Un Tributo Fatto Col Cuore, Bello E Sorprendente. VV.AA. – American Boy: Storia Di Un Ribelle Americano

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VV.AA. – American Boy: Storia Di Un Ribelle Americano – radiosenzatempo.com CD + Book

L’improvvisa scomparsa di Tom Petty avvenuta il 2 Ottobre del 2017 ha lasciato un vuoto pazzesco negli appassionati di musica, anche alle nostre latitudini, nonostante il biondo rocker non avesse mai goduto di grande popolarità all’interno dei confini italici (parlo ovviamente di grande pubblico, quello che guarda il Festival di Sanremo, dato che anche tra gli estimatori nostrani Tom era una vera e propria leggenda vivente). Ed è proprio in Italia che ha avuto origine questo bellissimo tributo dedicato a Petty ed intitolato American Boy: Storia Di Un Ribelle Americano, un’operazione di grande livello professionale nata dall’iniziativa di Radio Senza Tempo, una radio indipendente sorta in quel di Genova nel 2013 per l’iniziativa di due music lovers come Marco Caldez e Valentina Damiani. I due, insieme a Stefano Malvasio che ha messo a disposizione i suoi Red Land Studios per l’incisione dei brani, hanno riunito diverse band originarie del capoluogo ligure (e dintorni), la maggior parte delle quali assolutamente sconosciute ai più, e hanno prodotto questo American Boy, un tributo delizioso a Petty e le sue canzoni, un lavoro fatto con grande amore e passione e con una serie di interpretazioni di notevole livello, a dimostrazione che non serve essere un artista blasonato per riuscire nell’obiettivo, basta avere una buona tecnica di base e tanto amore per la materia affrontata.

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Ma American Boy non è soltanto un eccellente CD pieno di ottima musica, in quanto gli ideatori hanno voluto coinvolgere anche Aladin Hussain Al Baraduni, un artista di strada di origine yemenita che ha illustrato il libro accluso con i suoi dipinti visionari e suggestivi, uno diverso per ogni canzone (e, nella pagina a fianco, una breve biografia di ogni artista coinvolto, oltre al riferimento agli album originali di Petty dai quali sono tratti i vari brani). Un’operazione indubbiamente meritoria, che trasuda amore e passione in ogni dettaglio, ancora di più perché affrontata senza l’assillo di dover a tutti i costi coprire almeno le spese di produzione (ed il CD + libro non si trova nei negozi, ma si può ordinare sul sito di Radio Senza Tempo, il cui link trovate all’inizio della recensione). Nell’album ci sono classici di Tom uniti a brani meno famosi, ma nel 90% dei casi il risultato è sorprendentemente buono, al punto che mi piacerebbe che lo ascoltassero anche i vari membri degli Heartbreakers per sapere cosa ne pensino. Il disco si apre con una scintillante rilettura di Big Weekend, uno dei pezzi più orecchiabili di Highway Companion, da parte dei Charlie, una band guidata dalla squillante voce di Carlotta “Charlie” Risso: versione diretta, e piacevolmente country-rock, che apre benissimo il tributo.

A Mind With A Heart Of Its Own è forse il brano meno conosciuto di quel grande disco che era Full Moon Fever, ma non è affatto male e gli Snake Oil Limited la rifanno leggermente più roccata che in origine, mantenendo però lo stile del suo autore. I Red Wine sono uno dei gruppi più conosciuti all’interno di questo CD, una band di country e bluegrass in giro dal 1978: la loro American Girl, uno dei classici assoluti di Tom, è completamente riarrangiata in puro stile bluegrass, con grande spiegamento di chitarre, banjo e mandolino, ed è un mezzo capolavoro, una rilettura che mi ha lasciato davvero a bocca aperta, degna di stare su qualsiasi tributo di livello internazionale. Molto bravi anche The Flinstoned (con il chitarrista Guitar Ray Scona come ospite), che eseguono la poco nota The Wrong Thing To Do (era sul primo album dei Mudcrutch) con un approccio puramente rock’n’roll, un suono potente e sgangherato alla maniera dei Replacements ed uno strepitoso assolo finale di Scona. I Flabby Fuckin’ Mama affrontano la classica Breakdown con grande rispetto, ed il brano mantiene l’atmosfera laidback dell’originale, mentre la Francesco Rebora Band aggiunge forza alla bella You Don’t Know How It Feels, anche qui con parti di chitarra davvero egregie. Bravissima Jess con una squisita e delicata versione di Wildflowers, voce, chitarra e percussioni per una rilettura folk di grande impatto; i Ghost Notes si cimentano con la trascinante Anything That’s Rock’n’Roll, ed anche loro premono decisamente sull’acceleratore.

I Maghi Di Carroz rifanno la splendida Free Fallin’ tramutandola in una folk song (c’è anche una fisarmonica), ma la voce solista è un po’ troppo sopra le righe (alla Massimo Priviero, per intenderci) ed il risultato finale non mi convince appieno. Invece Luke & The Lion ci consegnano un’ottima Don’t Come Around Here No More, più rock e meno psichedelica di quella apparsa su Southern Accents, ed anche dal ritmo più sostenuto. I Big Mama sono di gran lunga il gruppo più noto tra i presenti, una blues band in giro da 40 anni, che ci delizia con una Jefferson Jericho Blues notturna, soffusa e quasi jazzata, con ottime parti di chitarra e pianoforte: grande classe. The Pottos sono un duo di cantanti e chitarristi, e la loro The Waiting è decisamente piacevole anche in assenza di sezione ritmica; Les Trois Tetons rifanno Mary Jane’s Last Dance molto aderente a quella di Petty, ma stiamo parlando di una grandissima canzone che sarebbe stato rischioso reinterpretare, cosa che invece hanno fatto i Fumonero con la classica Refugee, ed il risultato non mi piace, in quanto la melodia è stata rivoltata come un calzino ed il suono rock dell’originale violentato in favore di un arrangiamento quasi heavy, cupo ed inquietante. Le cose però vanno a posto subito con la stupenda Handle With Care (signature song dei Traveling Wilburys), riletta in puro stile folk-rock, alla maniera dei Byrds, da The Used Cars.

Non arricciate il naso, questo American Boy è uno dei più bei tributi ad un grande artista da me ascoltati ultimamente, in quanto le band coinvolte hanno avuto nella quasi totalità dei casi il buon gusto di rispettare la struttura originaria delle canzoni senza tempo dell’immortale Tom Petty.

Marco Verdi

Ma Sono Veramente Italiani? Paolo Bonfanti & Martino Coppo – Friend Of A Friend

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Paolo Bonfanti & Martino Coppo – Friend Of A Friend – Felmay

Mi sono fatto la domanda nel titolo (una variazione di quello usato per il  disco solo di Paolo) e, come prevede il “codice Marzullo”, mi do anche la risposta. Dai nomi, ovviamente sì, sono italiani, anzi genovesi e quindi propensi alla ricerca di nuovi e vecchi territori, ma dalla musica che esce dai solchi (sia pure virtuali) di questo Friend Of A Friend non si direbbe. In ogni caso, per quello che possiamo ascoltare in questo album, si dovrebbe parlare, se ci piacciono i paroloni, di afflato internazionale: Bonfanti e Coppo (o chi per essi) sul CD ci consigliano di catalogare il contenuto sotto la voce American Roots Music, quel genere che congloba bluegrass, country, blues, folk, cajun e la musica d’autore, e non si sbagliano. Fin qui nulla di strano, lo fanno in tantissimi. Il problema sta nel farlo bene, e loro lo fanno, come dimostra l’attività solista di Paolo Bonfanti (potete leggere qui http://discoclub.myblog.it/2013/10/16/italiani-per-caso-da-genova-paolo-5731139/, quello che ho scritto sul suo ultimo ottimo album) e quella di Martino Coppo con i Red Wine, storica formazione italiana di bluegrass https://www.youtube.com/watch?v=nJCEMV8nTqs , nella quale, negli anni ’80, militò anche Bonfanti, entrato per sostituire Beppe Gambetta, altro virtuoso del genere, dalla fama internazionale.

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I due, armati dei rispettivi strumenti, il mandolino per Coppo e vari tipi di chitarra per Bonfanti, come è facilmente intuibile dalla foto di copertina non sono più dei giovanotti (ma neppure Jovanotti, per fortuna, mi scappa da dire) e quindi, forti di di una lunga militanza nella musica e di una amicizia altrettanto “storica”, hanno deciso di unire le forze per questo dischetto, Friend Of A Friend, che li vede alle prese con le loro passioni musicali. Il fatto che esca per una etichetta dal nome francese, la Felmay, situata nei pressi di Alessandria e che quello di Bonfanti sia uscito per la Club De Musique, gloriosa etichetta di Courmayeur, probabilmente è del tutto marginale, solo una piccola curiosità. Non marginale invece la scelta dei brani contenuti in questo disco di cui andiamo a parlare. Il CD, lo ammetto, è già uscito da qualche mese, ma come ebbe a dire il maestro Manzi, non è mai troppo tardi per parlarne. Si tratta di prodotti che necessitano di tutte le possibilità che è possibile mettere in campo per spargerne la conoscenza, in quanto assolutamente meritori di essere ascoltati da quanta più gente sia possibile raggiungere, sia da chi ama questo genere, magari un po’ di nicchia, ma qui siamo in un sito di carbonari, sia per i novizi. Il dischetto, oltre che sul sito dell’etichetta e nei negozi specializzati, stranamente, lo trovate anche su Amazon, per cui non avete scuse!

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Nei suoi quattordici brani, parte materiale originale e parte cover scelte con gusto e competenza (e in cui riconosco parecchi dei miei ascolti), scorre la storia della musica americana, con una piccola capatina nella terra d’Irlanda e un paio di soste in quel di Genova, vicino a New Orleans. La canzone di apertura https://www.youtube.com/watch?v=IXJYDaxCaA4 , la title-track, dove accanto alla chitarra di Bonfanti (autore del brano) e al mandolino di Coppo, troviamo anche il basso elettrico di Lucas Bellotti, la fisarmonica di Roberto Bongianino e le percussioni di Alessandro Pelle, indica una strada che potrebbe essere interessante (ri)percorrere anche in futuro, una sorta di ballata country-grass che ci riporta a formazioni storiche come i Dillards, i Country Gazette ed altri, ma con la fisarmonica usata in alternativa al suono classico del violino, canzone molto piacevole ed accattivante che predispone subito all’ascolto del disco, anche in virtù della briosa interpretazione vocale. Tennesse Blues è il primo omaggio ai classici, nel caso un brano strumentale di Bill Monroe, dove i plettri volano a velocità supersoniche sui rispettivi strumenti, un poco come ci piaceva ai tempi ascoltare in dischi come il memorabile album di Norman Blake, Tut Taylor, Sam Bush, Vassar Clements e soci. Ok, qui sono solo in due, ma lo spirito è quello e l’improvvisazione è regina. Nell’ambito cantautori John Prine è uno dei più grandi, e Paradise è una delle sue canzoni più belle, qui viene riletta in una bella versione che lascia spazio anche agli interventi strumentali misurati ma pertinenti dei due protagonisti. Naturalmente non poteva mancare mastro Muddy Waters, in una inconsueta ma intensa versione per mandolino e acustica della sua Catfish Blues.

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Interessante anche l’idea di aggiungere alcuni versi in genovese ad un brano tradizionale tra i più conosciuti, Going Down The Road Feeling Bad, fatto da tutti, da Woody Guthrie ai Grateful Dead passando per Bill Monroe, versione ricca del picking dei due https://www.youtube.com/watch?v=aleGP3umGms , propensione poi ribadita nell’ottima Matilda’s Dance (una giga o un reel?), che profuma di Irlanda o comunque di folk celtico, come usava David Bromberg nei suoi dischi, ma anche i Fairport più acustici o Dan Ar Bras (mi è sembrato di cogliere un riff che sembra uscire da Thick As A Brick dei Jethro Tull, è possibile, o me lo sono sognato?) https://www.youtube.com/watch?v=T_tkpUA8JXM&feature=youtu.be . Anche quella dopo mi pare di conoscerla, Everybody Knows This Is Nowhere è sempre una grande canzone, elettrica alla Neil Young o acustica come in questa versione, l’importante è che ci siano l’immancabile falsetto e il la-la la-la-la, e quelli ci sono entrambi, che poi la versione sia pure bella, con piacevoli intrecci vocali, non guasta. Jesus On The Mainline è un altro super classico, anche se la versione non è elettrica come quella celeberrima di Ry Cooder, la slide (acustica) d’ordinanza non manca, i due se la cantano e se la suonano di gusto, e il supporto ritmico di basso e batteria ci sta a fagiuolo.

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A seguire un trittico di composizioni originali di Paolo Bonfanti: I Got A Mind
è un’altra bellissima ballata molto evocativa, più acustica rispetto all’iniziale Friend of A Friend ma sempre di pari spessore qualititivo e pure Trains, senza tralasciare il solito intricato picking dei due, è un altro brano che utilizza la forma canzone nel migliore dei modi, mentre Dark and Lonesome Night è un altro vivace ed intricato pezzo a tempo di bluegrass. L’ultimo cantautore omaggiato dalla coppia è uno decisamente meno conosciuto, ma dal grande talento, David Wilcox, per reinterpretarne la brillante Rusty Old American Dream Coppo passa alla chitarra, riappare la slide, ma non cambiano i risultati, sempre eccellenti. Si può fare del cajun cantato in dialetto genovese? Certo, basta non dirlo a Zachary Richard che magari si inquieta: Via Da Zena è un altro esempio della formazione a cinque con fisa, che consiglierei di esplorare ancora in futuro, perché mi pare funzioni alla grande. E come direbbe quel nostro amico, Bringing It All Back Home, si conclude con una Wsm, che è l’acronimo di William Smith Monroe, per gli amici Bill, un ultimo brano strumentale che profuma anche di certe avventure di Jorma Kaukonen, tra Quah e gli Hot Tuna https://www.youtube.com/watch?v=oZFCiE2Pxe0 . Sono italiani, confermo, e questo disco è più bello del 70, ma diciamo 80%, di altri progetti omologhi che escono in giro per il mondo. E pensare che quel signore che è partito anche per poi “scoprire” questa musica, veniva dalla loro città.

Bruno Conti