, Rush) e grandi cantanti di colore (James Brown, Otis Redding, Aretha Franklin, Billie Holiday e Etta James), oltre all’immancabile Janis Joplin. Il naturale passo successivo è stato quello di iscriversi alla nota High School Of Performing Arts di L.A. dove ha studiato canto e violoncello, ma le troppe esibizioni serali nei locali della periferia , finirono per allontanarla dalla scuola e fu cosi che Beth iniziò a dedicarsi alla musica mettendosi in proprio.

Nell’estate del ’93 forma un suo gruppo, The Beth Hart Band, nel quale militavano il bassista Tal Herberg e il chitarrista Jimmy Khouri, firmando un contratto con la 143 Records (l’etichetta dei Corrs), con cui registra il suo album di debutto Immortal (95). Al termine del tour mondiale intrapreso per presentare il disco, la band si sciolse, e Beth si prese un lungo periodo per pensare alla prossima mossa, che fu quella di appoggiarsi al produttore Oliver Lieber, rimettere insieme la band e pubblicare un nuovo disco Screaming’ For My Supper (99). Con Leave The Light On (2003) inizia la sua carriera solista, seguito dall’ottimo Live At Paradiso (2005), 37 Days (2007), My California (2010), il già menzionato Dont’ Explain (2011), sino ad arrivare a questo nuovo lavoro Bang Bang Boom Boom registrato ai Revolver Studios in Thousand Oaks, Ca., co-prodotto da Kevin Shirley, dal manager David Wolff e dal marito Scott Guetzkow.

Per quanto riguarda i musicisti, Beth voce e piano, si avvale di Randy Flowers alle chitarre e dei musicisti della band di Bonamassa (impegnato con i Black Country), ovvero, Michael Rhodes al basso, Arlan Schierbaum all’organo, un trio di batteristi composto da Anton Fig, Herman Matthews, Curt Bisquera, Lenny Castro alle percussioni, Ron Dziubla al sax, Lee Thornberg alle trombe, e non poteva mancare l’amico Joe Bonamassa alla chitarra solista in There In Your Heart.

Il disco si apre alla grande con Baddest Blues dall’intro pianistica per una perfetta rock song, con una interpretazione straordinaria di Beth, mentre Bang Bang Boom Boom il brano scelto come singolo, è un allegra marcetta rock, una sorta di filastrocca che esula dal suo repertorio, ma che entra subito in testa e ti rimane in mente. Better Man è grintosa quanto basta per apprezzare la voce della Hart, seguita dalla “perla” del disco, Caught Out In The Rain, un blues di rara intensità che parte dolcemente, scandito da una chitarra importante, e che pian piano sale sino ad arrivare ad un crescendo vocale che nel finale mi ricorda la grande Etta James. Una meraviglia! Si cambia ritmo con Swing My Thing Back Around, che si rifà alla musica delle grandi orchestre stile Count Basie, un tuffo nel passato eseguito con classe e raffinatezza, per poi tornare alle canzoni d’amore con With You Everyday e Thru The Window Of My Mind, due ballate lente e avvolgenti per cuori infranti. Con Spirit Of God è impossibile tenere il “piedino” fermo, un rhythm ‘n’ blues con i fiati tipico del periodo Stax, un brano trascinante, che inevitabilmente porta Beth a confrontarsi con le grandi cantanti nere del periodo, mentre in There In Your Heart, altra ballata d’atmosfera, l’ospite Joe Bonamassa può dare libero sfogo al suo talento. Si chiude con The Ugliest House On The Block un brano quasi “reggae” dal ritornello accattivante e con un’altra ballata pianistica Everything Must Change, con una bella melodia e un arrangiamento romantico.

Beth Hart, per la gran parte del pubblico italiano è una perfetta sconosciuta, ed è un peccato, perché questa quarantenne “losangelina” è un artista poliedrica, dotata di una voce potente e graffiante (il meglio lo dà nei concerti dal vivo), e nelle dodici tracce di questo Bang Bang Boom Boom dà dimostrazione di essere una cantante dalle enormi capacità e di indubbio talento, a dispetto di tante presunte acclamate “stars”. Quale occasione migliore per conoscere e apprezzare una nuova amica?

Tino Montanari   

Una Sorta Di “Mini” Supergruppo (Con Ospiti), Questo Sì Che E’ Blues! Mannish Boys – Double Dynamite

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Mannish Boys – Double Dynamite – 2CD Delta Groove –

Questo potrebbe essere considerato una sorta di “mini” Supergruppo del Blues: con gente in formazione come Finis Tasby, Frank Goldwasser, Kirk Fletcher, il boss della Delta Groove Randy Chortkoff all’armonica, una solida sezione ritmica e sei album alle spalle, i Mannish Boys si sono costruiti una reputazione come una delle migliori formazioni in circolazione. Ma in questo nuovo doppio album Double Dynamite si sono decisamente superati! Secondo me, oltre che per la lunghissima lista di ospiti che si alternano nei 26 brani, è l’arrivo di Sugaray Rayford che ha contribuito in modo non equivoco al successo di questo album. Una “personcina” imponente fin dall’aspetto fisico, come si può rilevare dalla copertina del CD, questo signore canta nove brani in totale nell’album ma stampa la sua presenza come una voce di quelle che si sentono raramente, potente, gagliarda, espressiva, sia alle prese con il soul che con il Blues e anche col funky, con un carisma che risalta anche dall’ascolto del disco in studio, ma dal vivo deve essere ancor più evidente. Senza sminuire il lavoro di tutti i musicisti all’opera in questo album che si candida per essere uno dei migliori dell’anno nell’album nell’ambito Blues-Soul-R&B.

Diviso in due dischi intitolati rispettivamente Atomic Blues e Rhythm & Blues Explosion il doppio parte subito alla grande con una versione di Death Letter di Son House, cantata appunto da Rayford (era presente anche nel suo unico disco solista del 2010 Blind Alley, dove suonano fior di musicisti, tra gli altri Tim Bogert, Gary Mallaber e Phil Parlapiano, se lo trovate non lasciatevelo scappare): Frank Goldwasser con una minacciosa slide si divide il proscenio con l’omone. E da lì è un tripudio (esageriamo!), Finis Tasby, anche se nella suddetta copertina sembra il nonno degli altri, ma ha “solo” 72 anni, è ancora un signor cantante e lo dimostra in una Mean Old World  illuminata anche dai primi ospiti, Rod Piazza all’armonica e Elvin Bishop pure lui alla slide. E il Blues pulsa anche nell’eccellente Bricks In My Pillow con Sugaray ancora ottimo vocalist, il pianino di Rob Rio e la solista di Goldwasser facilitano. Da Jackie Payne, altro vocalist di grande talento della scuderia Delta Groove mi aspettavo uno sfracello nella versione di She’s 19 Years Old/Streamline Woman, e quasi ce la fa ad avvicinarsi al grande Muddy Waters, il titolare dei brani, ma quasi, ancora Goldwasser e Piazza sugli scudi.

Torna Tasby per una saltellante Never Leave Me At Home con l’armonica di Chortkoff al proscenio per la prima volta. Mud Morganfield è il figlio maggiore di McKinley (detto anche Muddy) e proprio recentemente ha pubblicato il suo debutto per la Severn (non c’è paragone con Big Bill, l’altro figlio): non sempre “i figli di” si rivelano all’altezza dei genitori ma spesso il problema sta nel manico, la voce c’è e se i musicisti sono all’altezza, tutto funziona alla grande come in questa versione umorale di Elevate Me Mama con Bob Corritore e Rob Rio ad attizzare il vocalist ed i Mannish Boys. Non ve la faccio lunga perché i brani sono tanti ma la Bad Detective cantata da James Harman, ottimo anche all’armonica, è notevole, come pure lo spazio dedicato sempre al “soffio” di Jason Ricci in Everybody Needs Somebody che non è quella di Solomon Burke ma il brano di Litte Walter. Tasby, Chortkoff e soprattutto il bravo Rayford (sentire come canta The Hard Way, uno slow blues di Otis Spann), si dividono gli altri spazi vocali prima di lasciare la scena nuovamente a Morganfield  per il finale di Mannish Boy che avrebbe fatto felice l’augusto babbo!

Ed è solo il primo CD, il secondo se possibile è anche meglio: tra soul e R&B, come da titolo, e con una sezione di fiati a potenziare la già impressionante batteria di musicisti. Anche in questo caso partenza sparata con una tiratissima Born Under A Bad Sign, canta Finis Tasby, la solista pungente è quella di Bishop nuovamente, i fiati sono sincopati come si conviene e l’organo Hammond di Mike Finnigan si fa sentire. L’istrionico Rayford canta la trascinante That Dood It con Kirk Fletcher alla solista, poi parte la festa del soul con una You’ve Got The Power che illustra il lato romantico di James Brown, cantata in coppia da Sugaray e Cynthia Manley, non conoscevo, bella voce. Il bassista Bobby Tsukamoto alza il fattore funky in Drowning On Dry Land con Nathan James alla solista, Fred Kaplan al piano, di nuovo Mike Finnigan all’organo e Rayford in overdrive . Finnigan ci regala una rara perfomance vocale e pianistica nella cover di puro R&B (non soul) di Mr. Charles Blues (ovviamente il Charles in questione è Ray). Ricorderei anche una versione strumentale di Cold Sweat con Tsukamoto ancora in gran spolvero e apparizioni varie di Jackie Payne, nuovamente, Kid Ramos, Junior Watson, Jason Ricci e gli altri Mannish Boys. Questo sì che è Blues!

Bruno Conti     

Ironia Della Sorte! E’ Scomparso Anche Johnny Otis – The Godfather Of Rhythm & Blues

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Johnny Otis – 28-12-1921/17-01-2012

Batterista, Dj, Direttore d’orchestra, cantante, ma soprattutto scopritore di talenti e uno dei più grandi musicisti della storia del R&B che ha contribuito a lanciare, è morto 4 giorni fa a Los Angeles, California, dove era nato 90 anni fa (spero di vecchiaia). Non per nulla era noto come “Il Padrino del Rhythm And Blues”, da non confondere con il Godfather Of Soul, James Brown!

Ironia della sorte, perchè era stato proprio lui lo scopritore di Etta James, per la quale produsse Roll With Me, Henry conosciuta anche come The Wallflower,il suo primo successo a inizio anni ’50. Nella Johnny Otis Orchestra poi conosciuta come Johnny Otis Show hanno militato anche Little Esther(Phillips) e Big Jay McNeely. Il suo più grande successo fu Willie And The Hand Jive del 1958 poi ripresa anche da Eric Clapton in 461 Ocean Boulevard.

E’ stato anche il padre di Shuggie Otis, grande chitarrista e cantante e talento inespresso, nonchè degno figlio di tanto padre!

Ringrazio il lettore del Blog Stefano Palladini che lo ha segnalato nei Commenti. Qualcosa ogni tanto sfugge, non riesco a tenere tutto sotto controllo.

Bruno Conti