“Business As Usual” Per Eric Sardinas And Big Motor – Boomerang

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Eric Sardinas And Big Motor – Boomerang – Jazzhaus Records

L’unica cosa nuova in questo ennesimo album di Eric Sardinas è la casa discografica. Per il resto è “business as usual” per il chitarrista di Fort Lauderdale, Florida: stesso produttore dei dischi precedenti Matt Gruber, la band è sempre quella dei Big Motor, con Levell Price al basso e Bryan Keeling alla batteria, non cambiano neppure la grinta e la passione di Sardinas per quel Rockin’ Blues che lo ha portato ad essere indicato, da alcuni, come l’erede di Johnny Winter. Come al solito non manca neppure l’immancabile Resonator dal corpo d’acciaio, suonata con il bottleneck, mentre, per fortuna, rispetto al precedente Sticks And Stones, spariscono coretti femminili e tastiere, a parte in un brano, non malvagio peraltro anzi, Bad Boy Blues, dove sono suonate da Dave Schulz, e un bell’organo Hammond dà contegno ad un brano che si avvicina parecchio anche all’attitudine sonora del miglior Thorogood, altro praticante dello stile in oggetto https://www.youtube.com/watch?v=UT5jFe94Cr4 . Dieci brani compatti e grintosi per 35 minuti di sano blues-rock dove il buon Eric si alterna tra i vari tipi di chitarre resofoniche, acustiche ed elettriche, come nell’iniziale Run Devil Run, dove la slide viaggia subito che è un piacere e il vocione di Sardinas rafforza questo déjà vu di un Winter resuscitato a nuova vita, anche se forse, anzi senza forse, Johnny Winter era pur sempre di un’altra categoria.

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Però il rock’n’roll di Boomerang, la canzone, è sempre poderoso come in passato, senza mettere troppo in primo piano il “tamarro” che si agita nel suo animo, o almeno solo la parte buona, quella che ama blues e R&R, e come dicono le note “Respect Tradition”! Ogni tanto gli piace lasciarsi andare e Tell Me You’re Mine è una costruzione quasi hendrixiana, con pedale wah-wah innestato a manetta, la solita bottleneck immancabile e chitarre ovunque, ma in fondo è quello che ci si aspetta da lui https://www.youtube.com/watch?v=qL8fIFd1Xmc . Nei primi dischi, come Treat Me Right e Devil’s Train probabilmente gli veniva meglio, o forse è solo un ricordo del vostro cronista, ma non credo, anche se non sono andato a risentirmi i vecchi dischi, la Alzheimer non ha ancora colpito. In Morning Glory si produce al dobro resonator acustico per un tuffo più consistente nella tradizione, detto di Bad Boy Blues, in fondo uno dei brani migliori, If You Don’t Love, con una bella intro acustica, ha la struttura di una sorta di ballata blues che si elettrifica comunque quasi subito, pur se ci sono tentativi di unire la melodia alla solita forza bruta, qualche coretto inconsueto e la solita ottima performance chitarristica.

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Trouble è proprio il vecchio brano di Elvis, scritto da Leiber & Stoller, uno dei rari blues del King Of Rock And Roll, e ad oltre 55 anni dalla sua prima apparizione fa ancora la sua porca figura, compresa la fantastica accelerazione finale che coincide con una esplosione solista segna dei migliori brani di Sardinas https://www.youtube.com/watch?v=pquPpp9-arA . Preso questo abbrivio R&R il nostro lo mantiene per una gagliarda Long Gone, niente di nuovo in vista, ma i Big Motor ci danno dentro di gusto e il buon Eric sembra più motivato che in altre occasioni. A riprova e a coronamento del tutto, da sentire una bella versione di quelle “cattive” del classico How Many More Years di Chester Burnett,  per tutti Howlin’ Wolf, meno dura di quella di Zeppelin e Co., ma sempre ad alta gradazione chitarristica, con la solista di nuovo in modalità wah-wah più slide, che picchia di gusto https://www.youtube.com/watch?v=D47RU3rF76s  (o con mancanza di gusto, a seconda dei punti di vista, soprattutto per i “puristi” che non amano troppo queste contaminazioni “selvagge ed esagerate”). A questi ultimi Eric Sardinas regala in conclusione una breve Heavy Loaded,con dobro acustico, kazoo e sezione ritmica minimale, quantomeno inconsueta.

Bruno Conti

Buone Nuove Dalla Louisiana…Garantisce Tarantino! Brother Dege – How To Kill A Horse

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Brother Dege – How To Kill A Horse – Golarwash CD

Brother Dege, al secolo Dege Legg, è un autentico outsider. Ma è anche un musicista particolare, imprevedibile, creativo: originario della Louisiana, suona ed incide musica sin dagli anni novanta, ma senza mai aver guadagnato neppure il minimo indispensabile per vivere.

Dege ama la musica, la fa per il puro piacere di farla, e nella sua vita ha affrontato mille mestieri diversi per sostenersi finanziariamente, dal tassista al lavapiatti, al gommista (più altri che non ho citato), trovando anche il tempo di incidere dischi sia con il suo vero nome, sia come leader dei Santeria, una band che mischiava southern rock, blues e psichedelia http://www.youtube.com/watch?v=ZjYTKHJVqyo(Psyouthern è un termine coniato da Legg stesso, neologismo che si porta ancora dietro adesso).

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Molti dei suoi vecchi album sono irreperibili, altri si trovano solo su iTunes (forse la sua unica concessione al mainstream), compreso l’unico album (del 2009) dei Black Bayou Construct, un combo di sei elementi da lui fondato. Nel 2010 prende il nome di Brother Dege e pubblica come indipendente l’interessante Folk Songs Of The American Longhair  http://www.youtube.com/watch?v=uMFn9UzdbGQ, un album di brani intrisi fino al midollo di folk tradizionale (inteso come stile, dato che i brani sono tutti originali), blues del Delta, rock, musica del Sud ed un pizzico di swamp: un cocktail molto stimolante e creativo, che Dege ripropone ora con il suo nuovo lavoro, How To Kill A Horse (inciso in un magazzino abbandonato, ed anche questo ci dà la misura del personaggio) http://www.youtube.com/watch?v=-aky7bjdmpQ.

Dege è uno che non si riesce a catalogare, ha un’anima rock, ma scrive brani come il più consumato bluesman del Mississippi, condendo il tutto con il folk blues tipico dei field recordings di Alan Lomax, ma non dimenticando le sue origini della Louisiana ed inserendo ogni tanto qualche residuo delle sue influenze psichedeliche. Le sue canzoni sono molto evocative, ci fanno immaginare paesaggi aridi e polverosi: una scrittura quasi cinematografica, al punto che perfino Quentin Tarantino (uno che di outsiders se ne intende) ha voluto inserire una sua canzone nella colonna sonora di Django Unchained http://www.youtube.com/watch?v=HS3hV8q05Hg (e perfino il Discovery Channel ed il National Geographic Channel hanno usato brani suoi come sottofondo per i loro documentari).

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Legg si circonda di pochi musicisti, giusto per dare un tocco in più ai suoi brani che fanno dell’essenzialità il loro fiore all’occhiello, ed egli stesso si accompagna, e molto bene, alla chitarra resonator ed alla slide acustica, che sono i due strumenti principali del disco, attorno ai quali vengono costruite gran parte delle canzoni.

Proprio la resonator dà avvio al disco, nella vibrante The Black Sea, dove ascoltiamo per la prima volta la voce personale di Dege: un tappeto di percussioni fornisce un po’ di movimento al brano http://www.youtube.com/watch?v=iC988bt6HG4.

The Darker Side Of Me presenta un accattivante contrasto tra la slide acustica del nostro ed un loop di batteria moderno (che però non stona, anzi), con la voce tesa di Fratello Dege che ci trasmette un senso di ansia e disperazione. Già da questi due brani si capisce che Legg non è uno che si atteggia, ma è uno vero, autentico, al quale la vita non ha sorriso spesso. L’elettroacustica How To Kill A Horse  http://www.youtube.com/watch?v=SiO9e10KFwk distende la sua melodia tra vari strumenti a corda, con una ritmica pulsante alle spalle che dona un minimo di colore ad un brano abbastanza crepuscolare.

Judgment Day è un Delta blues fatto e finito, con l’ottima slide del nostro che fa il bello e il cattivo tempo, un brano che, ne siamo certi, piacerà molto a Tarantino. O’Dark30 è uno strumentale, un cocktail strano ma affascinante tra blues e psichedelica, con la chitarra di Dege e le percussioni che percorrono territori autonomi, in piena libertà. Con Poor Momma Child torniamo al blues, ancora con un mood un po’ tetro, da vero bluesman del Sud (non è un disco che mette di buon umore, questo è chiaro): il nostro fa i numeri alla slide neanche fosse Ry Cooder e canta con buona partecipazione; Wehyah fonde mirabilmente elementi blues e rock con uno stile tra il tribale ed il psichedelico: non ci avete capito niente? Bene, questo vi dà la misura dell’originalità di questo musicista. Crazy Motherfucker (bel titolo, raffinato) è quasi un boogie acustico, spoglio, scarno, verace, mentre The River è l’unico pezzo disteso e rilassato del CD, una ballata pura ed incontaminata, che mostra che il songwriting di Legg non è affatto monotematico.

Chiude la lunga (otto minuti, mentre gli altri brani oscillano tra i tre ed i cinque) Last Man Out Of Babylon, un classico pezzo southern dalla struttura acustica, con un crescendo notevole ed interventi di chitarra elettrica a dare più profondità al suono http://www.youtube.com/watch?v=UYgbGjL4SQY.

Gran bel disco, una vera sorpresa.

Marco Verdi

L’Erede Di Johnny Winter? Eric Sardinas and Big Motor – Sticks and Stones

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Eric Sardinas and Big Motor – Sticks and Stones – Mascot/Provogue/Edel

 Il nuovo disco, nel momento in cui scrivo, è ancora di là da venire (esce il 29 agosto) quindi vado con lo streaming dell’album e con le informazioni fornite dalla casa discografica. Però sono sempre da prendere con le molle (casa americana, non ce l’ho con gli italiani): secondo la Mascot, la sua nuova etichetta, questo è il settimo album, o meglio, per essere precisi, si parla di sei album precedenti. Mi sono perso qualcosa? Il primo, Treat Me Right, è del 1999, come spesso succede è il migliore, con Johnny Winter e Hubert Sumlin ospiti. Vogliamo considerare anche Angel Face del 2000 che è un EP con 3 brani? Devil’s Train, ancora ottimo del 2001, è quello prodotto da David “honeyboy” Edwards (che ha appena compiuto 96 anni). Black Pearls del 2003, prosegue la sua carriera di epigono di Winter. Poi, dopo una lunga pausa, nel 2008 il primo omonimo con il nuovo gruppo Big Motor, un nuovo produttore, Matt Gruber (ma quello prima era curato da Eddie Kramer, l’ingegnere del suono di Hendrix), che nel suo CV conta Ricky Martin, Carrie Underwood e gli Scorpions.!?! Nel suono del gruppo entrano anche tastiere, voci femminili e un repertorio più mainstream, con qualche ballata, virate southern e meno freschezza anche se Sardinas suona la sua Resonator elettrificata sempre con gusto e furore. Sarebbero 4 album e un EP. Vogliamo aggiungere anche il DVD del 2010 (solo 45 minuti purtroppo).

Questo nuovo CD riporta pregi (molti) e difetti (qualcuno) del precedente album. La slide viaggia sempre alla grande: per credere, provate a sentire il terrificante strumentale Behind The 8, dove Sardinas si conferma l’erede dello stile pirotecnico, tra R&R e Blues, del grande Johnny Winter.

Ci sono brani come Goodness e Burnin’ Sugar dove il suono assume sapori tra southern rock e rock “classico” alla Black Crowes, con le chitarre acustiche ed elettriche che si fondono al suono delle tastiere e i coretti delle backing vocalists si aggiungono alla voce più “educata” di Eric.

E possiamo aggiungere anche l’iniziale Cherry Wine a questo nuovo corso musicale, sempre ottimo e piacevole ma “diverso” dal suono più selvaggio e meno curato dei primi dischi. Road to Ruin, più tirata e bluesata ci fa gustare il lato più ruspante della sua musica. Anche Full Tilt Mama con il suo pianino scatenato aggiunto non è male, mi ha ricordato, anche per la foga di Sardinas, certe cose del Rory Gallagher più ispirato di metà anni ’70.

County Line è un bel country blues che ci riporta al suono più canonico dei primi dischi. Mentre Through The Thorn è il classico Blues alla Sardinas, tirato e ricco di pathos, nella migliore tradizione del chitarrista della Florida. Ratchet Blues è un breve brano acustico mentre Make It Shine oscilla tra il suono acustico ed elettrico della Resonator del nostro amico e nelle sue atmosfere vagamente Zeppeliniane ricorda certe cose dell’ottimo John Campbell, un musicista che andrebbe sottoposto ad un adeguato ripasso. In conclusione c’è perfino una ballata come Too Many Ghosts, niente male peraltro.

A quando un bel Live?

Bruno Conti